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541 ASITA 2015 “Le mappe di comunità”: esperienze di cartografia partecipata per lo sviluppo locale Caterina Madau Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione, Università degli Studi di Sassari Piazza Conte di Moriana 8, 07100 Sassari tel. 079 229636, fax 079 229682, e-mail [email protected] Riassunto Le mappe di comunità costituiscono una particolare forma di rappresentazione partecipata, promossa in Gran Bretagna fin dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso ed oggi accolta anche in Italia nell’ambito di alcune esperienze ecomuseali e di pianificazione. Sono considerate esiti di letture partecipate del paesaggio; la narrazione e relativa rappresentazione sono affidate alle comunità locali e si esplicano attraverso un complesso processo di partecipazione, guidato e stimolato da figure professionali esterne, teso a definire una rinnovata appropriazione dei luoghi. Quindi, pur non potendosi considerare vere e proprie carte geografiche sono comunque rappresentazioni che testimoniano il valore storico e documentale del passato, promuovono il presente dei territori e ne progettano il futuro. Questo contributo propone una riflessione sul ruolo e l’utilità delle mappe di comunità, sottolineando non soltanto la loro importanza come prodotto finale, ma soprattutto il relativo processo auto-rappresentativo, partecipato e condiviso dai detentori dei saperi geografici e culturali di un dato luogo. Abstract The participatory mapping, are a particular figure of participatory representation, developed in Great Britain since the middle of the ‘80s of the last century and still today welcomed in Italy too, within some ecomuseal and planning experiences. These experiences are considered as results of a common interpretation of the sites. The narration and relative representation are commited to the local communities and they are explicated by a complicated proceeding of participation, managed and stimulated by external and professional figures, aimed to define a renewed appropriation of the places. Thereafter, even if them cannot be considered real maps, these maps can be considered as representations which witness the historical and documental value of the past and in the same time them develop the present in the territory and plan the future of it. This contribution moves to a reflection about the role and the utility of community maps, underlining not only their importance as final product, but, above all the self-representation related process, participated and shared by the holders of the geographical and cultural knowledge of a specific site. Premessa In risposta ai mutamenti economici e sociali che stanno investendo il nostro Paese (e non solo), la tematica dello sviluppo locale ha assunto una straordinaria importanza teorica e politico-operativa che ha alimentato una pluralità di pratiche progettuali e approcci, tesi a valorizzare le identità culturali dei luoghi, in quanto spazi antropizzati, e il ruolo delle relative comunità locali. I territori e le comunità, infatti, con i loro patrimoni tangibili e intangibili, con le loro identità, in questo modo, divengono soggetti attivi e distinti nei processi di sviluppo. In tali processi, la comunità – avendo, col tempo, guadagnato il ruolo di «quadro naturale di una democrazia di vicinanza […], fondata […], sulla ricreazione di nuovi spazi pubblici a tutti livelli» (de Benoist, 2005, pag. 89), riveste e/o

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più da vicino le tematiche affrontate nei vari ambiti del progetto, gli strumenti impiegati e i principali obiettivi perseguiti, seguendo la scansione temporale del progetto stesso (2013 - 2015). Gli studenti sono anche coinvolti in prima persona nell’implementazione di piccoli task progettuali, che variano a seconda della scuola e sono concordati con i ricercatori. Considerato che uno degli obiettivi di S4A è di intervenire sulle criticità della filiera che dal dato ambientale porta all’informazione, alcuni studenti, dopo opportuna formazione, sono stati coinvolti nelle fasi di implementazione di tecnologie smart (web o mobile) e di sistemi web 2.0 per la raccolta e la diffusione di informazioni in ambito agricolo. Uno dei momenti di collaborazione tra scuole e ricercatori è culminato nella mattinata del 30 aprile 2015 dove circa 60 studenti dell’Istituto Agrario Italo Calvino di Noverasco di Opera (MI) si sono recati nelle campagne vicino scuola per condurre alcune attività di osservazione in campo sotto la supervisione dei loro insegnanti e di un gruppo di ricercatori dell’IREA del CNR di Milano. L'hanno chiamato Agri-blitz, ispirati dal più famoso bioblitz, nato negli Stati Uniti nel 1996 su iniziativa della National Geographic Society che, in una sola giornata, radunò ai Kenilworth Aquatic Gardens di Washington centinaia di volontari allo scopo di raccogliere informazioni utili per la ricerca sulla biodiversità, e contribuire così all’identificazione delle moltissime specie presenti nei giardini. In particolare, in occasione dell’iniziativa del 30 aprile, gli studenti del Calvino, dopo alcuni incontri formativi con i ricercatori del progetto, hanno testato l’applicazione Smart S4A, installata sui loro dispositivi mobili, cellulari o tablet con sistema Android. L'applicazione, prodotta dal progetto S4A e parzialmente implementata anche grazie al contributo di studenti dell'Istituto E. Breda, permette di raccogliere ed inviare importanti informazioni, come la tipologia di coltura, lo stato di lavorazione dei campi, lo stadio di crescita delle coltivazioni e inviarle al server cui è collegata. Le segnalazioni possono essere fotografie. Le informazioni e le osservazioni così raccolte confluiscono nel Geodatabase del progetto e sono accessibili in Internet e visualizzabili sulla mappa da un qualunque sistema di web mapping aderente agli standard OGC. Uno dei prodotti di S4A è proprio il Geoportale, un sistema di mappatura web interattivo tramite cui è possibile visualizzare e analizzare geo-dati relativi a vari temi di interesse agronomico riferiti ai campi presenti in Regione Lombardia. Nei mesi successivi verranno raccolte informazioni in altri due Comuni del milanese, Locate Triulzi e Rosate, per un totale di tre aree studio che comprenderanno decine di campi coltivati principalmente a cereali. Secondo quanto concordato tra ricercatori del CNR e l’Istituto Calvino, gli studenti monitoreranno questi campi per un periodo che andrà da aprile ad ottobre e l’andamento di colture cerealicole sia autunno-vernine sia primaverili-estive, imparando così a conoscerle e a distinguere le loro fasi evolutive. Quello del 30 aprile non è stata solo una giornata di lancio di questa fase di collaborazione tra scuole e CNR ma ha permesso anche di sperimentare l’applicazione smart prodotta dal progetto S4A, verificare la sua efficacia come strumento di acquisizione di dati in campo e di distribuzione delle informazioni. Si stima che entro la fine della stagione gli studenti possano aver raccolto informazioni e monitorato l’andamento stagionale delle colture per un totale di circa 15km2 di superficie agricola, restituendo informazioni in tempo reale utili per le attività di ricerca ma anche per decisori politici, e per l’intera comunità essendo accessibili a tutti tramite il portale del progetto.

Figura 1 - Alcuni momenti di collaborazione tra studenti e ricercatori di S4A.

