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2009_c Jñāneśvara e Panikkar. Misticismo nello Jñāneśvarī e l’intuizione cosmoteandrica, in: Milena Carrara Pavan (Ed.), I Mistici nelle grandi Tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar (Jaca Book, 2009), 31-63. ______________________________________________________________________________ āneśvara e Panikkar. Misticismo nello Jñāneśvarī e l’intuizione cosmoteandrica Francis X. D’Sa, SJ Introduzione Quando introdusse inizialmente la sua ormai nota intuizione cosmoteandri- ca, Panikkar sottolineò che non stava proponendo nulla di nuovo: «La vi- sione cosmoteandrica può essere considerata la forma originaria e primor- diale di coscienza. In effetti, essa balenava fin dagli albori della coscienza umana come visione indivisa della totalità»1. Altrove egli ha scritto: «Inten- do dire che questa visione è sempre stata con noi e ha sempre assolto alla funzione del saggio di ricordare ai contemporanei la totalità, preservandoli così dal rimanere abbagliati da intuizioni illuminanti ma parziali»2. āneśvara, popolarmente noto anche con il nome di Jñanadeva (nato nel 1271 d.C.), è uno dei santi-poeti santa-kavi più venerati dello Stato in- diano del Maharashtra, celebre soprattutto per il suo corposo commentario alla Bhagavad-gita, lo āneśvarī scritto attorno al 12903. Non è eccessivo dire che lo āneśvarī può essere considerato la Bibbia del Maharashtra. La popolarità dello āneśvarī, spiega come mai abbia influenzato tanto pro- fondamente la letteratura religiosa del Maharashtra. «Il contributo eccezio- 1 R. Panikkar, «Colligite Fragmenta. For an Integration of Reality», in F.A. Eigo e S.E. Fittipaldi (a cura di), From Alienation to At-one-ness (Villanova PA, The Vil- lanova University Press, 1977), p. 55. 2 R. Panikkar, «Colligite Fragmenta», cit., p. 57. 3 H.M. Lambert (a cura di), Jñåne©var° [Bhåvårthadipikå], tr. da Maråthi, a cura di V.G. Pradhan, voll. I-II (London, George Allen & Unwin, 1967). Riporterò ampie citazioni dallo Jñåne©var° visto che il testo non è facilmente accessibile al lettore occidentale.

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2009_c Jñāneśvara e Panikkar. Misticismo nello Jñāneśvarī e l’intuizione cosmoteandrica, in: Milena Carrara Pavan (Ed.), I Mistici nelle grandi Tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar

(Jaca Book, 2009), 31-63. ______________________________________________________________________________

Jñāneśvara e Panikkar.

Misticismo nello Jñāneśvarī e l’intuizione cosmoteandrica

Francis X. D’Sa, SJ

Introduzione Quando introdusse inizialmente la sua ormai nota intuizione cosmoteandri- ca, Panikkar sottolineò che non stava proponendo nulla di nuovo: «La vi- sione cosmoteandrica può essere considerata la forma originaria e primor- diale di coscienza. In effetti, essa balenava fin dagli albori della coscienza umana come visione indivisa della totalità»1. Altrove egli ha scritto: «Inten- do dire che questa visione è sempre stata con noi e ha sempre assolto alla funzione del saggio di ricordare ai contemporanei la totalità, preservandoli così dal rimanere abbagliati da intuizioni illuminanti ma parziali»2. Jñāneśvara, popolarmente noto anche con il nome di Jñanadeva (nato nel 1271 d.C.), è uno dei santi-poeti santa-kavi più venerati dello Stato in- diano del Maharashtra, celebre soprattutto per il suo corposo commentario alla Bhagavad-gita, lo Jñāneśvarī scritto attorno al 12903. Non è eccessivo dire che lo Jñāneśvarī può essere considerato la Bibbia del Maharashtra. La popolarità dello Jñāneśvarī, spiega come mai abbia influenzato tanto pro- fondamente la letteratura religiosa del Maharashtra. «Il contributo eccezio- 1 R. Panikkar, «Colligite Fragmenta. For an Integration of Reality», in F.A. Eigo e S.E. Fittipaldi (a cura di), From Alienation to At-one-ness (Villanova PA, The Vil- lanova University Press, 1977), p. 55. 2 R. Panikkar, «Colligite Fragmenta», cit., p. 57. 3 H.M. Lambert (a cura di), Jñåne©var° [Bhåvårthadipikå], tr. da Maråthi, a cura di V.G. Pradhan, voll. I-II (London, George Allen & Unwin, 1967). Riporterò ampie citazioni dallo Jñåne©var° visto che il testo non è facilmente accessibile al lettore occidentale.

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Francis X. D’Sa 32 nale dell’autore di quest’opera sta nel fatto che egli scrisse liberamente nel- la madrelingua del proprio popolo, in forma gradita alle persone colte e, al tempo stesso, facilmente comprensibile per quelle semplici; egli riuscì dun- que a estendere l’ambito del linguaggio letterario convenzionale e ad arric- chirlo attingendo a varie fonti»4. Jñåne©vara5 si formò in un’epoca in cui nel Maharashtra fiorirono im- portanti tradizioni religiose. Si ritiene che la tradizione Nåtha, «il cui inizio è al di là della possibilità di potervi risalire»6, abbia esercitato un’influen- za determinante sulla sua famiglia. Pare che il gruppo Nåtha fosse formato da hind¥ ortodossi che praticavano i rituali e la disciplina yogica all’interno del sistema delle caste. È però la terza tradizione, ossia il gruppo Vårkari, a considerare Jñåne©vara come la propria guida più illustre. Secondo alcu- ni «gran parte della letteratura religiosa dei tre o quattro secoli successivi» (nel Maharashtra) si deve ai devoti del gruppo Vårkari, al quale appartene- vano uomini e donne di tutte le caste7. Il santo-poeta Tukåråm (vissuto fra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo) fu uno di essi. Lo Jñåne©var° è il primo commentario in maråthi al celebre poema, la Bhagavad-g°tå; quest’ultima fa parte del Mahåbhårata ed è composta da sole settecento strofe, a differenza dello Jñåne©var° che ne comprende ben 8.900. Secondo la datazione generalmente accettata, la G°tå risale a un’epoca non 4 H.M. Lambert (a cura di), op. cit., p. 16. 5 Vale la pena di segnalare quanto segue. Il padre di Jñåne©vara, Vitthal Govind Kulkarni, era così intensamente attratto dalla rinuncia (saμnyåsa) da lasciare la pro- pria moglie per recarsi a Vårånasi al fine di ricevere l’iniziazione in una comunità religiosa. Il suo Guru, tuttavia, quando scoprì che aveva abbandonato il tetto co- niugale senza il consenso della moglie e senza averle dato dei figli, gli ordinò di ritornare da lei. I bramini, tuttavia, giudicarono molto severamente il fatto che egli si fosse ritirato dalla vita monastica dopo aver ricevuto l’iniziazione come saμnyåsin, considerando il ritorno alla vita coniugale una grave violazione che comportava la perdita dei requisiti di casta. L’intera famiglia fu ostracizzata e dovette vivere ai margini del villaggio. Nacquero quattro figli, tre maschi e una femmina. Ai figli maschi non fu consentito di partecipare alla cerimonia del filo, che avrebbe sancito il loro ingresso nella casta dei brahmini. Si narra che il padre abbia deciso di espiare il suo peccato gettandosi nel Gange. H.M. Lambert (a cura di), op. cit., pp. 19-20. Tutti e quattro i figli furono estremamente dotati dal punto di vista spirituale. Il figlio maggiore Nivritti iniziò Jñånadeva alla tradizione Nåtha, della quale sarebbe in seguito divenuto il santo patrono. Anche il terzo figlio, Sopånadeva, divenne un seguace della tradizione Nåtha. Muktåbai, la sorella, divenne una celebre esponente femminile della poesia della Bhakti. Si veda R.D. Ranade, Mysticism in Maharashtra, Indian Mysticism, 1988, pp. 176s. 6 H.M. Lambert (a cura di), op. cit., p. 17. 7 Ibidem.

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Jñāneśvara e Panikkar 33 successiva al 200 a.C., mentre, secondo gli esperti, lo Jñåne©var° fu comple- tato nel 1290 d.C.8. Jñåne©vara viene considerato uno dei grandi mistici del Maharashtra9. Nella presente relazione vorrei verificare la tesi cosmoteandrica di Panikkar nell’opera del santo-poeta Jñåne©vara: nello Jñåne©var° si possono ritrovare gli elementi costitutivi (ossia le dimensioni Cosmos, Theos e Aner) dell’intuizione cosmoteandrica in una visione integrata? Ovviamente, ciò che mi propongo di evidenziare non sono le espressioni in cui si manifesta la visione di Panikkar, quanto piuttosto il linguaggio pregnante e che testi- monia la triplice dinamica della realtà. Nel contesto di questa conferenza dedicata a R. Panikkar ci si può do- mandare come tutto ciò si ricolleghi al tema centrale del nostro incontro, ossia al «misticismo». La mia concezione del misticismo combacia con la vi- sione cosmoteandrica di Panikkar. Partirò quindi dal presupposto che l’au- tentico misticismo venga vissuto concretamente quando si coltiva la sensi- bilità alla triplice dinamica della realtà. Va detto che una distanza temporale di oltre un millennio separa la composizione della G°tå da quella dello Jñåne©var°. Di fronte a una visione fondamentalista delle caste, il poeta della G°tå era preoccupato di interpre- tarla in maniera olistica. Secondo l’opinione prevalente, la casta di apparte- nenza (varna) era determinata dalla casta della famiglia in cui si nasceva. La G°tå propone invece un’altra interpretazione. Non la famiglia, bensì il pro- prio comportamento o azione (karma), a sua volta legato alla propria na- tura o temperamento (svabhåvajam karma), determina se il proprio varna sarà quello di Brahmino, K©atriya, Vai©ya o Shudra. (18.40-48)10. Che il po- eta della G°tå sia contrario a ogni tipo di discriminazione risulta chiaro dal verso 5.18: «[Questi] saggi vedono con occhio uguale (sama) un brahmano, saggio e cortese, una mucca, un elefante, un cane o un fuoricasta». Al ter- mine del poema (18.66) K®@…a consiglia ad Arjuna di abbandonare tutti i dharma (ossia i jåti-dharma e i kula-dharma 1.40,43 di cui Arjuna prevede- 8 Jñåne©var° 18.1792 (è l’ultimo verso dell’opera). 9 L’autorevole R.D. Ranade così scrive: «Lo Jnåneshwari è una delle grandi opere, se non la più grande, dell’intera letteratura Maråthi e, in particolare, della letteratu- ra spirituale. Può essere considerato anche una delle massime opere di spiritualità del mondo». Si veda Sri Jñånadevaís Bhåvårtha Dipikå otherwise known as Jnåne- shwari, tr. da Maråthi, a cura di Ramchandra Keshav Bhagwat (Madras, Samata Books, 19712), IV. 10 Si veda Francis X. D’Sa, «The Yogi as a Contemplative in Action», in Studies in Formative Spirituality. Journal of Spiritual Formation, vol. XI, 3, (1990), pp. 289- 302.

