2° CONGRESSO PCL - Documento Politico

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Secondo Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori “Analisi, proposte e programma nella grande crisi capitalista” - 1 - ANALISI, PROPOSTE, PROGRAMMA NELLA GRANDE CRISI CAPITALISTA Documento politico del 2° congresso del PCL I PARTE: LA CRISI MONDIALE DEL CAPITALISMO La crisi capitalistica internazionale.--L’indebolimento dell’imperialismo USA. Mito e crisi dell’”Obamismo”.-- Natura e limiti dell’ascesa cinese.--L’Unione europea: dalla crisi al rischio disfacimento.--Lo scenario sociale e politico in Europa, sotto la crisi.--La bancarotta delle sinistre europee.--La necessità di una sinistra rivoluzionaria. Per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa. II PARTE: LA CRISI ITALIANA Il capitalismo italiano nella crisi europea e internazionale.--L’impasse della II Repubblica. L’instabilità politica italiana--Natura, forza e contraddizioni del III governo Berlusconi.--La crisi del PD e del Centrosinistra.--Ruolo e crisi delle sinistre italiane.--Liberali, giustizialisti, riformisti falliscono contro le destre. Solo la classe operaia può aprire una pagina nuova. III PARTE: LA NOSTRA PROPOSTA POLITICA E PROGRAMMATICA DENTRO LA CRISI. La vertenza generale: una proposta non solo sindacale.--Un programma anticapitalista per uscire dalla crisi.-- Questione Mezzogiorno e federalismo. La proposta del PCL.--Per un movimento di classe dei migranti.--Per un ambientalismo comunista.--La crisi della Chiesa e l’anticlericalismo di classe-- Per la liberazione dall’oppressione di genere. Per il rilancio del movimento di lotta delle donne IV PARTE: LA LINEA POLITICA DEL PCL La costruzione indipendente del PCL e l’autonomia politica del nostro partito.—Per un metodo leninista nel rapporto con le elezioni --La “conquista della maggioranza”.--La politica del “fronte unico”--Il ruolo della propaganda rivoluzionaria.--Propaganda, agitazione, azione.--La prospettiva del nostro partito: la costruzione per salti.

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Secondo Congresso del Partito Comunista dei Lavoratori

“Analisi, proposte e programma nella grande crisi capitalista”    

   

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AANNAALLIISSII,, PPRROOPPOOSSTTEE,, PPRROOGGRRAAMMMMAA

NNEELLLLAA GGRRAANNDDEE CCRRIISSII CCAAPPIITTAALLIISSTTAA

Documento politico del 2° congresso del PCL

I PARTE: LA CRISI MONDIALE DEL CAPITALISMO

La crisi capitalistica internazionale.--L’indebolimento dell’imperialismo USA. Mito e crisi dell’”Obamismo”.--Natura e limiti dell’ascesa cinese.--L’Unione europea: dalla crisi al rischio disfacimento.--Lo scenario sociale e politico in Europa, sotto la crisi.--La bancarotta delle sinistre europee.--La necessità di una sinistra rivoluzionaria. Per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa.

II PARTE: LA CRISI ITALIANA

Il capitalismo italiano nella crisi europea e internazionale.--L’impasse della II Repubblica. L’instabilità politica italiana--Natura, forza e contraddizioni del III governo Berlusconi.--La crisi del PD e del Centrosinistra.--Ruolo e crisi delle sinistre italiane.--Liberali, giustizialisti, riformisti falliscono contro le destre. Solo la classe operaia può aprire una pagina nuova.

III PARTE: LA NOSTRA PROPOSTA POLITICA E PROGRAMMATICA DENTRO LA CRISI.

La vertenza generale: una proposta non solo sindacale.--Un programma anticapitalista per uscire dalla crisi.--Questione Mezzogiorno e federalismo. La proposta del PCL.--Per un movimento di classe dei migranti.--Per un ambientalismo comunista.--La crisi della Chiesa e l’anticlericalismo di classe-- Per la liberazione dall’oppressione di genere. Per il rilancio del movimento di lotta delle donne

IV PARTE: LA LINEA POLITICA DEL PCL

La costruzione indipendente del PCL e l’autonomia politica del nostro partito.—Per un metodo leninista nel rapporto con le elezioni --La “conquista della maggioranza”.--La politica del “fronte unico”--Il ruolo della propaganda rivoluzionaria.--Propaganda, agitazione, azione.--La prospettiva del nostro partito: la costruzione per salti.

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I PARTE: LA CRISI MONDIALE DEL CAPITALISMO

LA CRISI CAPITALISTICA INTERNAZIONALE

La crisi capitalistica internazionale apertasi nel 2007 con la crisi dei mutui subprime costituisce senza dubbio la più grande crisi del capitalismo mondiale dopo il crollo di Wall Street del 1929. Questa crisi rappresenta lo sbocco ultimo della lunga stagnazione capitalistica internazionale della fase intercorsa tra il 75 e il 92, e delle contraddizioni esplosive della fase successiva di ripresa trainata dallo sviluppo capitalistico della Cina. Contrariamente alle teorie di larga parte degli economisti borghesi , secondo cui la crisi è dovuta alla “mancanza di regole del mercato finanziario”, la radice vera e profonda della crisi sta nella contraddizione tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e il carattere sociale delle forze produttive, di cui la crisi di sovrapproduzione è solo la manifestazione economica. Una sovrapproduzione che l’espansione cinese aveva in parte contenuto, ma non risolto. La sovrapproduzione capitalista è stata per lungo tempo mascherata, e persino in parte limitata, da quell’espansione del capitale finanziario che la stessa sovrapproduzione aveva alimentato. La lunga stagnazione economica tra il 75 e il 92 ha dato una prima spinta decisiva al ripiegamento dei capitali in eccesso verso la rendita finanziaria. Il crollo del Muro di Berlino, il conseguente allargamento del mercato mondiale, il potente sviluppo delle tecnologie informatiche hanno ampliato le basi del capitale finanziario e accelerato il ritmo della sua accumulazione. Le politiche liberiste dell’ultimo ventennio, sospinte dalla caduta del saggio di profitto, e dal nuovo corso della competizione mondiale, hanno liberato enormi risorse verso la finanza capitalista. La crescente miseria sociale della classe operaia, e di ampi strati sociali, diventava, in particolare negli Usa, fonte di investimento finanziario (mutui immobiliari, crediti sanitari, fondi pensione..): una speculazione che contribuiva ad alimentare la domanda interna, quindi il mercato americano , quindi lo sbocco delle esportazione cinesi ed europee, contenendo la sovrapproduzione internazionale. Ma la domanda indotta e il relativo mercato erano irrimediabilmente drogati. L’esplosione della bolla finanziaria dei mutui subprime del 2008 ha riportato il mondo alla realtà: quella di un’enorme sovrapproduzione capitalistica che nessuna finzione finanziaria poteva rimuovere.

Il pieno coinvolgimento delle principali banche mondiali nella crisi a partire dagli Usa; il carattere internazionalmente intrecciato del capitale bancario su un mercato finanziario mai così esteso; la compenetrazione profonda di capitale bancario e industriale, accresciutasi nei precedenti decenni; tutti questi fattori, tra loro combinati, moltiplicavano gli effetti mondiali della crisi finanziaria e acceleravano il loro trasferimento prima alle borse, poi all’economia industriale in sovrapproduzione. Il combinarsi di crisi finanziaria, crisi bancaria, crisi industriale è stato il volano della recessione mondiale del 2009 .

I principali Stati capitalisti (in particolare Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, e con le sue particolarità la Cina) hanno risposto alla crisi con una mole eccezionale di intervento pubblico. Sotto le più diverse bandiere politiche, il mitizzato liberismo si è convertito rapidamente in Keynesismo. Non il fantomatico Keynesismo “progressista” immaginato da liberal riformisti e sinistre. Ma il Keynesismo reale: la socializzazione delle perdite, la privatizzazione dei profitti. Il volume complessivo di risorse pubbliche mobilitate da Stati nazionali e banche centrali per combattere la crisi e impedire un suo avvitamento distruttivo è superiore a quanto speso durante tutta la seconda guerra mondiale. Questo solo dato misura la profondità della crisi capitalistica mondiale e l’enormità del suo costo sociale.

L’intervento dello statalismo borghese- pur segnato da enormi contraddizioni interne - ha prodotto per la seconda metà del 2009 un effetto parziale: la relativa stabilizzazione del sistema bancario, l’arresto della precipitazione recessiva, una piccola ripresa della crescita del Pil. La relativa tenuta del livello di sviluppo cinese, la crescita dell’India e del Brasile, hanno frenato la deriva della crisi mondiale. Ma l’economia mondiale è ben lungi dall’essersi stabilizzata, come hanno dimostrato in rapida sequenza la crisi di Dubai, la crisi della Grecia, i sommovimenti interni all’economia europea. I fattori strutturali della crisi (sovrapproduzione) sono ancora operanti. I rimedi usati contro la crisi sono parziali e a termine. Sia la crisi che i rimedi usati hanno generato a loro volta nuove contraddizioni nel capitalismo internazionale.

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1) La stabilizzazione relativa del sistema bancario non significa superamento della crisi finanziaria. L’enorme sostegno degli stati alle banche e alle imprese, ha ovunque prodotto impennata dell’indebitamento pubblico degli Stati, già elevatissimo in numerosi paesi chiave (Usa e Giappone in primo luogo). Al punto da insidiare per la prima volta la tenuta dei titoli sovrani. Il salvataggio dei banchieri da parte degli Stati minaccia di trasferire agli Stati la bancarotta dei banchieri.

2) L’enorme indebitamento degli Stati rende impossibile un prolungamento indefinito di quelle politiche Keynesiane che hanno tamponato il precipitare della crisi. Negli anni 30, il tasso di indebitamento statale di partenza nel complesso degli stati capitalisti era relativamente modesto: il New Deal di Roosveelt fu finanziato da uno Stato americano creditore. Non solo, la spesa pubblica di inizio secolo, concentrata sostanzialmente nell’apparato repressivo e militare, impegnava una quota modesta del Pil (intorno al 15-20%) e aveva quindi ampi margini di aumento. Nel secondo dopoguerra, l’alto tasso di sviluppo capitalistico -sospinto prima dalla guerra poi dalla ricostruzione- consentiva il riassorbimento del debito, sia negli Usa che in Europa, e quindi una durevole espansione della spesa pubblica. Oggi il quadro d’insieme è profondamente diverso: sia per l’alto livello raggiunto dalla spesa pubblica in tutti i paesi a capitalismo avanzato (intorno al 35-40% del Pil), mai ridotto dopo l’espansione del dopoguerra (nemmeno durante il ventennio neoliberista), sia per un livello di partenza del debito pubblico infinitamente maggiore, sia per il quadro di crisi recessiva o stagnazione produttiva. A un anno dalla svolta obbligata dell’interventismo pubblico, tutti i principali Stati capitalisti (con l’eccezione della Cina) presentano limiti oggettivi al rilancio di politiche keynesiane di spesa, il problema della governabilità del proprio indebitamento.

3) L’enorme volume degli aiuti finanziari che gli Stati e le banche centrali hanno elargito a banche private e grandi imprese, hanno iniettato nelle vene dell’economia mondiale i materiali di una nuova e più grande bolla finanziaria, potenzialmente esplosiva. Titoli di Stato, bond aziendali (in piena espansione a fronte della crisi creditizia), i titoli assicurativi sulle scommesse di default statale (Cds), sono i nuovi articoli emergenti della nuova bolla. Peraltro il fatto che le stesse banche salvate conservino in pancia una quantità indefinita di titoli tossici – congelati ma non eliminati- costituisce, di per sé, un’incognita obiettiva sulla consistenza della stabilizzazione bancaria internazionale.

4) Le particolarità dello sviluppo economico cinese sono fattori di nuovi squilibri. Per lungo tempo l’asse di equilibrio dell’economia internazionale è stato rappresentato dalla crescita del consumo interno americano, finanziato dall’acquisto dei titoli di stato Usa da parte della Cina: ciò che garantiva alla Cina uno spazio straordinario per le proprie esportazioni e quindi per il finanziamento del proprio bilancio attivo. La crisi americana e internazionale ha spezzato questo equilibrio precario. E un nuovo equilibrio appare molto problematico. L’imperialismo Usa invoca una rivalutazione della moneta cinese. Ma la Cina - politicamente ed economicamente rafforzata dalla crisi Usa- mostra resistenza ad una significativa rivalutazione della Yuan per preservare il proprio vantaggio esportativo e il proprio bilancio. Ne deriva il relativo contenimento del principale potenziale di sbocco commerciale per il capitalismo occidentale, a fronte della massima competitività delle merci cinesi nel mondo. Lo squilibrio tra paesi esportatori e importatori- già preesistente- viene dilatato dalla crisi. E ostacola il suo superamento.

L’insieme combinato di questi fattori non comporta affatto di per sé l’”impossibilità” di una ripresa capitalista. Il nostro primo congresso insisteva giustamente- citando Trotsky- sul carattere complesso e dinamico dell’equilibrio capitalistico contro ogni “ catastrofismo”. L’intera esperienza storica ha confermato la grande capacità di resistenza dell’equilibrio capitalistico, lungo il continuo alternarsi di “fasi di rottura” e “fasi di ristabilimento”, smentendo letture semplificate e impressionistiche. Ma è giusto assumersi la responsabilità di un giudizio: l’attuale situazione dell’economia mondiale è e resta segnata da una “fase di rottura”, che presumibilmente non sarà breve. E’ impossibile prevedere con certezza da un punto di vista marxista il ritmo e la concreta dinamica del suo svolgersi: se sfocerà in un lungo ciclo di stagnazione mondiale (simile a quella del Giappone negli anni 90); se percorrerà una via a sinusoide, con un rapido e ripetuto alternarsi di recessioni e riprese; se imboccherà la strada di un’autentica depressione prolungata quale premessa di una successiva reale ripresa. Ma ciò che, in ogni caso, è altamente probabile è una fase di generale approfondimento di tutte le contraddizioni del capitalismo internazionale.

Queste contraddizioni non possono essere misurate e indagate solo da un’angolazione economica, ma anche da un’angolazione politica. I sommovimenti politici connessi alla crisi capitalista sono in pieno corso e

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investono l’intero ordine dei rapporti di forza internazionali tra i poli imperialistici e al loro interno. Questi sommovimenti sono appena iniziati, ed è impossibile prevedere un loro assestamento conclusivo. Ma alcune linee di tendenza incominciano a delinearsi. E, se sviluppate, possono ridisegnare in parte la geografia del mondo.

L’INDEBOLIMENTO DELL’IMPERIALISMO USA. MITO E CRISI DELL’OBAMISMO.

La crisi capitalista investe innanzitutto la potenza americana e il suo peso internazionale. Come nel 29 gli Usa hanno rappresentato l’epicentro della crisi mondiale. Ma con un’importante differenza. 80 anni fa la crisi capitalista colpiva gli Stati Uniti nel momento storico della loro ascesa alla leadership internazionale a scapito della Gran Bretagna. Oggi la crisi colpisce gli Usa nel momento di massima difficoltà della loro egemonia economica e politica internazionale: e può sospingere una dinamica di declino del peso mondiale americano.

L’avvento dell’amministrazione Obama nel 2008 è in diretta connessione con la crescenti difficoltà sociali e politiche dell’imperialismo Usa. Da un lato il fallimento dell’amministrazione Bush (a partire dall’Irak), dall’altro l’emergere della crisi dei mutui immobiliari, e il suo impatto sulla psicologia di massa di larga parte della società americana, sono stati i fattori propulsivi del cambiamento. Settori decisivi della borghesia americana hanno visto in Obama non solo l’uomo di un possibile rilancio del prestigio americano nel mondo, ma anche il possibile salvatore del capitalismo Usa, e l’unico possibile garante, in ragione della sua credibilità popolare, dei sacrifici imposti dalla crisi alle masse proletarie Usa. Ampi strati popolari (nel lavoro salariato, nella piccola borghesia urbana, nelle minoranze nazionali) hanno riposto in Obama un’aspettativa opposta: quella di una svolta sociale della propria condizione e del riconoscimento dei propri diritti.

L’attuale crisi dell’”Obamismo” negli Usa, ad appena un anno e mezzo dalla sua “storica” elezione, è direttamente proporzionale al carattere contraddittorio delle aspettative di classe che su di lui si sono riversate.

Sul piano interno, il drammatico dispiegarsi della crisi economica ha acuito tutte le contraddizioni del blocco sociale “obamiano”. Il potente intervento statale a sostegno di banche, assicurazioni, grandi imprese ha fatto argine alla crisi: ma al prezzo di una profonda delusione sociale di ampi settori popolari. Su ogni versante, la politica keynesiana di soccorso del capitalismo americano- nelle condizioni dello straordinario indebitamento Usa- si è trovata in breve tempo in un vicolo cieco: è risultata sufficientemente “provocatoria” per le classi medie, impaurite dal possibile aumento delle tasse; e sufficientemente rispettosa dei banchieri e dei loro profitti per demotivare il proletariato americano, già colpito dalla crisi. Da qui il calo verticale di credibilità, la sconfitta nelle elezioni in Massachussetes, le incognite sul voto a medio termine di Novembre, a fronte di equilibri parlamentari già molto fragili. Da qui anche lo sviluppo, in varie forme, di tendenze politiche reazionarie (Tea Party), e di ambienti politici xenofobi .

Sul piano della politica estera, le ambizioni della nuova amministrazione devono confrontarsi con gli effetti dell’indebolimento americano. L’ambizione di Obama era di rilanciare la potenza Usa attraverso il recupero di una posizione guida nel governo multilaterale delle contraddizioni mondiali. Una svolta “multilateralista” imposta non solo dai disastri della politica di Bush, ma anche dall’esigenza, a fronte della crisi, di socializzare i costi della politica imperialista. Ma proprio l’indebolimento strutturale Usa e il nuovo quadro della crisi mondiale o ne hanno ostacolato la realizzazione o ne hanno vanificato gli effetti. Le pressioni sugli imperialismi europei per un maggior coinvolgimento militare in Afghanistan, sono a un punto morto per ragioni economiche e politiche connesse all’attuale crisi europea. Il regime sionista approfitta delle difficoltà Usa per bloccare ogni passaggio negoziale in Medio Oriente. La Cina contiene il più possibile un riequilibrio commerciale con gli Usa: e con la propria espansione economica in Africa blocca il tentativo obamiano di inserimento nel continente nero . La Russia incassa a proprio vantaggio sia l’accordo nucleare di aprile 2010, sia la continuità della presenza Usa in Afghanistan a tutela delle proprie frontiere dal contagio islamista, mentre recupera posizioni lungo la vecchia area d’influenza sovietica proprio a scapito degli Usa. In più scavalca gli Usa nel rapporto con gli Stati europei attorno alla partita energetica. Complessivamente la crisi del capitalismo Usa , dentro la grande crisi capitalistica mondiale, non solo non ha favorito il disegno di egemonismo multilaterale americano, ma ha concorso a minarne le basi.

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Sono possibili alcune considerazioni sulla prospettiva.

Gli Usa hanno costruito la propria indiscutibile supremazia nel campo imperialista nel corso degli ultimi 60 anni su quattro pilastri essenziali: il dominio del proprio apparato industriale (metalmeccanico, chimico, informatico, aeronautico, ecc); il primato della finanza capitalista; la centralità del dollaro come moneta di scambio internazionale; la superiorità indiscussa della propria potenza militare. Questi pilastri ancora reggono, singolarmente e nel loro insieme, a tutela della potenza Usa. Ma la ristrutturazione produttiva mondiale degli ultimi trent’anni ha progressivamente eroso il primo pilastro. La grande crisi ha colpito come mai in precedenza il secondo. E può in parte iniziare a destrutturare gli altri due.

L’egemonia incontrastata delle grandi multinazionali statunitensi nel secondo dopoguerra (Ge, GM, Dupont, Ford, Boing, le sette sorelle, ecc), trovano sempre più concorrenti europei ed asiatici nella contesa per il controllo dei mercati continentali (Toyota, VW, Airbus, Cnoc, Total, Eni, ecc). Come i giganti sorti con la diffusione delle nuove tecnologie (Microsoft, Apple, Cisco, Google, ecc) vedono profilarsi all’orizzonte sia limiti oggettivi alla propria ulteriore espansione (di mercato e di regolazione normativa), sia lo sviluppo di nuovi potenziali concorrenti. La centralità del dollaro è storicamente connessa al primato politico e militare americano nel mondo. Il primato militare è il riflesso della gigantesca spesa militare Usa, senza paragone con gli storici imperialismi rivali (europei e giapponese). Ora l’eccezionale indebitamento pubblico Usa e la sua ulteriore dinamica di crescita insidia, per la prima volta, il tasso percentuale della spesa militare Usa sul Pil nazionale (v. i piani del Pentagono negoziati con Obama). Naturalmente resta indiscussa, in termini assoluti e relativi, la superiorità militare Usa nel mondo. Ma la prima inversione di tendenza della spesa militare, sotto il peso della crisi, ha un riflesso politico. Ostacola la programmazione di nuove costose avventure imperialiste. Interroga più che in passato i costi della permanenza americana in Afghanistan e in Irak. Esprime un segnale internazionale di indebolimento agli occhi delle potenze rivali e degli stessi Paesi dipendenti. Non a caso, settori della stessa classe dominante Usa vedono in questo un “sintomo della decadenza americana” (Nial Ferguson- Sole 24 ore -6 Aprile).

Inoltre, l’indebitamento eccezionale Usa (proiettato sul 2020, in assenza di correttivi, al 115% del Pil, come la Grecia) ha un diretto riflesso politico nel rapporto di forza con l’emergente potenza cinese. Il debito Usa è in larga parte nelle mani della Cina (700 miliardi di dollari). Ciò significa che la Cina ha un enorme potere contrattuale nei confronti degli Usa. Nulla lascia pensare che la Cina abbia interesse a vendere i titoli americani, che oggi finanziano l’acquisto delle merci cinesi in America. Ma a fronte della crisi americana, il margine di manovra e di pressione cinese sugli Usa è più grande. Nella storia nessuno Stato, a maggior ragione nessun Impero, ha potuto costruire la propria potenza su un indebolimento crescente. A maggior ragione quando il proprio creditore è una potenza concorrente. La capitolazione della Gran Bretagna indebitata di fronte agli Stati Uniti creditori nella vicenda di Suez degli anni 50 è emblematica. Il problema dell’indebitamento Usa non riguarda solo la sua sostenibilità economica. Ma la sua compatibilità, alla lunga, col primato imperialista degli Stati Uniti.

