2017 Laneri 9 10 - Polincontri Classica€¦ · Andante Vivace Sonata in re maggiore op. 10 n. 3...

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I CONCERTI DEL POLITECNICO POLINCONTRI CLASSICA POLITECNICO DI TORINO Aula Magna “Giovanni Agnelli” 2017 2018 evento XXVI edizione Missa solemnis: tutti capolavori dell’ultima stagione, coevi inoltre alle Variazioni Diabelli. Scritta nella fantomatica tonalità di do mi- nore, appartenendo de jure al cosiddetto ‘terzo stile’, punta vistosa- mente su alcuni ingredienti: lo sfruttamento massivo di procedimen- ti polifonici, innanzitutto, unito alla tecnica della variazione continua, consistente nel derivare l’intero edificio da minimi incisi. E poi la ricerca timbrica che, specie nel movimento conclusivo, raggiunge vertici di chiaroveggente modernità: macchie di colore e insistiti tril- li che paiono presagire (forzando appena un poco) le intuizioni di Skrjabin. Ma nel contempo rivela anche la ricerca di quel lirismo e quella semplicità che del tardo stile sono un marchio di fabbrica. Ne fa fede la sublime Arietta sulla quale si dipana l’intero finale. Rinchiuso da lungi entro la cappa della più completa sordità - anziché limite oggettivo, poderoso stimolo che lo proietta in una so- lipsistica dimensione - Beethoven la completò nel 1822 dedicando- la al diletto Arciduca Rodolfo. Prevedendo due soli movimenti, per molto tempo commentatori pur lungimiranti e illustri intravidero nella faccenda solo una sorta di provocatoria bizzarria. Ma non avrebbe potuto essere altrimenti: aggiungere qualcosa al monumentum del- le cinque Variazioni ritmicamente sempre più dense (sino a presa- gire jazzistici orizzonti swing in deliranti passaggi a note puntate) sarebbe stato un sacrilegio come posporre un ‘dopo’ all’Incompiuta di Schubert o ipotizzare un accompagnamento alle bachiane Partite per violino. Solo un mediocre dai limitati orizzonti come Schindler, famigerato famulus di Beethoven (un po’ copista e un po’ allievo, segretario, adulatore tuttofare e futuro biografo) ebbe l’insana idea di domandarsi (e l’ardire di domandare) al Maestro perché mai non vi avesse aggiunto un Rondò. «Mi è mancato il tempo di scriverlo» fu la risposta piena di sarcasmo e disprezzo. E così, avanzando per cerchi concentrici nell’esplorazione di terre incognite, dalla spigolosa drammaticità del primo tempo - un monolitico Allegro dall’«aggressività inusitata, quasi rissosa» e dai molti fugati, disseminato di acuminate dissonanze e preceduto dal portale di un Maestoso di michelangiolesca possanza - si approda infine a una coda di vertiginosa perfezione «fatta di aria e di luce»: dove un pulviscolo di perlacee iridescenze stinge da ultimo in un siderale, avveniristico silenzio: saggiamente Beethoven evita infatti il coup de théâtre di una prevedibile apoteosi preferendovi, per dirla col Doktor Faustus, un Lebewohl, un «addio per sempre, così dolce che gli occhi si riempiono di lacrime». Attilio Piovano Olaf John Laneri Nasce a Catania da padre siciliano e madre svedese, termina brillantemente gli studi a Verona e quindi si perfeziona in Italia e all’estero conseguendo il master all’Accademia Pianistica di Imola. Dopo diverse vittorie in competizioni nazionali, Per inf.: POLINCONTRI - Orario: 9-13/13.30-17.00 Tel +39.011.090.79.26/7 - Fax +39.011.090.79.89 http://www.polincontri.polito.it/classica/ Lunedì 9 ottobre 2017 - ore 18,30 Olaf John Laneri pianoforte Beethoven in collaborazione con l’Associazione Musicale Onda Sonora di Alessandria risulta laureato ai concorsi internazionali di Monza, Tokyo e Hamamatsu. Finalista l’anno precedente, nel 1998 vince il 56° ‘Busoni’ (II premio ‘con particolare distinzione’, I premio non assegnato). Nel 2001 ottiene il II pre- mio al World Music Piano Master di Montecarlo. È invitato in rinomate stagioni in Italia e in Europa, sia come solista sia con orchestra (Pomeriggi Musicali di Milano, Orchestre dell’Arena di Vero- na e da Camera di Padova e del Veneto, al Festival di Brescia e Bergamo, Symphony Orchestra di Tokyo, Filarmonica di Montecarlo) e collabora con direttori quali Lawrence Foster, Tomas Hanus e Lior Shambadal. Si è esibito a Vicenza, Catania, Rimini, Monaco di Baviera, Berlino, Parigi, Montecarlo, Polonia, Austria, per la Radio della Svizzera Italiana e Radio France. Un posto di rilievo nel suo repertorio occupa la figura di Beethoven per le numerose partecipazioni in esecuzioni integrali delle Sonate. L’in- terpretazione del Secondo Concerto di Brahms con i Berliner Symphoniker in tournée in Italia e il successo al debutto alla Philharmonie di Berlino gli hanno procurato l’invito dell’orchestra a tornare con il Primo Concerto di Čajkovskij. Ha pubblicato un cd dedicato a Brahms (Universal). È docente di pianoforte al Conservatorio di Adria. Alcuni giudizi della critica per i suoi recital: “Ricercatissime le sonorità [...] faceva trattenere il fiato per la bellezza del pianissimo velato”; “Una talentuosa e virtuosistica personalità, non sbaglia nulla, sembra possedere il segreto dell’apparente facilità”; “Vive in Laneri la grande utopia romantica: il desiderio di cantare con il pianoforte”; “Anche se il pianista non lo lascia trasparire, il suo modo di suonare richiamava ad ogni battuta la famosa frase di Chopin: «Il pianoforte è il mio secondo io»”. _______________________________________________________ Prossimo appuntamento: lunedì 16 ottobre 2017 Sestetto di Torino musiche di Mozart, Dvořák Con il contributo di Con il patrocinio di Maggior sostenitore