“Le mappe di comunità”: esperienze di cartografia partecipata per lo sviluppo locale

Caterina Madau

Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione, Università degli Studi di Sassari Piazza Conte di Moriana 8, 07100 Sassari

tel. 079 229636, fax 079 229682, e-mail [email protected]

Riassunto Le mappe di comunità costituiscono una particolare forma di rappresentazione partecipata, promossa in Gran Bretagna fin dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso ed oggi accolta anche in Italia nell’ambito di alcune esperienze ecomuseali e di pianificazione. Sono considerate esiti di letture partecipate del paesaggio; la narrazione e relativa rappresentazione sono affidate alle comunità locali e si esplicano attraverso un complesso processo di partecipazione, guidato e stimolato da figure professionali esterne, teso a definire una rinnovata appropriazione dei luoghi. Quindi, pur non potendosi considerare vere e proprie carte geografiche sono comunque rappresentazioni che testimoniano il valore storico e documentale del passato, promuovono il presente dei territori e ne progettano il futuro. Questo contributo propone una riflessione sul ruolo e l’utilità delle mappe di comunità, sottolineando non soltanto la loro importanza come prodotto finale, ma soprattutto il relativo processo auto-rappresentativo, partecipato e condiviso dai detentori dei saperi geografici e culturali di un dato luogo. Abstract The participatory mapping, are a particular figure of participatory representation, developed in Great Britain since the middle of the ‘80s of the last century and still today welcomed in Italy too, within some ecomuseal and planning experiences. These experiences are considered as results of a common interpretation of the sites. The narration and relative representation are commited to the local communities and they are explicated by a complicated proceeding of participation, managed and stimulated by external and professional figures, aimed to define a renewed appropriation of the places. Thereafter, even if them cannot be considered real maps, these maps can be considered as representations which witness the historical and documental value of the past and in the same time them develop the present in the territory and plan the future of it. This contribution moves to a reflection about the role and the utility of community maps, underlining not only their importance as final product, but, above all the self-representation related process, participated and shared by the holders of the geographical and cultural knowledge of a specific site. Premessa In risposta ai mutamenti economici e sociali che stanno investendo il nostro Paese (e non solo), la tematica dello sviluppo locale ha assunto una straordinaria importanza teorica e politico-operativa che ha alimentato una pluralità di pratiche progettuali e approcci, tesi a valorizzare le identità culturali dei luoghi, in quanto spazi antropizzati, e il ruolo delle relative comunità locali. I territori e le comunità, infatti, con i loro patrimoni tangibili e intangibili, con le loro identità, in questo modo, divengono soggetti attivi e distinti nei processi di sviluppo. In tali processi, la comunità – avendo, col tempo, guadagnato il ruolo di «quadro naturale di una democrazia di vicinanza […], fondata […], sulla ricreazione di nuovi spazi pubblici a tutti livelli» (de Benoist, 2005, pag. 89), riveste e/o

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può ricoprire una posizione fondamentale nel processo di costruzione di nuovi sentieri di sviluppo - basati su una dimensione “di vicinanza” - e sulla partecipazione attiva. All’uopo, va precisato, la partecipazione - “statuto” invero poco definito dall’Agenda XXI, fonte ricca di informazioni dalla quale si è nutrita una folta schiera di studiosi producendo una vasta letteratura, - è attualmente sottoposta – attraverso apposite coordinate – ad una specifica critica, sulla quale occorrerebbe riflettere in modo adeguato. Pertanto, in questo lavoro si tenterà di evidenziare le problematiche generali e teorico-metodologiche dell’argomento, esponendo prima i vantaggi che – almeno in linea di principio – la partecipazione riveste, soprattutto se sollecitata a recuperare elementi valoriali, spazializzati, e spaziabilizzabili, come nell’esempio delle mappe di comunità. Come è ormai noto, queste costituiscono una “innovativa” forma per rappresentare graficamente ciò che una comunità giudica sia per sé di valore, cioè come “vede” e “sente” il proprio luogo. Su tale premessa sembrerebbe emergere che queste elaborazioni grafiche siano rappresentazioni abbastanza straordinarie sul piano comunicativo oltre ad essere presupposti di prese di coscienza delle comunità che le hanno prodotte. Il contesto di riferimento Il modo di rappresentare tematismi valoriali con il coinvolgimento della comunità, attualmente è una pratica che sembra costituire un fertile terreno di sperimentazione in numerosi ed eterogenei contesti che spaziano dalle politiche di cooperazione allo sviluppo, alle politiche urbane, ai processi di pianificazione del paesaggio e della sua rappresentazione. A questo riguardo è opportuno ricordare che le prime esperienze di realizzazione di mappe di comunità possono essere rintracciate in Gran Bretagna, nella Contea del West Sussex; furono stimolate dall’attività dell’associazione ambientalista Common Ground fondata, tra il 1982 e il 1983, da Roger Deakin, Angela King e Sue Clifford per promuovere e proteggere il Local Distinctiveness. Nella concezione dei fondatori, ogni luogo ha peculiarità che lo rendono unico e irripetibile; pertanto il Local Distinctiveness comprende sia i tratti caratteristici di ogni luogo - ritrovabili sia negli elementi naturali che in quelli antropico-culturali, tra questi edifici, produzioni tipiche, costumi, dialetti, feste, leggende delle tradizioni orali, ecc., - così come l’interazione della collettività con tali caratteristiche. Tuttavia, la crescente preoccupazione per l’aspetto problematico che caratterizza il Local Distinctiveness, prodotto dalla fragilità che lo caratterizza, dal momento che le peculiarità tendono a perdersi facilmente, ad essere erose da cambiamenti nello stile di vita, nelle economie, nelle destinazioni d’uso degli edifici, ha indotto ad elaborare metodologie e strumenti idonei a proteggere i caratteri distintivi dei luoghi. In tale contesto matura l’esperienza delle Parish Maps, cioè le mappe di parrocchia. L’aggettivazione “Parish”, scelta per denominare queste particolari raffigurazioni, evidenzia come l’obiettivo principale non sia quello di dare attenzione a territori definiti da precisi confini amministrativi, ma piuttosto privilegiare «l’arena più piccola in cui prende forma la vita sociale, il territorio per il quale provi affetto» (Clifford, 2006, pag. 3). In quest’ottica, le Parish Maps si configurano come narrazioni di luoghi, deposito di saperi, memorie collettive e individuali, evidenze di ciò che è percepito come un valore dalla comunità. Negli anni seguenti, la metodologia delle Parish Maps è stata sperimentata in molti paesi e in differenti contesti. In Italia, il modello è stato dapprima adottato dall’IRES (Istituto di ricerche economico-sociali del Piemonte) nell’ambito delle esperienze ecomuseali, promosse dalla Regione Piemonte a partire dai primi anni dell’attuale millennio; lo stesso modello è stato successivamente esportato in altre regioni per promuovere, sempre nell’ambito degli ecomusei, il ruolo della comunità nella costruzione di mappe in grado di rappresentare il proprio spazio vissuto e i valori socialmente riconosciuti del territorio di appartenenza. In anni più recenti, sulla scia delle indicazioni espresse dalla Convenzione europea del paesaggio, il modello è stato sperimentato nel processo di costruzione di alcuni piani paesaggistici nel tentativo di rappresentare il paesaggio come «una parte del territorio cosi come percepito dagli abitanti» (art. 1 della Convenzione). Ed è proprio in ragione di tale difficile percorso che le mappe di comunità si configurano come esito di un processo bottom up, partecipato e