NATURA E LIMITI DELL’ASCESA CINESE

La crisi capitalistica internazionale costituisce una nuova leva di ascesa della potenza cinese e del suo rafforzamento economico e politico internazionale. In parallelo diretto con l’indebolimento americano ed europeo, e con la crescita più generale dell’area “Bric”. Siamo di fronte ad un’ascesa accelerata sia dalle enormi disponibilità valutarie, sia dal peso del dirigismo statale ereditato dallo stalinismo e dal carattere totalitario del regime. Ma la Cina non dispone delle basi materiali necessarie per candidarsi alla leadership mondiale, in sostituzione degli Usa. E la sua stessa ascesa capitalistica è incubatrice di contraddizioni sociali esplosive sul versante interno, e di effetti contraddittori sull’economia mondiale.

La Cina è lo Stato che meglio ha retto l’impatto della crisi capitalistica internazionale. Proprio la crisi capitalistica mondiale ha evidenziato, per molti aspetti, i punti di forza del capitalismo cinese: la disponibilità di immense riserve valutarie (2 mila miliardi di dollari di valuta straniera) che le consentono un investimento pubblico capace di sostenere l’alto tasso di sviluppo senza incrementare il debito; lo status di principale esportatore su scala mondiale, che le permette di finanziare l’acquisto di titoli di Stato Usa e quindi le proprie

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riserve valutarie; la presenza di un peso rilevante dello Stato nell’economia e di un’organizzazione autocratica dello Stato, ereditati storicamente dallo stalinismo, che consente una straordinaria efficienza e rapidità operativa, nella stessa predisposizione degli interventi economici; l’assenza dei “costi” del Welfare sociale, largamente inesistente, a fronte di un livello di sfruttamento brutale della classe operaia cinese.

Queste stesse caratteristiche strutturali, se da un lato hanno fatto parzialmente da scudo protettivo interno di fronte alla crisi, dall’altro consentono alla Cina di capitalizzarne gli effetti in termini di proprio rafforzamento su scala internazionale.

In primo luogo le disponibilità di riserve valutarie e fondi sovrani, assieme alle risorse possedute dalle aziende e banche a partecipazione pubblica (che pagano allo Stato dividendi irrisori), consentono alla Cina uno shopping finanziario eccezionale all’interno degli stessi paesi imperialisti, favorito dal deprezzamento di azioni, marchi, beni immobiliari, connesso alla crisi. Consentendo alle banche e alle assicurazioni cinesi, in meno di 10 anni, di scalare le classifiche mondiali, in termini di capitalizzazioni di Borsa (Sole 24 Ore, 23 Febbraio).

In secondo luogo, queste stesse disponibilità consentono alla Cina di promuovere la propria corsa internazionale alle materie prime, vitali per la propria economia manifatturiera, entrando in tutte le contraddizioni (ampliate dalla crisi) tra paesi imperialisti e paesi dipendenti. Questa corsa cinese percorre l’Africa, l’America Latina, il Medio Oriente. Ovunque la leva prevalente della penetrazione cinese è la pratica della scambio tra i propri diritti di rapina e concessioni di “favore”, che i vecchi imperialismi in crisi non si possono permettere.

In terzo luogo il capitalismo cinese si rafforza sul continente asiatico, con l’entrata in vigore dal Gennaio 2010 dell’area di libero scambio tra la Cina e i 6 più avanzati paesi membri dell’Asean (Malesia, Singapore, Thailandia, Indonesia, Filippine, Vietnam). E’ la più grande area economica esistente al mondo per numero di abitanti e la terza per valore di scambi (dopo U.E. e Nafta). Non si tratta solo di un’area commerciale agevolata dall’abbattimento di dazi e tariffe. Si tratta anche di una gigantesca filiera produttiva, che consente alla stessa Cina vantaggiose delocalizzazioni continentali e integrazioni produttive (nell’auto con la Thailandia, nell’elettronica con la Malesia) in un rapporto di egemonia diretta (per quanto non privo di contrasti, specie con la Indonesia). La conquista di questo vasto bacino economico privilegiato consente alla Cina di primeggiare in Asia sul Giappone , ormai slittato in terza posizione nella gerarchia del capitalismo mondiale , e indebolito da un lungo periodo di stagnazione e da un debito pubblico stratosferico.

L’ascesa cinese è tuttavia segnata da numerosi limiti e contraddizioni.

Sul piano interno, la tenuta di un forte tasso di sviluppo convive con una bomba sociale potenzialmente esplosiva. Le disuguaglianze sociali crescono drammaticamente. Una forte classe media urbana di 200-300 milioni di persone, arricchita dallo sviluppo capitalistico ma priva di coperture sociali, investe le proprie fortune nell’acquisto della casa, quale garanzia; con due effetti combinati: un freno all’espansione del mercato interno dei consumi cinesi (e quindi del mercato estero delle esportazioni occidentali); e una crescita esponenziale del prezzo delle abitazioni. Un’autentica bolla speculativa che richiama per alcuni aspetti quella dei mutui subprime in Usa, e che coinvolge il sistema bancario cinese.

Parallelamente, alla base della piramide sociale, la gigantesca classe operaia cinese- la più grande al mondo- continua a vivere in condizioni salariali, di lavoro e di vita da prima rivoluzione industriale in Gran Bretagna . Questa classe e la sua condizione è alla base dello sviluppo capitalistico cinese e della sua competitività internazionale. Ma è anche un forte limite all’espansione del consumo interno e un grande potenziale di esplosione sociale, come peraltro dimostra l’importante crescita delle lotte operaie, seppur ancora frammentate. In particolare, gli scioperi operai alla Honda e in altre grandi fabbriche cinesi, con l’affacciarsi di una giovane generazione operaia e l’adozione di forme di lotta radicali, sono la spia di un immenso potenziale rivoluzionario. La classe dominante cinese ne è cosciente, ma non dispone di facili ammortizzatori. Il finanziamento di un welfare metterebbe in discussione l’intero equilibrio economico sociale cinese. La concessione di ammortizzatori politici (diritti sindacali e libertà democratiche) metterebbe a sua volta in discussione la natura totalitaria del regime aprendo il varco della sua disgregazione.

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Il banco di prova del consolidamento pacifico della restaurazione capitalista cinese sta qui: nella capacità del regime di evitare l’esplosione operaia e la divisione verticale del proprio apparato. La vecchia burocrazia ha già varcato il guado della restaurazione capitalista, come abbiamo affermato al nostro primo congresso (sollecitando un aggiornamento della teoria marxista circa la possibilità della mutazione capitalistica, per via riformistica, di uno Stato operaio burocraticamente deformato). La crisi capitalistica internazionale non solo non ha invertito la tendenza ma l’ha sospinta in avanti entro i nuovi spazi liberati dalle contraddizioni imperialiste. Ma l’ascesa capitalistica della Cina convive con la fragilità strutturale della sua base sociale. Questo squilibrio interroga il futuro della Cina e , indirettamente, dell’intero ordine internazionale.

Sul piano internazionale, lo Stato cinese, per quanto fortificato, non dispone delle basi materiali per rimpiazzare la leadership Usa. L’ascesa della Cina contiene in sé elementi imperialistici evidenti. Come per il Giappone del XIX secolo, si sta delineando il possibile “miracolo” storico di una trasformazione eccezionalmente accelerata, dall’alto, di un paese arretrato in un paese imperialista, grazie al ruolo autoritario dello stato. E’ altrettanto evidente che la potenza cinese dispone già oggi di una potente economia produttiva (anche tecnologicamente avanzata) e finanziaria,e di una forza militare rilevante. Ma se tutto ciò è sufficiente per entrare nello scenario internazionale, e persino per capitalizzare in parte le difficoltà degli stati imperialisti, non è affatto sufficiente per configurare un nuovo baricentro delle relazioni mondiali. La Cina non dispone né può disporre a breve di una moneta egemone (lo Yuan non è convertibile). Non dispone di un sistema di alleanze internazionali alternativo a quello organizzato attorno agli Usa. Non dispone di una lingua universalmente spendibile e competitiva. Non dispone di una collocazione geografica favorevole, circondata com’è da potenze rivali o potenzialmente rivali. L’insieme di questi fattori circoscrive ad oggi, nonostante tutto, il peso internazionale della Cina. Cresce il suo potere di condizionamento internazionale. E’ del tutto immatura e lontana qualsiasi ipotesi di suo primato internazionale.

Una potenza declinante ancora egemone, una potenza ascendente senza egemonia, descrivono un quadro internazionale instabile che oscilla inevitabilmente tra la tendenza all’accordo e la dinamica di rottura. Così è, e probabilmente sarà, tra Usa e Cina nella prossima fase. Dentro un equilibrio complessivo delle forze che sarà condizionato non poco dalla collocazione strategica della Russia. E che nella prospettiva storica non può escludere traumatiche rotte di collisione.

L’UNIONE EUROPEA: DALLA CRISI AL RISCHIO DISFACIMENTO

La crisi capitalistica mondiale ha evidenziato e acuito come non mai le contraddizioni strutturali di fondo della U.E.. E trasforma la sua crisi- già da tempo presente- in un rischio obiettivo di disfacimento: sia economico (euro), sia politico istituzionale (Unione a 27 membri). La crisi greca è effetto (e concausa) di questo quadro. Il crescente protagonismo tedesco, e la crepa tra l’asse franco-tedesco (internamente contraddittorio) e le economie mediterranee, ne sono l’espressione più evidente. Su scala internazionale l’Unione Europea conosce un’ulteriore marginalizzazione politica da parte degli imperialismi rivali. Si delinea un bivio storico per la U.E.: o disgregazione o salto politico della costruzione imperialistica.

L’Unione Europea attraversa da tempo una situazione di crisi. Crisi di credibilità e di fiducia a livello di massa, dopo 20 anni di sacrifici sociali; paralisi della propria costruzione istituzionale; fallimento di ogni autonomo protagonismo politico su scala internazionale rispetto all’imperialismo Usa. Diversi sono i fattori, tra loro combinati, che hanno concorso a questa empasse: la presenza nella U.E. della Gran Bretagna, fedele all’asse storico con gli Usa; l’estensione geopolitica della U. E. a 27 paesi, secondo una logica di allargamento economico e depotenziamento politico (nell’interesse degli Usa); la debole capacità di autonomo investimento militare, nell’ambito delle compatibilità economiche definite a Maastricht e della permanenza europea nella Nato.

La crisi capitalistica internazionale ha portato questa impasse sull’orlo di una crisi conclamata, sino a configurare un possibile disfacimento dell’Unione.

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La crisi mondiale ha colpito duramente i capitalismi europei. Ha colpito i pilastri economici della U. E., a partire da Germania, Francia, Gran Bretagna, coinvolte in primo piano dalla crisi produttiva e finanziaria; ha colpito ben più profondamente una serie di paesi periferici dell’Est Europeo, convertendo il principale successo economico della U.E. degli anni 90 (in termini di espansione produttiva e finanziaria dopo l’89), in un fattore potenziale di contagio destabilizzante per la finanza continentale; ha colpito in modo particolare una fascia di capitalismi mediterranei più deboli e arretrati (Grecia, Portogallo), o maggiormente esposti al ciclone finanziario per il coinvolgimento delle proprie banche nel boom della speculazione immobiliare (Spagna).

La gravità della crisi, tuttavia, non sta nell’aspetto strettamente economico, ma principalmente nella sua ricaduta destabilizzante sui meccanismi fondativi dell’Unione.

1) La crisi ha travolto la diga dei vincoli di Maastricht (92) e del Patto di stabilità e di crescita (97) su cui l’Unione ha fondato la propria costruzione. Ovunque, e nella stessa Germania, tutti i parametri sul deficit (3% sul Pil) e sul debito (60% sul Pil), sono stati ignorati dalla corsa comune al “salvataggio” pubblico delle banche e delle imprese continentali. La pretesa della Bce di subordinare le politiche nazionali al primato di una politica antinflattiva,è stata polverizzata dalla pressione materiale della crisi.

2) La crisi della Grecia e il successivo piano europeo d’intervento a difesa dell’Euro, hanno ulteriormente evidenziato la crisi dei meccanismi della U.E. La profondità della crisi ha costretto gli imperialismi europei a violare le clausole liberiste dei propri stessi Trattati, prima soccorrendo il capitalismo greco, a difesa delle banche tedesche e francesi sovraesposte verso i titoli ellenici; e poi impegnando formalmente la Bce (ma a fianco del FMI) nel sostegno al piano d’intervento di 750 miliardi. Questa operazione economica non solo non è in grado, di per sé, di rimontare la crisi, ma è fonte di nuove contraddizioni. In primo luogo, il volume di 750 miliardi è allo stato largamente virtuale, e in ogni caso cura l’indebitamento pubblico con la produzione di ulteriore indebitamento: il coinvolgimento in questa spirale della Bce - priva a differenza della Fed di uno Stato sovrano di riferimento e di garanzia- accresce il livello di rischio. In secondo luogo, la gestione concreta dell’operazione ripropone a un livello più alto tutti i nodi irrisolti circa le responsabilità decisionali e istituzionali della U.E., sullo sfondo della contraddizione insolubile, in ultima analisi, tra l’esistenza di una moneta comune e l’assenza di un comune quadro statale. In terzo luogo, la Grecia è uno Stato di fatto insolvente, al di là degli “aiuti”. L’allungamento dei tempi del default non è prolungabile all’infinito. E il default annunciato della Grecia potrà avere ricadute importanti sulla tenuta dell’intera operazione europea (l’esposizione delle sole banche tedesche per 522 miliardi su Portogallo, Grecia, Irlanda, Spagna dà la misura del problema).

3) La crisi capitalistica ha ulteriormente ampliato gli squilibri economici tra i diversi paesi capitalistici europei. La costituzione dell’Unione europea nel 1992, e soprattutto la costruzione dell’Euro nel 1999/2001 (con la fine delle svalutazioni competitive e l’avvio di un riequilibrio dei prezzi di produzione), ha avviato ed accelerato un processo di ristrutturazione produttiva nel continente. Il nucleo industriale europeo (Germania occidentale, Benelux, Francia nord-occidentale, Nord Italia, ecc), con le sue lunghe filiere e propaggini produttive, si è rafforzato a spese dei distretti e delle imprese con un respiro “nazionale” della periferia europea (Portogallo, Grecia, Sud Italia, Austria, ecc.). L’attuale crisi greca è inscritta anche in questo quadro, con la destrutturazione del proprio apparato industriale, il precipitare del suo peso sul Pil, e quindi l’incapacità di riequilibrare la sua bilancia dei pagamenti attraverso una crescita economica circoscritta al pubblico impiego, al turismo, all’espansione immobiliare. Il divario tra una Germania superesportatrice (in larga parte negli altri mercati nazionali europei), e la rosa dei paesi prevalentemente importatori a vantaggio del bilancio tedesco sta diventando esplosivo. E’ quasi una versione continentale del grande squilibrio tra Cina e Usa. Per un verso la contestazione del cosiddetto “egoismo tedesco” coinvolge ambienti crescenti delle borghesie mediterranee, con un’esplicita richiesta di apertura del mercato tedesco ( anche di aumento dei salari tedeschi) e di allentamento del rigore finanziario. Per altro verso un settore importante dell’industria e del capitale finanziario tedesco- già autonomamente proiettato verso la Russia e la Cina- non è più disposto a farsi carico di parte della “zavorra” mediterranea, a scapito delle proprie potenzialità di sviluppo. Non può rompere perché le banche tedesche, come abbiamo visto, sono troppo esposte verso il Sud d’Europa: ma in compenso chiede con una forza superiore al passato una stretta ancor più severa delle politiche di bilancio degli Stati mediterranei, a garanzia del proprio capitale finanziario. Questa contraddizione contiene, in sé , potenzialmente, una crisi verticale della moneta comune europea. Già esposta ad un evidente indebolimento strutturale.

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4) La linea egemone franco tedesca (non priva di contrasti interni) di rinegoziazione di fatto degli stessi trattati di Maastricht in direzione di un vincolo ancor più stringente delle politiche di bilancio genera effetti multipli: riduce lo spazio di rilancio produttivo della U.E., in una situazione già di sostanziale stagnazione, accrescendo il rischio di una nuova recessione continentale con inevitabili ricadute sulla economia mondiale; amplia ulteriormente la contraddizione tra capitalismi esportatori e importatori; complica paradossalmente la riduzione dell’indebitamento pubblico che formalmente vorrebbe perseguire (perché un Pil stagnante accresce la percentuale del debito). La via d’uscita da questa contraddizione attraverso un’aperta scelta inflazionistica (a vantaggio della riduzione del debito)- liberando la stampa di nuova moneta su decisione della Bce- non può essere esclusa. Ma implicherebbe un rovesciamento radicale dell’intero impianto della U.E. e della Bce.

In questa impasse di fondo, la U.E. conosce un ulteriore marginalizzazione politica su scala internazionale. Tanto più clamorosa a fronte del netto indebolimento Usa e delle nuove contraddizioni tra Usa e Cina. Gli imperialismi europei, singolarmente e nel loro insieme, non solo non sono riusciti a capitalizzare, a proprio vantaggio, la più grande crisi americana degli ultimi 80 anni, ma hanno subito, anche per effetto della crisi capitalista e del precipitare delle proprie contraddizioni, un più netto ridimensionamento di peso. Il trattato di Lisbona aveva solennemente annunciato la prospettiva di un primato internazionale dell’Europa entro il 2015. Lo scenario reale, a 10 anni di distanza, configura la U.E. come il fanalino di coda della catena imperialistica mondiale.

La costruzione imperialistica della U.E. non ha futuro dentro l’attuale cornice istituzionale. La stessa tenuta della U.E. non è garantita. Si delineano sempre più, in prospettiva, scenari diversi. O un arretramento dell’attuale Unione in direzione di una pura area economica di scambio: ciò che metterebbe in discussione il suo assetto istituzionale attuale, e verosimilmente la moneta comune. Oppure il passo avanti (improbabile) di un nucleo ristretto di potenze europee a guida tedesca (e con l’esclusione della Gran Bretagna) attorno ad un progetto di maggiore integrazione politica ed ambizione strategica: in altri termini un avanzamento dell’imperialismo europeo (a sua volta con una duplice traduzione possibile: o la totale dissoluzione parallela della vecchia area rimanente dell’Unione, o un regime di doppio livello, anche monetario, tra area politica ed area economica della Ue). Entrambi gli scenari sono tutt’altro che lineari. Entrambi comportano ricadute traumatiche, politiche e sociali, sugli equilibri continentali e internazionali.

LO SCENARIO SOCIALE E POLITICO IN EUROPA, SOTTO LA CRISI

Ogni scenario politico europeo, nel quadro capitalista e imperialista, comporta una nuova aggressione sociale alla classe operaia continentale. L’attacco alle posizioni sociali e ai diritti del proletariato europeo ha costituito negli ultimi 20 anni l’unico “successo” degli imperialismi europei e della loro Unione. L’attuale crisi capitalista, e i programmi dei governi europei, annunciano un ulteriore salto di qualità dell’offensiva sociale contro il lavoro nel vecchio continente. Sia nel caso di dissoluzione dell’euro, col ritorno alle vecchie svalutazioni competitive e all’inflazione (a vantaggio dei debiti e a scapito dei salari); sia nel caso opposto del rilancio imperialistico europeo: che passerebbe inevitabilmente per una nuova drammatica stretta sociale.

La crisi capitalista, nel 2008 e 2009, si è già riversata pesantemente sulla classe operaia europea, a partire dall’occupazione. La borghesia ha messo a frutto nel quadro della crisi i nuovi rapporti di forza maturati nei 20 anni precedenti. Non a caso la giovane generazione precaria è stata ovunque la prima vittima di questa offensiva, nel settore privato e pubblico. Parallelamente l’enorme impennata del debito pubblico degli Stati capitalisti europei, a seguito dell’assistenza pubblica a banche e imprese, sospinge un nuovo attacco generale alla spesa sociale. Oggi tutti i governi borghesi del continente finanziano l’operazione dei 750 miliardi- a sostegno indiretto delle banche- con programmi di “lacrime e sangue”: aumento ulteriore dell’età pensionabile, riduzione degli stipendi e dei posti di lavoro nell’amministrazione pubblica, attacco frontale al sistema sanitario, riduzione, in varie forme, dei sussidi sociali.

La classe operaia europea è ovunque chiamata a pagare non solo l’impatto diretto della crisi capitalista (chiusure di fabbriche, dismissioni, licenziamenti..), ma anche i costi sociali della crisi imperialistica europea.

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La pressione materiale della crescente concorrenza cinese, sul mercato europeo e internazionale, spinge nella medesima direzione. Gli stessi apologeti europei della “globalizzazione capitalista” come portatrice di progresso, invocano l’abbattimento dei costi salariali e il ridimensionamento del vecchio “stato sociale” quale condizione decisiva di “resistenza” all’”invasione asiatica”. La stagnazione economica, o addirittura la recessione- impedendo l’abbattimento dei costi per unità di prodotto con l’espansione produttiva- spinge e spingerà ad un attacco al lavoro (salario, occupazione, servizi) ancor più diretto e frontale. Le stesse classi dominanti annunciano, sulla loro stampa, l’esaurimento storico del vecchio “modello sociale” del capitalismo “renano”. L’invasione cinese e il dramma greco diventano in tutta Europa la bandiera propagandistica della nuova “inevitabile” austerità: e perciò stesso uno strumento di pressione sulla psicologia sociale delle classi subalterne.

La crisi capitalista e la nuova stagione di austerità investono i diversi scenari politici nazionali della U.E.e le dinamiche specifiche della lotta di classe.

Le classi dominanti e le loro politiche sociali conoscono ovunque una profonda crisi di consenso . Sulla scia della crisi, la sfiducia operaia e popolare verso l’Unione, già segnalata dall’esito dei referendum sui Trattati in Francia e Olanda, conosce un ulteriore allargamento. Tutti i governi europei (con la parziale eccezione del governo italiano) hanno registrato nel 2008-2009 una crisi di fiducia o addirittura un crollo di credibilità. Le elezioni europee del 2009 hanno in parte fotografato questa realtà. I suoi effetti hanno comportato la crisi dei vecchi equilibri politici nazionali in Germania e in Gran Bretagna (fine dell’unità nazionale tedesca tra Cdu e Spd, fine del lungo ciclo del blairismo in Inghilterra), e la dura sconfitta del governo francese nelle elezioni regionali. Lo stesso tradizionale bipolarismo europeo è esposto alla crisi dei partiti dominanti con la comparsa o il rafforzamento di terze (o più ) forze (in Gran Bretagna, in Germania, in Francia..) che introducono nuove contraddizioni o elementi potenziali di instabilità politica. La tendenza prevalente è quella dell’indebolimento politico dei governi e dei loro tradizionali blocchi sociali di riferimento.