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Francis X. D’Sa 34 va la distruzione e che egli avrebbe voluto evitare non coinvolgendosi nella guerra) e di cercare rifugio soltanto in Lui (K®@…a)11. Per indicare come raggiungere lo stato di equanimità, la G°tå rivela la di- namica del proprio triplice approccio allo yoga. È l’equanimità (samatvam)12 l’ingrediente essenziale del processo di discernimento. La triplice dinami- ca della G°tå è un’espressione indica dell’esperienza, che Panikkar definisce «cosmoteandrica». Nella G°tå l’atteggiamento mistico si realizza nella fedel- tà alla triplice dinamica. Tale atteggiamento assicura che si rimanga sul sen- tiero dell’equanimità. La triplice dinamica dello yoga può essere descritta adeguatamente come il triplice sentiero che conduce al discernimento: il karma-yoga appli- ca il discernimento ai rapporti con il Cosmo, il bhakti-yoga applica il discer- nimento alle relazioni personali con Dio e con l’Uomo e lo jñåna-yoga appli- ca il discernimento alla propria comprensione della realtà. Oltre alla triplice dinamica dello yoga, la G°tå espone anche la dinamica dei tre guna o attri- buti costituenti. Se considerate da un punto di vista olistico, le tre dinami- che dello yoga sono liberanti, ma se si rimane esclusivamente al livello dei costituenti, esse non portano alla liberazione, in quanto i guna costituiscono l’aspetto prak®ti della realtà e non quello del Puru@a o dello Spirito. Vale a dire che se si agisce soltanto al livello dei costituenti e si dimentica la tripli- ce dinamica della realtà (rispetto alla quale la dinamica dei costituenti è sol- tanto il preludio) si dimostra chiaramente che, guidati soltanto dai guna, si è divenuti ciechi all’aspetto-Spirito della realtà. Questo stato di cecità (moha) non può aiutare a raggiungere lo stato di liberazione. Partendo da tali presupposti, suggerisco che l’autentico misticismo sia caratterizzato dall’apertura e dalla sensibilità alla triplice dinamica della realtà. In tale prospettiva il mistico è colui che scopre l’unità di Uomo13, Cosmo e Divino. I mistici trovano Dio in tutte le cose e in tutte le persone e trovano tutte le cose e le persone in Dio (G°tå 6.30). L’apertura alla tri- plice dinamica della realtà implica una relazione fra il Cosmo come sim- bolo14, il Divino come Realtà simboleggiata e l’Uomo come Simbolizzatore 11 È interessante notare che mentre Arjuna parla di Dharma al plurale, K®@…a parla sistematicamente e esclusivamente di Dharma al singolare, con l’unica eccezione del verso 18.66! Ciò stesso basta a confutare la visione delle caste espressa da Arjuna. 12 Bhagavad-g°tå 2.48: samatvaμ yoga ucyate. 13 Solo in relazione a Dio e al Mondo utilizzerò, sulla scia di Panikkar, il termine Uomo per indicare tutti gli esseri umani, sottintendendo inoltre che non vi è Uomo senza Dio e Mondo. 14 Karl Rahner e Raimon Panikkar, pur partendo da impostazioni alquanto di- verse, giungono a conclusioni sorprendentemente simili nella loro interpretazione

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Jñāneśvara e Panikkar 35 che scopre il Divino nel Cosmo15. L’atteggiamento mistico: a) non reifica la dimensione cosmica; b) non riduce l’Uomo soltanto a un «essere uma- no» che costitutivamente resta irrelato con il Cosmico e il Divino; c) non crede neppure in un Dio che non abbia nulla a che fare con il Cosmo o con l’Uomo. La dinamica cosmoteandrica della realtà Nel coniare il termine «cosmoteandrico» Panikkar non si proponeva di fon- dare una nuova religione, bensì di mostrare la dinamica che è all’opera in ogni religione e in ogni esperienza religiosa autentica. Va sottolineato, inol- tre, che l’intuizione alla base di questo neologismo è quella di richiamare l’attenzione sul carattere a-duale della realtà. Dio, il Mondo e l’Uomo non sono tre realtà distinte ma concorrono a formare la realtà in modo a-dua- le. In questo rapporto a-duale fra Dio, Mondo e Uomo, Dio è collegato al Mondo e all’Uomo, così come il Mondo è collegato a Dio e all’Uomo e l’Uo- mo è collegato a Dio e al Mondo. Ciò non significa stabilire un’equivalen- za fra Dio, Mondo e Uomo. Ciascuno dei tre termini è unico e, per questa ragione, ciascuno di essi è collegato in modo peculiare agli altri due. Ricor- rendo a un’analogia possiamo dire che la relazione con il Mondo è centrifu- ga, la relazione con l’Uomo è centripeta e la relazione con il Divino è orbita- le. Le tre forze sono interrelate e interdipendenti. Non si può comprendere nessuna di esse senza le altre due. Un’altra metafora potrebbe essere quella dei due occhi che, insieme, creano la dimensione della profondità. Benché ciascuno dei tre sia interrelato, ognuno conserva anche la propria specificità e perfino la propria specifica dinamica. La dinamica della dimensione della profondità è totalmente diversa da quella delle dimensioni cosmica e uma- na. È importante sottolineare che questo triplice rapporto costituisce la re- del simbolo. La formulazione classica di Rahner va ricercata nella sua opera «The Theology of the Symbol», in Theological Investigations, vol. IV (London, Helicon Press; Baltimore, Darton, Longman & Todd, 1966). Benché Panikkar non abbia te- matizzato le proprie riflessioni in una sola opera, si veda fra l’altro il suo Myth, Faith & Hermeneutics. Cross-Cultural Studies (New York, Paulist Press, 1979 [ed. indiana Bangalore, Asian Trading Corporation, 1983]). 15 Cfr. Francis X. D’Sa, «Re-Searching the Divine. The World of Symbol and the Language of Metaphor», in Job Kozhamthadam (a cura di), Interrelations and Inter- pretation. Philosophical Reflections on Science, Religion and Hermeneutics in Honour of Richard De Smet, S.J. e Jean de Marneffe, S.J. (New Delhi, Intercultural Publica- tions, 1997), pp. 141-173.

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Francis X. D’Sa 36 altà in maniera a-dualistica, pluralistica. La realtà è formata da una rete di rapporti pluralistici e a-dualistici. Ne consegue che, prendere sul serio la realtà equivale a prendere sul se- rio la peculiarità di ciascuna dimensione della triplice dinamica. L’approc- cio al Mondo cambia rispetto all’approccio all’Uomo o a Dio, in quanto la specificità del Mondo è data dalla sua oggettivabilità, misurabilità e quan- tificabilità. L’Uomo, d’altra parte, è caratterizzato dalla capacità di oggetti- vare, misurare e quantificare. La caratteristica del Divino equivale a quella di un orizzonte: quanto più ci accostiamo al Divino, tanto più il Divino re- trocede ancor più sullo sfondo. Il Divino, tuttavia, è al tempo stesso la di- mensione della profondità, che conferisce un certo grado di infinità alle di- mensioni oggettivabile e oggettivante. Vale a dire che sia l’oggettivabile che l’oggettivante sono infiniti: non vi è limite all’oggettivabilità del Mondo e alla capacità di oggettivare dell’Uomo. In tal modo ciascuna delle tre di- mensioni ha una propria dinamica specifica. Il triplice yoga della G°tå e la realtà cosmoteandrica Ciascuna delle tre dimensioni dello yoga pone in rilievo due aspetti: il di- scernimento della sua dinamica specifica e una risposta olistica a essi. Karma-yoga: lo yoga del servizio cosmico e dell’azione olistica La cosmologia e l’antropologia della G°tå evidenziano nel modo più chia- ro che gli esseri non sono né entità isolate né ingranaggi di una macchina cosmica. Si parla di «esseri» solo da un punto di vista euristico e non on- tico. Dal punto di vista relazionale essi partecipano infatti alla perichore- sis cosmoteandrica. Il loro è un rapporto caratterizzato dall’«essere-in» e dall’«essere-con», senza che ciò sia ridotto primariamente a un significato locativo. È per questa ragione che non sono mai né totalmente indipenden- ti né completamente dipendenti. Il karma-yoga ci rende consapevoli del fatto che le azioni che compia- mo non sono nostre, ma che emergono da quel generatore cosmico che è chiamato prak®ti. L’energia non è nostra, bensì di prak®ti. Nostra è in- vece l’intenzione generata dal nostro illusorio ahamkåra. «Il Sé fuorviato dall’ahamkåra crede ‘Sono io Colui che agisce’» (G°tå 3.27). Sotto l’influsso dell’ahamkåra, perdiamo di vista l’azione della prak®ti e giungiamo a con- vincerci di essere noi i fautori, gli agenti delle azioni che chiamiamo «no-

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Jñāneśvara e Panikkar 37 stre». Ciò si verifica al livello dell’ahamkåra, che contribuisce a costruire un mondo illusorio composto da ingannevoli entità individuali. Tutto ciò, però, non corrisponde a come siamo e a chi siamo. Siamo (anche in questo caso, ricorrendo a un’analogia) come la luce del sole sul- la luna. La nostra identità – comunque la articoliamo – è irrevocabilmen- te vincolata al Supremo Mistero. Siamo l’åtman di tale mistero (G°tå 2.12- 30, in particolare 27). Per scoprire il nostro vero Sé, il karma-yoga presenta una visione del- la totalità che può ispirarci ad agire in modo olistico. Scopo fondamentale di questo tipo di yoga è l’azione distaccata, altruistica, che non mira ai frut- ti dell’azione stessa. Il processo su cui si basa è il discernimento: separare la pula dell’egoismo dal frumento dell’altruismo. La finalità è sempre il bene generale16, mai il proprio interesse personale. Ci si può integrare nel proces- so cosmico soltanto grazie all’altruismo del cuore: per indicare questo atteg- giamento la G°tå ricorre a una molteplicità di espressioni, come asakta, sthi- taprajña, saænyåsi karmaphalatyågi, ecc.17, e totalità della visione18. Il primo dei due termini è ripetutamente citato come conditio sine qua non, mentre il secondo viene indicato come meta da raggiungere. Secondo l’interpretazio- ne della tradizione indiana moderna, attraverso il karma-yoga la G°tå inse- gna la rinuncia «nell’azione» e non la rinuncia «all’azione». L’esempio più sottile si evidenzia nel verso 8.7: «Perciò in ogni tempo ricordati di Me e combatti. Quando la tua mente e il tuo intelletto saranno concentrati su di Me, a Me soltanto verrai, senza dubbio». L’importante è rilevare che il karma-yoga c’insegna il distacco, l’atteg- giamento con il quale dobbiamo porci in relazione con il mondo. Il distac- co è il presupposto per il discernimento. La giusta risposta al richiamo che il mondo esercita su di noi è coltivare la non possessività. Ogni atto di pos- sessività ignora la dinamica della dimensione cosmica. Per contro, ogni atto altruistico cor-risponde alla dinamica della dimensione cosmica. Tali atti sono integrativi, nel senso che contribuiscono a decostruire la nostra pseu- doidentità (il nostro io illusorio) e ci aprono alla nostra reale identità, che è il Sé di quel Mistero nel quale viviamo, ci muoviamo e in cui risiede il no- stro essere19. 16 Nelle parole della G°tå sarvabh¥tahite ratåÚ 5.25; 12.4. 17 Queste espressioni e altre analoghe ricorrono in tutto il testo della G°tå, special- mente nel secondo capitolo e, in particolare nei versi 38, 47, 48, 50, 51, 53, 55-58. 18 La G°tå parla di lokasangraha (3.20,25). 19 G°tå 4.35; 6.30-31; 7.5-12; 9.5-6.

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Francis X. D’Sa 38 Bhakti-yoga: lo yoga della comunione e della partecipazione amorevole Nel prendere in esame il secondo aspetto dello yoga, ossia quello del bhakti- yoga, occorre tenere presente che bhakta e bhakti derivano dalla radice bhaj, che significa «dividere», «fare le parti» per poi estendersi a significati de- rivati come «diventare parte di, partecipare, amare, essere in comunione», ecc.20. L’immagine della parte (bhakta) e del tutto (sarva) assume nella G°tå un tono personalistico, anche se si tratta di un personalismo diverso rispet- to a quello della tradizione cristiana21. L’Intero personalistico (sarva) attirà a Sé la Parte (bhakta) e sempre l’attirerà. La Parte deve divenire consape- vole del proprio senso di appartenenza, scoprendo il proprio innato desi- derio del Tutto. Vi sono due aspetti in questo movimento. L’Intero attira le Parti a Sé e le Parti sono attratte verso l’Intero. Questo essere attratti verso l’Intero si esprime nel desiderio dell’Intero. Le Parti devono raggiungere uno stadio della loro evoluzione spirituale in cui divengono consapevoli di tale deside- rio. Per questo la pratica del bhakti-yoga è una presupposizione. Quando la mente si sarà stabilizzata e i desideri si saranno estinti, si percepirà il Signo- re in tutte le cose e tutte le cose nel Signore (6.26-31). È evidente che l’attenzione si concentra qui sulla dimensione umana, sulla dimensione della coscienza umana. Vengono esperite le dinamiche della dimensione umana quando la coscienza è posta in condizione di vede- re attraverso le cose fino al loro nucleo originario, nel momento in cui il Si- gnore Benedetto rivela ad Arjuna: Sono il sapore delle acque viventi e la luce nel sole e nella luna. Sono l’OM, la sacra sillaba dei Veda, il suono nel silenzio, l’eroismo negli uomini. Sono la pura fragranza che viene dalla terra e il fulgore nel fuoco. Sono la vita in tutti gli esseri viventi e l’austerità in coloro che esercitano le loro anime. Sono il seme perenne della vita eterna. Sono l’intelligenza nell’intelligente. Sono la bellezza nei belli. Nei forti sono la potenza quando è scevra di passione e di desideri 20 Cfr. R.C. Zaehner, The Bhagavad-g°tå. Con un commento basato sulle fonti ori- ginali (London ecc., Oxford University Press, 1969), p. 181. Si è fatto riferimento alla traduzione [dal sanscrito in inglese, ndt] di Zaehner, salvo quando segnalato diversamente. 21 Cfr. il mio «Zur Eigenart des Bhagavad-g°tå -Theismus», in W. Strolz e S. Ueda (a cura di), Offenbarung als Heilserfahrung im Christentum, Hinduismus und Buddhismus, Schriften zur grossen Ökumene Bd. 8 (Freiburg usw., Herder, 1980), pp. 97-126.