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I CONCERTI DEL POLITECNICO

POLINCONTRI CLASSICA

POLITECNICO DI TORINOAula Magna “Giovanni Agnelli”

2017

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Missa solemnis: tutti capolavori dell’ultima stagione, coevi inoltre alle Variazioni Diabelli. Scritta nella fantomatica tonalità di do mi-nore, appartenendo de jure al cosiddetto ‘terzo stile’, punta vistosa-mente su alcuni ingredienti: lo sfruttamento massivo di procedimen-ti polifonici, innanzitutto, unito alla tecnica della variazione continua, consistente nel derivare l’intero edifi cio da minimi incisi. E poi la ricerca timbrica che, specie nel movimento conclusivo, raggiunge vertici di chiaroveggente modernità: macchie di colore e insistiti tril-li che paiono presagire (forzando appena un poco) le intuizioni di Skrjabin. Ma nel contempo rivela anche la ricerca di quel lirismo e quella semplicità che del tardo stile sono un marchio di fabbrica. Ne fa fede la sublime Arietta sulla quale si dipana l’intero fi nale.

Rinchiuso da lungi entro la cappa della più completa sordità - anziché limite oggettivo, poderoso stimolo che lo proietta in una so-lipsistica dimensione - Beethoven la completò nel 1822 dedicando-la al diletto Arciduca Rodolfo. Prevedendo due soli movimenti, per molto tempo commentatori pur lungimiranti e illustri intravidero nella faccenda solo una sorta di provocatoria bizzarria. Ma non avrebbe potuto essere altrimenti: aggiungere qualcosa al monumentum del-le cinque Variazioni ritmicamente sempre più dense (sino a presa-gire jazzistici orizzonti swing in deliranti passaggi a note puntate) sarebbe stato un sacrilegio come posporre un ‘dopo’ all’Incompiuta di Schubert o ipotizzare un accompagnamento alle bachiane Partite per violino. Solo un mediocre dai limitati orizzonti come Schindler, famigerato famulus di Beethoven (un po’ copista e un po’ allievo, segretario, adulatore tuttofare e futuro biografo) ebbe l’insana idea di domandarsi (e l’ardire di domandare) al Maestro perché mai non vi avesse aggiunto un Rondò. «Mi è mancato il tempo di scriverlo» fu la risposta piena di sarcasmo e disprezzo.