Di fronte alla difficoltà dei governi, l’accumulo di malcontento sociale nella classe operaia e in vasti strati popolari, non si è tradotto sinora in un processo proporzionale di radicalizzazione della lotta. La teoria marxista e l’esperienza storica, che negano un rapporto meccanico tra crisi economica e radicalizzazione di classe, hanno trovato una conferma in questi primi anni di crisi. In diversi Paesi si sono sviluppate singole lotte importanti di resistenza sociale, sia sul terreno della difesa del lavoro, sia in contrapposizione alle politiche dei governi. Innanzitutto in Grecia, prima con la rivolta di ampi settori giovanili (la generazione dei 700 euro) e poi con la mobilitazione e radicalizzazione del pubblico impiego contro le misure draconiane del governo e le imposizioni della U.E. Ma anche, a livello diverso, in altri Paesi: in Francia, con alcune lotte aziendali radicali e ripetuti scioperi generali contro le politiche di Sarkozy; in Germania con elementi di ripresa della lotta tra i metalmeccanici; in Gran Bretagna con mobilitazioni del pubblico impiego contro le politiche laburiste nel 2009; in Spagna con le mobilitazioni dei lavoratori della cantieristica e le prime lotte del settore pubblico contro la nuova austerità di Zapatero; in Italia, prima con l’importante mobilitazione di massa a difesa della scuola pubblica nel 2008 e del pubblico impiego nel 2009, e poi con il moltiplicarsi di lotte anche radicali di difesa del lavoro in diverse realtà aziendali. Tuttavia, con l’eccezione relativa di alcuni paesi periferici all’inizio del 2009 (Islanda, Lituania, Lettonia), dove la reazione di massa ha assunto i caratteri di un’autentica rivolta popolare (seppur di breve durata), nei Paesi centrali dell’Europa la lotta sociale ha avuto prevalentemente un carattere frammentato e difensivo. Registrando in alcuni Paesi, come la Francia e l’Italia, un indubbio arretramento rispetto ai livelli complessivi di mobilitazione e conflittualità sociale della stagione pre crisi (lotte di massa in Italia nel 2002-2003, esplosione sociale in Francia contro il Cpe nel 2004). Sotto il peso delle sconfitte passate e spesso di cocenti delusioni politiche, e in assenza di una direzione alternativa dello scontro sociale, la classe operaia e ampi settori di massa hanno subito la pressione materiale della crisi . Ovunque ha pesato la difficoltà di unificazione delle lotte in particolare nella classe operaia industriale. La stessa portata mondiale della crisi, in assenza di un progetto generale alternativo percepibile e di una ricomposizione continentale della lotta, ha costituito paradossalmente un fattore negativo di condizionamento della psicologia di massa del proletariato: inducendo al suo interno un senso di impotenza, o alimentando in alcuni settori pulsioni reazionarie.

Questo quadro, prevalentemente negativo, non rimuove affatto la possibilità di brusche svolte della lotta di classe. Al contrario. Pur non generando meccanicamente processi immediati di radicalizzazione, la profonda

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crisi sociale accumula le fascine di possibili esplosioni. Sono improbabili, nel contesto attuale, ascese graduali e durature del movimento operaio, di cui non esistono oggi, a differenza che negli anni 60 o 70, le basi materiali (in virtù del quadro di crisi, frammentazione della classe, maggiore debolezza nelle aziende..). Ma sono invece perfettamente possibili scenari di rivolta, concentrata e radicale, della classe operaia o di suoi settori, nel settore pubblico e nel settore privato. Le classi dominanti non hanno nulla da offrire alla nuova generazione. La nuova generazione che si affaccia alla vita sociale eredita, nella propria condizione, gli effetti dell’arretramento degli ultimi 30 anni, ma non ha subito sconfitte dirette in campo aperto e dispone di energie fresche. Parallelamente l’attacco al vecchio modello sociale europeo (Welfare state), che colpisce il proletariato e ampie fasce popolari, priva le classi dominanti di un ammortizzatore tradizionale del conflitto sociale in Europa. Mentre i vecchi strumenti di controllo politico della classe operaia (la socialdemocrazia e lo stalinismo) hanno subito o un profondo indebolimento o autentici processi distruttivi. Non a caso il timore di esplosioni sociali ingovernabili è nell’agenda del dibattito pubblico dei circoli dominanti in Europa. Il nuovo ciclo di austerità e sacrifici sospinto dalla crisi rappresenterà un banco di prova impegnativo per la tenuta sociale e politica dei governi borghesi in tutta Europa. Il più impegnativo degli ultimi decenni.

La crisi capitalista, la crisi di consenso delle politiche borghesi, la crisi del movimento operaio, sono i tre fattori- tra loro combinati- che liberano uno spazio crescente a tendenze xenofobe in Europa. Le elezioni europee del 2009 sono state una cartina di tornasole del fenomeno. Elezioni successive (in Ungheria, in Francia, in Italia, in Austria) hanno confermato la sua consistenza. Queste tendenze non sono omogenee, variando dal populismo localista all’aperto fascismo (movimento Jobbit in Ungheria). Né siamo in presenza di uno sviluppo lineare del fenomeno. Ma certamente sarebbe sbagliato rimuovere l’evidenza: siamo di fronte a un’ondata reazionaria xenofoba in Europa di consistenza inedita nel secondo dopoguerra. Non si tratta solo di correnti d’opinione ma anche, in alcune situazioni, di tendenze politiche organizzate e militanti, spesso capaci di radicamento sociale reale. La loro demagogia reazionaria dispone non di spunti occasionali, ma della base materiale della crisi capitalista, della crisi di credibilità dei partiti borghesi dominanti, della compromissione e del fallimento delle”sinistre”: tutti elementi durevoli e consistenti. Sarebbe errato caratterizzare lo sviluppo di questo fenomeno come l”ascesa del fascismo”. Il fascismo si nutrì della rovina delle classi medie; si sviluppò in reazione speculare alla rivoluzione proletaria e/o alla sua sconfitta; si basò su un programma di conquista del potere , di dissoluzione delle istituzioni parlamentari , di irrigimentazione dello Stato. Non è questo né il contesto di fase, né il tratto d’insieme prevalente delle attuali tendenze reazionarie. Ma resta il punto di fondo. In assenza di un’alternativa proletaria, la crisi capitalista tende ad “armare” forze nuove, estranee alla vecchia tradizione borghese liberale, capaci di uno sviluppo sinora sconosciuto. Forze che a certe condizioni sono suscettibili di evoluzione fascista. E’ uno dei sintomi della regressione storica che il capitalismo e la sua crisi portano con sé. E’ un fatto che ripropone la necessità di un’alternativa socialista alla crisi dell’Europa borghese.

LA BANCAROTTA DELLE SINISTRE EUROPEE.

La crisi capitalistica e la crisi europea sono la cartina di tornasole del fallimento della sinistra europea, in tutte le sue tendenze principali.

Le grandi socialdemocrazie europee- a partire da socialdemocrazia tedesca e laburismo inglese - conoscono una crisi di portata storica. Sono le sinistre che, da posizioni di governo, hanno a lungo gestito in prima persona la costruzione del quadro imperialistico europeo, nell’interesse delle proprie borghesie nazionali, subendo, in forme diverse, processi profondi di mutazione liberale, ed esponendosi alla crisi di consenso delle politiche dominanti e all’erosione verticale dei propri vecchi legami di massa. Il crollo del lungo corso liberista, a fronte della grande crisi capitalista del 2008, ha completato la loro parabola. Le elezioni europee del 2009 hanno ratificato in definitiva una sconfitta politica già consumata. La successiva caduta del Blairismo in Gran Bretagna dopo 13 anni di ininterrotto governo ha sigillato questa sconfitta anche sotto il profilo simbolico. Parallelamente la crisi profonda dello zapaterismo spagnolo di fronte alla crisi smentisce una volta di più le illusioni su un possibile nuovo corso riformista della socialdemocrazia europea.

Alla sinistra della socialdemocrazia si esprime un campo riformista eterogeneo.

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Da un lato un filone ortodossamente stalinista, sopravvissuto al crollo della burocrazia sovietica, ma tuttora legato a quell’eredità . Si tratta principalmente del PCP in Portogallo e, soprattutto, del KKE in Grecia. Questi partiti sono ostili alla Unione europea non in nome della prospettiva di un Europa socialista, ma nel nome di un riformismo nazionale. Un riformismo segnato da un anticapitalismo ideologico formalmente classista ma da una politica auto conservativa del proprio apparato entro le compatibilità del quadro esistente. La politica del KKE di fronte alla più grande crisi sociale della Grecia nel biennio 2008-2010 è emblematica: denuncia della grande rivolta giovanile del 2009 come teppaglia di provocatori prezzolati; costante separatezza delle proprie iniziative e manifestazioni di partito rispetto alla dinamica reale del movimento di massa, in una logica di divisione della classe; rifiuto di un programma d’azione per l’alternativa proletaria, in nome di una pura opposizione protestataria. In virtù della crisi della socialdemocrazia, questi partiti riescono a salvaguardare una presenza politica reale, un importante consenso elettorale, e un certo radicamento tra i lavoratori. Ma sono un ostacolo di fondo ad una prospettiva socialista e alla stessa radicalizzazione della lotta di classe nei propri paesi.

Dall’altro lato è presente il filone della cosiddetta “sinistra europea”, a sua volta composito. Ne fanno parte sia partiti di estrazione stalinista ma investiti da tempo da processi di mutazione (PCF); sia forze provenienti prevalentemente dalla sinistra socialdemocratica e talvolta fusesi con settori stalinisti (Linke tedesca); sia forze riformiste originatesi dalla crisi dello stalinismo 20 anni fa e poi segnate da lunghi processi di crisi e scomposizione (PRC e SEL in Italia). Questa “ sinistra europea” conosce alterne fortune. Dall’opposizione può capitalizzare successi elettorali e conoscere una relativa ascesa (Linke). Mentre al governo con le socialdemocrazie o con i partiti liberali, su programmi antioperai, subisce tracolli verticali con effetti di trascinamento di lunga durata (PRC in Italia, ieri PCF in Francia, in parte Izquierda Unida in Spagna). In ogni caso, mentre il programma formale di questa sinistra ripropone l’illusione di una Unione europea riformata (“Europa di pace, sociale, democratica”), la sua politica reale riporta ciclicamente il pendolo sulla prospettiva di governo, a braccetto con la borghesia. La Linke punta ad una prospettiva di governo nazionale con la Spd, ormai di fatto ufficializzata nel suo ultimo congresso (maggio 2010); il PCF, in blocco con un settore della sinistra socialdemocratica (Fronte de gauche) ha già rilanciato l’ ennesima prospettiva di governo con la socialdemocrazia francese; FED e SEL sono giunti ad avanzare la propria candidatura per un governo di “liberazione nazionale” da Berlusconi, nonostante i traumi passati. Questa sinistra europea si riduce ciclicamente a guardiaspalle della socialdemocrazia o dei liberali.

A sinistra della sinistra europea riformista si colloca il campo centrista della “sinistra anticapitalista”, anch’esso variegato, ma dominato dal ruolo del NPA in Francia. Questo partito, nato da un’azione di raggruppamento largo promosso dalla LCR francese attorno alle fortune di Besancenot, è sicuramente un partito di opposizione, ma non è un partito comunista. Il carattere puramente antagonista del suo programma consente ad oggi la convivenza interna al NPA delle più diverse tendenze programmatiche (dal sindacalismo classista, all’anarchismo, ai sostenitori della “decrescita” di Latouche, sino ai comunisti rivoluzionari). Ma lo espone, proprio per questo, a crescenti contraddizioni politiche, anche sul nodo cruciale del rapporto con le sinistre riformiste (come è accaduto in occasione delle elezioni regionali ). Nonostante che i suoi risultati elettorali attuali, pur rilevanti, siano inferiori alle aspettative, l’NPA resta un luogo di raggruppamento di un settore dell’avanguardia di classe e giovanile in Francia. Ma il programma del suo gruppo dirigente non fuoriesce dai limiti del riformismo: riproposizione dell’Europa sociale, movimentismo ideologico, rifiuto di un partito comunista e di una prospettiva di alternativa proletaria. I suoi soggetti sodali in Europa riflettono nel proprio paese tutti i limiti di questa impostazione centrista, e del suo inevitabile pendolarismo: ciò che ha condotto SinistraCritica ad oscillare nell’arco di due anni dalla maggioranza di governo di centrosinistra (da Turigliatto a Mastella, con 23 voti di fiducia ad un governo imperialista) all’opposizione “anticapitalista “(ma senza centralità di classe e progetto di potere); o ciò che ha condotto il Bloco de Esquerda in Portogallo a votare in Parlamento l’”aiuto” finanziario alla Grecia (cioè alle banche tedesche a spese dei lavoratori portoghesi). Non si possono affatto escludere sviluppi temporanei del centrismo in questo o quell’altro paese, a seguito della crisi dei partiti riformisti. Come spiegava Trotsky, il centrismo può rappresentare per le masse o loro settori di avanguardia un passaggio transitorio della propria evoluzione a sinistra. Ma certo la natura politica di queste organizzazioni centriste le configura come un ostacolo sul terreno della costruzione del partito rivoluzionario. E la lotta contro le loro posizioni, all’interno innanzitutto dell’avanguardia, rappresenta un passaggio obbligato di questa costruzione.

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LA NECESSITA’ DI UNA SINISTRA RIVOLUZIONARIA, PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D’EUROPA

Il PCL e il CRQI, in piena autonomia da ogni variante di sinistra riformista e centrista, muovono da una prospettiva programmatica rivoluzionaria, pienamente confermata dall’intero corso del capitalismo mondiale e dalla crisi europea: non esiste alcun orizzonte di progresso per il proletariato internazionale ed europeo fuori da una prospettiva di rovesciamento rivoluzionario della borghesia e di conquista proletaria del potere. E’ centrale la parola d’ordine degli Stati Uniti Socialisti d’Europa.

La vecchia riproposizione di un “Europa sociale” dentro il quadro del capitalismo europeo e delle sue istituzioni è stata smentita dall’esperienza degli ultimi 20 anni e polverizzata dall’attuale crisi capitalista.

Come scriveva Lenin, entro il quadro capitalista un’Unione dell’Europa o si riduce ad utopia o si traduce in un progetto reazionario. 18 anni di vita della U.E. hanno talmente confermato questa previsione storica da mostrare, in un certo senso, entrambi gli aspetti. Le classi dominanti continentali hanno fato leva sull’”Unione” in funzione dei propri interessi di classe e imperialistici, contro le classi subalterne dell’Europa e i popoli oppressi, e a discapito oltretutto di ogni costituzionalismo democratico. Al tempo stesso, proprio questa logica di classe e le ineliminabili contraddizioni intercapitalistiche interne al quadro europeo e internazionale, hanno finito col paralizzare la stessa costruzione di questa Europa. L’attuale crisi capitalistica , e in essa, la crisi europea sono la cornice di questo fallimento. Qui sta la prospettiva programmatica degli Stati Uniti Socialisti d’Europa quale unica reale soluzione progressiva della crisi del vecchio continente. L’europeismo borghese ha fallito. Solo il movimento operaio, rovesciando gli imperialismi europei, può unire su basi nuove l’Europa, dall’Atlantico alla Siberia.

La risposta di classe all’attuale crisi europea non può essere infatti né il ripiegamento nazionale; né la salvaguardia dell’attuale Unione Europea dei banchieri, con la pietosa richiesta che diventi “sociale; né tanto meno la rivendicazione di uno sviluppo autonomo dell’imperialismo europeo, in funzione anti Usa, come fino a ieri sostenevano alcune correnti staliniste (v.PDCI), prima di innamorarsi di Barack Obama. La risposta di classe alla crisi europea è tale se mira a liberare il proletariato da ogni illusione sul capitalismo europeo; se punta ad unire la classe operaia europea attorno alle proprie ragioni sociali indipendenti contro gli imperialismi europei; se in ogni lotta di classe nazionale, afferma gli interessi internazionali del movimento operaio, contro le logiche velenose dello sciovinismo nazionale, della xenofobia, della concorrenza tra lavoratori di diversi paesi; se mira a ricomporre l’unità del movimento proletario, al di là delle frontiere nazionali, attorno al progetto di un Europa dei lavoratori, che rovesci il capitalismo europeo e dia il potere agli sfruttati. La parola d’ordine degli Stati Uniti Socialisti d’Europa risponde a questa logica di fondo.

In questo quadro, avanziamo un programma generale di rivendicazioni transitorie all’altezza della gravità della crisi capitalistica. Rivendichiamo:

- Il blocco dei licenziamenti su scala continentale e la ripartizione del lavoro esistente attraverso la progressiva riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga (scala mobile delle ore di lavoro).

- L’abolizione di tutte le leggi e misure di precarizzazione del lavoro che hanno colpito per 20 anni le giovani generazione del vecchio continente.

- L’abrogazione dei trattati di Schengen, di tutte le misure xenofobe , di ogni forma di blocco delle frontiere europee : a favore del diritto universale all’immigrazione, del permesso di soggiorno a tutti i lavoratori migranti, della piena uguaglianza di diritti tra lavoratori europei e migranti.

- Un grande piano europeo di opere sociali, sotto controllo operaio e popolare, che crei nuovo lavoro per europei e migranti al servizio della qualità della vita, finanziato dall’abbattimento dei trasferimenti pubblici a banche e imprese e dalla tassazione progressiva dei grandi patrimoni, rendite, profitti.

- Un’indennità di disoccupazione garantita e dignitosa, a tempo indeterminato, per tutti i disoccupati che cercano lavoro, contro tutte le politiche di attacco ai sussidi sociali.

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- Una piena parità di salario a parità di lavoro in tutta Europa (contro le logiche di delocalizzazione continentale mirate a rapporti di supersfruttamento), combinata con un forte aumento generale dei salari, colpiti da 20 anni di austerità, e con la definizione di un salario minimo intercategoriale di 1500 euro.

- L’esproprio delle aziende che licenziano, senza indennizzo e sotto controllo operaio, a partire dalla loro occupazione da parte dei lavoratori: unificando attorno a questa parola d’ordine, le decine di migliaia di vertenze aziendali a difesa del lavoro che attraversano il continente.

- L’esproprio, senza indennizzo e sotto controllo operaio, dell’industria militare, alimentare, farmaceutica, di tutte le aziende che inquinano, dell’industria energetica: quale condizione decisiva per un controllo sociale sul territorio, sull’ambiente, sulla salute, sull’intero ciclo alimentare, su eventuali processi di riconversione produttiva.

- L’esproprio, senza indennizzo e sotto controllo operaio, delle banche nazionali e della banca europea (con la tutela dei piccoli risparmiatori): colpendo al cuore sistema e poteri della rapina capitalistica contro salari e servizi sociali; e acquisendo la leva decisiva di una pianificazione democratica dell’economia in funzione della esigenze sociali dei lavoratori e delle masse popolari.

Questo programma potrà essere realizzato compiutamente solo da un governo dei lavoratori, in ogni paese e su scala continentale: un governo che sopprima la burocrazia dorata di Bruxelles, sciolga i corpi repressivi degli stati nazionali e i corpi militari dell’imperialismo, abroghi tutti i trattati e gli “accordi” imperialistici imposti dagli stati nazionali europei e/ o dalla U.E. ad altri popoli; riconosca il pieno diritto di autodeterminazione dei popoli oppressi in Europa (nazione irlandese, popolo basco) e del mondo (a partire dal popolo palestinese, con la rivendicazione della distruzione rivoluzionaria dello Stato sionista e la creazione di una Palestina unita, laica, socialista, rispettosa dei diritti della minoranza ebraica); realizzi un vero potere della classe operaia e delle masse oppresse, basato su un sistema di consigli dei lavoratori. E’ sulla base di questo programma generale che i partiti, le organizzazioni, i gruppi aderenti del CRQI, nei diversi paesi europei, orientano il proprio intervento nella lotta di classe del proprio paese, e lavorano a raggruppare l’avanguardia di classe su scala continentale. Non si tratta di limitare l’internazionalismo europeista a puri rapporti di solidarietà tra lavoratori e partiti operai di diversi paesi (come fa la “sinistra europea” riformista); né alla sola promozione di iniziative propagandistiche continentali, come le marce o le manifestazioni una tantum a Bruxelles (come fa la “sinistra anticapitalista” centrista). Si tratta di lavorare nelle lotte di ogni paese per la generalizzazione continentale del movimento proletario; per lo sviluppo in ogni paese di esplosioni sociali contro l’austerità borghese che possano propagarsi su scala europea; per ricondurre ogni obiettivo immediato di lotta, all’interno di ogni paese, alla prospettiva generale di un’alternativa socialista continentale.

Questo è l’intervento della sezione greca del CRQI, nella crisi economica e sociale che ha investito la Grecia. Mentre la socialdemocrazia greca governa contro i lavoratori al servizio delle banche (greche, tedesche, francesi); mentre il KKE fa le sue iniziative separate di protesta; mentre Syriza chiede un referendum sull’austerità a futura memoria, la nostra sezione (EEK) avanza in ogni lotta la rivendicazione dello sciopero generale ad oltranza, con occupazione di aziende, università, scuole, uffici; il diritto di autodifesa nelle strade e nelle piazze dalle aggressioni poliziesche; la formazione di comitati di lotta e di sciopero da coordinarsi su scala nazionale; l’abolizione unilaterale del debito pubblico greco nei confronti di banche nazionali e internazionali, combinato con l’esproprio delle banche, sotto controllo dei lavoratori, e loro unificazione in un unico istituto nazionale di credito; la necessità della cacciata delle classi dirigenti greche e di tutti i loro partiti (di centrosinistra e centrodestra) responsabili della bancarotta de Paese, a favore di un governo dei lavoratori greci . E’ in questa azione di lotta radicale- dalla rivolta giovanile del’autunno scorso alla attuale crisi- che la EEK si è guadagnata l’attenzione speciale della repressione poliziesca; ma anche un rafforzamento della propria organizzazione. Naturalmente il EEK è ancora un piccolo partito, che non può orientare la dinamica generale della lotta. Ma è un partito che interviene nella lotta col metodo esemplare dei rivoluzionari: quello che introduce in ogni passo la prospettiva generale della rivoluzione sociale. Non si tratta dell’orientamento della sola sezione greca, ma del CRQI e della sua impostazione politica e programmatica. E’ lo stesso orientamento di fondo che il PCL ha seguito e segue nella crisi capitalistica italiana. In Grecia, in Italia, in tutta Europa, la costruzione di partiti comunisti rivoluzionari, attorno ai principi e ai metodi del leninismo è la necessità imposta, tanto più oggi, dalla crisi capitalistica che investe il mondo e ogni paese del vecchio continente.