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può ricoprire una posizione fondamentale nel processo di costruzione di nuovi sentieri di sviluppo - basati su una dimensione “di vicinanza” - e sulla partecipazione attiva. All’uopo, va precisato, la partecipazione - “statuto” invero poco definito dall’Agenda XXI, fonte ricca di informazioni dalla quale si è nutrita una folta schiera di studiosi producendo una vasta letteratura, - è attualmente sottoposta – attraverso apposite coordinate – ad una specifica critica, sulla quale occorrerebbe riflettere in modo adeguato. Pertanto, in questo lavoro si tenterà di evidenziare le problematiche generali e teorico-metodologiche dell’argomento, esponendo prima i vantaggi che – almeno in linea di principio – la partecipazione riveste, soprattutto se sollecitata a recuperare elementi valoriali, spazializzati, e spaziabilizzabili, come nell’esempio delle mappe di comunità. Come è ormai noto, queste costituiscono una “innovativa” forma per rappresentare graficamente ciò che una comunità giudica sia per sé di valore, cioè come “vede” e “sente” il proprio luogo. Su tale premessa sembrerebbe emergere che queste elaborazioni grafiche siano rappresentazioni abbastanza straordinarie sul piano comunicativo oltre ad essere presupposti di prese di coscienza delle comunità che le hanno prodotte. Il contesto di riferimento Il modo di rappresentare tematismi valoriali con il coinvolgimento della comunità, attualmente è una pratica che sembra costituire un fertile terreno di sperimentazione in numerosi ed eterogenei contesti che spaziano dalle politiche di cooperazione allo sviluppo, alle politiche urbane, ai processi di pianificazione del paesaggio e della sua rappresentazione. A questo riguardo è opportuno ricordare che le prime esperienze di realizzazione di mappe di comunità possono essere rintracciate in Gran Bretagna, nella Contea del West Sussex; furono stimolate dall’attività dell’associazione ambientalista Common Ground fondata, tra il 1982 e il 1983, da Roger Deakin, Angela King e Sue Clifford per promuovere e proteggere il Local Distinctiveness. Nella concezione dei fondatori, ogni luogo ha peculiarità che lo rendono unico e irripetibile; pertanto il Local Distinctiveness comprende sia i tratti caratteristici di ogni luogo - ritrovabili sia negli elementi naturali che in quelli antropico-culturali, tra questi edifici, produzioni tipiche, costumi, dialetti, feste, leggende delle tradizioni orali, ecc., - così come l’interazione della collettività con tali caratteristiche. Tuttavia, la crescente preoccupazione per l’aspetto problematico che caratterizza il Local Distinctiveness, prodotto dalla fragilità che lo caratterizza, dal momento che le peculiarità tendono a perdersi facilmente, ad essere erose da cambiamenti nello stile di vita, nelle economie, nelle destinazioni d’uso degli edifici, ha indotto ad elaborare metodologie e strumenti idonei a proteggere i caratteri distintivi dei luoghi. In tale contesto matura l’esperienza delle Parish Maps, cioè le mappe di parrocchia. L’aggettivazione “Parish”, scelta per denominare queste particolari raffigurazioni, evidenzia come l’obiettivo principale non sia quello di dare attenzione a territori definiti da precisi confini amministrativi, ma piuttosto privilegiare «l’arena più piccola in cui prende forma la vita sociale, il territorio per il quale provi affetto» (Clifford, 2006, pag. 3). In quest’ottica, le Parish Maps si configurano come narrazioni di luoghi, deposito di saperi, memorie collettive e individuali, evidenze di ciò che è percepito come un valore dalla comunità. Negli anni seguenti, la metodologia delle Parish Maps è stata sperimentata in molti paesi e in differenti contesti. In Italia, il modello è stato dapprima adottato dall’IRES (Istituto di ricerche economico-sociali del Piemonte) nell’ambito delle esperienze ecomuseali, promosse dalla Regione Piemonte a partire dai primi anni dell’attuale millennio; lo stesso modello è stato successivamente esportato in altre regioni per promuovere, sempre nell’ambito degli ecomusei, il ruolo della comunità nella costruzione di mappe in grado di rappresentare il proprio spazio vissuto e i valori socialmente riconosciuti del territorio di appartenenza. In anni più recenti, sulla scia delle indicazioni espresse dalla Convenzione europea del paesaggio, il modello è stato sperimentato nel processo di costruzione di alcuni piani paesaggistici nel tentativo di rappresentare il paesaggio come «una parte del territorio cosi come percepito dagli abitanti» (art. 1 della Convenzione). Ed è proprio in ragione di tale difficile percorso che le mappe di comunità si configurano come esito di un processo bottom up, partecipato e

collettivo e perfino utile alla stessa cartografia nella rappresentazione di nuovi tematismi, quali quelli emozionali, identitari e partecipati (Banini, 2011). La rappresentazione tra comunità, luogo, identità Prima di analizzare il processo di elaborazione delle mappe di comunità, appare opportuno considerare, seppure brevemente, quale sia l’apparato concettuale che anima sia il processo di progettazione, sia il prodotto finale; apparato che si articola attorno ad alcuni fondamenti intrinsecamente problematici, connotati da una forte valenza interdisciplinare, individuabili nelle nozioni di comunità, identità, luogo.

Figura 1 - La mappa di comunità di San Vito dei Normanni (dettaglio).