E così, avanzando per cerchi concentrici nell’esplorazione di terre incognite, dalla spigolosa drammaticità del primo tempo - un monolitico Allegro dall’«aggressività inusitata, quasi rissosa» e dai molti fugati, disseminato di acuminate dissonanze e preceduto dal portale di un Maestoso di michelangiolesca possanza - si approda infi ne a una coda di vertiginosa perfezione «fatta di aria e di luce»: dove un pulviscolo di perlacee iridescenze stinge da ultimo in un siderale, avveniristico silenzio: saggiamente Beethoven evita infatti il coup de théâtre di una prevedibile apoteosi preferendovi, per dirla col Doktor Faustus, un Lebewohl, un «addio per sempre, così dolce che gli occhi si riempiono di lacrime».

Attilio Piovano

Olaf John LaneriNasce a Catania da padre siciliano

e madre svedese, termina brillantemente gli studi a Verona e quindi si perfeziona in Italia e all’estero conseguendo il master all’Accademia Pianistica di Imola. Dopo diverse vittorie in competizioni nazionali,

Per inf.: POLINCONTRI - Orario: 9-13/13.30-17.00Tel +39.011.090.79.26/7 - Fax +39.011.090.79.89

http://www.polincontri.polito.it/classica/

Lunedì 9 ottobre 2017 - ore 18,30Olaf John Laneri pianoforte

Beethovenin collaborazione con l’Associazione Musicale Onda Sonora di Alessandria

risulta laureato ai concorsi internazionali di Monza, Tokyo e Hamamatsu. Finalista l’anno precedente, nel 1998 vince il 56° ‘Busoni’ (II premio ‘con particolare distinzione’, I premio non assegnato). Nel 2001 ottiene il II pre-mio al World Music Piano Master di Montecarlo.

È invitato in rinomate stagioni in Italia e in Europa, sia come solista sia con orchestra (Pomeriggi Musicali di Milano, Orchestre dell’Arena di Vero-na e da Camera di Padova e del Veneto, al Festival di Brescia e Bergamo, Symphony Orchestra di Tokyo, Filarmonica di Montecarlo) e collabora con direttori quali Lawrence Foster, Tomas Hanus e Lior Shambadal. Si è esibito a Vicenza, Catania, Rimini, Monaco di Baviera, Berlino, Parigi, Montecarlo, Polonia, Austria, per la Radio della Svizzera Italiana e Radio France.

Un posto di rilievo nel suo repertorio occupa la fi gura di Beethoven per le numerose partecipazioni in esecuzioni integrali delle Sonate. L’in-terpretazione del Secondo Concerto di Brahms con i Berliner Symphoniker in tournée in Italia e il successo al debutto alla Philharmonie di Berlino gli hanno procurato l’invito dell’orchestra a tornare con il Primo Concerto di Čajkovskij. Ha pubblicato un cd dedicato a Brahms (Universal). È docente di pianoforte al Conservatorio di Adria.

Alcuni giudizi della critica per i suoi recital: “Ricercatissime le sonorità [...] faceva trattenere il fi ato per la bellezza del pianissimo velato”; “Una talentuosa e virtuosistica personalità, non sbaglia nulla, sembra possedere il segreto dell’apparente facilità”; “Vive in Laneri la grande utopia romantica: il desiderio di cantare con il pianoforte”; “Anche se il pianista non lo lascia trasparire, il suo modo di suonare richiamava ad ogni battuta la famosa frase di Chopin: «Il pianoforte è il mio secondo io»”. _______________________________________________________

Prossimo appuntamento: lunedì 16 ottobre 2017 Sestetto di Torino

musiche di Mozart, Dvořák

Con il contributo di

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Maggior sostenitore

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Ludwig van Beethoven (1770-1827) Sonata in sol maggiore op. 79 10’ circa Presto alla tedesca Andante Vivace

Sonata in re maggiore op. 10 n. 3 24’ circa Presto Largo e mesto Menuetto. Allegro Rondò. Allegro

Sonata quasi Fantasia in do diesis minore op. 27 n. 2 (‘Al chiaro di luna’) 14’ circa Adagio sostenuto Allegretto Presto agitato

Sonata in do minore op. 111 27’ circa Maestoso. Allegro con brio ed appassionato Arietta. Adagio molto semplice e cantabile