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II PARTE: LA CRISI ITALIANA

IL CAPITALISMO ITALIANO NELLA CRISI EUROPEA E INTERNAZIONALE

La crisi capitalistica internazionale e la crisi europea impattano fortemente sul capitalismo italiano: sul suo peso internazionale, sulla sua struttura interna, sul blocco sociale che lo sorregge. Il sistema bancario ha retto, più che in altri paesi. Ma le debolezze strutturali della organizzazione produttiva e finanziaria del capitalismo italiano sono state evidenziate e aggravate dalla crisi. Mentre la linea di contraddizione tra Germania esportatrice e capitalismo mediterraneo accentua la contraddizione tra Nord e Sud del Paese. La classe operaia e le grandi masse popolari, a partire dal Sud, si configurano più che mai come le vittime sociali della crisi capitalistica.

Il capitalismo italiano, settima potenza capitalistica del mondo, è inevitabilmente colpito dalla grande crisi internazionale. Per alcuni aspetti in termini capovolti rispetto ad altri paesi capitalistici, specie anglosassoni: meno nel sistema bancario più nell’economia produttiva. Ma con profonde connessioni tra i due livelli .

Il sistema bancario italiano ha retto meglio di altri sistemi bancari l’impatto della crisi finanziaria. Nonostante i grandi processi di concentrazione bancaria degli anni precedenti le banche italiane erano meno esposte di altre banche europee sul versante dei cosiddetti “derivati” o “titoli tossici”. E sono meno dipendenti di altre banche europee dalla cosiddetta “raccolta all’ingrosso” (commercio di articoli finanziari con altre banche e società finanziarie). La modesta esposizione bancaria italiana verso i titoli greci (5 miliardi) a fronte dell’enorme esposizione tedesca e francese, fotografa questa realtà.

La produzione italiana è stata invece duramente colpita dalla recessione internazionale. L’Italia è il secondo esportatore in Europa, dopo la Germania. Colloca all’estero il 25% della sua produzione. La restrizione del mercato mondiale ha colpito l’Italia in termini rilevanti. Il calo del 5% del PIL nel 2009 e del 20% della produzione industriale nel medesimo anno ne è la misura. Con le uniche eccezioni del settore farmaceutico e agroalimentare, tutti i settori produttivi sono stati colpiti dalla recessione. Il calo delle esportazioni (-20%) è stato il volano della caduta.

La crisi ha accentuato le contraddizioni interne al capitalismo italiano, tra grande impresa e piccola-media impresa. Grandi gruppi industriali assistiti dallo Stato o partecipati dallo Stato e/o dalle banche, hanno risposto alla crisi – da cui pure sono stati colpiti – con grandi operazioni di scala. E’ il caso emblematico della Fiat, colpita dalla profonda crisi mondiale dell’industria automobilistica, ma capace di promuovere, dentro la crisi, una profonda ristrutturazione industriale e finanziaria del proprio assetto internazionale. Parallelamente Enel ha potuto rafforzare la sua presenza in Europa e guadagnare il primato in America Latina grazie all’acquisizione di Endesa. Finmeccanica può allargarsi sul mercato americano grazie alla rendita privilegiata del rapporto col Pentagono. ENI può espandersi in nuovi scacchieri strategici, lungo l’asse di un rapporto privilegiato con la Russia di Putin stabilito dal governo. Questi grandi gruppi dell’imperialismo italiano, per la loro consistenza, e per i rapporti politici, possono inserirsi da protagonisti nella riorganizzazione delle filiere produttive mondiali e sulla spartizione delle zone d’influenza.

Ma la piccola impresa concentrata al Nord ed in particolare nel Nord-Est che si era proiettata o nella subfornitura della grande o direttamente sull’esportazione, ha subito un colpo strutturale. La restrizione congiunta del mercato interno ed estero, la nuova difficoltà d’accesso al credito bancario, la debolezza del mercato italiano dei corporate-bond (obbligazioni aziendali) come leva sostitutiva di finanziamento, hanno prodotto o un drastico ridimensionamento o una moria industriale. Con effetti moltiplicatori sulla dinamica complessiva della recessione. Allo stesso modo i nuovi distretti industriali nel meridione, in Puglia, Campania e Basilicata in particolare, già messi in difficoltà dall’istituzione dell’euro che ha ridotto la loro competitività sui mercati europei, sono stati colpiti profondamente in questi ultimi tre anni, sino a far temere un nuovo e definitivo processo di deindustrializzazione in ampie aree meridionali.

La media impresa, che in quest’ultimo decennio ha costituito uno dei principali settori sia sul piano produttivo (con la sua capacità di mantenere le esportazioni italiane dopo l’introduzione dell’euro), sia su quello politico-

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sociale (assunzione del controllo di Confindustria, prima e dopo Montezemolo), ha visto dispiegarsi la crisi economica in un periodo cruciale del proprio assestamento strutturale, produttivo e finanziario. Questo settore era emerso prepotentemente alla ribalta dopo il 2001: nel suo versante industriale, i processi di semplificazione e ristrutturazione dei distretti, gli iniziali fenomeni di concentrazione e di sviluppo delle capofila, l’introduzione delle gare d’appalto europee in campo edile, stavano strutturando un nuovo tessuto di medie imprese, con una propria capacità di proiezione sui mercati mondiali; nel suo versante finanziario, l’espansione della bolla immobiliare, la rivalutazione di terreni e aree dismesse nelle principali città, le cartolizzazioni e le svendite del patrimonio pubblico o parastatale, avevano gonfiato il portafoglio di una nuova generazione di palazzinari e immobiliaristi, capaci di inserirsi nei consigli di amministrazione di medie e grandi banche, come di partecipare a rilevanti operazioni finanziarie, editoriali ed industriali nel nostro paese. La crisi economica ha inciso su entrambi questi versanti della media impresa italiana. Su quello finanziario ha portato al rapido tramonto di tanti “amici del quartierino”, colpiti nelle proprie disponibilità proprio mentre erano impegnati in operazioni di stabilizzazione del loro patrimonio, scalando o acquisendo imprese e aziende più grandi di loro. Su quello industriale, ha rapidamente consumato molte prospettive di sviluppo, ma anche aperto nuove possibilità di espansione: da una parte ha eroso i margini di profitto e di finanziamento, colpendo chi era impegnato (e scoperto finanziariamente) in costose ristrutturazioni e/o acquisizioni; dall’altro ha favorito nuove conquiste, in particolare per quelle medie imprese, non poche nel contesto italiano, non esposte con debiti (in grado cioè di autofinanziarsi) e non ancora valutate sui mercati finanziari (non ancora trasformate in SPA), in grado quindi di sfruttare a proprio vantaggio fallimenti e difficoltà dei concorrenti o della propria filiera di subfornitura.

E’ emersa, una volta di più, nel quadro della crisi, la debolezza strutturale del capitalismo italiano su due versanti complementari: la debole concentrazione proprietaria delle imprese (con un livello di concentrazione nell’industria che è sostanzialmente metà del livello francese e tedesco); e la partecipazione molto limitata al mercato azionario (dove l’Italia è fanalino di coda della UE). Fattori da sempre problematici, ma ancor più pesanti in un quadro di profonda crisi capitalistica internazionale.

Il contrasto di posizione e status tra grandi gruppi, piccola industria ed il nuovo tessuto di medie imprese (a sua volta diviso in vincenti e perdenti) – certo non nuovo ma approfondito dalla crisi – produce conseguenze sociali e politiche. I movimenti territoriali di autorganizzazione di piccole imprese con proprie piattaforme rivendicative (liberalizzazione del credito, riduzione delle tasse, più sostegno pubblico) hanno rappresentato al nord un fenomeno indicativo. Così come, su un piano diverso, la formazione della nuova alleanza commercianti/artigiani (Confcommercio, Confesercenti, CNA Confartigianato, Casartigiani) e la mobilitazione di settori di libere professioni per il ripristino delle tariffe minime, contro le “liberalizzazioni” di Bersani. Da versanti diversi, ampi settori di classi medie, colpiti dalla crisi, tendono a muoversi in proprio, rompendo rapporti di delega alle vecchie rappresentanze del grande capitale. L’agitazione della Lega Nord per la tutela della “piccola impresa del territorio” mira a entrare in questa contraddizione.

Si aggrava su tutta la linea la contraddizione Nord-Sud dal versante delle stesse classi dominanti.

La potenziale frattura europea tra la ricca Germania esportatrice e la parte povera dei paesi mediterranei importatori e “assistiti” dai fondi europei, sembra in parte riproporsi, su scala diversa, nel rapporto tra Nord e Sud Italia. Sotto la pressione materiale della crisi, ampi settori della piccola e media borghesia del Nord chiedono parte delle risorse pubbliche in varie forme destinate al Sud. La proposta federalista della Lega dà una traduzione politica a questa rivendicazione di classe. Le esercitazioni dell’Economist, per quanto accademiche, che disegnano una immaginaria scomposizione dell’Italia, tra un nord associato alla Baviera, e un sud regalato alla Grecia, danno la misura di come la questione meridionale tenda ad entrare in una nuova geografia di classe continentale. Di certo la partita del federalismo – lungi dall’essere un puro fatto istituzionale – investe l’intera organizzazione del capitalismo italiano e i rapporti interni allo stesso blocco dominante.

La crisi capitalistica e la crisi europea ripropongono in termini nuovi la questione dell’indebitamento pubblico dell’Italia. L’Italia ha, non da oggi, il terzo debito pubblico del mondo.

La crisi capitalistica ha risospinto il debito italiano verso vette drammatiche.

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La più debole consistenza del debito privato rispetto a quello di altri paesi europei, ammortizza in parte la crisi debitoria. Ma non la risolve. Tanto più in un contesto in cui la crisi di stagnazione o, nel migliore dei casi, di debolissima ripresa non consente realisticamente alcuna riduzione del debito. E ancor più se si considera la voragine del debito disaggregato degli enti locali verso le banche (derivati).

La conseguenza è che ogni governo borghese in Italia ha, tanto più oggi, un margine di manovra di spesa ridottissimo. E questo proprio nel momento in cui ampi settori di capitale e di classi medie chiedeva un sostegno pubblico pari a quello dei capitalismi rivali.

L’affermazione della linea tedesca in Europa attorno all’irrigidimento dei vincoli di bilancio pone il capitalismo italiano di fronte alla necessità di una nuova stretta. E al rischio di disgregazione del suo stesso blocco di riferimento.

In questo quadro d’insieme, le classi dirigenti e il loro governo hanno una sola possibilità di tenuta delle proprie contraddizioni: scaricare sulla classe operaia e sulle masse popolari un nuovo e più pesante cumulo di sacrifici sociali. Salari, lavoro, diritti, sanità, scuola, pensioni, pubblica amministrazione, sono e saranno terreni di una nuova offensiva sospinta dalla crisi. La nuova stagione antioperaia, varata dai governi europei e dalla BCE, troverà in Italia un laboratorio di frontiera.

L’IMPASSE DELLA SECONDA REPUBBLICA. L’INSTABILITA’ POLITICA ITALIANA

Lo scenario politico italiano presenta caratteristiche anomale rispetto al quadro generale degli altri paesi capitalistici europei. A 20 anni dal crollo della prima repubblica il sistema politico non ha conseguito una propria stabilizzazione. La borghesia ha realizzato indubbi successi: contro il movimento operaio sul terreno della lotta di classe (grazie ai servizi decisivi degli apparati riformisti politici e sindacali); e nel rapporto col quadro capitalistico europeo (ingresso nell’Euro). Ma non ha ancora definito una forma compiuta di proprio dominio politico.

Il tentativo intrapreso dai primi anni 90, col concorso decisivo del centrosinistra in gestazione, fu quello di assimilare il sistema politico istituzionale al modello europeo dell’alternanza bipolare, in funzione della stabilità del governo, e di un rafforzamento del potere esecutivo sulle assemblee legislative.

Tuttavia il bipolarismo italiano si è rivelato instabile. I due poli di alternanza che si sono configurati non trovano analogie in Europa, e racchiudono al proprio interno contraddizioni destabilizzanti. Da un lato un centrosinistra dominato, nella sua tormentata evoluzione, dalla lunga mutazione trasformista del vecchio gruppo dirigente dello stalinismo italiano (PCI) in un partito liberal borghese (metà nato e metà abortito), alla ricerca della rappresentanza del centro della borghesia italiana: ciò che ha scavalcato e rimosso la presenza di una socialdemocrazia di massa, caso unico fra i grandi paesi imperialistici europei. Dall’altro lato un centrodestra dominato dall’anomalia del Berlusconismo: un impasto di cesarismo, populismo, aziendalismo, fortemente condizionato da interessi familistici e travagli giudiziari. Di certo qualcosa di molto lontano dalle altre formazioni del Partito Popolare Europeo (PPE).

La particolare natura dei partiti egemoni dei due poli ha non solo bloccato ogni tentativo di americanizzazione bipartitica (fallimento del disegno Veltroni), ma ha selezionato coalizioni posticce e contraddittorie, con forti elementi di instabilità interna e condizionamenti paralizzanti (giustizialismo dipietrista da un lato, Lega Nord dall’altro); provoca croniche difficoltà di stabilizzazione dei governi di alternanza ; ostacola un punto di equilibrio tra i poli borghesi sul terreno del completamento degli assetti istituzionali della seconda repubblica, innescando ripetuti conflitti istituzionali tra diversi poteri dello Stato borghese (in particolare tra potere esecutivo e potere giudiziario) a un livello inusuale in altri Stati europei.

In questo quadro si ripropongono ciclicamente due reazioni speculari all’impasse del sistema politico istituzionale. La prima è una ricorrente tendenza populistico plebiscitaria di Berlusconi: un progetto che nella sua traduzione estrema mira ad una repubblica presidenziale, con un’elezione popolare diretta della Presidenza della Repubblica e contestualmente del Parlamento sulla base dell’attuale legge elettorale. Ciò che segnerebbe un’obiettiva svolta reazionaria semibonapartista. La seconda è la tentazione della “grande

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intesa” tra i due poli sui nuovi assetti della Repubblica, con un negoziato a tutto campo, comprensivo di una nuova legge elettorale (ciò che fallì nel ‘98 con la Bicamerale a guida D’Alema). Ma l’instabilità interna ai poli borghesi, e le complicazioni istituzionali, hanno paralizzato, ieri e oggi, entrambi i tentativi.

Su questo sfondo un settore della borghesia e del suo personale politico di riferimento, trasversale ai due poli, rivendica ormai apertamente la scomposizione politica degli attuali schieramenti, con la creazione di un nuovo partito borghese di Centro (“Partito della Nazione”), che raggruppi tutte le forze borghesi, ovunque oggi collocate, unicamente legate all’”interesse generale” del capitale: fuori dal berlusconismo, fuori dall’egemonia ex DS. Progetto che, a sua volta, può produrre nuovi effetti destabilizzanti sul già precario assetto bipolare.

E’ difficile avanzare una previsione certa sugli assetti della politica borghese in Italia nei prossimi anni. Ma è certo che l’attuale quadro d’instabilità e di crisi del bipolarismo, nella sua attuale configurazione, costituisce un ulteriore elemento di complicazione per la borghesia ai fini della gestione di quel programma di nuova offensiva sociale antioperaia che la crisi capitalistica ed europea oggi impongono.

NATURA, FORZA E CONTRADDIZIONI DEL III GOVERNO BERLUSCONI

Il III governo Berlusconi è il governo più reazionario che l’Italia abbia conosciuto dal 1960. Ma non configura ad oggi un “regime” compiuto. Il suo relativo successo politico in occasione delle elezioni regionali del marzo 2010, si combina col progressivo aggravamento delle contraddizioni irrisolte del suo blocco sociale, della coalizione politica su cui poggia, del suo progetto politico-istituzionale.

Il III governo Berlusconi non è la semplice riedizione aggiornata dei governi di Centrodestra degli anni 90 e dei primi anni di questo decennio. Dispone di una forza politica più robusta, e si fonda su un progetto politico più impegnativo: il completamento del processo di restaurazione sociale e di transizione istituzionale apertosi con la cosiddetta seconda Repubblica.

Unico governo in Europa ad aver retto l’impatto della crisi capitalistica in termini di consenso sociale, il governo Berlusconi deve la propria forza alla combinazione di due fattori eccezionali.

a) Ha capitalizzato a proprio vantaggio in forma cumulativa, i ripetuti fallimenti dei governi di centrosinistra che si sono susseguiti in Italia negli ultimi 15 anni. Nelle sue diverse formulazioni politiche, il Centrosinistra italiano - per conto della grande borghesia – ha gestito nel lungo periodo politiche d’urto antioperaie e antipopolari mediamente più consistenti che in altri paesi europei: a fronte di una maggiore difficoltà strutturale a rispettare i parametri della U.E. Queste politiche d’urto hanno prodotto due effetti congiunti: lo sfaldamento di un blocco sociale di riferimento fondato sulla subordinazione del lavoro dipendente al grande capitale; lo spostamento progressivo e ulteriore dei rapporti di forza tra le classi . Il governo Berlusconi ha capitalizzato entrambi questi effetti.

b) Ha incassato a proprio vantaggio la presenza al governo – unico caso in Europa – di una forza xenofoba (Lega Nord). In altri paesi europei, il rafforzamento e il successo di forze xenofobe ha svolto e svolge un ruolo politico destabilizzante e di contraddizione: essendo tutte queste forze, senza eccezione, forze d’opposizione. In Italia la Lega ha messo il successo del proprio populismo xenofobo al servizio della stabilità del governo, di cui è forza fondante e di primo piano. Anche per questo l’asse con Bossi rappresenta per Berlusconi il fondamento ineliminabile del proprio esecutivo. E questo asse è tanto più importante sul terreno della tenuta sociale, considerando la forte presenza conservatrice della Lega nella classe operaia del Nord.

In questo quadro generale, l’attuale governo Berlusconi ha un rapporto più solido con la grande borghesia di quanto non avessero i precedenti governi di Centrodestra. Nel 94, il primo governo Berlusconi fu un incidente di percorso per il grande capitale che aveva investito strategicamente nella soluzione politica del Centrosinistra e della concertazione. Nel 2001 il secondo governo Berlusconi nacque nel segno di un compromesso con la FIAT e la grande borghesia (col ruolo di Ruggero come uomo della FIAT nell’esecutivo): ma quel compromesso si sfarinò sotto il peso delle contraddizioni interne della coalizione e delle politiche “autocentrate” di Berlusconi.

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Oggi il quadro è diverso. Da un lato la maggiore forza politica e parlamentare della coalizione di governo; dall’altro l’assenza di una soluzione di ricambio, hanno spinto il grosso dei poteri ad un investimento attivo nel governo Berlusconi. Ciò non significa affatto la scomparsa dell’anomalia Berlusconi nella percezione del grande capitale. Significa che a differenza che in passato il grande capitale non lavora per rimuovere Berlusconi. Lavora per utilizzare sino in fondo l’occasione del suo governo, come leva di completamento del proprio programma di rivincita reazionaria contro le classi subalterne. Per un verso, il quadro della crisi capitalistica, il relativo indebolimento di alcuni grandi poteri (da Unicredit alla FIAT), il maggior peso del soccorso pubblico al profitto d’impresa; per altro verso, l’assenza di un quadro di mobilitazione sociale, seppur controllata, paragonabile a quello del 94 o del 2002, concorrono a rafforzare il rapporto tra borghesia e governo. E a indebolire la ricerca borghese dell’alternativa al Cavaliere.

Ma il rapporto tra interesse generale della borghesia e interessi particolari della coalizione di governo non è affatto lineare. E sullo sfondo della crisi capitalistica, l’intreccio fra le contraddizioni interne al blocco sociale di Centrodestra, i contrasti politici di prospettiva e di leadership all’interno della coalizione, i contenziosi irrisolti sulla riforma istituzionale, gli scandali giudiziari , dissemina di mine l’itinerario del governo. Entro un quadro generale segnato dall’esaurimento della spinta propulsiva del berlusconismo in fatto di espansione del proprio consenso elettorale e sociale

A) Il governo ha raccolto la domanda di classe del padronato su molteplici terreni: indebolimento strutturale del contratto nazionale di lavoro e delle normative sulla sicurezza; ripristino sostanziale delle note di merito nella pubblica amministrazione; nuova privatizzazione di servizi pubblici; svolta sull’energia nucleare; apertura organica all’interesse privato nell’ambito dell’Università e della Scuola (fondazioni); avvio di un progetto complessivo di “riforma” del Welfare, in direzione della privatizzazione dei diritti (enti bilaterali). Complessivamente, è un salto di qualità dell’offensiva sociale dominante. Ma il vincolo di rigidità imposto dall’indebitamento pubblico impedisce al governo italiano un intervento statale a sostegno del capitale paragonabile a quello di paesi capitalistici concorrenti. E per questo lo costringe a lasciare inevasa la richiesta centrale di larga parte della sua base sociale: la riduzione fiscale sull’impresa, lo sblocco del patto di stabilità per i comuni (per saldare i debiti con imprese e banche), il finanziamento pubblico delle infrastrutture promesse ai costruttori. Il ricorso all’impopolare scudo fiscale a sostegno del capitale malavitoso, ed il saccheggio dei Fondi Fas delle regioni meridionali per finanziare la semplice manutenzione degli ammortizzatori sociali, misurano l’esiguità del margine “redistributivo” del governo. Il governo, ed in particolare la Lega, risponde all’insoddisfazione della propria base sociale nel Nord con l’annuncio del federalismo. Ma proprio l’attuazione del federalismo è destinata ad approfondire la linea di frattura con le masse meridionali, e con le stesse esigenze clientelari e di spesa delle amministrazioni del Sud. I contrasti interministeriali attorno al governo della spesa e al ruolo di Tremonti, sono sintomi di una contraddizione strutturale destinata ad approfondirsi.

Peraltro la perdita di milioni di elettori del Centrodestra nelle elezioni europee del 2009, e nelle regionali del 2010 (con l’erosione elettorale, seppur minore, al di là dell’apparenza, della stessa Lega) rivela già oggi la difficoltà strutturale del Centrodestra a conservare (e tanto più ad espandere) il proprio blocco di consenso.