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Jñāneśvara e Panikkar 39 egoistici. Sono il desiderio quando esso è puro, quando non è in conflitto con la rettitudine (7.8-11). Il bhakti-yoga è la via in cui si vede il Divino ovunque e in ciascuno, e in cui ci si pone in relazione con Esso con tutto il proprio essere e con tutto il pro- prio amore22. Sono l’Unica fonte di tutto: tutta l’evoluzione procede da me. Così pen- sano i saggi ed essi mi venerano nell’adorazione dell’amore. I loro pensie- ri dimorano in me, la loro vita è a me dedicata ed essi si illuminano a vicen- da. Sempre essi parlano della mia gloria e trovano pace e gioia. A coloro che sono sempre in armonia e che mi venerano con il loro amore, dono lo yoga della visione con il quale essi vengono a me. Nella mia compassione, dimo- ro nei loro cuori e dissipo le tenebre dell’ignoranza con la luce della lampa- da della saggezza (10.8-11). La rivelazione prosegue nei capitoli 9 e 10 mettendo in luce aspetti di- versi. Al termine vengono date le seguenti indicazioni: Sappi, Arjuna, che sono il seme di tutte le cose che sono; e che non vi è alcun essere che si possa muovere o non muovere che possa esistere senza di me. Non esiste limite alla mia grandezza divina, Arjuna. Ciò che ti ho qui rivelato è solo una piccola parte della mia Infinità. Sappi che tutto ciò che è bello e buono, glo- rioso e potente è soltanto un frammento del mio fulgore. Tuttavia, a che ti serve la conoscenza di questa diversità? Sappi che con una sola parte del mio Essere pervado e sostengo l’Universo e sappi che IO SONO (10.39-42). L’essenza del bhakti-yoga risiede pertanto nella presa di coscienza che ogni cosa è parte del Divino Mistero e da esso trae la propria origine. Colui che vede Me dappertutto e che vede Tutto in Me, per lui Io non sono perduto, né egli è perduto per Me (6.30). Il risultato è il seguente: Divenuto Brahman, interiormente sereno, egli più non si rattrista, né più deside- ra; equanime verso tutte le creature, egli raggiunge il supremo amore-e-fedeltà per me (madbhaktiò labhate paråm) (18. 54). 22 G°tå 15.18-19: «Poiché trascendo il perituro e vengo esaltato più dell’Indistrut- tibile stesso, sono proclamato nella lingua dei Veda e in quella comune con il nome ‘Sublime [Universale-] Dio-persona’. Colui che, senza confusione alcuna, conosce Me come ‘Sublime [Universale-] Dio-persona’, quegli conosce il sarva e [conoscen- do il sarva] è in comunione con Me con tutto il suo essere, con tutto il suo amore». Dalla traduzione in inglese di R.C. Zaehner.

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Francis X. D’Sa 40 Il bhakti-yoga raggiunge così il suo culmine: E ora ascolta di nuovo la mia Parola suprema, di tutte la più segreta: tu mi sei sommamente caro e quindi ti dirò la tua salvezza. Concentra la tua mente in Me, amami e venerami, rendimi sacrificio, prostrati dinnanzi a Me: così verrai a Me, te lo prometto, veracemente, perché tu Mi sei caro (18.64-65). Jñåna-yoga: lo yoga del discernimento e dell’intuizione Jñåna-yoga, il terzo aspetto dello yoga, è importante in quanto la luce del di- scernimento illumina l’oscurità che ha origine dalle nostre attrazioni e re- pulsioni. Tradizionalmente lo jñåna-yoga, il terzo aspetto dello yoga, è un processo di discernimento che consente di percepire l’immutabile nel mu- tevole, il reale nell’illusorio e l’essere nel divenire. Il lume del discernimen- to è indispensabile per la pratica tanto del karma-yoga che del bhakti-yoga. Nel karma-yoga esso ci rende consapevole dell’azione delle nostre attrazio- ni e repulsioni (råga-dve@a) e conduce a uno stato di distacco e «indifferen- za». Nel bhakti-yoga la luce del discernimento rivela la presenza e l’opera del Mistero Divino che guida verso l’amore e la devozione (4.9-11; 7.17-18; 15.19). Mentre nella pratica del karma-yoga la luce del discernimento ci in- dica se la nostra azione è altruistica o egoistica, nella pratica del bhakti-yo- ga è la luce della consapevolezza ad assicurare che la nostra bhakti sia au- tentica. Nello jñåna-yoga della G°tå vi sono due stadi (2.39): quello della rifles- sione (samkhya-yoga 2.31-38) e quello della consapevolezza (buddhi-yo- ga 5.6-12; 5.21; 11.55; 12.8). Nel primo stadio si entra in contatto con le convinzioni che svolgono un ruolo importante nella propria vita. Il termi- ne «importante» è riferito alle risonanze che tali convinzioni evocano nelle profondità del proprio essere. Nel secondo stadio s’intensifica attivamen- te la propria consapevolezza e si diviene, quindi, coscienti degli effetti delle proprie convinzioni. La consapevolezza modifica il modo in cui percepia- mo la realtà (2.55-58). L’uomo che nel suo impegno trova il silenzio e che vede che il silenzio è impegno, quest’uomo in verità vede la Luce e in tutto il suo lavoro trova pace. Colui le cui imprese sono affrancate dal desiderio ansioso e dal pen- siero illusorio, il cui lavoro è purificato nel fuoco della saggezza è chiamato saggio da coloro che vedono. Qualsiasi lavoro egli compia, in verità ha pace: egli non si aspetta nulla, non fa affidamento su nulla e ha sempre la pienezza della gioia. Non nutre vane speranze, è padrone della propria anima, cede tutto ciò che ha, soltanto il suo corpo lavora: egli è libero dal peccato.

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Jñāneśvara e Panikkar 41 Egli è lieto di tutto ciò che Dio gli dona e si è elevato oltre i due oppo- sti indicati di seguito; egli è privo di gelosia e, nel successo o nell’insucces- so, resta sempre lo stesso: le sue opere non lo vincolano. Egli ha raggiunto la liberazione: è libero da tutti i legami. La sua mente ha trovato pace nella saggezza e il suo lavoro è un santo sacrificio. L’opera di un tale uomo è pura. Colui che in tutto il suo lavoro vede Dio, in verità va verso Dio: Dio è il suo culto, Dio è la sua offerta, offerta da Dio nel fuo- co di Dio. (3.18-24)23. L’importanza dello jñåna-yoga non va sottovalutata. Un vero yogi è gui- dato sempre e in ogni luogo dalla luce del discernimento. Nell’ambito di cui ci stiamo occupando ciò significa che lo jñåna-yoga assicura che sia il karma-yoga che il bhakti-yoga non siano mai ridotti a mere tecniche, ma che siano sempre in sintonia con la dinamica dei rispettivi percorsi. La via dell’impegno deve essere priva di attaccamento e finalizzata al bene comu- ne, mentre la via dell’amore comporta la consapevolezza che il nostro amo- re non è un’iniziativa [autonoma] bensì una risposta alla chiamata dell’amo- re dell’Assoluto (parå bhakti). Prima di concludere questa parte della relazione, un accenno alla dina- mica delle tre forme di yoga nella G°tå aiuterà a integrare fra loro i diversi elementi di questi tre tipi di yoga. Le parole chiave sono: azione, amore e discernimento. L’azione è la no- stra risposta alla dinamica del Cosmos, l’amore è la nostra risposta alla di- namica del mondo della persona e il discernimento è la nostra risposta al ri- chiamo che esercita su di noi la sfera del non-manipolabile. La G°tå ci dice che per essere in grado di: a) rispettare la dinamica del cosmo dobbiamo essere privi di attaccamento, abbandonando ogni forma di possessività e non perdendo mai di vista il bene comune; b) per rispettare la dinamica del mondo della persona non dobbiamo mai ridurre le persone a oggetti; pos- siamo riuscirci sviluppando rapporti «Io-Tu-Noi»; c) per rispettare la dina- mica del discernimento occorre essere aperti e prestare ascolto24 al richia- mo della dimensione non manipolabile25. 23 Juan Mascaro, The Bhagavad-g°tå. Tradotto dal sanscrito con una Introduzione (Penguin, 1962). 24 Cfr. «Ascoltami: taci e io ti insegnerò la sapienza» (Gb 33,33). 25 È utile ricordare che per Panikkar la fede è apertura esistenziale. Cfr. R. Panik- kar, «Faith as as a Constitutive Human Dimension», in Myth, Faith and Herme- neutics. Cross-cultural Studies, cit., pp. 208-209: «Riconoscere l’apertura dell’Uomo significa ammettere che egli non è Dio, ossia che non è (ancora?) finito, assoluto, definitivo. Significa ammettere che vi è qualcosa in lui che deve evolvere; si afferma così anche la capacità di tale evoluzione. L’apertura della fede è la capacità dell’Uo-

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Francis X. D’Sa 42 La liberazione suprema e definitiva, o mok@a, si raggiunge tenendo nel- la dovuta considerazione le dimensioni e la dinamica della realtà. Bandha- na, ossia la schiavitù nel saμsåra, significa invece fare l’opposto. Diventan- do consapevoli della nostra triplice schiavitù pratichiamo il triplice yoga che, gradualmente, ci apre alle dimensioni cosmica, umana e divina. Que- sta è la spiritualità cosmoteandrica. La pratica della spiritualità cosmotean- drica conduce al misticismo. Nel nostro contesto il termine «misticismo» è riferito all’esperire attivamente la triplice dinamica della realtà e all’agi- re spontaneamente in sintonia con essa. La G°tå (18.54-56)26 fornisce la se- guente sintesi: Divenuto Brahman, interiormente sereno, egli più non si rattrista, né più desidera; equanime verso tutti gli esseri contingenti, egli raggiunge il supremo amore-e-fedeltà per me (madbhaktiò labhate paråm). Grazie al su- premo amore-e-fedeltà, egli può conoscermi quale realmente sono: quanto sono grande e chi sono; conoscendomi quale Io sono quegli entra [in Me] immediatamente. Che egli continui pure a svolgere tutti i propri compiti, allora, confidando in me; con la mia grazia egli perverrà a uno stato eter- no, immutabile27. Allo stesso modo 18.64-66: E ora ascolta di nuovo la mia Parola suprema, di tutte la più segreta; «tu mi sei sommamente caro». Quindi ti dirò la tua salvezza. Concentra la tua mente in Me, amami e venerami, rendimi sacrificio, prostrati dinnanzi a Me: così verrai a Me, te lo prometto, veracemente, perché tu Mi sei caro. Abbandonando ogni altro dharma, rivolgiti a Me, tuo unico rifugio [perché] io ti libererò da ogni peccato; non affliggerti28. Il triplice yoga della G°tå corrisponde alla triplice dinamica della realtà. In entrambe le citazioni (e ve ne sono molte altre analoghe) risulta evidente mo di progredire verso la propria pienezza. Tale apertura non è, a livello primordia- le, una capacità dell’intelligenza, in quanto facoltà dell’infinito, bensì un’apertura che chiamiamo esistenziale, per indicare che non appartiene principalmente alla sfera dell’intelletto o a quella della volontà, ma a un livello precedente, dato nell’esi- stenza stessa dell’Uomo. Soltanto il nudo ordine esistenziale, che precede intelletto e volontà, assicura l’auspicata universalità». 26 Kees W. Bolle, The Bhagavad-g°tå. A New Translation (Berkeley, University of California Press, 1979). 27 R.C. Zaehner, The Bhagavad-g°tå. With a Commentary based on the Original Sources (Oxford, Oxford University Press, 1969). 28 Ibidem. Ho modificato l’ultima frase di Zaehner, sostituendo «have no care» [non affannarti] con «do not grieve» [non affliggerti] in quanto il punto di partenza della G°tå è la sofferenza di Arjuna! Må suca¥ si riferisce alla shoka di Arjuna.