Succulenta full immersion nell’universo beethoveniano per questo primo appuntamento di Polincontri Classica. In programma ben quattro Sonate del musicista di Bonn, appartenenti a differenti periodi; di esse, ben due sono celeberrime, per dissimili ragioni, e si tratta dell’op. 27 n. 2 detta ‘Al chiaro di luna’ e dell’op. 111 con la quale si chiude la parabola sonatistica di Beethoven. Non meno nota, l’ancor giovanile, ma già innovativa op. 10 n. 3; laddove la ‘piccola’ Sonata op. 79 delle quattro è forse quella che ricorre con minor frequenza nella programmazione concertistica. Ed è proprio con quest’ultima che Laneri ha scelto di inaugurare il suo recital.

Gratificata all’atto della pubblicazione dell’epiteto di Sonatina, la Sonata in sol maggiore op. 79 è pagina effettivamente di non vasta ampiezza e limitato impegno, benché non certo dimessa, pur appartenendo a una matura stagione. Venuta alla luce nel 1809 e preceduta dalla coeva e altrettanto ‘piccola’ op. 78, venne incu-neandosi tra l’incandescente op. 57 ‘Appassionata’ (1805) e la ‘pro-grammatica’ op. 81 ‘Les adieux’ (1811). Alcuni abbozzi si interseca-no con il lavorio del Quinto Concerto, con appunti per la Fantasia op. 80 per coro e orchestra e con taluni schizzi per l’op. 81. Tagliata in tre soli movimenti e contrassegnata da una singolare ‘semplicità’, in cammino verso la ricerca di un consapevole dépouillement, l’op. 79 s’inaugura con un Presto alla tedesca che riecheggia in egual misura l’incisiva virilità di Clementi, fin dal nervoso disegno ad ot-tave esposto nella prima battuta, e lo humour di ‘papà’ Haydn: con appena qualche tratto tempestoso entro lo sviluppo; ma attenzione, come fa notare il Carli-Ballola, «all’esiguità del taglio formale corri-

spondono una consumata perfezione strutturale e una compiutez-za espressiva che preludono a certi mirabili microcosmi dell’ultima maniera, come le Bagattelle op. 126 o il Quartetto op. 135». Per gli appassionati dei dettagli analitici, da segnalare l’osservazione di alcuni studiosi secondo i quali il tema sarebbe il rovesciamento della danza presente nel quarto tempo dell’op. 130, mentre altri ravvisano una certa somiglianza con il tempo d’esordio della Sonata op. 47 n. 1 di Dussek (al pubblico il piacere di una eventuale verifica). Se questo primo movimento s’impone all’ascolto per le sue arguzie, il garbato sorriso e la scorrevole allure, ecco in seconda posizione un soave Andante dalla palese struttura ABA in ritmo di barcarola, qua-si rarefatto notturno in modo minore impregnato di naïveté pastora-le, una rêverie che pare prefigurare addirittura il Mendelssohn delle Romanze senza parole; dunque, a ben guardare, più anticipazione di climi espressivi dell’incipiente Romanticismo che non sguardo retrospettivo a un passato ormai irrimediabilmente perduto: prima avvisaglia di «una corda affatto nuova della musa beethoveniana» destinata a «risuonare di frequente negli ultimi capolavori». Finale all’insegna della brillantezza con uno spigliato Vivace in 2/4, vaga-mente raffrontabile al Rondò del Quarto Concerto, il cui giro armoni-co iniziale verrà curiosamente ripreso da Chopin nello Studio op. 25 n. 9; e si tratta di pagina tanto limpida quanto costellata di raffinati dettagli armonici, ritmici di fraseggio e quant’altro: mai banale, pur nella linearità degli assunti.