B) La corsa alla successione politica del berlusconismo, all’eredità e alla spartizione del suo blocco sociale, segna già oggi la vita interna alla coalizione di governo e allo stesso PDL. Ed è destinata ad aggravarsi. L’esplosione del contrasto Berlusconi-Fini si colloca in questo quadro. L’unificazione tra Forza Italia e AN non ha dato vita ad un partito borghese popolar-conservatore capace di assorbire e assolvere l’anomalia berlusconiana. Al contrario gli interessi particolari di Berlusconi in campo giudiziario e mediatico, gli stili di gestione della “nuova” formazione, continuano ad avere un peso dominante nel partito. Questo fatto – se da un lato preserva il trascinamento populistico elettorale del berlusconismo – dall’altro moltiplica i fattori di contraddizione e instabilità politica all’interno della PDL. Sia nell’immediato,sia nella prospettiva. Nell’immediato, il carattere informe ed evanescente delle strutture della PDL come partito del Capo copre e sospinge una costellazione caotica di cordate, corporazioni, potentati locali impegnati in una permanente guerra per bande (v. Sicilia). In prospettiva la perdurante identificazione tra berlusconismo e PDL, anche sul terreno della riconoscibilità elettorale, interroga la capacità di tenuta del partito. E sospinge una guerra aperta o sotterranea nella PDL, e al di fuori della PDL, per la successione al berlusconismo. Si configurano tre assi di polarizzazione. Un asse Tremonti-Lega, impegnato a fare della Lega Nord e del suo blocco di potere la vera

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erede del patrimonio politico e sociale del berlusconismo nel Settentrione (in un rapporto di concorrenza e/o negoziato con Comunione e Liberazione). Un’asse Finiano, attorno all’operazione Fare Futuro, con un baricentro prevalentemente centro-meridionale, determinato a contrastare l’egemonia berlusconiano-leghista nel Centrodestra, dotato di rapporti e sostegni nell’establishment (e in Usa), ma tuttora incerto sulla via politica con cui perseguire il disegno (interno o esterno alla PDL). Un’asse cosiddetto “neodoroteo”all’interno della PDL (Cicchitto- Quagliariello) che si organizza come corrente per gestire la continuità della PDL nella prospettiva del dopo Berlusconi, contro ogni ipotesi di sua scomposizione. E che assembra (non senza contraddizioni) parte rilevante della vecchia leadership di A.N. staccatasi da Fini .

Di certo la PDL non si presenta come formazione politica stabile. Il berlusconismo rappresenta al tempo stesso, la sua forza, e il suo potenziale dissolvente. Peraltro un principio di disgregazione del campo berlusconiano del PDL è già in atto

L’anomalia berlusconiana e le contraddizioni interne al Centrodestra investono la stessa stabilità del quadro politico di governo. La crisi europea e l’emergenza economica nazionale – che pure amplificano le contraddizioni della maggioranza- frenano effetti politici dirompenti. Ma la relativa certezza di un governo di legislatura che appariva acquisita dopo il voto regionale è ormai tramontata.

LA CRISI DEL P.D. E DEL CENTROSINISTRA

La crisi del P.D. è al centro della crisi più generale del Centrosinistra. E’ una crisi che investe contemporaneamente il blocco sociale di riferimento, la costruzione politica dell’alternanza al berlusconismo, le relazioni interne al partito. E’ una crisi che segna la paralisi del progetto di un partito liberale di massa quale rappresentanza politica centrale della borghesia e che ipoteca la stessa tenuta di questa formazione politica. La crisi del P.D. concorre alla crisi più generale degli attuali assetti del bipolarismo italiano.

La crisi del P.D. è innanzitutto la crisi del suo blocco sociale di riferimento. La nascita del P.D. rappresenta il punto d’approdo e d’incontro della lunga mutazione della rappresentanza politica maggioritaria del movimento operaio italiano e della ricomposizione di una parte della diaspora democristiana e liberal-borghese, attorno al progetto di costruzione di un partito centrale della borghesia italiana.

Lungo gli anni 90 e nella prima metà di questo decennio i settori decisivi della grande borghesia hanno sostenuto questo processo, anche in risposta all’anomalia berlusconiana.

Peraltro, la grande maggioranza della burocrazia DS – a partire dalla componente Dalemiana – ha visto nel rapporto con la grande borghesia la leva trainante del progetto del P.D.: e ha utilizzato tutte le posizioni di governo, ciclicamente acquisiste, sul piano nazionale e locale per approfondire ed estendere proprie relazioni materiali con le associazioni confindustriali, le banche, i potentati territoriali. Il parallelo superamento del vecchio cordone ombelicale centrale con la CGIL, come base d’appoggio della socialdemocrazia, ha rappresentato la faccia speculare di questo processo.

Prima le crisi ripetute dei governi di Centrosinistra, poi il ritorno del berlusconismo, hanno profondamente lesionato questa costruzione. Nel Nord l’avvicinamento al Centrodestra e alla Lega di vecchie articolazioni di riferimento D.S.- anche nel mondo bancario- colpisce a fondo il P.D.. Nel Sud il crollo del bassolinismo, scompagina la principale relazione del P.D. con la borghesia meridionale, e il blocco sociale costituito attorno ad essa. Parallelamente, l’impossibilità di una coerente opposizione P.D. al governo Berlusconi – inibita dal sostegno a Berlusconi da parte della borghesia confindustriale e dalla natura borghese del P.D. - indebolisce ulteriormente le relazioni di massa del partito con larga parte del vecchio popolo della sinistra e con le classi subalterne. Nei fatti il P.D. conosce la sua crisi più profonda di credibilità agli occhi dell’establishment (scontro De Benedetti- D’Alema), nello stesso momento in cui consuma la sua più grave crisi di credibilità presso il mondo del lavoro dipendente (in particolare nel settore privato) e le masse giovanili. E’ la crisi della ragione sociale del P.D.

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La crisi del P.D. è, in secondo luogo, una crisi di linea politica. Il progetto veltroniano di “autosufficienza” del partito dentro uno sviluppo bipartitico della politica italiana, si è risolto in un totale fallimento. Ma il progetto alternativo coltivato dalla nuova segreteria del P.D., attorno alla ricomposizione di uno schieramento d’alternanza, si trova in un’empasse di fondo. La ricerca di una prospettiva di accordo con la UDC, è indebolita dalla stessa crisi del P.D, e cozza con una strategia di fondo di Casini mirata alla ricomposizione di un partito di Centro a egemonia cattolica costruito sulle rovine del berlusconismo e del P.D.

Sul versante opposto la costruzione di una sinistra organica del Centrosinistra attorno a SEL segna il passo, mentre il successo di Vendola e del vendolismo minaccia di irrompere nelle stesse contraddizioni del P.D. sul terreno della lotta per l’egemonia nel Centrosinistra. Parallelamente, la crisi congiunta del P.D. e della Federazione della sinistra ha alimentato elettoralmente la IDV e il populismo Dipietrista: che non solo si candida a contendere al P.D. la rappresentanza del “popolo della sinistra” ma ostacola su ogni terreno lo spazio di manovra del PD (verso la Udc, verso il governo) con un giuoco spregiudicato di “veto” o di scavalco (federalismo). Infine il fenomeno del grillismo, forte nell’elettorato giovanile e non integrabile ad oggi nel centrosinistra, concorre ad indebolire l’alternanza. Questa impasse della prospettiva di governo d’alternanza ricade, a sua volta, amplificandola, sulla crisi del P.D. con i poteri forti. La crisi della ragione sociale e la crisi del progetto politico si alimentano reciprocamente.

In terzo luogo, la crisi del P.D. è crisi cronica degli assetti interni, a tutti i livelli di vita del partito. La segreteria Bersani non ha conseguito il recupero di controllo del P.D.. Da un lato si trascina e si ripropone ciclicamente, sul piano nazionale, lo scontro D’Alema-Veltroni, ereditato dalla storia D.S. con effetti a cascata sull’intero corpo del partito; dall’altro lato la crisi di direzione centrale, moltiplica il peso dei potentati locali del PD cresciuti attorno al ruolo istituzionale dei governatori regionali e dei sindaci, ancor più rafforzato dal progetto federalistico: un peso che sfocia più volte nell’aperta contestazione all’intero gruppo dirigente nazionale e nella proposta del “partito federale” (Chiamparino). Infine, si aggiunge un contenzioso generazionale sospinto dal rampantismo di figure locali emergenti (Renzi). La risultante d’insieme di questo quadro è una crisi del baricentro di comando del P.D.. Effetto e concausa della crisi sociale e politica del partito.

Nelle condizioni date, il P.D. non si configura come formazione politica stabilizzata. Il progetto di costruzione di un partito liberale di massa è in larga misura fallito. Ciò non significa affatto necessariamente, dissoluzione e scomparsa del P.D. Ma processi futuri di scomposizione non si possono escludere. Ed avrebbero effetti dirompenti su tutto l’assetto delle rappresentanze politiche in Italia.

RUOLO E CRISI DELLE SINISTRE

La crisi strutturale del P.D. e la sua natura liberal borghese tiene aperto un campo di rappresentanza, politico ed elettorale, delle sinistre riformiste (SeL e Fed). Ma il peso delle loro scelte politiche, l’esclusione dalla rappresentanza istituzionale, i processi di frammentazione dei loro gruppi dirigenti, la restrizione materiale dello spazio riformistico, concorrono a determinare, nel loro insieme, una crisi profonda delle sinistre italiane.

La crisi del P.D. e i limiti di espansione del giustizialismo dipietrista concorrono a preservare uno spazio politico per la sinistra riformista. Elettoralmente, si tratta di uno spazio complessivo di circa 2 milioni di voti (5-6%). Socialmente si esprime in una molteplicità di legami associativi, sindacali, di movimento, esterni ed estranei all’orbita di controllo di un P.D. liberale. Politicamente si manifesta in una relativa capacità di mobilitazione militante sul piano nazionale, il cui indubbio ridimensionamento è stato inferiore al calo elettorale. La crisi strutturale del P.D. e l’impossibilità di una sua riconversione all’indietro in quanto tale verso la socialdemocrazia, favoriscono, nonostante tutto, la preservazione dello spazio di presenza della sinistra. Il progetto veltroniano di americanizzazione della politica italiana in direzione del bipartitismo ha dunque conosciuto, anche su questo versante, un insuccesso.

Tuttavia la crisi distruttiva del fenomeno “Rifondazione”, per responsabilità dei suoi gruppi dirigenti, ha nettamente ridimensionato peso politico e capacità attrattive delle sinistre riformiste. L’ambizione bertinottiana di una socialdemocrazia di sinistra del 15% dei voti, a sinistra di un P.D. liberal-veltroniano (secondo la logica

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spartitoria della rappresentanza inizialmente discussa tra Bertinotti e Veltroni) ha subito una umiliazione irreversibile. Prima la pesantissima corresponsabilizzazione ministeriale e istituzionale del PRC nel governo Prodi. Poi l’estromissione dal Parlamento Nazionale. Poi ancora la scissione del gruppo dirigente nazionale (Vendola-Ferrero), dentro una guerra per il controllo del partito hanno prodotto un trauma profondo. Sia nell’impatto con l’immaginario collettivo, sia nello status politico-istituzionale della sinistra, in relazione al suo stesso disegno strategico.

Questa situazione d’insieme si articola diversamente in relazione a SEL e alla Federazione della Sinistra.

Sinistra, Ecologia e Libertà – nata dall’unificazione tra la minoranza bertinottiana del PRC, larga parte di Sinistra Democratica di provenienza D.S. , di un settore dei Verdi – è ad oggi un crocevia transitorio di progetti diversi. Comune è l’aspirazione ad occupare uno spazio stabile e riconosciuto nel costituendo schieramento politico dell’alternanza. Ma un settore di SEL mira alla creazione di un partito strutturato. Un altro settore aspira a negoziare un “ritorno” nel P.D.. Un altro settore ancora si concepisce come puro supporto del disegno di Vendola di “scalare” i vertici del Centrosinistra quale candidato premier per il 2013. Sono progetti destinati ad entrare tra loro in collisione. Sicuramente, il contrastato successo di Vendola nelle elezioni regionali pugliesi ha costituito e costituisce un punto di forza di SEL. Ma anche, dialetticamente, il suo limite e la sua debolezza. Tutta la sostanza del Vendolismo, al netto della retorica comiziale, sta oggi nel tentativo di usare il governo regionale come trampolino di esportazione dell’operazione pugliese in tutta Italia, scavalcando a destra “la sinistra del Centrosinistra”, in direzione della rappresentanza generale del polo borghese liberale, per il 2013: sfruttando la crisi cronica di leadership del P.D. e utilizzando le coperture di settori liberali di Centrosinistra alla ricerca di candidati vincenti “contro Berlusconi” (v. Repubblica-Espresso). Ma questo disegno comporta il rischio della dissoluzione di SEL nelle cosiddette “fabbriche di Nichi”: aggregazioni populiste attorno al candidato premier, fuori e contro ogni quadro collettivo di partito e di progetto. E minaccia di ridurre SEL a piccolo tassello residuale di un’operazione personalistica che la trascende. E’ la riproposizione, in altra forma, del bertinottismo e del cofferatismo: dell’ambizione governativa e/o istituzionale da parte di un leader della sinistra, fuori ed oltre il proprio campo di rappresentanza, al servizio del governo della borghesia italiana. E’ un’ambizione, come insegna l’esperienza, dalle fortune personali assai dubbie, ma dall’impatto dirompente sul soggetto politico che la subisce. Di certo, il vendolismo rappresenterà un fattore di approfondimento di tutte le contraddizioni di Sel. E un’ipoteca sul suo futuro.

La Federazione della sinistra – nata dall’incontro di PRC, PDCI, Socialismo 2000 , e Lavoro e Solidarietà – si è attestata sul livello precario della sopravvivenza.

La conquista di 16 consiglieri regionali e di diversi assessori nelle giunte borghesi di Centrosinistra, ha temporaneamente concorso a stabilizzare, pur a livelli minimi, la presenza istituzionale di questa aggregazione riformista. I rapporti sul territorio con settori della FIOM e della CGIL, con alcune espressioni del sindacalismo di base, con realtà di movimento , con l’associazionismo pacifista , sostengono uno spazio politico di presenza. La sua capacità di mobilitazione nazionale – come si è visto nella manifestazione del popolo viola del 5 dicembre 2009 - resta tutt’altro che irrilevante. Ed è molto più consistente di quella di SEL, pur a parità di voti.

Tuttavia, lo spazio politico di manovra della FED, in relazione alla suo stesso disegno politico appare sempre più esiguo. L’eredità del fallimento di Rifondazione, continua a gravare sulla credibilità della FED, agli occhi di ampi settori del suo vecchio elettorato o del suo elettorato potenziale. La linea varata dal PRC a Chianciano segnata da un confuso equilibrismo tra la rappresentazione scenica della “svolta a sinistra” e la continuità delle coalizioni con liberali e giustizialisti, ha esaurito larga parte del suo (già modesto) richiamo. In più si manifesta una contraddizione evidente. Da un lato il lungo corso delle politiche di coalizione, nazionali e locali, col Centrosinistra, da parte di PRC e PDCI nel corso di ben 15 anni ha accresciuto la dipendenza della FED dal Centrosinistra: sia sotto il profilo dei legami politici e materiali; sia sotto il profilo della stessa dinamica elettorale che tende a penalizzare in modo particolare le poche presentazioni autonome e alternative della FED in quanto sganciate da un progetto. Dall’altro lato la maggiore dipendenza dal Centrosinistra produce un ulteriore indebolimento della forza negoziale della FED: minata sia dalla continuità del declino elettorale, sia dall’invadenza del vendolismo, sia dall’assenza di un ruolo di direzione reale, o di presenza influente, sul terreno della lotta di classe .

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In questa contraddizione sta la profonda difficoltà di prospettiva dei gruppi dirigenti della FED.

E la riapertura, in particolare nel PRC, di divaricazioni politiche, intrecciate con le vecchie lotte d’apparato per la leadership. La linea di apertura federativa a SEL, contando su un suo parziale disimpegno da Vendola, è sospinta dall’area grassiana, in funzione di un nuovo equilibrio interno nel PRC e nella FED (a scapito di Ferrero). La linea della cosiddetta “unità dei comunisti” (PRC-PDCI) come baricentro della FED avanzata dalla componente Ernesto, mira a spostare il suo asse a vantaggio di Diliberto e del gruppo dirigente PDCI. La linea della conservazione dell’attuale equilibrio della FED, avanzata da Ferrero, mira a salvaguardare col PRC, la sua attuale segreteria. Pertanto la logica di collaborazione coi liberali – nella prospettiva dichiarata di un CLN da Ferrero a Casini – continua a convivere con la logica burocratica di piccoli apparati che si disputano il controllo delle proprie rovine politiche. L’intero processo costituente della FED, in direzione di fatto di un “nuovo soggetto politico” sarà il palcoscenico annunciato di un nuovo capitolo di questa guerra. Che non riguarda né i lavoratori, né tantomeno il socialismo, ma solo il destino di piccole burocrazie.

Il quadro d’insieme della sinistra riformista è molto chiaro. I gruppi dirigenti sono organicamente incapaci di segnare una svolta rispetto a quelle politiche della disfatta che invece ripropongono in tutti gli aspetti di fondo. I loro attuali assetti di rappresentanza sono tutt’altro che stabilizzati, ma preludono a nuove possibili scomposizioni e ricomposizioni.

A fronte della natura del P.D. e della sua crisi, permane lo spazio politico vacante di una socialdemocrazia italiana, come rappresentanza sociale e strumento di controllo burocratico delle dinamiche di lotta. Ma il processo di ricomposizione unitaria di un soggetto socialdemocratico, dopo la disfatta di Rifondazione, è ancora in alto mare. Per l’esiguità delle forze impegnate in questo progetto, le loro insolubili contraddizioni interne, la fragilità delle loro radici sociali.

LIBERALI, GIUSTIZIALISTI, RIFORMISTI FALLISCONO CONTRO LE DESTRE. SOLO LA CLASSE OPERAIA PUO’ APRIRE UNA PAGINA NUOVA

La coalizione di Centrosinistra – composta da liberali, giustizialisti, riformisti – è oggi il principale punto di forza del Centrodestra. Per la sua natura di classe è incapace sia di attrarre settori operai e popolari imprigionati nel blocco reazionario (al Nord e al Sud) sia, a maggior ragione, di mobilitare il movimento operaio nella contrapposizione al governo. La risultante è, nonostante tutto, la tenuta di Berlusconi. Solo una rottura della classe operaia con liberali e giustizialisti, e l’apertura di una mobilitazione di classe anticapitalistica, possono aprire una pagina nuova sullo stesso terreno della lotta al berlusconismo.

Vent’anni di storia politica italiana hanno evidenziato sia la natura borghese del Centrosinistra, sia la sua impotenza contro Berlusconi. I due aspetti sono profondamente intrecciati. Nelle sue diverse composizioni, il Centrosinistra si basa sulla subordinazione del lavoro dipendente agli interessi della grande borghesia italiana ed europea. Dalla sua fase storica di incubazione (governo Amato, Ciampi, Dini) sino alla sua realizzazione dispiegata (governi Prodi, D’Alema, Amato e ultimo governo Prodi), questa è stata la sua costante. Ogni volta burocrazie sindacali e sinistre politiche hanno fatto da stampelle, il grande capitale ha tratto gli utili. Questa parabola ha avuto non solo una conseguenza sociale, ma una conseguenza politica. Milioni di lavoratori, economicamente impoveriti, socialmente disgregati, politicamente delusi, hanno ripiegato nella passività e nella sfiducia generale verso “la politica”. Altri settori dello stesso mondo del lavoro, confusi e disorientati, privi di riferimento indipendente, hanno finito col farsi irretire dalla demagogia populista “comunitaria” e “territorialista”, a rimorchio della piccola e media borghesia del nord. La combinazione dei due processi (passivizzazione e corruzione reazionaria) nel cuore stesso delle classi subalterne, è alla base, nel lungo periodo, della tenuta di Berlusconi e della ripresa della Lega (dopo il declino degli anni ’90).

Il fallimento del Centrosinistra contro le destre non riguarda solamente le sue esperienze di governo, ma la sua stessa esperienza di “opposizione”. Nella precedente legislatura Berlusconi (2001-2006) l’ “opposizione” del Centrosinistra si diede la missione di subordinare tutti i movimenti sociali e politici di massa, e innanzitutto il movimento operaio, alle compatibilità dell’alternanza capitalistica. Cofferati e Bertinotti furono i sacerdoti

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della missione. Nella presente legislatura l’ “opposizione” del Centrosinistra si mostra incapace persino di simulare e sostenere un movimento sociale di lotta. Anche per riflesso indiretto di un ulteriore spostamento “a destra” del suo baricentro. Un P.D. compiutamente borghese, ossessionato dal recupero della borghesia e popolato da ex dirigenti CISL e Margherita, reagisce alla divisione sindacale non col sostegno fosse pure platonico alla CGIL – come i D.S. nel 2002 – ma col silenzio. Una burocrazia CGIL priva di sponda organica (e senza il condizionamento dell’operazione politico-personalistica di Cofferati), reagisce alla propria estromissione dalla concertazione, non con una mobilitazione di massa “controllata” come nel 2002, ma con pure iniziative di facciata: con l’ansia di recuperare “il tavolo” con Confindustria. Le sinistre riformiste, dal canto loro, sono ridotte alla paralisi dall’effetto congiunto della propria crisi verticale e dalla politica di coalizione col Centrosinistra.

La risultante di questa catena di subordinazioni è il relegamento dell’opposizione al solo terreno “democratico” e/o “giustizialista”. Ma una battaglia democratica dei liberal populisti – separata o contrapposta ad una ragione sociale riconoscibile – si è rivelata del tutto impotente contro Berlusconi e la xenofobia. Ha sicuramente riempito a più riprese piazze importanti, mobilitando settori giovanili e intellettuali: ma è rimasta confinata dentro il perimetro del popolo della sinistra, senza coinvolgere il livello più largo e profondo della classe operaia e delle masse popolari; e, a maggior ragione, senza incidere sui settori popolari e operai del blocco reazionario.

Per di più la battaglia democratica dei liberal populisti si rivela contraddittoria ed equivoca sullo stesso terreno della democrazia. Come dimostrano gli equivoci del giustizialismo (in fatto di magistratura, immigrazione, poteri di polizia), seppur mascherati dall’antiberlusconismo di Di Pietro. O come dimostrano le proposte di riforma istituzionale del P.D., che oscillano tra il negoziato sul presidenzialismo e la riproposizione della Bozza Violante: ma che in ogni caso accettano e rivendicano un ulteriore rafforzamento del potere esecutivo, in linea con le richieste di Confindustria. E’ la riprova che una battaglia antiberlusconiana nel nome di Confindustria, tradisce non solo gli operai ma la democrazia. Senza peraltro scalfire Berlusconi.