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Jñāneśvara e Panikkar 43 che la G°tå tiene nella dovuta considerazione la dinamica della realtà, ovvia- mente nella propria maniera specifica. Lo Jñåne©var° e la triplice dinamica della realtà Oltre mille anni dopo, all’epoca di Jñåne©vara, la situazione era radical- mente cambiata. Le tradizioni hind¥ avevano ormai interiorizzato la men- talità castale. Comprensibilmente, la nozione letterale di casta non poneva più alcun dilemma, in quanto era entrata a far parte del sistema. Basti ci- tare un esempio: Jñåne©vara, commentando un celebre passo relativo alla reinterpretazione della nozione di casta nella G°tå (18.40-48) in cui ricorre l’espressione svabhåvajam karma per ciascuno dei quattro varna, non dedi- ca grande attenzione a questo punto di riferimento specifico. Ancora più si- gnificativo è il fatto che Jñåne©vara si richiami ripetutamente ai Âåstra come fonte che rivela ciò in cui consistono i doveri di ciascuna casta (18.846, 847, 884, 885, 887, 889). Il sistema castale interiorizzato è divenuto ormai l’oriz- zonte di intelligibilità. Il problema, a questo punto, è esattamente l’oppo- sto: come rimanere equanimi nella pratica del sistema castale. Ciò non do- vrebbe sorprendere. Persino Gandhi riteneva che il sistema delle caste fosse una sorta di divisione del lavoro29. 29 Gandhi era contrario all’intoccabilità, considerandola motivo di disonore per l’induismo, ma vale la pena di leggere le sue opinioni sui quattro varna riportate in R.K. Prabhu e U.R. Rao (a cura di), The Mind of Mahatma Gandhi (Ahmedabad, Navajivan, 1960), 27.06.2008. Si vedano le tre citazioni relative alla Maledizione dell’intoccabilità: 1) È un errore distruggere la casta a causa dei fuoricasta, come sarebbe un er- rore distruggere un intero corpo a causa di un’imperfezione o un intero raccolto a causa delle erbacce. La condizione dei fuoricasta, così come viene concepita, deve pertanto essere estirpata completamente. Si tratta di un eccesso da rimuovere, se non si vuole che vada a scapito dell’intero sistema. L’intoccabilità non è la conse- guenza del sistema delle caste, ma della distinzione fra «alto» e «basso» che si è insi- nuata nell’induismo, corrodendolo. L’attacco all’intoccabilità è pertanto un attacco a tale nozione di «alto-e-basso». Nel momento in cui verrà meno l’intoccabilità, il sistema stesso delle caste sarà purificato, ossia, secondo il mio sogno, si tradurrà in autentico Varnadharma, la divisione della società in quattro settori, ciascuno dei quali complementare agli altri, nessuno dei quali inferiore o superiore rispetto agli altri, ognuno ugualmente necessario per il corpo dell’induismo nel suo insieme (Ha- rijan, 11.2.1933, 3). 2) Credo comunque nel varna, che è basato sulle occupazioni ereditarie. I varna sono quattro per indicare le quattro occupazioni universali: impartire la conoscenza, difendere gli indifesi, esercitare l’agricoltura e il commercio, prestare servizio attra-

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Francis X. D’Sa 44 Resta ora da dimostrare come anche lo Jñåne©var° rimanga fedele alla di- namica della realtà. Il triplice yoga, così come è stato esposto e commenta- to da Jñåne©vara, conferma tale conclusione, sebbene vi siano, chiaramente, alcune differenze. Jñåne©vara, infatti, non si limita a sottoscrivere pedisse- quamente le posizioni della G°tå. Sarebbe difficile affermare che la G°tå sia così «advaitica» come è stata presentata da Jñåne©vara nel suo commenta- rio30, sebbene egli confessi che Âa|kara è il suo grande Guru (18.1737) e citi ripetutamente l’Advaita. Karma-yoga Jñånadeva segue fedelmente l’insegnamento della G°tå ma con una palese differenza: lo Jñåne©var° la arricchisce e l’adorna di innumerevoli metafore. Lo Jñåne©var° è un vero e proprio «oceano di metafore» (d®@†ånta-sågara). Jñånadeva richiama sempre l’attenzione sugli aspetti importanti avvalendo- si delle metafore. È il veicolo della metafora che conduce alla dimensione della profondità. Il capolavoro di Jñånadeva trae dalla G°tå un presupposto importan- te, che dobbiamo cogliere per poter comprendere tale argomentazio- ne. Questa verità emerge in tutti e tre i primi capitoli del suo commen- verso l’attività fisica. Tali occupazioni sono comuni a tutta l’umanità ma l’induismo, avendo riconosciuto in esse la legge del nostro essere, ne ha fatto uso per regola- mentare la condotta e le relazioni sociali. La legge di gravitazione si esercita su tutti noi, che ne conosciamo l’esistenza o meno. Gli scienziati, tuttavia, che conoscevano tale legge, ne hanno tratto risultati che hanno suscitato la meraviglia del mondo. Allo stesso modo l’induismo ha sorpreso il mondo con la sua scoperta e applica- zione della legge dei varna. Quando gli hind¥ furono vinti dall’inerzia, l’abuso dei varna diede luogo al moltiplicarsi di innumerevoli caste, con restrizioni superflue e dannose riguardo al matrimonio o al consumo dei pasti fra persone di caste diverse. Tali restrizioni possono risultare necessarie ai fini della castità e dell’igiene, ma un brahmano che sposa una ragazza shudra o viceversa non commette alcuna violazione della legge dei varna (Young India, 4.6.1931, 129). 3) Ritengo che solo le quattro divisioni siano fondamentali, naturali ed es- senziali. Le innumerevoli sottocaste possono risultare talvolta utili, ma più spesso sono d’intralcio. Quanto prima si fonderanno fra loro tanto meglio (Young India, 8.12.1920, 3). Sono consapevole che tutto ciò solleva un problema fondamentale: il problema della verità, in particolare in caso di affermazioni contrastanti. Non vi è alcuna cultura o religione che possa risolvere questo problema da sola. È in questi casi che il dialogo fra le religioni e le culture assume particolare rilievo e risulta inevitabile. 30 Jñånadeva riconosce che Âa|kara è il suo grande Guru (18.1737) e cita ripetu- tamente l’advaita.

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Jñāneśvara e Panikkar 45 tario. Qualsiasi azione, con un’unica eccezione, rientra nell’ambito della schiavitù. Qualsiasi azione deriva da råga-dve@a, le due forze di attrazio- ne e repulsione che si fondano nella prak®ti (la sfera del cambiamento e del divenire). Fa eccezione l’azione altruistica o, secondo la formulazio- ne della G°tå, l’azione che viene compiuta come forma di sacrificio [co- smico] (yajnartha-) e che ha origine da una persona disinteressata. La prak®ti non è una entità indipendente: fa parte del Puru@a, lo Spiri- to (sfera dell’essere). L’azione che nasce dal desiderio deriva dalla prak®ti e la persona viene indotta erroneamente da ahamkåra a credere di essere l’agente di tale azione. Il problema è ahamkåra, la fonte di tutte le idee erra- te. Ovunque vi siano dolore e afflizione, piacere e sofferenza, ovunque re- gni la dualità, si è nel mondo di ahamkåra. Si tratta di un mondo plasma- to dalle nostre attrazioni e repulsioni, immemore del mondo unitario di Puru@a, lo Spirito. Fanno eccezione le persone che non sono mosse da desideri egoistici. Esse sono passate sull’altra riva (2.227) e sono guidate dallo Spirito. La loro mente (manas) e il loro intelletto superiore (buddhi) sono uniti. La mente, insieme ai sensi che alimentano i desideri, è la fonte di tutti i problemi. La prak®ti con i suoi tre guna è formata da tre movimenti: ascendente (såttvico), laterale (råjasico) e discendente (tåmasico). Sono tre movimenti naturali, ma se li seguiamo siamo perduti. Dobbiamo essere guidati dai valori di Puru@a, non dai movimenti di prak®ti. La mente e i sensi partecipano ai movimenti della prak®ti. Se cadiamo in balia di essi diveniamo ciechi allo Spirito e ai suoi valori e alimentiamo un falso senso d’identità, l’ahamkåra. La mente deve es- sere purificata e liberata: solo allora i sensi potranno essere dominati. «Quando un uomo esperisce lo stato d’unione con il Supremo, egli è fa- cilmente in grado di controllare anche questi desideri. Quando un uomo realizza che egli e il Supremo sono una sola cosa, cessa la consapevolezza delle sensazioni del corpo e gli oggetti dei sensi [vengono] dimenticati dai sensi» (2.308-9). Jñånadeva ha un’altra metafora interessante: «[Il saggio equanime] è ovunque e sempre lo stesso; come la luna nel gettare la propria luce non dice «questo è buono o questo è cattivo», così la sua intatta equanimità (anavac- chinna samatå), la sua compassione verso tutte le creature (bhutamåtriμ sa- dayatå), e la sua mente (cittå) non sono in alcun momento soggette al cam- biamento» (2.297-8). È in un tale contesto che le metafore di Jñånadeva iniziano ad assume- re significato. «O Pårtha, colui che è del tutto distaccato nel compiere le azioni non può essere turbato dai vincoli dell’azione; allo stesso modo, se si è rivestiti

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Francis X. D’Sa 46 di un’armatura di ferma determinazione è possibile resistere all’attacco di qualsiasi arma e a rimanere incolumi e vittoriosi»31 (2.231-2). Ancora: Porta a termine l’azione prescritta, ma non desiderarne i frutti. Come un esor- cista non può ricevere alcun danno da uno spirito maligno, quando un uomo ha raggiunto la piena illuminazione non può essere vincolato dalle limitazioni della materia. Quella saggezza che è sottile e costante, in cui non hanno posto merito-e-demerito (pu…yapå) e che non può essere contaminata dal contatto dei tre costituenti: O Arjuna, se il tuo cuore, grazie al merito, fosse illuminato anche solo in parte da tale saggezza ogni timore della vita in questo mondo sarebbe eliminato! (2.234-236)32. La rinuncia non equivale all’inazione: implica tuttavia che la motivazione sia pura. «Gioisci anche se non sei nella felicità, non abbatterti nella sofferenza, non tenere conto del guadagno o della perdita. Pensare se si otterrà la vitto- ria oppure si perderà la vita: non si dovrebbero coltivare tali pensieri riguar- do al futuro; si dovrebbe adempiere al proprio dovere33, comunque vadano le cose, e perseverare in esso con mente ferma»34 (2.226-228). Con la mente distaccata dal frutto dell’azione, [si] è liberati dal deside- rio del piacere e si riposa nella gioia dello Spirito (2.293) – «sappi che un tale uomo ha una mente stabile». Con una tale mente, si compie ciò che si è tenuti a compiere. «O Arjuna, la mente equanime è l’essenza dello yoga; in essa Manas e Buddhi sono uniti» (2.273). «Se attrazione e repulsione si estinguono, non può derivare alcun danno quando i sensi sono rivolti agli oggetti dei sensi. Così come il sole nel cielo non è contaminato dalla terra che esso tocca con i propri raggi, si è indiffe- renti ai piaceri dei sensi, liberi dal desiderio e dall’ira e colmi della beatitu- dine dello Spirito (åtmaraseñ ci nirbhinna)» (2.332ab-34ab). «Quando il cuore è sempre in pace, le miserie del saæsåra non possono penetrarvi» (2.338). «Puoi sapere che è equilibrato nell’intelletto, colui che si delizia della beatitudine del Sé e si nutre della gioia suprema. Superan- do ogni egoismo, abbandonando ogni desiderio, quegli si muove attraverso l’universo perché è diventato egli stesso quell’universo» (2.365-7). 31 V.G. Pradhån, Jnåne©var°. 32 Ibidem. 33 Anche in 2.234, 264, 265. 34 V.G. Pradhån, Jnåne©var°.

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Jñāneśvara e Panikkar 47 Attenendosi al principio vedico secondo il quale Yajña è l’interconnes- sione e l’interdipendenza di tutti gli esseri, qualunque cosa vada contro tale principio costituisce un aggravio per la realtà. «Sappi che è un ricettacolo del peccato (to påtakåñci rå©i) e un peso per la terra (jå…a bhåra bh¥m°s°) co- lui che, commettendo il male, serve unicamente i propri sensi (je kukarme indriyåμs° upegå gelå) (3.140). «Quando, in tal modo, l’azione è compiuta per il bene del mondo, essa non può avere alcun potere vincolante» (3.173). «Fa che la tua fama aumenti in tutto il mondo, innalzi la dignità del compiere il proprio dovere (svadharmåcå månu vådhav°μ), e sollevi la terra dal suo peso (iyå bhåråpåsoni sodavμ medin° he)» (3.187). In sintesi, nel karma-yoga e mediante esso, da un lato viene rispettata la dinamica della dimensione materiale e cosmica, ma, dall’altro, non è con- sentito esercitare il proprio dominio. Pertanto: Il cibo con il quale viene celebrato il sacrificio e che è gradito al Supremo non è cibo comune. Non considerarlo cibo ordinario, bensì come una forma di Brah- ma, in quanto è il mezzo della vita per l’intera creazione35 (3.132-133). Quando si cede alle contrastanti sollecitazioni dei sensi, tuttavia, tali dina- miche non vengono rispettate. «Pertanto, in primo luogo un uomo saggio non dovrebbe assecondare i sensi per amore del piacere. È forse saggio trastullarsi con un serpente? Op- pure, è consigliabile avere a che fare con una tigre? Se si ingoiasse un veleno virulento, potrebbe essere digerito? Anche qualora il fuoco venga appiccato per gioco, si levano le fiamme ed esso non può essere controllato; allo stesso modo, non è bene stimolare l’attività dei sensi» (3.198-200). Bhakti-yoga Ogni singolo essere è parte di (bhakta) ed è partecipe (bhakti) del Si- gnore Benedetto che è il Mistero Onnicomprensivo (sarvå, sarvåtmakå, sarvar¥på)36. Si deve diventare consapevoli del fatto che ogni cosa dimora in questo Mistero: da tale convinzione sorge la venerazione. La venerazione e la devozione sono le caratteristiche distintive della bhakti. 35 3.133: heμ na mha…åveμ sådhåra…a/ anna brahmar¥pa jå…a/ heμ j°vanahetu kårå…a/ vi©vå yayå//. 36 11.532-536.