Dopo le giovanili tre Sonate op. 2 e la successiva op. 7, il giar-dino rigoglioso delle Sonate op. 10, nate tra il 1796 e il ‘98, viene a costituire un significativo momento di svolta. Rispetto alle prime due, l’op. 10 n. 3 in re maggiore s’impone per la maggior vastità della concezione formale; con essa Beethoven torna a ragionare ‘in grande’ come già era accaduto con l’op. 7. E allora ecco quattro mo-vimenti di inusitata bellezza ed efficacia. Un ampio Presto dove la velocità pare un dato, per così dire strutturale, nel quale «leggerez-za e vigore» con paradossale genialità quasi un ossimoro sonoro, convivono a meraviglia. Fin troppo facile evocare il nome di Scarlatti delle cui alchimie Beethoven era ben conscio e dal quale pur tut-tavia lo separano anni luce. Il centro espressivo dell’intero edificio è però nel successivo Largo e mesto coniato nella fosca tonalità di re minore. In esso già i primi commentatori riconobbero uno dei più intensi movimenti lenti della prima stagione beethoveniana, una pagina impregnata di profondo pathos che sconvolge se si pensa alla giovane età del compositore. E vien da pensare a quella sua caratteristica psicologica - egli stesso ne accenna nel Testamento di Heiligenstadt - per cui gli accadeva di passare dalla più sfrena-ta allegria a momenti di profondo sconforto e abissale melanconia, puntualmente riverberati sul pianoforte, come captati da un ipersen-sibile sismografo: quasi anticipo dell’Adagio poi racchiuso nell’op. 106. Dopo questo immane movimento di eccezionale afflato, ecco

che la tensione si stempera in un solare Menuetto, con quel tema operistico, dolce e «consolatorio». Da ultimo uno sbrigativo Rondò ci riporta a un clima di sana joie de vivre, umoristico e gaio nella sua garrula spensieratezza. E le ipocondrie dello straordinario Largo paiono ormai remote.

Con l’intimistica Sonata quasi Fantasia op. 27 n. 2, prototipo di notturno, data alle stampe nel 1802, Beethoven concepì certo una delle creazioni più originali e suggestive della sua prima stagione cui arride tuttora straordinaria celebrità. Divenuta ben presto notissima, esordisce inaspettatamente, in opposizione alle convenzioni, con uno stupendo Adagio - e in questo consiste la più dirompente novi-tà formale dell’opera - «di così assorta virtù sospensiva» (Pestelli). Non a caso l’incantevole Sonata fu amatissima dalla cultura roman-tica che si considerò ‘erede legittima’ di tale capolavoro, compiacen-dosi inoltre, non paga di averlo gratificato con un’epigrafe gratuita, di porne in relazione il vibrante contenuto espressivo con eventi biografici quali l’infelice amore del compositore per la dedicataria, contessa Giulietta Guicciardi; ecco allora lo spunto per non poche interpretazioni, spesso assai pittoresche se non addirittura fuorvianti (...il lago dei Quattro Cantoni cui si è immaginato alludesse ellittica-mente l’autore stesso...). Come noto, infatti, la qualifica di Sonata ‘Al chiaro di luna’ è del tutto apocrifa, essendo stata coniata a posteriori dallo scrittore berlinese Ludwig Rellstab. L’ineffabile cantabilità del primo movimento - della quale si ricorderà Schubert specie negli Im-provvisi op. 90 - avvolge la pagina in un’aura di intensa espressività resa ancor più toccante dalla scelta di inquietanti soluzioni armo-niche che contrastano con la regolare scansione ritmica; l’impiego rivoluzionario del pedale di risonanza, inoltre, prescritto in funzione timbrica, gioca un ruolo di fondamentale importanza. Se l’Allegretto appare alquanto più disteso, pervaso di soffusa dolcezza specie nel sorridente Trio, al contrario il Presto agitato in forma-sonata, il più grandioso Finale beethoveniano composto fino ad allora, si presen-ta teso e drammatico. Pagina convulsa, animata da un’irrefrenabi-le frenesia, essa «scatena, arroventandolo al calore bianco d’una ispirazione incandescente, il cumulo dei sentimenti che urgevano repressi nel primo tempo» (Carli-Ballola). L’esperto ricorso «a tutte le tecniche possibili, agglomerato armonico, cadenza improvvisa-toria, dilatata cantabilità sotto la quale il basso albertino, spinto a rapidità inusitate, trascolora in tremolo» (Pestelli), contribuisce ad accrescere quell’impressione di implacabile fatalismo che sospinge il brano verso l’epilogo.

Compiendo infine un ideale balzo cronologico, eccoci al cospet-to della Sonata op. 111 (terzo pannello dell’ultima triade, unitamente alle op. 109 e 110) con la quale il sonatismo beethoveniano giunge al capolinea. Essa si colloca in prossimità degli ultimi visionari Quar-tetti per archi, della Nona Sinfonia e così pure non lontano dalla