Fonte: www.ecomuseipuglia.net. La nozione di “comunità”, come sul piano semantico è noto, risulta caratterizzata da un’ampia polisemia, al punto da essere considerato, se non uno dei concetti più controversi (Villa, 2005) sicuramente fra i più suscettibili di differenti interpretazioni. Nelle scienze sociali un primo filone interpretativo emerge con la nascita dello Stato-nazione, cui corrisponde – peraltro – la dissoluzione delle comunità di tipo arcaico precapitalistico, sopraffatte dal consolidarsi dei processi industriali in quanto esiti concreti dell’economia liberistica. Si tratta di un filone interpretativo di analisi che, a partire dal lavoro di Tönnies (1887), sarà caratterizzato da una costante opposizione espressa sinteticamente da comunità/società. Se la prima si distingue per le relazioni di “mutuo soccorso” tra individui, la seconda è qualificata da rapporti impersonali, basati sul ruolo. Tuttavia, la permeabilità dell’una e dell’altra - rilevabile dall’osservazione di relazioni tipicamente societarie nelle comunità rurali o/e di relazioni comunitarie nei centri urbani (Bagnasco, 1999) – ha indebolito l’analisi empirica e finanche lo stesso filone interpretativo, snaturando il concetto di comunità a sinonimo di

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società. Con la crisi dello Stato-nazione, il concetto di comunità non solo rivive un momento di particolare fortuna nella riflessione delle scienze sociali, ma acquisisce significati del tutto nuovi, al punto che l’ampiezza semantica del termine ne fa un concetto-ponte tra le scienze sociali, fra queste e quelle naturali (Bazzini, 2004). Come osserva de Benoist (2005, pag. 89), citando Bauer, in un mondo dove si moltiplicano i flussi e le reti, le comunità possono considerarsi un «prodotto mai finito di un processo costantemente in corso». Peraltro, la crisi dello Stato-nazione assegna al concetto di comunità un’accezione più localistica ed interpretata secondo il paradigma reticolare; in tal modo, non solo contraddicendo coloro che presagivano la fine di certe forme di aggregazione, ma incentivando la pubblicistica geografica attraverso la locuzione di “comunità locale”, spesso mai disgiunta da quella di “identità territoriale”. Così come per la nozione di comunità, anche su quella di identità si è sviluppato, nell’ambito delle scienze sociali, un’ampia ed articolata riflessione. Nella pluralità di prospettive con cui la letteratura geografica affronta il tema dell’identità territoriale, le recenti riflessioni che emergono da chi ne discute in relazione alla tematica della territorialità (Turco, 2010), della rappresentatività del paesaggio (Turri, 2006), o da chi ne intravvede le potenzialità come strumento di indagine empirica (Scaramellini 2010), tendono a sottolinearne il carattere processuale e dinamico. Tali riflessioni, peraltro, sono ampiamente condivise da chi, per esempio gli antropologi, studia e analizza la nozione di identità come categoria concettuale distintiva del proprio bacino disciplinare. A tale esito si è pervenuti, dopo un articolato dibattito pluridecennale che ha messo in crisi alcuni indirizzi volti ad immobilizzare la nozione di identità entro i confini della staticità e della incontaminabilità da processi acculturativi e/o inculturativi. Per esempio si è andati oltre l’estremismo relativista che considera ogni cultura come dato immobile e immune dallo scorrere del tempo. Allo stesso modo è stata superata la concezione essenzialista che, in nome della specificità dell’identità di una data cultura, prescrive la difesa della sua purezza da contaminazioni esterne. Decisivo lo spartiacque inciso da Jean-Loup Amselle (1999) alla fine degli anni ’90 del secolo scorso quando propose il concetto di “logica meticcia”, per sottolineare che ogni cultura, del passato e del presente, ha costruito e costruisce la propria identità proprio connettendosi ad altre culture. Orizzonte peraltro anticipato dai contributi proposti da Geertz (1973) e da Glissant (1996), i quali attraverso le metafore, rispettivamente, del polipo e del rizoma sottolineano la natura relazionale dell’identità: da un corpo centrale identitario (il nodo) si dipartirebbero inevitabilmente dei collegamenti (la rete) con i luoghi e le altre identità; nel primo tramite i tentacoli, nel secondo con le foglie, le gemme e le radici. Pertanto, l’identità risulta influenzata da diversi fattori e strutturata, in un quadro semiologico, secondo i seguenti livelli: come siamo, come gli altri ci rappresentano, come vorremmo essere. A questo quadro semiologico che trasuda di tempo (come siamo (ora), come gli altri ci rappresentano (prima, ora) come vorremmo essere (ora e in futuro) è oramai invalso associare un ulteriore livello che richiama alla spazialità: il luogo. Riscattato dalla degradazione moderna che lo ha a lungo inteso “spazio occupato da un oggetto”, il luogo è oggi coordinata ineludibile non solo per la geografia. Speculare agli argomenti e agli obiettivi di questo contributo gli studi di geografi umanisti più inclini ai valori culturali e simbolici dei luoghi, come Fremont (1976), che indaga il luogo come “spazio vissuto”, o Tuan (1976) che con il neologismo “topophilia” sottolinea l’affettività degli individui verso specifici luoghi: quello di nascita, di formazione, la città in cui viviamo, la nostra casa o un luogo di culto. Questi luoghi hanno una dimensione spaziale, ma soprattutto hanno un significato ed un valore che gli attribuiscono gli individui, attraverso la percezione sensoriale. Tuan propone due tipologie di luoghi a cui associa due differenti percezioni: quelli che trasmettono il loro significato attraverso la vista, che egli chiama “simboli pubblici” percepiti collettivamente e quelli che possono essere compresi solo con il tempo e attraverso il coinvolgimento degli altri organi sensoriali. Egli li definisce “campi d’attenzione”, i quali hanno una intensa valenza emotiva a cui associa una percezione individuale. Questi indirizzi della geografia umanistica, infatti, sottolineano il senso di appartenenza al luogo che, per quanto possa apparire un’esperienza infrequente nella società odierna, - e forse proprio in ragione di ciò - trova nelle mappe di comunità il proprio “spazio di rappresentazione”, da intendersi