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Francis X. D’Sa 48 Non vi è alcun dubbio che Io esista in tutte le forme e che ogni cosa dimori in Me (6.390). O Arjuna, [per] Chiunque attraverso la realizzazione consapevole dell’unità Mi veneri come l’uno esistente in tutti gli esseri, e [per] chi sappia che, nonostante la molteplicità degli esseri, non vi è dualità nei loro cuori e che la Mia essenza pervade ogni cosa ovunque, è superfluo dire che egli e Io siamo uno. Non par- lare dunque, O Arjuna, perché, invero, Io sono quegli. Come una lampada e la sua luce sono una sola cosa, così egli è in Me e Io in lui. Come l’umidità è essen- zialmente tutt’uno con l’acqua, così l’uomo ha un corpo perché è permeato dalla Mia forma. Così come il filo intessuto nella trama è tutt’uno con la stoffa, allo stesso modo, o Kiriti, egli vede Me ovunque, l’uno e il medesimo (6.392-397). Non vi è alcun dubbio che Io esista in tutte le forme e che ogni cosa esista in Me (6.391). Così, qualsiasi cosa nasca, esista e scompaia, essa si fonda totalmente in Me. L’universo è retto da Me, come le perle sono infilate in una collana! (7.31) Come i raggi del sole seguono l’orbe quando esso giunge al limite della monta- gna occidentale, così è [la devozione] di coloro che, con i sensi assorbiti in Me, Mi servono, inconsapevoli del giorno o della notte. Il loro amore abbonda come le acque del Gange sembrano accrescersi anche dopo essersi riversate nell’ocea- no. Come le acque di un fiume si innalzano nella stagione delle piogge, O Figlio di Pandu, la loro devozione sembra aumentare vieppiù. Tali devoti, che si dedi- cano interamente a Me [sono] i più perfetti nello yoga (12.35-39). Coloro che servono soltanto Me e, venerandomi e contemplandomi costante- mente, sono così divenuti la mia dimora, coloro che mettendo da parte qualsiasi piacere e godimento in quanto privi d’importanza, persino la speranza della liberazione, sono sempre in comunione con Me nell’amore (12.80-81). Il bhakti-yoga conduce alla consapevolezza che ogni cosa è permeata dalla presenza e dalla potenza del Signore Benedetto. Sono il desiderio in tutte le creature, disse K®@…a, il desiderio mediante il quale la religione diviene la più alta aspirazione (7.45). Queste varie forme di nutrimento, pur variando a seconda della natura di cia- scuna creatura, sono tutte permeate dalla Mia vita indivisa (7.38). O Arjuna, la devozione verso di Me è così misteriosa (gahana) che ora descriverò degli altri modi in cui viene praticata. Così come non vi è che un solo filo che scorre attraverso un indumento tessuto, da un capo all’altro, allo stesso modo essi non riconoscono che Me nell’intero universo. Da Brahma, in principio, fino a un insetto, alla fine, essi considerano ogni cosa nell’universo come manifesta- zione di Me stesso. Essi non vedono alcuna differenza fra il grande e il piccolo, l’animato e l’inanimato, li riuniscono tutti sapendo che essi sono Me. Ignari della propria grandezza, non distinguono fra il degno e l’indegno, li classificano tutti insieme, s’inchinano volentieri dinanzi a tutti. Come l’acqua sgorgando da un’altura fluisce senza sforzo verso il basso, allo steso modo è connaturato in

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Jñāneśvara e Panikkar 49 loro portare rispetto per ogni creatura che vedono. Come i rami degli alberi cari- chi di frutti si piegano verso la terra, essi si prostrano dinanzi a tutte le creature. Sono privi di presunzione; l’umiltà è la loro ricchezza, che essi offrono a Me con parole d’omaggio. Essendo sempre umili, dunque, l’onore e il disonore non esistono ai loro occhi ed essi facilmente entrano in comunione con Me; sempre assorbiti in Me, essi Mi venerano37 (9.218-226). La finalità ultima della bhakti è l’unione con il Signore Benedetto. Coloro che seguono il cammino della devozione a Me, con corpo mente e anima giungono a Me al termine della vita (7.146). Nell’albeggiare della saggezza egli Mi riconosce come proprio Sé. Anch’io, gio- iosamente, lo considero come Me Stesso. Avendo raggiunto lo stato che è al di là del sé individuale, vi è forse uno che compie le azioni nel mondo diverso da Me, a causa della separatezza del corpo? (7.114-115). Allo stesso modo, colui in cui l’Autorealizzazione fluisce come un fiume dal profondo del cuore e chi si unisce a me, diviene invero Me stesso. Il saggio, nondimeno, è l’anima della Mia anima (7.122-123ab). In breve, non vi è nessuno all’infuori di Me, ovunque, come la brocca immersa nell’acqua profonda ha l’acqua sia dentro che fuori. Allo stesso modo egli è in Me e io sono dentro e fuori di lui (7.130-132ab). In questo modo egli vede la fonte inesauribile della saggezza e, a causa di ciò, egli vive sapendo che egli e l’universo sono una cosa sola (7.132). Pertanto, qualunque sia l’azione che compi, affidati a Me dal profondo del cuo- 37 «D’altra parte, [vi sono] coloro che hanno visto soltanto Me con i loro occhi, udito soltanto Me con le loro orecchie, che non hanno altro pensiero all’infuori di Me, che Mi lodano con le loro voci; coloro che si prostrano ovunque [dinanzi a Me] con i loro corpi, che offrono anche elemosine ed eseguono altre pratiche per amor Mio; coloro che hanno studiato [la Mia saggezza], che sono appagati interiormente ed esteriormente da Me e che sono venuti al mondo unicamente per amor Mio; coloro che orgogliosamente proclamano di esistere per la gloria di Hari, e coloro la cui unica brama è brama di Me; coloro che sono pieni di passione desiderando Me, pieni d’amore amando Me, affascinati dalla loro attrazione per Me, dimenticano il mondo; coloro che non conoscono altri libri sacri all’infuori di Me e che recita- no inni al solo scopo di raggiungere Me, che quindi venerano Me in ogni attività. Queste persone certamente si sono unite a me ancor prima della morte e dunque, al momento della morte, come potrebbero passare a un altro stato? Pertanto, coloro che sono divenuti devoti a Me e hanno offerto se stessi a Me raggiungono l’unione con Me. O Arjuna, nessuno può essere gradito a Me se non dona se stesso a Me; non posso essere raggiunto da nessuna [altra] offerta. Colui che decanta la conoscenza [di Me] non Mi conosce; colui che si vanta della propria auto-realizzazione è imper- fetto, colui che dichiara di aver raggiunto la propria meta non ha raggiunto nulla. O Kiriti, sacrifici, elemosina, privazioni e ogni altro sforzo di cui è orgoglioso l’uomo a nulla valgono: sono altrettanto insignificanti d’un filo d’erba» (9.355-365).

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Francis X. D’Sa 50 re e non badare se essa sia grande o piccola. Fissando dunque il tuo cuore su di Me nella rinuncia del corpo raggiungerai certamente la dimora dell’unione perfetta con Me (12.123-124). O conquistatore di ricchezza, il sale si scioglie non appena precipita nel mare; vi è forse alcunché per impedirlo? Allo stesso modo quando tu Mi veneri come onni-pervasivo e Mi vedi in ogni cosa, perderai il tuo senso d’individualità e diventerai veramente uno con Me (18.1371-1372). Col mio favore avrai una perfetta conoscenza di Me e ciò, di sicuro, farà sì che tu venga assorbito nel Mio essere (18.1375). La conoscenza dell’unità con Me, priva di ogni senso di separazione, è il vero significato del trovare rifugio in Me. Quando una brocca s’infrange l’aria in essa contenuta si mescola con lo spazio circostante; allo stesso modo, trovare rifugio in me significa essere uniti a Me. Il grano d’oro d’una collana è fatto d’oro, un’onda è costituita d’acqua: allo stesso modo tu, o conquistatore di ricchezza, fonditi in Me (18.1388-1391). Jñåna-yoga Laddove si fa riferimento allo jñåna-yoga, Jñåne©vara parla di «conoscen- za del Sé» (4.19), «ardente desiderio di auto-conoscenza» (4.20), «tenebra dell’ignoranza» (4.50), ecc. Egli pone l’accento sul discernimento, la sag- gezza38, la luce, la gioia39, il dissolvimento dell’illusione della dualità al qua- le è collegato il dubbio, la consapevolezza dell’unità, la consapevolezza che il Sé non agisce, la conoscenza che libera i sensi dai loro oggetti40. Lo jñåna- 38 «Nulla è sacro quanto la saggezza. La saggezza è il bene supremo: che cosa può uguagliarla? Così come lo spirito è uno solo, senza che ve ne sia un secondo, tale è anche la saggezza. Vi è forse un riflesso altrettanto fulgido del sole? Il cielo potrebbe mai essere contenuto nelle mani di alcuno? Se si potesse trovare qualcosa che sia pari alla terra, allora anche la saggezza potrebbe trovare eguali, o figlio di Pandu. Perciò, da ogni punto di vista e ogni qual volta la si prenda in considerazione, la sa- cralità della saggezza va trovata nella saggezza stessa. Come il gusto del nettare può essere descritto soltanto come nettare, la saggezza può essere paragonata soltanto a se stessa» (4.176cd-181). 39 «Avendo estirpato la radice della non-discriminazione, accendo la lampada del- la discriminazione e allora gli yogi celebrano un banchetto di luce. L’universo viene colmato dalla gioia del Sé, la rettitudine dimora sulla terra e i Miei devoti si pascono della virtù». 40 «Non vi è peccato più grande o più terribile del dubbio; è un laccio pericoloso per tutte le creature. Pertanto scaccia questo dubbio e supera anzitutto quello stato che deriva dalla mancanza di saggezza. Quando la mente è offuscata dalla tenebra dell’ignoranza, quest’ultima si rafforza e il cammino della fede è completamente bloccato. Non soltanto non si riesce a contenerla all’interno del cuore, ma essa av- viluppa anche la ragione e persino i tre mondi vengono pervasi dal dubbio. Benché [questa ignoranza] possa rafforzarsi, vi è un modo per superarla, se si tiene in pugno

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Jñāneśvara e Panikkar 51 yoga introduce l’aspetto della totalità, cosicché il karma-yoga e il bhakti-yoga non seguono percorsi distinti, ma concorrono a formare un’unità organica. Quando manifesto Me stesso nella carne, la montagna del peccato viene fran- tumata e sorge il giorno della rettitudine, O figlio di Pandu. A tal fine io nasco di epoca in epoca. Colui che sa questo è veramente saggio in questo mondo. Colui che conosce la Mia nascita, benché Io non sia nato; colui che conosce la Mia azione, benché Io sia al di là dell’azione e che sa che sono immutabile, può essere chiamato liberato (4.53-57). Chi, nell’adempiere ai propri doveri, conosce il non-attaccamento e non ha al- cun desiderio per il frutto dell’azione e al quale nulla al mondo sta più a cuore del proprio dovere ha veramente compreso la libertà dall’azione. Ciononostante lo si vede celebrare rettamente tutte le cerimonie religiose. Da tali segni si rico- nosce che egli è saggio. Così come un uomo in piedi accanto all’acqua perce- pisce in essa la propria immagine riflessa, pur sapendo bene di essere diverso [dal riflesso] o come un uomo salito su una barca vede scorrergli rapidamente accanto gli alberi sulla riva, pur sapendo che in realtà sono tutti fermi, allo stes- so modo, nel pieno dell’azione egli sa chiaramente che [tale azione] è illusoria e che egli stesso è distaccato da essa. Come il sole, sorgendo e tramontando, sembra muoversi benché in realtà è fermo, allo stesso modo sii consapevole che la libertà dall’azione risiede nell’azione. Un tale uomo sembra essere come gli altri, ma non è influenzato dalla natura umana, come il sole non può mai affon- dare nell’acqua. Egli ha visto l’universo senza vederlo, fa ogni cosa senza farla e gode di tutti i piaceri senza coinvolgimento in essi. Pur restando seduto in un luogo, egli viaggia ovunque, perché, pur rimanendo nel corpo, egli è divenuto l’universo (4.92-101). Una caratteristica importante dello jñåna-yoga è quella di dissipare l’igno- ranza, la dualità e il dubbio. Espresso in termini positivi, il discernimento è l’essenza dello jñåna-yoga e, ciò che è più importante, [consente di] scopri- re la dimensione della profondità (Brahman). In taluni l’ignoranza è stata estirpata e rimane soltanto l’essenza della differenza fra il fuoco e chi celebra il sacrificio. Una volta appagato il desi- derio dell’officiante, la celebrazione del sacrificio termina e non resta alcu- na altra azione da compiere. Questo è lo stato nel quale non entra il pen- siero, in cui non vi è posto per il desiderio e che non è contaminato da alcun contatto con il male della dualità. Quella conoscenza pura ed eter- namente perfetta che è il frutto del sacrificio è la conoscenza di cui pos- la spada della saggezza. Essa viene distrutta completamente dall’arma affilata della saggezza e allora tutta l’impurità svanisce dalla mente» (4.201-206).