Solo la classe operaia, e un blocco sociale alternativo raccoltosi attorno ad essa, possono portare sino in fondo la lotta al berlusconismo e alla reazione, aprendo la via ad una soluzione di classe alternativa alla crisi della Repubblica. In 15 anni di storia italiana, solo la classe operaia e la sua mobilitazione sociale hanno sconfitto Berlusconi e arrestato la sua offensiva. E’ accaduto nel ’94 col grande sciopero generale contro l’attacco del primo governo berlusconiano alla previdenza pubblica. E’ accaduto, in forme diverse nel 2001-2003 quando una robusta massa critica di movimenti sociali e politici, e innanzitutto la mobilitazione dei lavoratori, arrestò l’affondo del 2° governo Berlusconi contro l’articolo 18. Ma in entrambi i casi la lotta del mondo del lavoro e la sua stessa vittoria, furono sacrificati sull’altare della coalizione con la borghesia: prima contenendo e diluendo la dinamica di lotta e le sue potenzialità radicali; poi liquidando le sue ragioni sociali a favore di coalizioni di governo confindustriali.

Si pone ora la necessità di una svolta che tragga le lezioni di questa esperienza. La conquista della piena indipendenza di classe dal liberalismo e dal populismo, rappresenta dopo 15 anni, la condizione indispensabile di una pagina nuova. La condizione indispensabile per liberare una mobilitazione sociale radicale e continuativa, all’altezza del nuovo livello di scontro; per offrire una ragione sociale riconoscibile e unificante alla stessa battaglia democratica ; per contrastare ogni nuovo tentativo di subordinazione delle lotte all’alternanza confindustriale, a favore di una vera alternativa, di un governo dei lavoratori.

Questo è il punto cruciale e di fondo. La lotta contro l’egemonia liberale-populista sulla lotta al berlusconismo, non riguarda solamente (se non di riflesso) il tema della “radicalità” dell’opposizione antigovernativa. Riguarda essenzialmente la diversa angolazione di classe dell’opposizione.

Liberali e giustizialisti lavorano ad entrare nelle contraddizioni del Centrodestra dal versante degli interessi di Confindustria: tutta la loro politica è indirizzata a spiegare alla grande borghesia che l’eliminazione dell’anomalia Berlusconi potrebbe essere vantaggioso per l’interesse generale del capitalismo italiano. Da qui la critica alle destre per le timidezze o involuzioni nelle liberalizzazioni, la proposta di abbattimento o soppressione dell’IRAP e degli studi fiscali di settore, le proposte emergenti di una “razionalizzazione” delle norme contrattuali in chiave concertativa, la proposta di maggiori trasferimenti pubblici alle imprese o della difesa dell’ “autonomia” di banche e banchieri contro le ingerenze politiche della Lega.

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Noi proponiamo al movimento operaio e a tutte le sinistre politiche e sindacali, di entrare nelle contraddizioni del blocco sociale delle destre dal versante delle ragioni indipendenti dei lavoratori. Da qui la proposta di un programma di rivendicazioni sociali indipendenti che unifichi le lotte contro la crisi capitalistica e le classi dirigenti, e che miri a liberare settori operai e popolari dalle suggestioni reazionarie delle destre per conquistarli all’unità di classe. La proposta della radicalizzazione dell’opposizione di massa in funzione dell’alternativa di classe, è il risvolto naturale di questa impostazione. Come lo è una battaglia coerentemente democratica per una legge elettorale pienamente proporzionale, estranea a ogni logica di governabilità borghese.

L’esperienza di 15 anni di lotte al berlusconismo conferma tutto il patrimonio storico dello scontro teorico e politico tra marxismo rivoluzionario e riformismo nella lotta alla reazione.

La socialdemocrazia e lo stalinismo hanno sempre teorizzato e praticato, contro la reazione, il “fronte popolare” con la cosiddetta “borghesia democratica” o “liberale”, al fine di subordinare la classe operaia all’ordine capitalistico, contro ogni sua potenzialità rivoluzionaria.

La I Repubblica italiana nel secondo dopoguerra nacque dalla liquidazione delle potenzialità rivoluzionarie della resistenza partigiana per opera della politica di unità nazionale con la DC e i partiti borghesi imposta da Mosca e da Togliatti, e sotto il sigillo del compromesso costituzionale. Ciò che consentì alla borghesia italiana di ricostruire il proprio dominio sociale e il proprio apparato dello Stato contro i lavoratori. La repressione del movimento operaio negli anni ’50, l’addestramento di strutture parallele negli anni ’60 (Gladio), lo stragismo di settori statali con complicità fasciste negli anni 70, furono l’altra faccia della democrazia borghese celebrata dalla Costituzione.

La II Repubblica nacque nei primi anni 90 sullo sfondo del crollo del Muro di Berlino, dello scioglimento del PCI, della crisi verticale dei partiti dominanti della I Repubblica borghese (DC e PSI), sotto la spinta di un’operazione convergente del grosso del grande capitale, del vecchio apparato stalinista, di larga parte della magistratura borghese. Nel nome immancabile della “democrazia” e del “rinnovamento” della politica, le direzioni maggioritarie del movimento operaio accettarono non solo la subordinazione dei lavoratori alla “governabilità” capitalistica dell’ingresso nell’Europa di Maastricht ma, in funzione di questa, un arretramento della stessa democrazia borghese costituzionale del dopoguerra (abolizione del proporzionale, potenziamento dei poteri esecutivi antioperai, progressiva limitazione dei diritti democratici dei lavoratori…). Ancora una volta la subordinazione dei lavoratori alla borghesia e ai suoi partiti, nel nome della “democrazia”, ha trascinato con sé un’involuzione reazionaria. Di cui il berlusconismo è espressione indiretta, ma eloquente.

A fronte di questo bilancio, e tanto più oggi, il PCL respinge l’ennesimo richiamo delle sinistre riformiste alla prospettiva di un CLN con forze borghesi liberali, populiste, cattoliche (UDC) nel nome della lotta a Berlusconi. Una simile soluzione politica significherebbe ancora una volta la subordinazione dei lavoratori ai loro avversari di classe. E dati gli orientamenti delle forze borghesi su guerra, leggi elettorali, laicità, diritti dei lavoratori, diritti delle donne, sarebbe oltretutto incapace di una reale svolta “democratica”.

A questa ennesima riproposizione dell’eredità togliattiana, contrapponiamo la politica di Gramsci e del Partito Comunista d’Italia, che impostò la lotta al fascismo non nel segno del blocco “democratico” con la borghesia liberale, ma nel segno della lotta per l’egemonia di classe sull’opposizione antifascista, in piena autonomia dai liberali, e in alternativa ai liberali. Fu questa la politica di Gramsci verso le opposizioni liberali nella drammatica crisi del 24 (delitto Matteotti). Fu questa, più in generale, l’impostazione delle Tesi di Lione, scritte da Gramsci: quando il PCDI non solo respinse ogni ipotesi di blocco politico col liberalismo borghese, ma avanzò la prospettiva strategica della rivoluzione socialista e del governo operaio contadino, quale condizione decisiva per la stessa realizzazione compiuta del programma democratico.

Questa è la lezione politica che intendiamo recuperare nel contesto della lotta alla reazione berlusconiana. Le forze borghesi liberali vogliono evitare che una crisi del berlusconismo possa risolversi in un rilancio della lotta di classe. Noi proponiamo al movimento operaio e a tutte le sinistre una prospettiva opposta: fare della lotta al berlusconismo la leva di un’alternativa proletaria che cacci assieme a Berlusconi le classi dirigenti del Paese.

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III PARTE: LA NOSTRA PROPOSTA POLITICA E PROGRAMMATICA DENTRO LA CRISI.

LA VERTENZA GENERALE. UNA PROPOSTA NON SOLO SINDACALE

Gli effetti sociali della crisi capitalistica e la presenza di un governo reazionario pongono – tanto più oggi – la necessità di una proposta di unificazione generale delle lotte attorno a un programma di ricomposizione del blocco sociale alternativo. La proposta della vertenza generale non è solo una proposta “sindacale”. E’ una proposta di svolta unitaria e radicale del movimento operaio all’altezza di un livello di scontro qualitativamente nuovo. E’ una proposta che mira ad un’esplosione sociale, concentrata e radicale, della classe operaia e delle masse subalterne, che apra dal basso una nuova prospettiva politica.

Il combinato della crisi capitalistica e della politica reazionaria del governo configura l’offensiva più pesante contro il mondo del lavoro delle ultime generazioni.

A questa offensiva non corrisponde alcuna risposta adeguata, di carattere complessivo. Di più: non c’è in campo alcuna proposta generale a sinistra, né in campo sindacale, né in campo politico, su come fronteggiare la valanga. In campo sindacale, la burocrazia CGIL lavora per recuperare il varco della concertazione e negoziare il proprio “rientro”: ne consegue un profilo di mobilitazione di pura “testimonianza” combinato al moltiplicarsi di cedimenti sindacali nelle categorie. I gruppi dirigenti del sindacalismo di base si limitano a proprie iniziative separate e concorrenziali senza indicare alcuna prospettiva alternativa. Sul piano politico, le sinistre riformiste si limitano al tradizionale sostegno alle “ragioni” dei lavoratori e all’iniziativa di sciopero: ma senza assumersi alcuna responsabilità di proposta o iniziativa sul terreno della lotta. E nel caso della FED senza neppure sostenere le ragioni della FIOM nel Congresso della CGIL.

In questo quadro, la crisi di direzione e di prospettiva si ribalta in modo profondamente negativo sulla dinamica delle lotte. Dopo una lunga stagione di arretramenti sociali, in presenza di una crisi sociale già di per sé disgregante, l’assenza di una proposta di lotta vera e unificante, rafforza la sensazione di impotenza. Gli scioperi generali rituali coinvolgono i settori di lavoratori più sindacalizzati non gli strati più profondi della classe: e questo sia nel proletariato industriale che nel pubblico impiego e nei servizi. Singoli movimenti di lotta, anche importanti, come nel caso del movimento della scuola e dell’università nel 2008 - sono condannati alla sconfitta dall’assenza di una direzione adeguata: e la loro sconfitta a sua volta, incide negativamente sulla disponibilità di lotta di masse più larghe; oltre ad essere utilizzata dalle burocrazie per spiegare che “la lotta dura non paga”. Lotte di resistenza operaia, generose e radicali, si sono prodotte e persino moltiplicate, sul terreno della difesa del lavoro (presidi permanenti, occupazioni a oltranza), a misura di potenzialità preziose, in particolare nella giovane generazione operaia: ma la gestione vertenziale delle direzioni sindacali, il quadro di frammentazione delle lotte, l’assenza di un’iniziativa di unificazione del fronte, le espongono spesso al ripiegamento e a divisioni interne. Mentre singole vittorie, anche parziali, strappate da lotte esemplari (Inse, Alcoa), invece di essere assunte come leva di una possibile generalizzazione, vengono confinate nella marginalità. In tale contesto la diffusione di atti eclatanti di protesta individuale o di piccoli gruppi di lavoratori (“gli operai sui tetti”), se da un lato propagandano le ragioni dei lavoratori e suscitano simpatia popolare, dall’altro sono spesso svincolate da lotte collettive. E rappresentano, in definitiva, uno dei risvolti della frantumazione della classe e della crisi di direzione. A sua volta, frantumazione e sconfitta sociale sono il brodo di coltura naturale di ideologie reazionarie e regressioni culturali.

Il PCL è oggi l’unico partito della sinistra italiana che – contro questo stato di cose – avanza una proposta reale di unificazione della classe sul terreno della lotta. E’ la proposta della vertenza generale del mondo del lavoro, dei precari, dei disoccupati, su una piattaforma unificante delle loro ragioni, sostenuta da una mobilitazione radicale (sciopero generale prolungato, occupazione delle aziende che licenziano, cassa nazionale di resistenza) promossa da un’assemblea nazionale di delegati eletti nei luoghi di lavoro. E’ una proposta che avanziamo a tutte le sinistre politiche e sindacali, e su cui dobbiamo lavorare in ogni lotta, in ogni movimento reale, in ogni sede di confronto.

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Questa proposta costituisce da tempo un’asse caratterizzante del nostro intervento di massa. Ma oggi acquista una pregnanza particolare.

E’ l’unica proposta che si pone all’altezza del nuovo obiettivo livello di scontro determinato dal congiungersi della crisi capitalistica e del governo reazionario di Berlusconi.

E’ l’unica proposta capace di unire ed estendere, al livello più alto, il quadro frammentato delle lotte in corso e di ricomporre l’unità tra gli sfruttati (lavoratori e disoccupati, lavoratori a tempo indeterminato e precari, lavoratori del settore privato e del settore pubblico, lavoratori del Nord e del Sud, lavoratori italiani e migranti).

E’ l’unica proposta capace di incidere sulle stesse contraddizioni sociali del blocco di centrodestra (al Nord e al Sud) e contrastare sentimenti e pulsioni xenofobi nella classe operaia e tra le masse: solo una prova di forza unificante può ricomporre la solidarietà di classe, abbattere pregiudizi e barriere divisorie. Come accadde nell’autunno caldo del 69 tra lavoratori del Nord e del Sud.

La proposta di piattaforma per la vertenza generale nella sua attuale articolazione – parte dal quadro della crisi capitalistica e dei suoi effetti sociali. La difesa del lavoro e dei lavoratori dalla crisi è il suo baricentro:

- No alle misure del governo. Cancellazione delle leggi Gelmini. No ad ogni blocco o congelamento dei rinnovi contrattuali, dei tempi di pensionamento, di scatti di anzianità

- Blocco dei licenziamenti. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario a 32 ore settimanali massime, senza flessibilità e annualizzazioni, senza finanziamento ai padroni, a spese dei profitti, con una drastica limitazione del lavoro straordinario.

- Trasformazione di tutti i contratti atipici o particolari in contratti a tempo pieno e indeterminato, con l’abolizione delle presenti leggi di precarizzazione (Treu, Biagi)

- Per un recupero su salari,stipendi e pensioni attraverso un aumento uguale per tutti di almeno 300 euro mensili. Per un salario minimo intercategoriale di almeno 1500 euro, totalmente detassati.

- Una indennità (salario sociale) ai/lle disoccupati/e e ai giovani in cerca di prima occupazione, a partire dai 18 anni, di almeno 1.200 euro mensili totalmente detassati, fino alla acquisizione di un lavoro a tempo pieno e indeterminato.

- Il permesso di soggiorno a tutti i lavoratori extracomunitari e alle loro famiglie.

La logica di questa piattaforma è quella di raccogliere, attorno alla centralità del lavoro, tutti i segmenti delle classi subalterne, ribaltando la politica di disgregazione del lavoro perseguita dal governo e sospinta dalla crisi. “Paghi chi non ha mai pagato. Non pagheremo noi la vostra crisi” è la cornice propagandistica della nostra proposta.

Questa proposta impegna l’intervento di massa del nostro partito. Che deve ricercare l’equilibrio tra l’esigenza di articolazione e il suo profilo complessivo. L’articolazione della sua presentazione non può essere meccanicamente uniforme: a prescindere dall’angolazione di categoria, di territorio, della concreta dinamica di lotta. Occorre avere attenzione, ogni volta, e in ogni sede, a individuare la “chiave” di presentazione. Ma la sua forza e il suo significato sta nel suo carattere generale e unificante: cui si tratta di ricondurre sempre le rivendicazioni e angolazioni parziali.

Al tempo stesso, la proposta di piattaforma non è un feticcio astratto. E’ in funzione dello sviluppo del movimento reale della lotta di classe e della coscienza dei lavoratori. La dinamica del movimento reale e dell’unificazione della lotta non è prevedibile, e può percorrere strade diverse. La generalizzazione di determinate esperienze di lotta (ad es. l’occupazione delle fabbriche che licenziano) potrebbe innescare una dinamica di “vertenza generale”, al di là del merito delle rivendicazioni trainanti, e al di là della nostra proposta di piattaforma. Per questo il nostro intervento di proposta e di azione sul terreno delle forme di lotta e di organizzazione, non è meno importante della nostra proposta rivendicativa. Ne è in qualche modo il corollario e il supporto.

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Ciò che il nostro partito deve padroneggiare è il senso complessivo della nostra linea di “vertenza generale”. Che è un senso non solo sindacale, ma politico. La proposta della vertenza generale, è in forma “sindacale”, la linea e prospettiva di un’esplosione sociale, concentrata e radicale, in Italia, nella prospettiva rivoluzionaria. E’ una linea che non solo contrasta frontalmente, com’è ovvio, ogni variante della politica di concertazione, ma supera e scavalca le vecchie tradizioni della “sinistra sindacale” nelle sue diverse espressioni, in direzione di un’aperta rivolta sociale di massa, di un’aperta prova di forza con le classi dominanti, quale unica via per aprire dal basso la prospettiva politica di un’alternativa.

Non è un caso che l’unico partito basato sul programma politico del governo dei lavoratori, sia l’unico partito ad avanzare una proposta di azione sindacale radicale, all’altezza della nuova radicalità dello scontro sociale.

UN PROGRAMMA ANTICAPITALISTA PER USCIRE DALLA CRISI

La crisi capitalistica ha messo a nudo una volta di più non solo le illusioni del liberalismo, ma anche le miserie del riformismo “antiliberista”. E ripropone clamorosamente l’attualità di un programma anticapitalista di rivendicazioni transitorie quale unica via d’uscita dalla crisi. Un programma che faccia da ponte tra la proposta della vertenza generale e la prospettiva del potere dei lavoratori. Tra le esigenze immediate delle masse e la necessità della rivoluzione sociale.

Per 10 anni, la sinistra riformista italiana (e non solo) ha sposato il cosiddetto “antiliberismo” come proprio marchio culturale. La globalizzazione è stata rappresentata come simbolo del capitalismo trionfante. Il ruolo degli Stati nazionali come sempre più residuale. Il mercato “puro” come unica legge operante. Questa visione paradossalmente apologetica del capitale – seppur a contrariis – si combinava con un programma di “nuova politica economica” incentrata nell’intervento keynesiano dello Stato borghese: sino a rappresentare le più timide suggestioni liberali come la Tobin Tax – del tutto interne alla razionalizzazione capitalista – come emblema di “un nuovo mondo possibile”.

L’attuale crisi capitalista ha profondamente scompaginato la vecchia lettura dell’onnipotenza della globalizzazione, ma ha confermato la subalternità programmatica delle sinistre riformiste, al capitale: inducendo i gruppi dirigenti del “riformismo antiliberista” o a ripiegare su un programma minimo sindacale abbandonando ogni ideologia “progettuale” o ad adattarsi criticamente al “nuovo” statalismo borghese. Al punto che la politica economica di Obama, cioè del più grande Stato imperialista del mondo, diventa un’icona per tutte le sinistre (da Sel a FED a Il Manifesto), a rimorchio della propaganda liberale (PD e La Repubblica).

Dal canto suo il campo delle organizzazioni centriste (Sinistra Critica) riduce l’anticapitalismo alla denuncia del capitalismo e della concertazione: dopo aver fatto propri e avallato per anni nel nome del movimento “no global” e nell’adattamento al bertinottismo diversi miti riformisti (Tobin TAX e bilancio partecipativo). Nei migliore dei casi avanza formalmente singole parole d’ordine anticapitaliste(“nazionalizzazioni”): ma svincolate sia da una proposta generale di lotta, sia soprattutto dalla prospettiva del potere dei lavoratori. Col risultato di ridurle di fatto ad un equivoco “riformista”.

Il PCL e la corrente politica da cui è nato, non solo è l’unico soggetto della sinistra italiana ad aver combattuto per anni controcorrente le suggestioni ideologiche alla moda del riformismo antiliberista o del centrismo, ma l’unico partito che oggi avanza, nel cuore della grande crisi capitalistica, un programma comunista: che colleghi la proposta di lotta generale e i suoi obiettivi immediati alla prospettiva decisiva del potere dei lavoratori. Tutta la nostra politica e il nostro programma si basano su un concetto centrale: solo il rovesciamento della borghesia può liberare un futuro di progresso per la società.

Non esiste, tanto più oggi, la base materiale di un compromesso riformatore col capitale, né per via di un blocco di governo con un’inesistente borghesia progressista (come pretendono i riformisti) né per via della pressione dal basso dei movimenti sociali (come suggeriscono le organizzazioni centriste). Solo un’alternativa socialista può sgomberare il campo dai mali del capitalismo e della sua crisi. A sua volta, solo un governo dei lavoratori può sgomberare la via di questa alternativa di società. Le stesse conquiste parziali (riforme) possono realisticamente essere strappate solo come sottoprodotto di una lotta rivoluzionaria . E viceversa, la rinuncia a questa lotta condanna la classe operaia e la maggioranza della società a nuovi pesanti arretramenti

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(controriforme). Questo è il bivio storico che sta di fronte al movimento operaio e alla sua avanguardia. La nostra politica ha il compito di evidenziarlo.

Il II Congresso recupera e conferma la proposta di piano operaio anticapitalistico definita dal Congresso fondativo. Ma la riarticola in relazione al quadro attuale della crisi economica e sociale dell’Italia. Queste le priorità essenziali, lungo un modulo di possibile articolazione:.

1) La ripartizione fra tutti del lavoro esistente, attraverso la scala mobile delle ore di lavoro. Il capitalismo fronteggia la propria crisi di sovraproduzione con la distruzione del lavoro. La difesa del lavoro o l’ansia di conquistarlo rappresentano la principale preoccupazione sociale di massa e il segno prevalente delle lotte in corso. L’assenza di una proposta programmatica alternativa, a fronte di una crisi presentata come fatalità naturale, condiziona negativamente le stesse lotte difensive. Da qui l’importanza della nostra proposta : se la crisi capitalistica distrugge il lavoro, il lavoro che c’è venga ripartito fra tutti, in modo che nessuno ne sia privato, attraverso una riduzione progressiva dell’orario di lavoro a parità di paga, sino al completo assorbimento della disoccupazione. La parola d’ordine della riduzione d’orario trova una sua traduzione parziale nella proposta rivendicativa per la vertenza generale (32 ore pagate 40). E assume valenza centrale in singole lotte aziendali (FIAT). Ma il programma della scala mobile delle ore di lavoro scavalca la dimensione settoriale e sindacale. Di fatto, come osservava Trotsky, prefigura un’organizzazione razionale e socialista delle relazioni sociali contro l’anarchia dello sfruttamento capitalista. Qui sta il suo valore rivoluzionario. La sua radicalità è direttamente proporzionale alla radicalità della crisi capitalista.