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società. Con la crisi dello Stato-nazione, il concetto di comunità non solo rivive un momento di particolare fortuna nella riflessione delle scienze sociali, ma acquisisce significati del tutto nuovi, al punto che l’ampiezza semantica del termine ne fa un concetto-ponte tra le scienze sociali, fra queste e quelle naturali (Bazzini, 2004). Come osserva de Benoist (2005, pag. 89), citando Bauer, in un mondo dove si moltiplicano i flussi e le reti, le comunità possono considerarsi un «prodotto mai finito di un processo costantemente in corso». Peraltro, la crisi dello Stato-nazione assegna al concetto di comunità un’accezione più localistica ed interpretata secondo il paradigma reticolare; in tal modo, non solo contraddicendo coloro che presagivano la fine di certe forme di aggregazione, ma incentivando la pubblicistica geografica attraverso la locuzione di “comunità locale”, spesso mai disgiunta da quella di “identità territoriale”. Così come per la nozione di comunità, anche su quella di identità si è sviluppato, nell’ambito delle scienze sociali, un’ampia ed articolata riflessione. Nella pluralità di prospettive con cui la letteratura geografica affronta il tema dell’identità territoriale, le recenti riflessioni che emergono da chi ne discute in relazione alla tematica della territorialità (Turco, 2010), della rappresentatività del paesaggio (Turri, 2006), o da chi ne intravvede le potenzialità come strumento di indagine empirica (Scaramellini 2010), tendono a sottolinearne il carattere processuale e dinamico. Tali riflessioni, peraltro, sono ampiamente condivise da chi, per esempio gli antropologi, studia e analizza la nozione di identità come categoria concettuale distintiva del proprio bacino disciplinare. A tale esito si è pervenuti, dopo un articolato dibattito pluridecennale che ha messo in crisi alcuni indirizzi volti ad immobilizzare la nozione di identità entro i confini della staticità e della incontaminabilità da processi acculturativi e/o inculturativi. Per esempio si è andati oltre l’estremismo relativista che considera ogni cultura come dato immobile e immune dallo scorrere del tempo. Allo stesso modo è stata superata la concezione essenzialista che, in nome della specificità dell’identità di una data cultura, prescrive la difesa della sua purezza da contaminazioni esterne. Decisivo lo spartiacque inciso da Jean-Loup Amselle (1999) alla fine degli anni ’90 del secolo scorso quando propose il concetto di “logica meticcia”, per sottolineare che ogni cultura, del passato e del presente, ha costruito e costruisce la propria identità proprio connettendosi ad altre culture. Orizzonte peraltro anticipato dai contributi proposti da Geertz (1973) e da Glissant (1996), i quali attraverso le metafore, rispettivamente, del polipo e del rizoma sottolineano la natura relazionale dell’identità: da un corpo centrale identitario (il nodo) si dipartirebbero inevitabilmente dei collegamenti (la rete) con i luoghi e le altre identità; nel primo tramite i tentacoli, nel secondo con le foglie, le gemme e le radici. Pertanto, l’identità risulta influenzata da diversi fattori e strutturata, in un quadro semiologico, secondo i seguenti livelli: come siamo, come gli altri ci rappresentano, come vorremmo essere. A questo quadro semiologico che trasuda di tempo (come siamo (ora), come gli altri ci rappresentano (prima, ora) come vorremmo essere (ora e in futuro) è oramai invalso associare un ulteriore livello che richiama alla spazialità: il luogo. Riscattato dalla degradazione moderna che lo ha a lungo inteso “spazio occupato da un oggetto”, il luogo è oggi coordinata ineludibile non solo per la geografia. Speculare agli argomenti e agli obiettivi di questo contributo gli studi di geografi umanisti più inclini ai valori culturali e simbolici dei luoghi, come Fremont (1976), che indaga il luogo come “spazio vissuto”, o Tuan (1976) che con il neologismo “topophilia” sottolinea l’affettività degli individui verso specifici luoghi: quello di nascita, di formazione, la città in cui viviamo, la nostra casa o un luogo di culto. Questi luoghi hanno una dimensione spaziale, ma soprattutto hanno un significato ed un valore che gli attribuiscono gli individui, attraverso la percezione sensoriale. Tuan propone due tipologie di luoghi a cui associa due differenti percezioni: quelli che trasmettono il loro significato attraverso la vista, che egli chiama “simboli pubblici” percepiti collettivamente e quelli che possono essere compresi solo con il tempo e attraverso il coinvolgimento degli altri organi sensoriali. Egli li definisce “campi d’attenzione”, i quali hanno una intensa valenza emotiva a cui associa una percezione individuale. Questi indirizzi della geografia umanistica, infatti, sottolineano il senso di appartenenza al luogo che, per quanto possa apparire un’esperienza infrequente nella società odierna, - e forse proprio in ragione di ciò - trova nelle mappe di comunità il proprio “spazio di rappresentazione”, da intendersi

nell’accezione suggerita da Henri Lefebvre (1976). E’ indiscutibile che i concetti fin qui sintetica- mente richiamati siano connotati da dinamismo, contestualità storico-culturale, da costruzioni e de-ri-costruzioni. Per questa ragione occorre considerare anche l’aspetto “problematico” che ne consegue: la fugacità; a questa, riprendendo Bauman (2003), si può ovviare “proteggendo”, “tutelando” e “valorizzando”, tramite rappresentazioni, simboli e apposite metafore, i luoghi, e i loro valori. Le mappe di comunità come forma cartografia partecipativa Nell’orizzonte metodologico proposto da Bauman si collocano le mappe di comunità, da considerare come particolari forme di rappresentazione espressa non dall’attività di professionisti del settore, ma, al contrario, da un processo “collettivo” basato sul coinvolgimento attivo di gruppi di persone non necessariamente in possesso di competenze cartografiche specifiche. Pertanto, tali mappe sono soprattutto un processo partecipato di auto-rappresentazione identitaria e di riconoscimento dei valori dei luoghi, nel quale vengono coinvolti chi abita in quei luoghi o chi “sente” quei luoghi. Si tratta di una sorta di proposta comunitaria del senso dei luoghi, che diviene mappa dei sentimenti; questa è costruita sulla base di specifiche metodologie e stimolata da figure, spesso esterne alla stessa comunità (i cosiddetti facilitatori), chiamate a sensibilizzare la lettura dei segni dei luoghi e dei valori del paesaggio e a stimolare l’empatia tra luogo e persona. I tre presupposti alla base di tale processo sono: 1) il luogo, pur nella sua spazialità geografica, risulta “mobile”, nel senso che si modifica, muta, e quindi può scomparire; 2) nella comunità si può ritrovare il luogo; 3) occorre creare le condizioni affinché la comunità ne possa prendere coscienza, in modo tale che possa decidere quali azioni di tutela, di valorizzazione e di sviluppo intraprendere. E’ evidente quanto la costruzione di una mappa con tali caratteristiche sia utile laddove ci sia interesse a rilevare o indagare i valori del locale. Per tale ragione, si stanno diffondendo nell’ambito di formule ecomuseali e introducendo in alcune esperienze di pianificazione per lo più coordinate da referenti di scuola territorialista.

Figura 2 - Mappa di comunità del paesaggio delle Serre di Neviano

Fonte: www.ecomuseipuglia.net. A tale proposito si deve considerare che la diversità dei contesti di sperimentazione non modifica, nella sostanza, la missione della mappa, fermo restando che «ciascun contesto di applicazione […] è una situazione unica da considerare con attenzione, e sulla quale calibrare le mosse necessarie» (Carta, 2011, pag. 60).