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Francis X. D’Sa 52 sono godere coloro che sono radicati nel Sé, quando cantano «Sono Brah- man» (4.147-150)41. Ti dirò un modo in cui puoi acquistare la saggezza. Colui che, per amore della beatitudine del Sé, prova avversione per tutti gli oggetti dei sensi, nel quale non vi è alcun pensiero per i sensi, sul quale i desideri della mente non esercitano alcuna attrazione, che non ha alcun interesse per il mondo materiale e prova piacere nel godimento della fede, è sicuramente eletto dalla saggezza, nella quale si trova la pace perfetta. Quando tale saggezza si stabilisce nel cuore e spuntano i teneri germogli della pace, allora all’improvviso risplende la luce del Sé. Allora ovunque egli volga il suo sguardo, vedrà unicamente pace, della quale non è concepibile alcun limite (4.184-189). 5. La preghiera cosmoteandrica di Jñånadeva: Pasåyadån È probabile che nell’esaminare i tre aspetti dello yoga, così come abbiamo fatto sin qui, non sia stata evidenziata in maniera univoca la loro dinamica cosmoteandrica. Perciò mi soffermerò sulla poesia Pasåyadån42, con la qua- le Jñånadeva conclude lo Jñåne©var°, ponendo in rilievo gli aspetti cosmote- 41 «Vedi qui il tesoro della gioia suprema (paramåtmasukhanidhåna): per raggiun- gerlo gli yogi non esitano a cospargersi gli occhi con il pigmento della comprensio- ne, che è il fine di ogni azione per tutti i ricercatori, la fonte inesauribile della com- prensione per coloro [che hanno raggiunto] il distacco, il mezzo di soddisfazione per gli affamati. [Avendo ottenuto ciò], l’attività mentale è indebolita, il potere della ragione perde il suo acume e i sensi dimenticano il contatto con gli oggetti dei sensi. La mente non può più funzionare, le parole perdono la loro capacità di espressione e, quando un uomo raggiunge questo stato, trova ciò che desidera conoscere. In ciò, gli ardenti desideri della dispassione sono appagati (vairågyåcå pångu phi†e), la ricer- ca della discriminazione è soddisfatta (vivekåc° sosu tu†e) e, senza ulteriore sforzo, si compie l’auto-realizzazione. Questa conoscenza è la migliore, o Arjuna. Se desideri trovarla devi servire questi saggi con tutto il tuo cuore. Con l’illuminazione del loro insegnamento la tua mente perderà la sua paura e sarai liberato dal dubbio come lo stesso Brahma. Vedrai allora te stesso, con tutti gli altri esseri, per sempre [assorbiti] nella mia Forma eterna [måjhjyå svar¥piμ akhanditeμ]. O Partha, sorgerà allora il mattino della saggezza (aiseμ jñånaprakå©eμ påhela), sarà dissolta l’oscurità della confusione (taiμ mohåndhåkara jå°le), grazie alla misericordia del proprio maestro. Per quanto tu possa essere un pozzo inesauribile di peccati, un oceano di confusio- ne, una montagna di infatuazione, tutto ciò apparirà insignificante dinanzi alla pura potenza della saggezza, tanto essa è grande. Vedi: questo universo illusorio, che è l’ombra del Privo-di-forma, non può essere pari alla luce di esso» (4.158-172). 42 Grazia, favore, benedizione.

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Jñāneśvara e Panikkar 53 andrici. È la parte più conosciuta dell’opera, probabilmente la più poetica e, ai fini della nostra trattazione, spiccatamente cosmoteandrica. Che questo sacrificio di parole sia gradito alla Divinità, che è l’anima dell’uni- verso, e che Essa, nella Sua soddisfazione, mi conceda la Sua benedizione. Cessi la malvagità dei peccatori, cresca il loro ardente desiderio di compiere buone azioni e possano tutti gli esseri vivere in armonia gli uni con gli altri. Svaniscano le tenebre del male; possa questo universo vedere il sole del Svadhar- ma e possano gli aneliti di tutte le creature essere appagati. Possano tutti coloro che riversano le proprie benedizioni trovarsi incessante- mente in compagnia dei santi, devoti al Signore Supremo. Questi Santi sono come giardini ambulanti pieni di alberi che esaudiscono i desideri, come un villaggio vivente pieno di gemme che esaudiscono i desideri mentre pronunciano parole simili a un oceano di nettare. Essi sono lune senza macchia e soli senza calura; possano questi santi essere amici di tutti gli uomini. Possano tutti essere colmi di gioia nei tre mondi, in perenne adorazione di Ådi Puru@a. Possano tutti coloro che considerano questo libro come la loro stessa vita essere benedetti dal successo in questo mondo e nel prossimo. Allora il Signore Benedetto dell’universo disse: questa grazia sarà concessa. La benedizione procurò grande gioia a Jñånadeva. Il Pasåyadån, epilogo dello Jñåne©var°, espone in sintesi il modo in cui Jñå- nadeva ha assimilato la triplice dinamica della realtà. È significativo che il Pasåyadån inizi con invocazioni rivolte a Vi©våtmake deve (Dio che è l’anima dell’Universo) e si concluda con la positiva rassicurazione di Vi©veshvaråyå (il Signore Benedetto dell’Universo). In ciò è sottintesa la convinzione che, qualunque sia la richiesta che viene rivolta, essa non è nelle mani dell’uomo, non può essere manipolata dagli esseri umani, ma dipende invece dalla gra- zia del Signore Benedetto. Questa è la dimensione della fede, una dimensio- ne che richiede apertura esistenziale43. L’apertura esistenziale non trascura, però, né la dimensione umana né quella cosmica. La poesia «Pasåyadån», collocata strategicamente alla conclusione del monumentale commentario poetico di Jñånadeva (scritto in maråthi nel 1772-1780) è la classica espressione di una spiritualità cosmoteandrica, pur senza, ovviamente, che venga adottato un linguaggio cosmoteandrico, come illustrerò di seguito. Anzitutto vorrei però riassumere brevemente ciò che si intende per «co- 43 R. Panikkar, «Faith and Belief: A Multireligious Experience», in The Intrareli- gious Dialogue (New York, Paulist, 1999), p. 42.

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Francis X. D’Sa 54 smoteandrico» e per «spiritualità cosmoteandrica». Con l’espressione «in- tuizione cosmoteandrica» si indica l’atteggiamento secondo il quale la re- altà è, fondamentalmente, costituita dalle tre dimensioni del cosmico, del divino e dell’umano, [unite] in modo tale che ciascuna presupponga le al- tre due e che nessuna di esse sia riducibile alle altre due. Le tre dimensioni si compenetrano reciprocamente cosicché la dinamica di ognuna armoniz- za la dinamica delle altre due. A fini euristici si può tematizzare l’una o l’al- tra dimensione, ma ciò non significa che ciascuna delle tre possa essere con- siderata isolatamente dalle altre due. La dimensione cosmica o materiale è la dimensione oggettivabile o per- cepibile della realtà. La dimensione umana o della coscienza fa riferimen- to al fatto che, dalla nostra prospettiva, la realtà è inevitabilmente collegata alla coscienza. La dimensione divina o della profondità è l’aspetto non ma- nipolabile della realtà. Ciascuna delle tre dimensioni è dinamica, in modo proprio e peculiare. La dimensione divina richiede apertura da parte no- stra; la dimensione materiale richiede che ci accostiamo a essa con atteggia- mento non possessivo e la dimensione umana raggiunge il proprio culmine quando la consapevolezza si eleva. In tale visione ogni cosa è collegata in modo peculiare a ogni altra, non c’è nulla che costituisca un’entità irrelata e ogni singolo essere inizia a re- alizzarsi nel momento in cui ristabilisce il proprio rapporto con ogni al- tra cosa. La poesia inizia con una supplica al Divino che anima l’universo affin- ché il sacrificio letterario sia gradito e, in tal caso, siano profusi su Jñånade- va benedizioni/grazia/favori. Si tratta di un’invocazione significativa, intro- dotta con una metafora straordinaria: il Divino è l’åtman dell’universo. Una metafora simile appare per la prima volta (se non erro) nella sezione Anta- ryåmin della Brihad-aranyaka-upani@ad, in cui si afferma che il Divino è il regolatore interno di ogni cosa. Si veda nella Bhagavad-g°tå (10.20) il pas- so in cui K®@…a afferma di essere l’åtman di ogni essere. Merito particolare di Jñåne©var°, è quello di aver qualificato la natura del Divino come åtman dell’universo. Da questa metafora consegue inoltre che l’universo è il Cor- po del Signore Benedetto. Anche nel Capitolo Undicesimo della G°tå si ri- corre alla stessa metafora per almeno tre volte. Jñånadeva non ha coniato una nuova metafora, dunque, ma si è semplicemente riallacciato a un’anti- ca tradizione. Ciò detto, va aggiunto che Jñånadeva, in quanto seguace dell’advaita, ha introdotto nella metafora una specifica sfumatura. Il Pasåyadåna è costitui- to da una serie di implorazioni rivolte al Divino, che è l’åtman dell’univer- so. Se si eccettua l’invocazione iniziale, tutte le altre sono a beneficio di al-

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Jñāneśvara e Panikkar 55 tri: a favore dell’universo, a favore degli esseri umani, a favore dei peccatori che sono fuorviati e tratti in inganno dalla tenebra dell’ignoranza, a favore della gioia di tutti e tre i mondi, ecc. Quando, al termine, il Signore Bene- detto dell’universo conferma che la preghiera di Jñånadeva verrà esaudita, quest’ultimo raggiunge la pace. Ecco l’importante: ciò che sta a cuore a Jñå- nadeva è il bene di tutti gli esseri. È questo il bene per quale il Pasåyadåna rivolge la propria supplica al Signore dell’universo. Passiamo ora a esaminare i singoli versi. Il primo verso del Pasåyadåna è rivolto chiaramente – nonostante l’uso della terza persona – al Divino che è l’åtman dell’universo. Trattandosi di uno jñåni che non ripudia la bhakti e di un bhakta che non ripudia lo jñåna, Jñånadeva sta percorrendo lo stret- to sentiero che distingue fra il bhakta (rivolgendosi al Signore dell’universo) e lo jñåni (che si rivolge nella terza persona)44. Da entrambi i punti di vista il Signore è l’Assoluto, l’uno senza un secondo. Non vi è altri al di sopra di Lui, tutti Gli sono subordinati. La dinamica in atto fra l’Assoluto e il Relati- vo è quella dell’Infinito che attira a sé il Finito. L’unica risposta adeguata da parte del Finito è quella della totale apertura. È questa totale apertura che Jñånadeva ha tradotto in parole, definendola «sacrificio in forma di opera letteraria» (vågyajña). «Sacrificio»45 è il termine vedico che indica l’apertu- ra, l’abbandono fiducioso, il non attaccamento, il ritorno di ogni cosa verso il ciclo eterno che è la Fonte di tutto46. Il vågyajña è yajña in quanto Jñånadeva ha tradotto in parole una visio- ne del mondo in cui si afferma in termini assoluti la Sovranità dell’Assoluto, in cui si rivela la realizzazione assoluta del Relativo e in cui si percepisce che la fonte di ogni cosa è l’Assoluto: non resta pertanto null’altro da trattenere, ogni cosa viene offerta all’Assoluto. È per questa ragione che il compimento si realizza unicamente nell’Assoluto e dall’Assoluto stesso. Ogni altra cosa è irreale. Per Jñånadeva il Reale è tutt’uno con l’Assoluto, non-differente da Esso. Jñånadeva definisce [la propria opera] un vågyajña, un «sacrificio let- terario», un sacrificio compiuto con le parole, in quanto solo l’Uomo è ca- pace di esprimere con il linguaggio la propria ricerca di senso. Solo l’Uomo 44 Cfr. R. Panikkar, «Advaita and Bhakti. A Hindu-Christian Dialogue», in Myth, Faith and Hermeneutics, cit., pp. 278-289. 45 Cfr. R. Panikkar, The Vedic Experience, cit., p. 348. Il sacrificio è quell’«atto pri- mordiale, in quanto Atto, in quanto l’atto che fa sì che gli esseri siano ed è pertanto responsabile del loro divenire, senza postulare un Essere prioritario dal quale essi derivano. In principio ‘era’ il Sacrificio». 46 Cfr. ibid., p. 347: «Se si dovesse scegliere una singola parola per esprimere la quintessenza della Rivelazione Vedica, la parola yajña, sacrificio, sarebbe forse la più adeguata».