2) La creazione di nuovo lavoro attraverso un grande piano di opere sociali pagato da grandi patrimoni, rendite, profitti. La ripartizione del lavoro esistente va combinata con la creazione di nuovo lavoro, al servizio della maggioranza della società: riassetto idrogeologico del territorio, riparazione e sviluppo della rete idrica, bonifiche ambientali, messa in sicurezza dell’edilizia scolastica e abitativa, piano di edilizia pubblica popolare, costruzione degli asili nido sull’intero territorio nazionale… Questo piano del lavoro richiede un’ingente mobilitazione di risorse pubbliche , che vanno tratte da un insieme combinato di misure radicali e di svolta: A) l’aumento massiccio della tassazione dei grandi patrimoni, rendite, profitti, rimpinguati dal travaso di ricchezza sociale degli ultimi 20 anni (200 miliardi passati dai salari ai profitti; crescita a 800 miliardi dei patrimoni immobiliari superiori ai 2 milioni di euro). B) L’abbattimento vero dell’evasione fiscale (e contributiva) del capitale: attraverso l’abolizione del segreto bancario, l’apertura dei libri contabili delle aziende, l’introduzione del reato penale di sfruttamento del lavoro nero, lo sviluppo di un vero controllo operaio e popolare sul fisco a livello territoriale. C) L’abbattimento delle spese militari , dei privilegi istituzionali, dei privilegi clericali .Queste voci possono liberare risorse enormi per la creazione di lavoro e la rinascita sociale di larga parte d’Italia.

3) La nazionalizzazione, senza indennizzo, e sotto controllo operaio, delle industrie che licenziano, della grande industria edilizia e del cemento. La ripartizione razionale del lavoro fra tutti, e il reale dispiegamento del piano di opere sociali, richiede la piena disponibilità dei mezzi necessari. Ciò che implica un’incursione profonda nel diritto di proprietà, attraverso dirette misure anticapitaliste. Prioritariamente: A) la requisizione e nazionalizzazione delle aziende in crisi o che licenziano: una rivendicazione legata alla proposta di occupazione delle aziende che licenziano e all’obiettivo immediato e generale del blocco dei licenziamenti; ma che al tempo stesso delinea l’acquisizione delle leve di una riorganizzazione e ripartizione del lavoro. B) La nazionalizzazione della grande industria edilizia e delle aziende ad essa collegate (cemento): misura decisiva sia per sgomberare il campo dall’associazione a delinquere dei costruttori (Abruzzo docet) sia per disporre dei mezzi indispensabili per il piano nazionale di opere pubbliche, sotto controllo sociale.

4) La nazionalizzazione delle assicurazioni e delle banche, e la concentrazione di quest’ultime in un unico istituto di credito. E’ una misura decisiva per disporre della leva fondamentale di finanziamento e programmazione del piano del lavoro. Il PCL è stato l’unico partito della sinistra ad avanzare questa rivendicazione prima dell’inizio della crisi. Ed oggi la crisi capitalista conferma, una volta di più, la sua straordinaria attualità. L’intero impianto della nuova austerità europea e italiana ha come fine la protezione dei banchieri, quali grandi acquirenti dei titoli pubblici: per questo la rivendicazione dell’abolizione del debito pubblico verso le banche, e la loro nazionalizzazione, è l’esatto rovesciamento della politica borghese. Indica l’unica misura capace di assestare un colpo decisivo a evasione fiscale, usura, criminalità mafiosa. E può intercettare, nel quadro della crisi, l’odio sociale diffuso e concentrato contro le banche: favorendo un’egemonia anticapitalistica su ampi strati popolari e piccolo borghesi.

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La nostra parola d’ordine delle nazionalizzazioni non ha niente a che spartire né, com’è ovvio, con le nazionalizzazioni borghesi imposte dalla crisi (in varie forme nazionalizzazione dei debiti di banche e imprese a spese dei lavoratori); ma neppure con la traduzione riformista e centrista di questa rivendicazione (transazioni indennizzate di proprietà da capitalisti privati allo Stato borghese in una logica di “nuovo modello di sviluppo” ). La nostra rivendicazione di nazionalizzazioni ha all’opposto un carattere apertamente transitorio e anticapitalistico. Per questo va sempre combinata con il rifiuto dell’indennizzo, quindi con la rivendicazione dell’esproprio; con la richiesta del controllo operaio (apertura dei libri contabili, poteri decisionali dei lavoratori sull’organizzazione e ripartizione del lavoro) da parte di organismi consiliari; e soprattutto con la prospettiva del governo dei lavoratori e dell’alternativa socialista: quale condizione decisiva per la loro realizzazione compiuta.

Più in generale l’intero impianto del programma anticapitalista per l’uscita dalla crisi è in funzione della prospettiva della conquista proletaria del potere. Il criterio su cui si fonda non è la “realizzabilità” delle sue rivendicazioni, ma al contrario, la loro incompatibilità con l’ordine capitalista e il potere della borghesia. Proprio per questo la proposta di programma non è e non deve essere un “corpo rigido” letterario, ma una guida per l’azione nell’intervento politico. L’angolazione della sua presentazione va articolata in rapporto al contesto dato: può non essere la stessa al Nord e al Sud, in un contesto di radicalizzazione o di riflusso, tra i lavoratori o in altri movimenti. Ma neppure può ridursi a un quadro frammentato di rivendicazioni settoriali. Pur dalle diverse angolazioni deve sempre tendere ad un’unità d’insieme, attorno al suo cuore centrale: la necessità di farla finita col capitalismo e di rovesciare le classi dominanti. Sviluppando la coscienza dei lavoratori e della loro avanguardia in questa direzione, e promuovendo l’autorganizzazione di massa.

Questione meridionale, movimento dei migranti, movimento ambientalista, battaglia anticlericale, questione di genere, sono oggi terreni prioritari di articolazione di questa impostazione generale.

QUESTIONE DEL MEZZOGIORNO AI TEMPI DELLA LEGA. PROPOSTA E INTERVENTO DEL PCL AL SUD

Sotto il peso della crisi capitalistica e del progetto reazionario del federalismo leghista la questione meridionale è al centro dello scontro politico e sociale nazionale. E marca una profonda contraddizione interna al blocco sociale e politico di centrodestra. Liberali e populisti accettando il federalismo leghista, colpiscono le masse popolari del sud, al servizio della grande borghesia del nord. Solo un’iniziativa anticapitalista della classe operaia può sbarrare la strada alla reazione antimeridionalista e offrire una prospettiva alternativa alle masse del mezzogiorno.

Il combinato della crisi capitalistica e del progetto federalista minaccia una nuova regressione storica della condizione meridionale.

La crisi colpisce la società meridionale e insulare in forma particolarmente concentrata, a partire chiusura o ridimensionamento drastico di insediamenti industriali centrali (la Fiat di Termini Imerese, gli stabilimenti della chimica in Sardegna, l’industria calzaturiera in Puglia..). Tutti gli indicatori segnalano un nuovo drastico ampliamento del divario tradizionale Nord Sud in termini di reddito medio, livello di occupazione, diffusione della povertà. Tanto più in questo quadro il progetto federalista del governo Berlusconi-Bossi si configura come un’autentica mannaia sociale. L’obiettivo strategico della Lega e dei suoi nuovi governatorati è il rastrellamento di risorse pubbliche da destinare ai propri referenti sociali: piccola e media impresa, costruttori, poteri forti del territorio. L’ingresso leghista nelle banche del nord, attraverso la presenza nelle fondazioni bancarie, è complementare a questo obiettivo.

Questo obiettivo può essere perseguito solo a scapito del Mezzogiorno. La sostanza del federalismo leghista consiste in una nuova pesante rapina delle imprese e banche del nord, ai danni delle popolazioni del sud, col consenso dei partiti borghesi del meridione. L’unità d’Italia, sotto l’egemonia della borghesia sabauda, fu fatta tradendo le popolazioni del Sud. 150 anni dopo, contro le popolazioni del Sud, si progetta la divisione “federalista” dell’Italia.

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Le opposizioni liberali e populiste sono totalmente subalterne a questo disegno. Come dimostra il loro voto favorevole (IDV) o la loro astensione (PD) sul progetto federalista della Lega. Liberali e giustizialisti hanno prima governato regioni decisive del Sud per anni o decenni (Campania) in rappresentanza della borghesia meridionale, in blocco con interessi criminali, in subordine alle politiche antimeridionali dei governi nazionali. Ed oggi accettano il nuovo cappio al collo per le masse povere del sud sotto la bandiera federalista. Prima e dopo su dettato della grande borghesia. Quanto alle sinistre “radicali”, hanno seguito i liberali, prima e dopo, con le politiche di coalizioni col Centrosinistra e la diretta partecipazione alle sue amministrazioni più squalificate (Campania, Calabria). Proprio nel sud il riformismo ha espresso e mostrato negli ultimi 20 anni il suo profilo più compromesso.

La questione meridionale rappresenta, tanto più oggi, un banco di prova della politica rivoluzionaria e della nostra proposta. Il II Congresso del PCL ribadisce l’asse strategico centrale della nostra impostazione politica sul Mezzogiorno: “Solo un’aperta rottura del movimento operaio con la borghesia del Nord e del Meridione può indicare un’alternativa di riscatto alle grandi masse del Mezzogiorno, ricomponendo un blocco sociale alternativo alle classi dirigenti del Paese” (Documento 1° Congresso). Solo questo blocco sociale anticapitalista- non l’alleanza con la cosiddetta “borghesia onesta”- può spezzare le radici strutturali dello stesso capitalismo mafioso e della criminalità camorrista. Si tratta di concretizzare tale indirizzo nel nuovo scenario nazionale (e meridionale).

La battaglia contro il progetto federalista del governo assume in questo senso una rilevanza centrale. Ai lavoratori del Nord si tratta di spiegare controcorrente, nei termini più semplici, che la rapina del Meridione non porterà benefici alle loro tasche ma ai portafogli dei loro sfruttatori; che la frammentazione dell’unità contrattuale e dei diritti tra lavoratori del Nord e del Sud andrà a scapito dell’intero mondo del lavoro; che la Lega chiede il voto agli operai padani per farsi amici i loro strozzini banchieri. Ma soprattutto la battaglia contro il federalismo leghista sviluppata nel Mezzogiorno in piena autonomia dalle forze borghesi su una linea di resistenza e rivolta sociale.

La nostra proposta di vertenza generale e di programma anticapitalista per l’uscita dalla crisi offre, sotto questo profilo, il quadro generale di riferimento. Ma si tratta di declinarla dall’angolo di visuale delle masse meridionali.

1) La difesa del lavoro e degli insediamenti industriali rappresenta, anche nel Sud, una frontiera essenziale. Oggi l’offensiva padronale vede nel Sud un terreno centrale di dispiegamento (v. Piano Fiat su Pomigliano e Termini Imerese). Peraltro, pur in un quadro complessivamente deteriorato, proprio nel Sud si sono espresse e si esprimono importanti lotte operaie di richiamo nazionale (dalla lotta di Melfi del 2004 sino alla battaglia dei lavoratori sardi di Alcoa). Il nostro primo compito, ovunque possibile, è di intervenire su questo fronte per radicare il PCL nella classe operaia meridionale e nelle sue lotte. Anche con articolazioni territoriali della nostra proposta (v. la proposta del PCL sardo di una vertenza operaia regionale, attorno al dramma sociale dell’isola). Ma sempre in una prospettiva di ricomposizione generale di classe: lo scontro attorno al piano Marchionne sul versante sud (tanto più dopo il risultato del No a Pomigliano) ha oggi del resto una diretta portata nazionale. Come l’avrebbe un’opposizione dei lavoratori meridionali al federalismo contrattuale.

2) La rivendicazione del salario garantito per i disoccupati in cerca di lavoro e per i giovani in cerca di prima occupazione, ha una valenza centrale nel Meridione. Si tratta di prospettare una vertenza generale dei disoccupati attorno a questo obiettivo, accompagnata e sorretta da un’autorganizzazione di massa dei disoccupati. Proponiamo a tutte le sinistre politiche e sindacali di muoversi in questa prospettiva. Promuovendo comitati di disoccupati, coordinando i comitati di disoccupati già esistenti e operanti, preparando un’Assemblea nazionale dei disoccupati, democratica e di massa, da tenersi nel Meridione – che lanci l’iniziativa della vertenza generale per il salario garantito. Come fonte di finanziamento va indicato l’abbattimento dei trasferimenti pubblici alle grandi imprese: (“Assistiamo i disoccupati, non i padroni che licenziano e i banchieri che rapinano”), o le risorse pubbliche risparmiate con le nazionalizzazioni senza indennizzo. Una vertenza per il salario ai disoccupati in cerca di lavoro, a partire dal Sud, si porrebbe in collisione frontale con la politica di padronato e governo e col progetto antimeridionale del federalismo: alla logica della rapina del Sud contrapporrebbe le esigenze delle masse meridionali a spese delle imprese e banche del Nord.

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3) La difesa e ampliamento di sanità, scuola, università meridionali colpiti dalla stretta finanziaria e dal progetto federalista. La difesa di servizi sociali e strutture sanitarie pubbliche minacciate, costituisce già oggi un terreno ricorrente di iniziativa e mobilitazione nel meridione. La stretta del federalismo leghista – in particolare nella sanità pubblica – moltiplica le necessità di una resistenza sociale su questo terreno. Nel 2004 la rivolta popolare in Puglia contro il piano Fitto di smantellamento della rete ospedaliera – rivolta oltretutto vincente nell’immediato – ha mostrato le potenzialità radicali di una mobilitazione di massa nel Sud a difesa della Sanità. Proponiamo a tutte le sinistre politiche e sindacali di unificare ed estendere le iniziative di massa a difesa dei servizi pubblici, con forme di lotta radicali e continuative come quelle del 2004 in Puglia (comitati di lavoratori, picchetti di difesa delle strutture minacciate, invasioni e assedi di massa degli uffici regionali, costruzione di comitati popolari permanenti e loro coordinamento). Alla pretesa dell’abbattimento del debito pubblico delle regioni del Sud (e non solo) con il saccheggio della Sanità pubblica meridionale, va contrapposta la rivendicazione dell’annullamento del debito pubblico regionale verso banche e imprese, e la piena difesa del servizio sociale . La stessa rivendicazione della nazionalizzazione delle banche va incorporata a questa battaglia(e alla battaglia contro mafia e camorra).

4) Un grande piano di opere sociali per il lavoro e la rinascita del meridione, in contrapposizione alle grandi opere speculative del capitale (v. Ponte di Messina). La nostra proposta generale di piano per il lavoro può essere declinata in chiave meridionalista. E trasformarsi in uno strumento di mobilitazione ed autorganizzazione di massa. Proponiamo a tutte le sinistre politiche e sindacali di attivare un vero e proprio censimento di massa, capillare, delle necessità sociali insoddisfatte delle masse popolari sul territorio (sanità, sistema ferroviario, rete idrica, asili, riassetto idrogeologico, sicurezza edilizia, bonifica dei terreni) costruendo dal basso, per questa via, una piattaforma di vertenza generale della popolazione povera del Meridione. Una vertenza che rivendichi le opere necessarie per un piano di rinascita ; quantifichi le risorse pubbliche necessarie per finanziarie questo piano; indichi le fonti di prelievo per il loro finanziamento (grandi patrimoni, profitti, rendite); mobiliti le popolazioni interessate, territorio per territorio, attorno alle proprie specifiche richieste; unisca le iniziative territoriali in una mobilitazione generale e permanente delle masse popolari. Questa iniziativa può raccogliere e organizzare la domanda di lavoro dei disoccupati saldandola alla domanda più generale di svolta della condizione meridionale. E può offrire alla classe operaia meridionale un terreno di egemonia anticapitalista su un vasto blocco sociale popolare.

La costruzione di un blocco sociale anticapitalistico, a carattere nazionale, attorno alla classe operaia, non procede solo da Nord ma anche da Sud. Non passa per la giustapposizione letteraria di ragioni formali, ma per un incontro di movimenti reali. La lotta contro la Lega nella classe operaia del Nord è un tassello della ricomposizione con le masse povere del Sud. Ma la ripresa di iniziativa popolare e di classe delle masse meridionali è tanto più oggi un fattore decisivo della ricomposizione. Senza di essa la questione meridionale è destinata a restare il randello ideologico della reazione leghista contro gli interessi di classe dei lavoratori del Sud e del Nord, a esclusivo vantaggio del capitale.

PER UN MOVIMENTO DI CLASSE DEI MIGRANTI

Crisi capitalistica e governo reazionario aggravano l’oppressione dei migranti. Il contrasto dell’immigrazione è oggi una leva centrale di accumulo di consenso alle politiche dominanti. Liberali e giustizialisti combinano il sostegno alle politiche reazionarie antimigranti con formali preoccupazioni democratiche: col risultato di agevolare la reazione. Le sinistre politiche e sindacali denunciano le politiche xenofobe ma non indicano un’alternativa di fondo. Solo una politica che coinvolga e organizzi i migranti dentro la ricomposizione di un blocco anticapitalistico, può contrastare il veleno xenofobo tra i lavoratori . E fare argine all’offensiva della Lega.

La crisi capitalista offre un terreno naturale di aggravamento dell’oppressione dei migranti , sia per le dirette ricadute sociali sulle condizioni di vita degli immigrati ,sia per gli effetti sulla percezione sociale del fenomeno. A questo quadro si sovrappone, in Italia, un equilibrio politico dominante segnato dal peso determinante della Lega : una forza che usa metodicamente proposte e linguaggi razzisti, non solo come strumento di raccolta di consenso elettorale, ma come leva di inserimento attivo nella classe operaia del Nord e di mobilitazione

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popolare antimigranti. L’intera situazione sociale e politica spingerà in avanti questa offensiva: per offrire a settori popolari colpiti dalla crisi una valvola di sfogo liberatoria e distorta.

Liberali e giustizialisti non solo non hanno fatto argine all’ondata xenofoba, ma hanno concimato a lungo il terreno della sua avanzata. Sia con politiche di governo nazionale di Centrosinistra (dalla legge Turco-Napolitano del 97 ai decreti d’emergenza antirumeni del 2008). Sia con le politiche delle sue amministrazioni locali (provincia di Milano , Firenze, Bologna , Salerno..). Sia più in generale con un’impostazione confindustriale della questione immigrazione: in cui la stessa contestazione umanitaria delle peggiori aberrazioni della destra (reato di clandestinità) si combina con la critica dell’ “inefficacia” di queste misure in ordine alla rapidità delle “espulsioni”, o alla turbativa dei flussi di manodopera “necessaria per le imprese”. Dal canto loro, le sinistre riformiste pagano pegno, anche sull’immigrazione, alla propria subordinazione al Centrosinistra. Nelle ripetute esperienze di governo hanno votato tutte le misure xenofobe dei liberali (1997 e 2008) come peraltro (tuttora) nelle amministrazioni locali. All’opposizione, denunciano le politiche reazionarie del governo e rivendicano i diritti dei migranti. Ma non avanzano un programma generale anticapitalista che investa le basi materiali della loro oppressione; né una proposta di vertenza generale che li recuperi nell’unità di classe; né una proposta di organizzazione di massa della loro lotta. Il risultato è che appaiono, anche su questo terreno, un’appendice del fronte democratico. Con effetti nulli sulla coscienza proletaria.

Il PCL è l’unico partito della sinistra che affronta la questione dell’immigrazione da un punto di vista coerentemente rivoluzionario. Nella consapevolezza, oltretutto, che tanto più nel quadro della crisi e a fronte di un’offensiva xenofoba una pura replica umanitaria è destinata ad essere travolta. Con un’enorme danno non solo per i migranti, ma per l’intero movimento operaio italiano, e per gli stessi livelli di democrazia.

Naturalmente siamo in prima fila in ogni opposizione democratica al razzismo. Rivendichiamo l’abrogazione di tutta la legislazione reazionaria varata dalla borghesia contro i migranti. Lavoriamo a contrastare e capovolgere l’intero impianto della cultura securitaria. Rivendichiamo la soppressione dei CIE e l’adozione della legge del suolo come fondamento della cittadinanza.

Ma non basta. E’ essenziale che il movimento operaio avanzi una proposta di merito e di fondo che vada alla radice della questione migranti. Che avanzi un sistema di rivendicazioni capace di ricomporre, sul terreno della lotta, l’unità di classe tra lavoratori italiani e migranti; che punti a sviluppare l’autorganizzazione di massa del movimento dei migranti, in chiave anticapitalista.

1. Abrogazione dei trattati di Schengen e di tutte le misure di sbarramento delle frontiere. Queste misure - del tutto impotenti ad arrestare la fuga dagli effetti dello sfruttamento imperialistico (oppressione economica, oppressione nazionale, guerre coloniali ecc.) - sono apertamente criminogene: causano stragi di migranti, condannano i migranti alla clandestinità, consegnano una parte di questi a organizzazioni criminali. L’abrogazione delle leggi antimigrazione è, sotto ogni profilo, una misura elementare contro il crimine. A partire da quello compiuto contro i migranti alle frontiere e in mare.

2. Permesso di soggiorno per tutti i lavoratori migranti. La negazione del permesso di soggiorno, i mille vincoli e arbitrii legati alla sua concessione, preservano e riproducono una massa di “clandestini” senza diritti e super sfruttati: anche per questo usati come arma di ricatto e di pressione contro i lavoratori italiani e le loro condizioni. Concedere il permesso di soggiorno a tutti i lavoratori migranti è una misura elementare – l’unica efficace – “contro la clandestinità”: ed è anche, perciò stesso, una misura vantaggiosa per i lavoratori italiani e i loro interessi di classe.

3. Introduzione del reato penale di sfruttamento del lavoro nero, e permesso automatico di soggiorno per gli sfruttati. E’ una rivendicazione della nostra piattaforma vertenziale che assume un significato particolare sul versante dei migranti. Una simile misura darebbe a centinaia di migliaia di migranti un’arma di denuncia dei propri sfruttatori , nell’interesse di tutto il mondo del lavoro. E consentirebbe l’abbattimento dell’evasione fiscale e contributiva a vantaggio di tutti i lavoratori (italiani e migranti).

4. Un grande piano di opere sociali che dia lavoro a italiani e migranti, pagato da grandi imprese, assicurazioni, banche. L’argomento della mancanza di lavoro per i migranti, a sostegno del loro respingimento, va esattamente rovesciato. Per la rinascita sociale dell’Italia, a partire dal Sud, c’è una mole

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immensa di lavoro non solo possibile, ma necessario, sia per i lavoratori italiani che per i migranti. La rivendicazione di un piano di lavoro – già presente nella nostra proposta programmatica per l’ “uscita dalla crisi” – potrebbe costituire un terreno centrale dell’unità di classe tra lavoratori italiani e migranti.

5. Un piano casa e asili per lavoratori italiani e migranti. L’argomento della “mancanza di case” o asili per i migranti e i loro figli, va capovolto. Con la rivendicazione della requisizione dell’immenso patrimonio immobiliare sfitto, a partire da quello detenuto da banche, assicurazioni, imprese, Vaticano. E con la richiesta di un piano nazionale di case popolari e asili, sotto controllo operaio e popolare, gestito dall’edilizia pubblica, e finanziato dalla tassazione progressiva del grande capitale. A beneficio delle più ampie masse popolari.