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Tre principali fasi ne contraddistinguono l’elaborazione: 1) decodificazione di ciò che è percepito come valore; 2) riappropriazione; 3) rappresentazione. Per specificare nel dettaglio tali fasi, si possono riproporre i suggerimenti avanzati da Summa (2009) per realizzare una mappa partecipata, così sintetizzabili: - attivazione di diversi canali di comunicazione del progetto all’intera cittadinanza: brochure distribuite nelle scuole, affissione di manifesti e comunicati a mezzo stampa. Tale sistema di informazione ha come obiettivo il coinvolgimento di un gruppo quanto più rappresentativo della comunità, diversificato per età, interessi, formazione culturale e professione. La scuola, e più precisamente i bambini, a cui vengono sottoposti specifici questionari, può costituire una valida strategia per persuadere gli adulti alla partecipazione. Dalle informazioni acquisite con i questionari si ricavano le prime indicazioni utili a redigere la mappa. - Presentazione ufficiale del progetto con le sue relative motivazioni e potenzialità. - Costituzione del gruppo. Questa fase può essere considerata sempre in itinere. - Individuazione del contesto territoriale di riferimento. - Formazione del gruppo nelle differenti specificità e specializzazioni. In questa fase si inserisce la strategia di rilevazione fondata su ricerche d’archivio, di fotografie e di tradizioni orali. Da tali preliminari informazioni sarà poi possibile indirizzare una prima base di conoscenze e verifiche più approfondite tramite colloqui e interviste con i depositari da considerare privilegiati del sapere collettivo di una data comunità. - Sistemazione delle informazioni acquisite, riflettendo e analizzandole per filoni e argomenti tematici individuati in base al materiale raccolto (ad esempio, patrimonio edilizio in relazione alla struttura urbanistica, patrimonio agro-silvo-pastorale, costumi e tradizioni popolari definibili come patrimonio etno-antropologico, patrimonio archeologico e/o storico, saperi e produzioni locali, tra i quali quelle enogastronimiche). Le informazioni così sistematizzate saranno poi sinteticamente espresse attraverso specifiche rappresentazioni iconografiche anch’esse oggetto di apposita ricerca semiologica. - Per ogni area tematica di beni materiali e immateriali è necessario effettuare un censimento, sulla base del quale sarà opportuno aprire una discussione per stabilire quali di questi elementi siano realmente più sentiti dalla maggior parte degli abitanti della comunità come caratterizzanti la propria storia, la propria cultura, il proprio territorio, in sostanza, come emblemi della propria identità. Stabiliti gli elementi da inserire nella mappa, i partecipanti potranno iniziare la ricerca di fotografie, vecchie cartoline e disegni che raffigurano gli elementi scelti. In questo modo si può costruire un repertorio iconografico utile alla restituzione grafica della mappa. - Realizzazione vera e propria della mappa per la quale viene incaricato un disegnatore esperto che spesso utilizza come base di partenza la cartografia ufficiale, spogliata della sua dimensione rigorosamente geometrica e rivestita di contenuti valoriali, resi attraverso tecniche non formali ma che evocano cosa la comunità ha percepito come proprio spazio vissuto e identitario. - Presentazione dei risultati alla cittadinanza, invitata a interagire con quanto prodotto, sollevando osservazioni e proponendo eventuali correzioni. Osservazioni conclusive Attualmente queste speciali rappresentazioni di messa in scena geografica della memoria trovano consenso presso operatori ecomuseali e pianificatori. Tale consenso induce a due principali riflessioni: l’una riguarda la partecipazione, la seconda la cartografia. Nel primo caso, il progetto partecipativo che sottende alla costruzione delle mappe di comunità è, in linea di principio, condivisibile ed auspicabile nella misura in cui tale processo sia realmente inclusivo e rappresentativo della comunità chiamata e impegnata ad auto-rappresentarsi. Tale considerazione vale soprattutto laddove il progetto comunitario di costruzione della mappa debba incidere sulla “scrittura” dello statuto del territorio cui aspira la recente progettualità dei pianificatori del paesaggio. Nel merito, i quesiti che si rifanno agli insegnamenti della Common Ground per la costruzione delle mappe di comunità «Cosa ritieni importante di questo luogo e cosa significa per

te? Cosa lo rende diverso da tutti gli altri luoghi? A cosa attribuisci valore? Cosa conosciamo e cosa vorremmo conoscere? Come possiamo condividere le nostre conoscenze? Quali miglioramenti sono possibili?», possono essere declinati e sintetizzati nel modo seguente: chi è importante per questo luogo ai fini di un recupero della sua identità e della sua memoria? Se è vero che nel processo delle mappe di comunità non è, almeno finora, emersa una rivendicazione al diritto di intervenire nelle scelte assunte dagli attori politico-istituzionali, è ugualmente vero che la partecipazione, così come è andata connaturandosi nel corso degli anni ‘90, ha perso le prerogative ideologiche e valoriali che hanno caratterizzato la pratica partecipativa degli anni ’70, quando tali istanze emergevano in ragione di dinamiche conflittuali (Moini, 2012). Nell’attuale contesto storico, tali pratiche, viceversa, sono motivate, sollecitate da attori politici ed istituzionali che, snaturandole dei loro contenuti ideologici, conferiscono al processo una strutturazione tecnica, evidente nella presenza di “tecnici della partecipazione” (per esempio i facilitatori), che privilegia l’inclusione del singolo e non il coinvolgimento di attori sociali organizzati. L’obiezione, per inciso, non è rivolta al singolo, ma a quello che egli – probabilmente – non rappresenta. Per quanto riguarda il versante della riflessione cartografica, sono ormai numerosi i contributi teorici che discutono la neutralità della pratica cartografica ufficiale e invitano alla necessità di discutere la logica che la sottende; inoltre, alcuni auspicano un’apertura verso una dimensione memoriale che dia conto dello “spazio vissuto”. Come è ormai noto, si tratta di contributi sui quali si registra l’impatto della lettura “harleiana” alla problematica della rappresentazione; ma non solo, anche quella di teorici della rappresentazione, per esempio Michel de Certeau e Fredric Jameson. Questo variegato filone critico che accomuna riflessioni interdisciplinari, attribuisce alla rivoluzione geodetica, figlia della logica cartesiana, la responsabilità di restituire solo spazi indifferenziati, privati del loro valore simbolico e culturale, inoltre spogliati del cosiddetto genius loci che di fatto caratterizza e identifica ogni territorio. Del resto, per sua stessa natura (la componente analogica che la caratterizza) una qualsiasi carta topografica esclude la scelta di rappresentare gli oggetti in maniera figurativa, considerati «rumori visivi» che disturbano la lettura (Lévy, 2007) e perciò sostituiti da un sistema di segni semplici, tanto facilmente reperibili, quanto difficilmente capaci di comunicare-trasmettere il senso che sottende al segno. In conseguenza di queste sintetiche considerazioni, ne deriva che le mappe di comunità sembrano riappropriarsi dei luoghi, per lungo tempo ostaggi di una specifica logica cartografica e, in un certo senso, riscattati da un ampio dibattito teorico, al quale qui si è molto sinteticamente accennato. Inoltre, si ritiene che il consenso, ottenuto da questa speciale e particolare rappresentazione cartografica, debba anche essere considerato e contestualizzato alla luce di nuove necessità a cui la cartografia ufficiale, da sola, non può rispondere. In sostanza, si tratta di esigenze che investono le problematiche di rappresentazione del paesaggio, nel rinnovamento che la Convenzione europea ha assegnato proprio al paesaggio (accolto anche nel codice Urbani) definendolo, di fatto, come «parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni» (art. 1) e come «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità […] e fondamento della loro identità» (art. 5). In concreto, ciò non esclude il valore della cartografia ufficiale che, pur nei limiti delle sue simbologie di rappresentazione dei luoghi, degli spazi e delle realizzazione antropiche, peraltro enunciati nella stessa definizione di carta “rappresentazione approssimata, ridotta e simbolica della superficie terrestre o di una sua parte”, comunque ha sempre contribuito a conoscere, interpretare e governare il territorio (Scanu, 2013). Basti pensare che anche nei più recenti programmi e progetti di pianificazione che guardano con speciale interesse alle mappe di comunità, la stessa cartografia scientifica supporta il quadro conoscitivo e l’intero processo di pianificazione. Si deve rilevare, infine che nel processo di costruzione di un piano paesaggistico-territoriale, le mappe di comunità rappresentano non solo un «ponte per trasportare la percezione locale nel mondo tecnico dei pianificatori» (Leslie, 2007), ma anche, come sostiene Magnaghi nella relazione generale del PPTR della Puglia, uno «strumento di crescita della coscienza di luogo». Per concludere, le mappe di