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Francis X. D’Sa 56 è capace di riconoscere e ammettere che la ricerca di senso diviene feconda quando si scopre che la realtà è della [stessa] natura del sacrificio. Il sacri- ficio nel mondo vedico viene considerato qualcosa di analogo al riciclaggio, in cui nulla va perduto e tutto viene fatto nuovamente confluire nella totali- tà nella sua interezza: l’espressione di tutto ciò nel linguaggio è vågyajña. Vi è un ulteriore elemento interessante, rivelato dal primo verso del Pasåyadåna. Jñånadeva prega affinché il sacrificio letterario sia gradito al Divino, l’åtman dell’universo, ed essendo ciò gradito, egli rivolge al Divino le invocazioni che seguono. La formula ha il carattere di una condizionale: se il sacrificio letterario è gradito al Divino, allora il Divino dovrebbe esau- dire le suppliche che l’autore Gli rivolge. Le formulazioni «essere gradito» ed «essendo gradito», in questo caso, sono prive di qualsiasi connotazione psicologica: si riferiscono alla Volontà e al Piano Divini a livello ontologico. Se il sacrificio è conforme alla Volontà e al Piano Divini, le suppliche ver- ranno esaudite. Il sacrificio letterario non è che un tentativo di articolare la Volontà e il Piano Divini: soltanto nel caso in cui esso riesca in tale inten- to, la grazia richiesta dovrebbe essere concessa. Va tenuto presente che Jñå- nadeva attribuisce al proprio Guru Nivrittinåth nella forma di questo libro quel patrimonio di contemplazione che gli è stata trasmessa dalla successio- ne di maestri spirituali» (18.1742). Jñånadeva confessa inoltre di essere in- degno e incapace di comprendere l’uso delle figure del linguaggio e di esse- re come un burattino nelle mani del suo Guru (18.1743-1748). «Per quanto io sia muto sotto ogni aspetto, utilizzando la lingua maråthi ho consentito a tutti di leggerlo» (18.1758). Si potrebbe essere tentati d’interpretare ciò come un segno di umiltà da parte di Jñånadeva ma, a mio parere, una tale lettura non coglierebbe nel segno. Jñånadeva sta richiamando la nostra attenzione su un aspetto impor- tante: il fatto che egli, come ogni autore spirituale, è consapevole di appar- tenere a una tradizione dalla quale trae saggezza e ispirazione. Nessun esse- re e tanto meno l’Uomo è un’entità isolata. Siamo debitori alla tradizione di ciò che abbiamo e, soprattutto, di ciò che siamo. E la tradizione è apauru@ eya: non è opera di una sola persona (singola, tangibile). Si tratta di una ve- rità di cui solo i mistici sembrano essere consapevoli. È per questa ragione che Jñånadeva afferma con fiducia: «Jñånadeva dice, o santi uomini, qua- lunque cosa io abbia detto, con il vostro aiuto non può essere considerata priva di valore» (18.1762). Passiamo ora al secondo verso del Pasåyadån, in cui vengono formula- te tre invocazioni: «Cessi la malvagità dei peccatori, cresca la loro aspira- zione a compiere buone azioni e possano tutti gli esseri vivere in armonia gli uni con gli altri». Quale commento preliminare, forse ovvio, si potrebbe

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Jñāneśvara e Panikkar 57 ricordare che l’invocazione è rivolta al Divino, l’åtman dell’universo. Solo il Divino può porre fine alla malvagità dei peccatori, far crescere il loro ar- dente desiderio a compiere buone azioni e porre tutti gli esseri in condizio- ne di vivere in armonia gli uni con gli altri. Tutto ciò rientra unicamente nell’ambito di competenza del Divino e riconoscerlo è il compito che spetta all’Umano. Le risonanze sia della malvagità che dell’armonia vengono per- cepite a livello del Cosmico. La natura cosmoteandrica della triplice invo- cazione è evidente. Dalla seconda invocazione nel suo complesso sembra si possa trarre, implicitamente, la seguente conclusione: la malvagità dei peccatori cesserà quando crescerà presso le creature l’ardente desiderio di compiere buone azioni. Le preoccupazioni di Jñånadeva ci colpiscono in quanto sono uni- versali, non settarie ed egocentriche; sono rivolte al bene comune, non gret- te e personali. L’invocazione va al cuore della questione, evidenziando due elementi importanti: in primo luogo l’ardente desiderio di compiere buone azioni. «Ardente desiderio» nella nostra traduzione sta per «rat°» nell’ori- ginale maråthi. Nella mitologia hind¥ Rat° è la moglie di Kåmadeva, il dio del piacere sessuale. In tale contesto rat° è l’estasi sessuale. La Bhagavad- g°tå, tuttavia (5.25 e 12.4), aveva introdotto una nuova dimensione conian- do l’espressione sarvabh¥ta-hite ratå¢, che potrebbe essere liberamente pa- rafrasata con: «appassionandosi al bene di tutti gli esseri»! Un’espressione riferita a una delle esperienze corporee probabilmente più profonde viene qui attribuita a una delle esperienze mistiche più elevate. Si è così traspor- tati dallo stato di singola persona a un’esperienza di a-dualità al cospetto dell’åtman dell’universo, che fa sì che la preoccupazione per il bene di tutti gli esseri diventi l’unica preoccupazione. Qualsiasi sia il criterio adottato, si tratta davvero di un’espressione straordinaria. Ci si potrebbe domandare: perché usare i superlativi? Basti esaminare la straordinaria formulazione in sé: sarvabh¥ta-hite ratå¢. I ratå¢ sono coloro che sono «appassionatamente compiaciuti del bene (hite) di tutti gli esse- ri (sarvabh¥ta)». Sono due gli elementi inattesi: a) l’appassionata soddisfa- zione b) per il bene di tutti gli esseri. Siamo abituati a un’etica del lavoro in cui ci si aspetta che si lavori di più e in modo altruistico, ma l’aspetto del- la soddisfazione appassionata è, in generale, qualcosa di inedito. Anche il secondo elemento è ugualmente straordinario: il bene di tutti gli esseri. Sa- rebbe già stato affascinante se la frase avesse menzionato il bene dell’Uo- mo, ma è a dir poco entusiasmante che ci si preoccupi del bene di tutti gli esseri, in un mondo che ha posto al centro l’Uomo e, in particolare, l’Uo- mo del primo mondo. Jñånadeva, utilizzando il termine rat¤ nel contesto di «colui che è sa-

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Francis X. D’Sa 58 tkarm°» (colui le cui azioni sono rette), si colloca all’interno di tale tradizio- ne. In modo analogo, potremmo così parafrasare l’espressione summenzio- nata: «appassionata soddisfazione nel fare la cosa giusta». La preghiera di Jñånadeva è la seguente: il compiere la retta azione dovrebbe intensificarsi e diventare più appassionato; dovrebbe esserci più passione nel fare la cosa giusta. La passione di coloro che compiono azioni rette e buone (satkarm°) è in contrapposizione con la malvagità dei peccatori. Ma non basta. Vi è an- che la questione di maitra j°vaceμ: compassione, amicizia, armonia fra tutti gli esseri viventi. Oltre alla preoccupazione cosmica di Jñånadeva nei con- fronti di tutti gli esseri viventi, vi è la preoccupazione per la compassione, l’amicizia e l’armonia fra gli esseri viventi. Gli aneliti cosmoteandrici di Jñå- nadeva acquistano particolare evidenza in questo punto. L’uomo deve ap- passionarsi maggiormente nel compiere cose buone e rette e, al tempo stes- so, deve sviluppare un atteggiamento di armonia, di non aggressione nei confronti degli esseri viventi. In un’epoca oltremodo sensibilizzata alle questioni ambientali, tutto ciò suona sorprendentemente familiare. Contrariamente alle apparenze, tutta- via, non si tratta di ecologia (ossia della fiducia nelle nostre capacità di ri- sanare il cosmo) ma di ciò che Raimon Panikkar ha definito «ecosofia», ov- vero il prestare ascolto e fare affidamento sulla saggezza del cosmo47. Ciò contrasta con lo spirito del nostro tempo, che crede nelle proprie capacità di risanare il pianeta. Si ritiene che trattando la terra con maggiore riguardo si possa godere dei suoi frutti a più lungo termine. Secondo l’ecosofia, invece, l’Uomo è parte integrante della terra e la ter- ra fa parte dell’Uomo; quest’ultimo è inserito in una realtà più ampia e non può farcela con le sue sole forze. Le preoccupazioni cosmoteandriche di Jñånadeva sono ecosofiche. Prestando ascolto alla saggezza della terra egli si accorge che occorre più passione nel nostro impegno e una più profonda 47 R. Panikkar, «Ökosophie, oder: der kosmotheandrische Umgang mit der Na- tur», in Hans Kessler (a cura di), Ökologisches Weltethos im Dialog der Kulturen und Religionen (Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1996), p. 58: «Con il termine ‘Ecosofia’ non intendo indicare una forma più evoluta o raffinata di ecolo- gia. La rivoluzione industriale aveva, ovviamente, una propria idea (logos) del mon- do, del luogo di vita degli esseri umani (oikos) e si proponeva di sfruttare la terra nel modo migliore, ossia di fare dell’essere umano ‘il re della creazione e il signore della terra’. Nel complesso la moderna ecologia non ha abbandonato questa idea. Si è limitata a correggerla, prendendo atto dell’amara scoperta che, se vogliamo continuare a sfruttare la terra, dobbiamo trattarla meglio e con più cura affinché possa continuare a produrre i propri frutti per un lasso di tempo più lungo. Perciò dovremmo tornare al riciclaggio, laddove è necessario, ma l’atteggiamento di fondo resta lo stesso».

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Jñāneśvara e Panikkar 59 armonia fra gli esseri viventi. È per questa ragione che egli rivolge le sue in- vocazioni al Divino (che è l’åtman dell’universo). Nel verso successivo si dice pertanto: «Svaniscano le tenebre del male; possa questo universo percepire il sole di svadharma [suo dharma onto- nomico] e gli aneliti di tutte le creature viventi possano essere appagati». Anche in questo punto è manifesta la fede di Jñånadeva nel Divino (che è l’åtman dell’universo). Egli fa appello al Divino affinché vengano dissipa- te le tenebre del male. L’uomo, da solo, non può riuscirvi: egli è parte del problema, non della soluzione. Per Jñånadeva, così come per le tradizioni hind¥, il problema dell’Uomo non è un problema morale, quanto piutto- sto un problema di autocomprensione. La nostra traduzione parla di «tene- bre del male»: in realtà l’oscurità della nostra capacità di discernimento è il male reale, il nostro problema. Siamo pieni di oscurità, a causa della quale non percepiamo né il nostro Sé (åtman) né il nostro rapporto con il Divino. Il nostro mondo, essendo cieco al Divino, si trova nell’oscurità. L’espressio- ne «tenebra dell’ignoranza» non è riferita al problema del singolo, bensì al problema del mondo. Quando le tenebre spariranno, si rivelerà un mondo del tutto nuovo, il mondo delle relazioni ontonomiche48. È quanto dice il verso successivo: «Possa l’universo percepire il sole di Svadharma!». Il mondo degli indivi- dui, quale noi lo sperimentiamo, è cieco di fronte ai rapporti illuminanti che costituiscono un mondo interrelato49. L’espressione «sole di svadharma» 48 A proposito dell’ontonomia cfr. R. Panikkar, Worship and Secular Man. An essay on the liturgical nature of man, considering Secularization as a major phenomenon of our time and Worship as an apparent fact of all times. A study towards an integral anthropology (New York, New York Orbis Books; London, Darton, Longman & Todd, 1973), pp. 41ss. 49 Cfr. a questo proposito l’interessante commento di B. Swimme e T. Berry, The Universe Story, Our Way into the Future (New York, Bell Tower, 1999), p. 268 (cor- sivo di Francis X. D’Sa): «Finora non siamo riusciti a celebrare in modo adeguato questa storia più ampia dell’universo, benché essa sia l’alta conquista della nostra indagine scientifica dell’universo... Questo rapimento estatico deriva dalla comu- nione immediata dell’umano con il mondo naturale, dalla capacità di apprezzare la suprema soggettività e spontaneità in ogni forma di essere naturale. Stiamo risco- prendo la nostra capacità umana di far parte della più ampia comunità della vita, un aspetto che non abbiamo più sperimentato in maniera adeguata dalle nostre origini neolitiche. Questa nuova esperienza ci consente di attivare dimensioni più estese del nostro essere. Il nostro essere individuale separato dalla più vasta comunità dell’es- sere è invece vacuità. Il nostro sé individuale trova la sua realizzazione più completa all’interno del nostro sé familiare, del nostro sé comunitario, del nostro sé di specie, del nostro sé terrestre e, infine, del nostro sé universale. In definitiva vi è soltanto una storia: la storia dell’universo. Ogni forma di essere è parte integrante di questa storia

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Francis X. D’Sa 60 non è solo una felice metafora, ma riflette una profonda capacità di pene- trazione della natura e del funzionamento della realtà. Il termine svadharma è riferito al dharma specifico di ciascun essere. «Il dharma indica le relazio- ni specifiche che ciascun essere ha con ogni cosa nell’universo nel contesto del ®ta e sullo sfondo del yajna»50. A ciò si aggiunge quanto scrive K. Maho- ny a proposito del dharma: Nell’accezione più antica del termine – che appare già nel Íg-veda (c. 1200 a.C.), generalmente nella forma dharman – esso significa «ordine cosmico», spesso in relazione con il senso della legge naturale o divina... Mentre l’espressione adhar- ma («contro il dharma») compare solo alcuni secoli dopo, il germe dell’idea risiede nel termine an®ta («contro il ®ta»), sinonimo nel Íg-veda di asatya, «non vero» nel senso di «irreale». Ciò suggerisce la nozione secondo la quale l’azione impropria possa far precipitare l’universo nell’irrealtà e, di conseguenza, nel non-essere. L’implicazione è che nella letteratura vedica classica il dharma ab- bia un peso ontologico: l’essere sorge dall’attività appropriata mentre l’azione impropria determina il non-essere. Da questo aspetto ontologico si desume la nozione normativa per cui, nella letteratura saòhita, il dharma è il sistema di attività che guida il mondo, affinché il ®ta non venga violato51. È in un tale contesto che va interpretato l’uso da parte di Jñånadeva del- la locuzione «vi©va svadharma». L’universo è la summa di tutte le relazioni specifiche di tutti gli esseri, in una prospettiva interconnessa e interrelata. Non vi è nulla che possa essere considerato un’entità isolata o un rapporto irrelato. La totalità nella sua interezza è un organismo nel quale ogni essere ha il proprio posto e il proprio ruolo. Ci si può domandare quale sia il significato del «sole di svadharma». Il sole rende viva ogni cosa. Rappresenta la vita, la luce, il calore, il movimen- to dei venti e delle acque, la crescita degli esseri viventi. Ancor più impor- tante è la vasta sfera del simbolismo, in cui assumono un ruolo fondamenta- le il discernimento e l’illuminazione, in quanto il sole è perennemente desto e non va mai a dormire. Nel nostro contesto, il sole è simbolo della luce che globale. Nulla è se stesso senza ogni altra cosa. A ciascun membro della comunità della Terra spetta il proprio ruolo specifico nell’intera sequenza di trasformazioni che hanno conferito forma e identità a tutto ciò che esiste». 50 Francis X. D’Sa, «The Dharma of the Universe», in Satya Nilayam. Chennai Journal of Intercultural Philosophy, 1, 1 (2002), pp. 15-35. 51 William K. Mahony, «Dharma», in Mircea Eliade (a cura di), The Encyclopedia of Religion, vol. 4 (New York, MacMillan, 1987, p. 329; tr. it. L’Enciclopedia delle religioni, Milano, Jaca Book).

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Jñāneśvara e Panikkar 61 rivela la totalità interconnessa (che l’epoca vedica definiva yajna, «sacrificio cosmico», e che i vai@…ava [seguaci di Vi@…u] in seguito identificarono con Vi@…u)52. Nel momento del sorgere dell’illuminazione si vede il sole, Vi@…u, simbolo del yajna interconnesso. Ciò per cui prega Jñånadeva è il sole dell’illuminazione, che è concomi- tante alla visione di Vi@…u. Particolarmente significativo è il fatto che la sup- plica venga rivolta a nome dell’intero universo. «Svaniscano le tenebre del male» affinché gli occhi dell’universo si aprano ed esso inizi a percepire il sole di Svadharma. Non vi è alcuna traccia di salvezza individuale. Raggiunto tale stadio, la visione di Vi@…u renderà possibile l’appaga- mento di tutti gli aneliti di tutti gli esseri viventi53. Allora non vi saranno aneliti adharmici di alcun genere perché ogni cosa sarà in sintonia con la triplice dinamica della realtà. L’intero universo procederà in sincronia con il ritmo dell’essere. Nei versi seguenti l’attenzione si sposta leggermente, ma in modo signi- ficativo. «Possa la compagnia dei santi che riversano incessantemente bene- dizioni e sono devoti al Signore Supremo incontrare tutti gli esseri su que- sta terra». La preghiera auspica che l’elemento della bontà, che è presente nei santi devoti al Signore Supremo, possa estendersi e riguardare tutti gli esseri. Possiamo attribuire la santità soltanto agli esseri umani, in quanto sono portatori di bontà e benedizioni che essi elargiscono costantemente. L’uomo sembra avere una speciale vocazione al benedire, in particolare a dispensare benedizioni. Fra i destinatari delle benedizioni, tuttavia, vanno 52 Cfr. R. Panikkar, The Vedic Experience, p. 347. In italiano I Veda. Testi fonda- mentali della rivelazione vedica (Milano, Rizzoli, 2001). 53 Virginia Burden propone un interessante commento nel suo scritto The Process of Intuition, Theological Publishing House. «La cooperazione si basa sulla profonda convinzione che nessuno riesca ad arrivare alla meta se non ci arrivano tutti». Cit. in Reader’s Digest, marzo 2001 (edizione indiana), 1. Qualcosa di analogo si potrebbe dire a proposito dell’identità. Swimme e Berry affermano la stessa cosa da un punto di vista scientifico: «Gli umani hanno scoperto che l’universo, nel suo insieme, non è semplicemente uno sfondo o un luogo esistente, ma che è esso stesso una comunità di esseri in evoluzione. Mediante la ricerca empirica gli umani hanno scoperto di essere stati partecipi di questo succedersi di trasformazioni durato quindici milioni di anni, il cui esito è stato la Terra e il suo complesso funzionamento» (Thomas Berry, The Great Work. Our Way into the Future [New York, Bell Tower, 1999], pp. 16-17). «Quanto più chiaramente comprendiamo le scienze e le visioni dell’universo che esse delineano, tanto più chiaramente possiamo cogliere l’intima connessione di ciascun elemento dell’universo con ogni altro componente. Quest’unità si realizza in manie- ra straordinaria nei sistemi geobiologici della Terra» (cfr. Brian Swimme e Thomas Berry, The Universe Story. From the Primordial Flaring Forth to the Ecozoic Era. A Celebration of the Unfolding of the Cosmos [San Francisco, Harper, 1992], p. 194).

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Francis X. D’Sa 62 inclusi tutti gli esseri, non soltanto gli esseri umani. In ogni passaggio vedia- mo all’opera lo spirito cosmoteandrico. Nei due versi che seguono vi è un’ulteriore elaborazione del tema del bene e delle persone virtuose (sajjana, sat-jana) – a conferma dell’importan- za attribuita da Jñånadeva ai Sajjana. «Questi Santi sono come giardini am- bulanti pieni di alberi che esaudiscono i desideri, come villaggi viventi pieni di gemme che esaudiscono i desideri nel pronunciare parole simili a un oce- ano di nettare. Essi sono lune prive di macchia e soli privi di calura; possa- no questi santi essere amici di tutti gli uomini». È questa la versione hind¥ della liberazione cosmica, come vedremo di seguito. Le metafore «Santi come giardini ambulanti pieni di alberi che esaudi- scono i desideri e come un villaggio vivente pieno di gemme che esaudisco- no i desideri e che pronunciano parole simili a un oceano di nettare» sono segni di ciò che i cristiani definiscono «l’opera della grazia». Non tutti gli al- beri e non tutte le pietre preziose esaudiscono i desideri. Non tutte le parole dispensano il nettare dell’immortalità. I desideri non vengono esauditi au- tomaticamente; i desideri che riguardano la liberazione suprema, in partico- lare, sono soggetti alla grazia. Perciò vi sono alberi e pietre preziose privile- giati, così come ci sono parole privilegiate. I santi sono luoghi privilegiati; le loro parole sono parole di vita eterna (Mt). Non sono né robot né macchine automatiche che rispondono automaticamente a determinati input. I santi sono «come lune senza macchia e soli senza calura; possano que- sti santi essere parenti di tutti gli esseri». In tutto lo Jñåne©war°, Jñånade- va ricorre a metafore «naturali», metafore tratte dalla propria esperienza dell’essere-nel-mondo. La «natura» non è contro l’Uomo e l’Uomo non è contro la natura. Sono tutti parenti. Il significato letterale di soyareí è «pa- renti». Il volto «umano» della liberazione suprema diventa manifesto. La vi- sione biblica parla di armonia fra il leone e l’agnello, il bambino e il serpen- te, ecc., ma Jñånadeva ritiene che tutti gli esseri siano imparentati fra loro, che siano parenti. La preghiera non è soltanto universale, è cosmoteandri- ca. Qui traspare il senso reale della visione cosmoteandrica. Anche il verso successivo è ugualmente interessante e intrigante. «Pos- sano tutti essere colmi di gioia nei tre mondi, in perenne adorazione dell’Ådipuru@a (Brahma)». I tre mondi sono un simbolo della totalità. Alla concezione tradizionale della totalità Jñånadeva aggiunge «gioia-e-pace». Affinché ciò si realizzi, è necessario che vi sia la perenne adorazione del Pri- mo Puru@a (un altro antico simbolo della totalità). La perenne adorazione del Primo Puru@a si realizza in parte attraverso questo libro straordinario. «Possano tutti coloro che considerano questo li- bro come la loro stessa vita essere benedetti dal successo in questo mondo

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Jñāneśvara e Panikkar 63 e nel prossimo». Anche in questo verso l’attenzione di Jñånadeva non è di- retta a se stesso ma a coloro che prendono sul serio la vita eterna, per dir- la in termini cristiani. È forse a causa di questo «altruismo» che «Allora il Signore Benedetto dell’Universo disse: questa benedizione verrà concessa. La benedizione portò grande gioia a Jñånadeva». Mentre il primo verso del Pasåyadåna parla del Divino come l’åtman dell’Universo, il verso conclusi- vo parla del Signore come Signore Benedetto dell’Universo. Probabilmente l’åtman dell’universo ha ispirato Jñånadeva inizialmente a formulare la sua richiesta e il Signore dell’Universo esaudisce l’invocazione. Neppure una volta Jñånadeva chiede qualcosa esclusivamente per se stesso. La sua pre- ghiera è cosmoteandrica in quanto egli è animato dallo spirito cosmotean- drico. Quando la sua preghiera viene esaudita, si dice nella poesia, egli rag- giunge la pace: la pace cosmoteandrica, potremmo aggiungere. Come risulta dall’analisi sin qui condotta, ogni singolo verso del Paså- yadåna è animato dallo spirito della visione cosmoteandrica, benché ovvia- mente non venga utilizzato il nostro vocabolario cosmoteandrico. Non è la parola, bensì lo spirito che conta54. Conclusioni Il commento di Jñånadeva merita una ricerca assai più approfondita di quanto si sia tentato di fare sin qui. Jñånadeva è un raro esempio di mistico che, avendo compiuto la traversata fino all’altra riva, dà prova di un contat- to via via sempre più approfondito con la triplice dinamica della realtà. La traversata fino all’altra riva non è un’esperienza ultraterrena, bensì un’espe- rienza della totalità. Jñånadeva è davvero un mistico raro; la sua opera è un vero e proprio oceano di metafore (d®@†ånta-sågar) che continuamente affio- rano dal ribollire cosmoteandrico della realtà55. Le metafore non sono de- scrizioni della realtà: sono espressione e testimonianza di un’esperienza co- smoteandrica della realtà. 54 Cfr. R. Panikkar, «Epilogue: Aspects of a Cosmotheandric Spirituality», in Scott Eastham (a cura di), The Cosmotheandric Experience. Emerging Religious Conscious- ness (New York, Maryknoll, Orbis, 1993), pp. 137-152. 55 Il «ribollire» cosmoteandrico potrebbe essere considerato un’equivalente fun- zionale della perichíresis in greco e della circumincessio in latino.