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Tre principali fasi ne contraddistinguono l’elaborazione: 1) decodificazione di ciò che è percepito come valore; 2) riappropriazione; 3) rappresentazione. Per specificare nel dettaglio tali fasi, si possono riproporre i suggerimenti avanzati da Summa (2009) per realizzare una mappa partecipata, così sintetizzabili: - attivazione di diversi canali di comunicazione del progetto all’intera cittadinanza: brochure distribuite nelle scuole, affissione di manifesti e comunicati a mezzo stampa. Tale sistema di informazione ha come obiettivo il coinvolgimento di un gruppo quanto più rappresentativo della comunità, diversificato per età, interessi, formazione culturale e professione. La scuola, e più precisamente i bambini, a cui vengono sottoposti specifici questionari, può costituire una valida strategia per persuadere gli adulti alla partecipazione. Dalle informazioni acquisite con i questionari si ricavano le prime indicazioni utili a redigere la mappa. - Presentazione ufficiale del progetto con le sue relative motivazioni e potenzialità. - Costituzione del gruppo. Questa fase può essere considerata sempre in itinere. - Individuazione del contesto territoriale di riferimento. - Formazione del gruppo nelle differenti specificità e specializzazioni. In questa fase si inserisce la strategia di rilevazione fondata su ricerche d’archivio, di fotografie e di tradizioni orali. Da tali preliminari informazioni sarà poi possibile indirizzare una prima base di conoscenze e verifiche più approfondite tramite colloqui e interviste con i depositari da considerare privilegiati del sapere collettivo di una data comunità. - Sistemazione delle informazioni acquisite, riflettendo e analizzandole per filoni e argomenti tematici individuati in base al materiale raccolto (ad esempio, patrimonio edilizio in relazione alla struttura urbanistica, patrimonio agro-silvo-pastorale, costumi e tradizioni popolari definibili come patrimonio etno-antropologico, patrimonio archeologico e/o storico, saperi e produzioni locali, tra i quali quelle enogastronimiche). Le informazioni così sistematizzate saranno poi sinteticamente espresse attraverso specifiche rappresentazioni iconografiche anch’esse oggetto di apposita ricerca semiologica. - Per ogni area tematica di beni materiali e immateriali è necessario effettuare un censimento, sulla base del quale sarà opportuno aprire una discussione per stabilire quali di questi elementi siano realmente più sentiti dalla maggior parte degli abitanti della comunità come caratterizzanti la propria storia, la propria cultura, il proprio territorio, in sostanza, come emblemi della propria identità. Stabiliti gli elementi da inserire nella mappa, i partecipanti potranno iniziare la ricerca di fotografie, vecchie cartoline e disegni che raffigurano gli elementi scelti. In questo modo si può costruire un repertorio iconografico utile alla restituzione grafica della mappa. - Realizzazione vera e propria della mappa per la quale viene incaricato un disegnatore esperto che spesso utilizza come base di partenza la cartografia ufficiale, spogliata della sua dimensione rigorosamente geometrica e rivestita di contenuti valoriali, resi attraverso tecniche non formali ma che evocano cosa la comunità ha percepito come proprio spazio vissuto e identitario. - Presentazione dei risultati alla cittadinanza, invitata a interagire con quanto prodotto, sollevando osservazioni e proponendo eventuali correzioni. Osservazioni conclusive Attualmente queste speciali rappresentazioni di messa in scena geografica della memoria trovano consenso presso operatori ecomuseali e pianificatori. Tale consenso induce a due principali riflessioni: l’una riguarda la partecipazione, la seconda la cartografia. Nel primo caso, il progetto partecipativo che sottende alla costruzione delle mappe di comunità è, in linea di principio, condivisibile ed auspicabile nella misura in cui tale processo sia realmente inclusivo e rappresentativo della comunità chiamata e impegnata ad auto-rappresentarsi. Tale considerazione vale soprattutto laddove il progetto comunitario di costruzione della mappa debba incidere sulla “scrittura” dello statuto del territorio cui aspira la recente progettualità dei pianificatori del paesaggio. Nel merito, i quesiti che si rifanno agli insegnamenti della Common Ground per la costruzione delle mappe di comunità «Cosa ritieni importante di questo luogo e cosa significa per

te? Cosa lo rende diverso da tutti gli altri luoghi? A cosa attribuisci valore? Cosa conosciamo e cosa vorremmo conoscere? Come possiamo condividere le nostre conoscenze? Quali miglioramenti sono possibili?», possono essere declinati e sintetizzati nel modo seguente: chi è importante per questo luogo ai fini di un recupero della sua identità e della sua memoria? Se è vero che nel processo delle mappe di comunità non è, almeno finora, emersa una rivendicazione al diritto di intervenire nelle scelte assunte dagli attori politico-istituzionali, è ugualmente vero che la partecipazione, così come è andata connaturandosi nel corso degli anni ‘90, ha perso le prerogative ideologiche e valoriali che hanno caratterizzato la pratica partecipativa degli anni ’70, quando tali istanze emergevano in ragione di dinamiche conflittuali (Moini, 2012). Nell’attuale contesto storico, tali pratiche, viceversa, sono motivate, sollecitate da attori politici ed istituzionali che, snaturandole dei loro contenuti ideologici, conferiscono al processo una strutturazione tecnica, evidente nella presenza di “tecnici della partecipazione” (per esempio i facilitatori), che privilegia l’inclusione del singolo e non il coinvolgimento di attori sociali organizzati. L’obiezione, per inciso, non è rivolta al singolo, ma a quello che egli – probabilmente – non rappresenta. Per quanto riguarda il versante della riflessione cartografica, sono ormai numerosi i contributi teorici che discutono la neutralità della pratica cartografica ufficiale e invitano alla necessità di discutere la logica che la sottende; inoltre, alcuni auspicano un’apertura verso una dimensione memoriale che dia conto dello “spazio vissuto”. Come è ormai noto, si tratta di contributi sui quali si registra l’impatto della lettura “harleiana” alla problematica della rappresentazione; ma non solo, anche quella di teorici della rappresentazione, per esempio Michel de Certeau e Fredric Jameson. Questo variegato filone critico che accomuna riflessioni interdisciplinari, attribuisce alla rivoluzione geodetica, figlia della logica cartesiana, la responsabilità di restituire solo spazi indifferenziati, privati del loro valore simbolico e culturale, inoltre spogliati del cosiddetto genius loci che di fatto caratterizza e identifica ogni territorio. Del resto, per sua stessa natura (la componente analogica che la caratterizza) una qualsiasi carta topografica esclude la scelta di rappresentare gli oggetti in maniera figurativa, considerati «rumori visivi» che disturbano la lettura (Lévy, 2007) e perciò sostituiti da un sistema di segni semplici, tanto facilmente reperibili, quanto difficilmente capaci di comunicare-trasmettere il senso che sottende al segno. In conseguenza di queste sintetiche considerazioni, ne deriva che le mappe di comunità sembrano riappropriarsi dei luoghi, per lungo tempo ostaggi di una specifica logica cartografica e, in un certo senso, riscattati da un ampio dibattito teorico, al quale qui si è molto sinteticamente accennato. Inoltre, si ritiene che il consenso, ottenuto da questa speciale e particolare rappresentazione cartografica, debba anche essere considerato e contestualizzato alla luce di nuove necessità a cui la cartografia ufficiale, da sola, non può rispondere. In sostanza, si tratta di esigenze che investono le problematiche di rappresentazione del paesaggio, nel rinnovamento che la Convenzione europea ha assegnato proprio al paesaggio (accolto anche nel codice Urbani) definendolo, di fatto, come «parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni» (art. 1) e come «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità […] e fondamento della loro identità» (art. 5). In concreto, ciò non esclude il valore della cartografia ufficiale che, pur nei limiti delle sue simbologie di rappresentazione dei luoghi, degli spazi e delle realizzazione antropiche, peraltro enunciati nella stessa definizione di carta “rappresentazione approssimata, ridotta e simbolica della superficie terrestre o di una sua parte”, comunque ha sempre contribuito a conoscere, interpretare e governare il territorio (Scanu, 2013). Basti pensare che anche nei più recenti programmi e progetti di pianificazione che guardano con speciale interesse alle mappe di comunità, la stessa cartografia scientifica supporta il quadro conoscitivo e l’intero processo di pianificazione. Si deve rilevare, infine che nel processo di costruzione di un piano paesaggistico-territoriale, le mappe di comunità rappresentano non solo un «ponte per trasportare la percezione locale nel mondo tecnico dei pianificatori» (Leslie, 2007), ma anche, come sostiene Magnaghi nella relazione generale del PPTR della Puglia, uno «strumento di crescita della coscienza di luogo». Per concludere, le mappe di

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comunità possono essere considerate un dispositivo attraverso il quale si interviene per sopperire ai vuoti semantici lasciati da quella ufficiale. Riferimenti bibliografici Amselle J.L. (1999), Logiche meticce, Bollati Boringhieri, Torino. Bagnasco A. (1999), Tracce di comunità, Il Mulino, Bologna, 1999. Banini T. (2011), “Rappresentazioni urbane. Dalla mappa all’emotional map”, in F. Scarpelli, A. Romano (a cura di), Voci della città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma: 49-66. Bauman Z. (2003), Intervista sull’identità, in B. Vecchi (a cura di), Laterza, Roma-Bari. Bazzini D. (2004), “Ci sono ancora i luoghi e le comunità?”, Signum, 1: 13-20. Carta M. (2011), La rappresentazione nel progetto del territorio, University Press, Firenze. Clifford S. (2006), “Il valore dei luoghi”, StrumentIRES Genius loci. Perché, quando e come realizzare una mappa di comunità, IRES, 1-5. de Benoist A. (2005), Identità e comunità, Alfredo Guida Editore, Napoli. Fremont A. (1976), La région, espace vécu, Presses Universitaires de France, Paris, (trad. ital., La regione. Uno spazio per vivere, Franco Angeli, Milano, 1978). Geertz C. (1973), The Interpretation of Cultures, Basic Book, New York. Glissant E. (1996), Introduction à une poétique du divers, Gallimard, (trad. ital. La poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998). Lefebvre, H. (1976), La Production de l’espace, Anthropos, Paris, 20004, (trad. ital. La produzione dello spazio, Moizzi, Milano). Leslie K. (2007), “Le Parish Maps del West Sussex. Un “modello” per rappresentare l’identità territoriale”, in F. Balletti (a cura di), Sapere tecnico-sapere locale. Conoscenza, identificazione, scenari per il progetto, Alinea Editrice, Firenze: 191-202 Lévy J. (2007), “La carta, uno spazio da costruire”, in E. Casti (a cura di), Cartografia e progettazione territoriale, Utet, Torino: 42-61. Moini G. (2012), Teoria critica della partecipazione. Un approccio sociologico, Franco Angeli, Milano. Scanu G. (2013), “L’associazione italiana di cartografia e il suo bollettino. Cinquant’anni di vita e di storia cartografica”, Bollettino dell’AIC, 149: 5-11. Scaramellini G. (2010), “Identità, cultura, territorio. Da tema di riflessione teorica a strumento di indagine empirica”, in G. Scaramellini (a cura di), Paesaggi, territori, culture. Viaggio nei luoghi e nelle memorie del parco del Ticino, Quaderni di Acme 116, Milano: 3-130. Summa A. (2009), “La percezione sociale del paesaggio: le mappe di comunità”, in Il progetto dell’urbanistica per il paesaggio, XII Conferenza nazionale degli urbanisti, Bari 19-20 febbraio 2009 (www.siu.bedita.net) Tönnies F. (1887), Gemeinschaft und gesellschaft, abhandlung des communismus, Reisland, Leipzig (trad. ital. Comunità e società, Edizioni di comunità, Milano, 1963). Tuan Y.F. (1976), “Humanistic geography”, Annals of the Association of American Geographers, 66: 266-276. Turco A. (2010), Configurazioni della territorialità, Franco Angeli, Milano. Turri E. (2006), Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia. Villa F. (2005), “Comunità e identità locale”, in A. Agustoni (a cura di), Comunità, ambiente e identità locali, Franco Angeli, Milano.