Nessuna di queste misure e rivendicazioni può “risolvere” la questione migranti. Ma il sistema combinato di questa piattaforma indica la sua soluzione strutturale: la necessità di una rottura anticapitalistica e di un governo dei lavoratori, italiani e migranti, dentro la prospettiva rivoluzionaria del socialismo internazionale.

Il nostro partito deve articolare la battaglia politica a sostegno della propria proposta su tre livelli tra loro combinati.

Innanzitutto nel movimento operaio italiano, nelle sue lotte, nelle sue organizzazioni di massa. Non si tratta solo di contrastare nella classe operaia italiana pregiudizi razzisti . Si tratta di affermare un punto di vista di classe sull’immigrazione, affermando una proposta rivendicativa che scavalchi il puro orizzonte solidaristico . Occorre battersi perché le piattaforme rivendicative dei lavoratori facciano proprie, al loro interno, le rivendicazioni essenziali dei migranti a partire dalla richiesta del permesso di soggiorno per tutti.

In secondo luogo, occorre battersi anche perché si incoraggi lo sviluppo classista dello specifico movimento dei lavoratori migranti, contrastando al riguardo resistenze e contraddizioni presenti nello stesso sindacalismo di classe italiano (come si è visto in occasione della prima iniziativa nazionale di “sciopero” dei migranti il 1° marzo 2010). Lo sviluppo di una tendenza di classe e di mobilitazione dei lavoratori migranti non solo non è in contraddizione con la prospettiva della ricomposizione di classe con i lavoratori italiani. Ma è un contributo essenziale in questa direzione. E inoltre un passaggio strategico per la costruzione di un’egemonia classista e anticapitalista nell’insieme delle comunità migranti (contro ogni logica di separatismo comunitario o integralismo religioso).

In terzo luogo la nostra proposta si svolge all’insieme della condizione migrante. L’opposizione dei migranti non riguarda solo i lavoratori salariati e il loro supersfruttamento. Riguarda una massa molto più ampia di soggetti e una condizione materiale e giuridica molto più estesa. Negli ultimi due anni si sono espresse ripetutamente tendenze di mobilitazione e ribellione di settori migranti contro angherie poliziesche, violenze razziste (Milano), aggressioni criminali (Casal di Principe). Il nostro partito si schiera senza riserve dalla parte di ogni ribellione degli oppressi contro le forze dominanti, come ha fatto in occasione della rivolta di Rosarno. E sostiene il diritto di autodifesa dei migranti contro ogni forma di aggressione razzista e/o poliziesca.

Più in generale il nostro partito contrasta quelle iniziative della Lega avallate dal governo che assumono la questione migranti come terreno di mobilitazione di strada di settori reazionari (ronde e simili) a difesa della “sicurezza dei cittadini”. Contro queste iniziative non basta la denuncia, che naturalmente è prioritaria. E’ necessaria un’azione di contrasto, determinata e di massa. Per questo abbiamo proposto e proponiamo a tutte le sinistre politiche, sindacali, associative, la costruzione, ove possibile, di strutture operative unitarie e integrate (italiani e migranti) di vigilanza operaia e popolare sul territorio. A tutela dei migranti. E contro ogni forma di criminalità borghese, legale o illegale, contro gli oppressi (italiani o migranti).

PER UN AMBIENTALISMO COMUNISTA, PER LA SALUTE, PER LA SICUREZZA SUL POSTO DI LAVORO

Dentro il quadro della crisi capitalistica e dell’emergenza ambientale internazionale, il governo Berlusconi segna un salto di qualità nell’aggressione alle condizioni del territorio e dell’ambiente. Cui corrispondono fenomeni nuovi di risposta di massa e di sensibilizzazione pubblica (come sull’acqua). Il PCL combina la proposta della massima unità del movimento con un intervento di classe

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anticapitalista sul terreno ambientale. Contro ogni forma di “ capitalismo verde” e di vacuo riformismo ecologista.

Storicamente le organizzazioni del movimento operaio hanno sottovalutato l'importanza dellequestioni ambientali. Il capitalismo, fin dalla sua nascita, ha mostrato in ambito ambientale tutta la sua natura spietata ed antipopolare, riversando sulle classi subalterne, già sfruttate e ricattate attraverso il lavoro, anche tutte le conseguenze sanitarie causate dalla scelleratezza di un sistema di produzione barbarico. Vicende come quelle dell'amianto, del traffico internazionale di rifiuti tossici, della colonizzazione industriale nel triangolo del Niger, risultano emblematiche edoffrono gli spunti necessari per ottenere una chiave di lettura efficace rispetto a fenomeni di questo tipo. È evidente, inoltre, che molte sfaccettature e conseguenze della questione ambientale ricalchino e si intersechino con altre questioni rilevanti nel quadro di una società capitalista e di un'analisi marxista conseguente. Ecco qualche esempio generale. Rispetto alla questione meridionale: non è sicuramente un caso che la vicenda del traffico di rifiuti tossici riveli i territori del meridione come privilegiati per l'occultamento di materiale di derivazione industriale e sanitario, con effetti nefasti sulla salute e sull'ambiente; non è sicuramente casuale che i grandi speculatori energetici abbiano "investito" e continuino a tentare di investire nelle regioni del meridione con l'installazione di impianti di produzione, spesso con tecnologie arretrate e inquinanti, anche laddove non esista, di fatto, potenzialità di consumo di quell'energia. In questo chiaramente è necessario non sottovalutare il controllo sociale e del territorio, oltre che politico diretto e/o indiretto, da parte della malavita organizzata. Si pensi all'imperialismo: è ormai accertato che i paesi occidentali smaltiscano le scorie prodotte dal proprio tessuto industriale in paesi del terzo mondo, colpiti da conflitti bellici o da guerre civili, correlando spesso allo smaltimento il traffico di armi, utilizzate come merce di scambio: un espediente piuttosto utile anche per smaltire arsenale datato. Inoltre buona parte degli equilibri economici, quindi bellici, del pianeta si giocano sul campo petrolifero e più in generale energetico.

La questione del lavoro è per altro centrale per una corretta analisi dei fenomeni territoriali: il ricatto occupazionale, diretta conseguenza della barbarie capitalista e del mercato, è spesso l'arma più incisiva in mano agli speculatori, i quali la impugnano per imporre alle classi subalterne di interi territori l'accettazione di disastri e devastazioni. È la legge del profitto che impone la gestione affaristica di qualsiasi tipo di risorsa disponibile, comprese quelle direttamente correlate alla salute. In questo quadro la grande crisi capitalistica internazionale riversa effetti concentrati, diretti o indiretti, sulla condizione ambientale. Entro un quadro generale segnato dall’intreccio della potenza tecnica con la logica del profitto (incremento enorme dei tassi di anidride carbonica nell’atmosfera, alterazioni climatiche, desertificazioni). Il disastro epocale nel Golfo del Messico, prodotto da trivellazioni senza controllo- sospinte dal tendenziale esaurimento degli idrocarburi e dalla fame di profitto delle compagnie- è un affresco efficace del fallimento del capitalismo in campo ecologico. La ripresa di interesse del capitalismo per l’energia nucleare in alcuni paesi, lo sviluppo di una contesa capitalistica internazionale per l’accaparramento delle risorse idriche (più scarse e quindi più profittevoli) si collocano su questo sfondo.

In Italia si registra oggi un espressione particolare di questo scenario. La particolare dipendenza del capitalismo italiano dall’importazione di idrocarburi, unita all’interesse di grandi gruppi (Enel, Ansaldo) per il business nucleare hanno spinto la borghesia al rilancio nuclearista in stretto rapporto con il capitalismo francese. Parallelamente l’onda lunga delle privatizzazione di beni e servizi è approdata al completamento della privatizzazione dell’acqua, oggetto di interessamento di potenti ex-municipalizzate e di cordate capitalistico finanziarie multinazionali. Già in passato le privatizzazioni progressive di un settore oramai strategico come quello dei rifiuti, talvolta persino a speculatori internazionali (si pensi a Veolià ed Hera), in termini di gestione tanto della raccolta e della distribuzione quanto delle discariche, ha di fatto dato vita alla drammatica emergenza di alcuni territori ed ha visto l'ascesa di importanti sacche di risposta sociale soprattutto nel mezzogiorno. Inoltre l’enorme indebitamento del capitalismo italiano e il progetto di riorganizzazione federalistica dello stato spingono ad un nuovo salto di aggressione all’ambiente con la vendita massiccia dei beni pubblici ai privati.

Liberali e giustizialisti sono totalmente subalterni all’indirizzo generale della politica ambientale ed energetica governativa, cui peraltro, per molti aspetti, hanno aperto la strada. Le sinistre riformiste contestano i progetti del governo ma sono subalterne al centro sinistra che li avalla. Le forze centriste sono divise tra un

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sostanziale disimpegno, legato a pregiudizi economicistici, e all’opposto un impegno sicuramente combattivo ma slegato da una battaglia di classe.

Per il nostro partito, in coerenza con le tesi del primo congresso, la battaglia ambientalista ha una grande rilevanza: ma dentro un progetto anticapitalistico che chiami in causa le radici strutturali del saccheggio ambientale, e indichi nel governo dei lavoratori ed in una alternativa socialista – sul terreno internazionale e nazionale- l’unica reale soluzione storica della crisi ambientale. Del resto non è possibile razionalizzare un sistema energetico ed un ciclo dei rifiuti che fanno fronte ad un sistema di produzione basato sul profitto e non sui bisogni, che quindi non ha nessun interesse nella salvaguardia della salute e delle prospettive territoriali. Solo attraverso una ristrutturazione strutturale del sistema di produzione, affidata a quegli stessi lavoratori che si trovano oggi a pagare le conseguenze delle scelleratezze ambientali, si potranno risolvere le attuali gravi crisi energetiche e di smaltimento dei rifiuti. Da qui il netto contrasto dell’ecologismo neo riformista e delle illusioni sul “capitalismo verde” come nuovo possibile orizzonte di progresso del capitale. Per esemplificare:

1. La nostra battaglia contro la privatizzazione dell’acqua, non si limita al puro sostegno dei quesiti referendari che pure ci vede impegnati. Ne’ può limitarsi a denunciare il corso liberista delle privatizzazioni degli ultimi vent’anni. Ma va ricondotta alla rivendicazione dell’esproprio, sotto controllo sociale, dei cartelli aziendali interessati alla privatizzazione dell’acqua e dell’intera lobby del settore; e più in generale all’attualità della proprietà pubblica, sotto controllo sociale, dell’insieme dei “beni comuni”, che vanno liberati dall’inquinamento del profitto: la scuola, l’università, la sanità, ma anche le conoscenze scientifiche e tecniche e gli strumenti della produzione e del credito. In una parola: la proprietà pubblica dell’acqua, “sotto controllo sociale”, va assunta come metafora di un alternativa socialista necessaria e possibile.

2. La battaglia antinucleare per lo sviluppo concentrato delle energie alternative e rinnovabili, non può fare concessioni politiche e culturali a visioni aclassiste o a illusione “obamiste” (Green Economy). In primo luogo, l’effettivo sviluppo su scala generale delle fonti energetiche alternative (e non il loro uso di nicchia sia pure potenziato) implica un gigantesco investimento economico e tecnico (ricerca, progettazione, sperimentazione) che oggi contrasta col quadro di crisi capitalista e con le compatibilità degli stati iperindebitati: solo la rottura delle compatibilità borghesi ed una riorganizzazione radicale dell’economia, può liberare le risorse necessarie allo scopo. In secondo luogo – ed è il punto essenziale- resta determinante il controllo sociale e l’uso di classe della leva tecnica. In ambito capitalistico nessuna nuova tecnica o fonte energetica produce di per se un salto ecologico nei rapporti con la natura e la qualità della vita (vedi l’impatto sul territorio, in Italia, dell’espansione, senza controllo, delle pale eoliche o delle applicazioni incentivate del fotovoltaico). Solo il controllo sociale e la pianificazione democratica dell’economia , possono valorizzare le potenzialità delle nuove tecnologie ambientali ai fini sociali. Ciò che riconduce, ancora una volta, alla prospettiva socialista.

3. La battaglia contro il saccheggio del territorio (e relativi condoni) non può limitarsi ad un orizzonte ecologista, ma va ricondotta alla rivendicazione del controllo operaio e popolare sulla pianificazione urbanistica e territoriale, di misure drastiche contro la rendita fondiaria, dell’esproprio della grande industria edilizia: colpendo al cuore l’intreccio tra rendita e profitto, ganglo economico della presenza criminale e mafiosa al Nord e al Sud.

4. La nostra battaglia contro la vendita del demanio pubblico da parte dello stato e degli enti locali non si limita ad una contestazione ambientalista. La mobilitazione, territorio per territorio, contro l’alienazione dei beni pubblici può e deve assumere innanzitutto una valenza politica generale contro la truffa del federalismo leghista al nord e al sud. Ma soprattutto va demistificata la natura di classe dell’operazione contrapponendole una logica opposta. Se il governo (e le “opposizioni”) spingono gli enti locali a vendere beni pubblici per finanziare “la riduzione del debito” coi banchieri, il PCL rivendica la soluzione opposta: l’annullamento del debito, la nazionalizzazione delle banche, la salvaguardia della natura pubblica di terreni, spiagge, foreste sotto controllo sociale. La battaglia contro l’alienazione dei beni pubblici ripropone per questa via l’alternativa anticapitalistica e il governo dei lavoratori.

5. Le lotte collettive per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro devono essere centrali nel nostro programma. Le morti sul lavoro, le malattie professionali, la mancanza del diritto ad una adeguata assistenza medica per ampi strati di popolazione, hanno come unici responsabili il profitto e l’ organizzazione capitalistica

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del lavoro. Il diritto alla salute non è negoziabile. Le aziende che inquinano, che producono nocività, che nascondono i pericoli per l’ ambiente devono essere espropriate sotto il controllo dei lavoratori.

La lotta per la salute è parte integrante della storia del movimento operaio e della quale il PCL se ne fa carico promuovendo l’ auto organizzazione dei lavoratori in fabbrica e nel territorio tramite l’ inchiesta e la controinformazione per il controllo dei cicli produttivi imposti dal capitalismo in crisi. (Sono esemplari le inchieste storiche del movimento operaio contro la produzione dell’ amianto e del PVC, e la controinformazione del Centro per la Salute Giulio Maccacaro svolte non solo per la sicurezza sui posti di lavoro ma in favore della qualità della vita di tutta la classe lavoratrice.)

Il corollario politico di questa intera impostazione è la lotta per l’autonomia del movimento ambientalista. Naturalmente rivendichiamo il fronte unico più largo attorno ai terreni comuni di iniziativa (acqua, nucleare, rifiuti….); la creazione ovunque possibile di comitati popolari proiettati nell’iniziativa di massa; lo sviluppo progressivo del coordinamento dei comitati sino al livello nazionale con poteri decisionali e democratici sulla gestione delle campagne. In questa fase e nella logica del fronte unico, la proposizione di campagne e piattaforme rivendicative di breve/medio termine, indipendenti oppure all'interno dei comitati popolari, può essere un utile strumento per sollevare contraddizioni tanto nei fronti populisti e riformisti, i quali in questi frangenti tendono a cavalcare le lotte, quanto, più in generale, nel sistema capitalistico. La ripubblicizzazione dell'intero sistema di gestione dei rifiuti, la fine dei ridicoli commissariamenti per le emergenze ambientali, l'opposizione alla costruzione di impianti di incenerimento, l'opposizione alla costruzione di mega-impianti termo-elettrici, il loro progressivo smantellamento ed una gestione totalmente pubblica (quindi con ripubblicizzazione) di impianti e siti produttivi di energia elettrica che si basano su fonti rinnovabili: sono tutti punti di partenza, da sviluppare e contestualizzare, coerenti con la nostra prospettiva, con cui poter dare inizio al lavoro sui territori. Ma è essenziale la battaglia per l’autonomia del movimento dal centrosinistra, per il presente e per il futuro. La demarcazione di PD e IDV dalla battaglia sull’acqua e la loro adesione al federalismo demaniale è un occasione preziosa per far maturare anche nel movimento ambientalista una discriminante di classe: i partiti della borghesia che colpiscono i lavoratori colpiscono inevitabilmente le stesse ragioni dell’ambiente. Solo la rottura con la borghesia e la convergenza con le ragioni di emancipazione del movimento operaio può dare un futuro alla battaglia ecologista.

LA CRISI DELLA CHIESA E L’ANTICLERICALISMO COMUNISTA

L’istituzione Chiesa conosce oggi una crisi inedita per estensione e profondità, sul versante internazionale e nazionale. Si tratta della crisi “morale” di consenso e credibilità di un bastione essenziale della conservazione sociale del capitalismo, con importanti riflessi sulla compattezza interna dell’apparato ecclesiastico. Cui si aggiungono – in Italia – nuove contraddizioni interne alla gerarchia nei rapporti col potere politico. I liberali e Populisti sono muti di fronte alla crisi della Chiesa, di cui cercano la benedizione. Le sinistre balbettano perché cercano la benedizione dei liberali. Il PCL rivendica lo sviluppo, tanto più oggi, di una forte mobilitazione anticlericale che denunci la criminalità ecclesiastica, e metta in discussione il potere Vaticano. Che riconduca una coerente battaglia laica e democratica alla prospettiva del rovesciamento del capitalismo ecclesiastico.

Una crisi profonda investe la credibilità delle istituzioni ecclesiastiche presso ampi settori dell’opinione pubblica internazionale e della stessa base dei credenti. Il cosiddetto scandalo della “pedofilia” ha fatto emergere il lato criminale della costituzione materiale della Chiesa, ben al di là dei tradizionali aspetti oscurantisti della sua politica. Le contraddizioni apertesi nella gerarchia ecclesiastica internazionale sulla stessa risposta da dare allo “scandalo” sono un riflesso diretto della serietà della crisi.

Il movimento operaio non può essere indifferente di fronte alla crisi della Chiesa. La Chiesa non è solo parte organica dell’assetto materiale del capitalismo internazionale con le sue immense proprietà immobiliari e finanziarie, ma uno strumento di subordinazione al capitalismo di grandi masse oppresse e sfruttate, sia in tanta parte dei paesi dipendenti, sia nelle stesse metropoli imperialiste.

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Negli ultimi 20 anni, il crollo dello stalinismo, la restaurazione capitalistica dell’est, la crisi del movimento operaio internazionale, da un lato; la progressiva crisi di consenso sociale della borghesia e delle sue politiche dominanti dall’altro, hanno concorso ad ampliare, per molti aspetti, la base materiale dell’ influenza ecclesiastica e l’importanza della sua funzione storica controrivoluzionaria. In controtendenza con diffusi processi di secolarizzazione. Oggi, di fronte alla più grave crisi capitalistica degli ultimi 80 anni, la crisi internazionale di credibilità della Chiesa è un fenomeno di grande rilevanza. Che può contribuisce ad aprire spazi nuovi al rilancio di una prospettiva anticapitalista e di liberazione, a partire dalla giovane generazione.

In Italia, la crisi internazionale della Chiesa si combina con un passaggio delicato delle sue relazioni politiche.

Il crollo della I° Repubblica e la disgregazione della DC ha privato le gerarchie ecclesiastiche di una sponda politica centrale nella mediazione con lo Stato, spingendole a combinare un più diretto interventismo politico con la ricerca di propri riferimenti su entrambi i versanti del bipolarismo. Oggi proprio la crisi del bipolarismo e dei suoi due pilastri, pone problemi nuovi alla Chiesa e introduce nuove contraddizioni al suo interno.

La Segreteria di Stato Vaticana (Bertone) si colloca a sostegno di Berlusconi e del suo governo. Cercando di sfruttare sia la sua forza, sia le sue difficoltà, per ottenere il massimo possibile di concessioni: concessioni materiali al proprio capitale, e concessioni giuridico-culturali reazionarie (penalizzazione della 194, offensiva contro fecondazione assistita, pillola abortiva, testamento biologico, diritti degli omosessuali e delle coppie conviventi).

I vertici della Conferenza episcopale (Bagnasco) – egualmente reazionari – sponda diretta dell’UDC nella precedente legislatura Berlusconi, sono rimasti spiazzati dalla rottura tra l’UDC e il Cavaliere nel 2008: e cercano oggi un difficile punto di equilibrio tra il berlusconismo e la più vasta articolazione del mondo cattolico e dei suoi interessi, in continuità con la tradizione di Ruini.

Sull’intreccio di crisi internazionale e contrasti nazionali della Chiesa, la coalizione di centro sinistra è semplicemente muta. Il PD ha bisogno di entrature altolocate sia nella segreteria di stato sia nei vertici della conferenza episcopale, entrambi garanti del capitalismo ecclesiastico, di cui i governi di centro sinistra sono sempre stati tutori. La IDV, se vuole scalare la rispettabilità di governo non può certo toccare i vertici della Chiesa: e infatti il giustizialismo tace significativamente sui crimini ecclesiastici, e persino sulle frequentazioni episcopali della cricca di Balducci “gentiluomo del papa”. Le sinistre, a rimorchio di liberali e giustizialisti, dismettono persino una coerenza laica. Nichi Vendola – già seguace dichiarato di Padre Pio – cerca la neutralità ecclesiastica per la propria candidatura a premier nel 2013. Mentre la sinistra “radicale” di Paolo Ferrero – ossessionata dalla paura della propria emarginazione dal centro sinistra- si è limitata a suggerire, sull’intera vicenda della criminalità della Chiesa, il “superamento del celibato.”

Il PCL respinge e denuncia la capitolazione del centro sinistra alla Chiesa, che è l’altra faccia della sua subordinazione al capitale. Proprio in quanto coerentemente anticapitalista, il PCL può e vuole essere coerentemente anticlericale. Senza confondere l’assoluto rispetto democratico della liberta’ religiosa di ogni fede col privilegio sociale del capitalismo ecclesiastico, la natura reazionaria dell’assolutismo papale, l’impunità e la copertura dei sui crimini.

Il PCL rivendica innanzitutto l’opposizione radicale a ogni offensiva clericale contro i diritti civili, a partire dai diritti delle donne e delle minoranze sessuali. Un terreno di lotta più rilevante che in passato a fronte della saldatura in atto in Italia tra governo reazionario e oscurantismo religioso. Più in generale rivendichiamo l’abrogazione del Concordato e di ogni forma di privilegio ecclesiastico da questo garantito. Lo stalinismo italiano nel 47 concordò con la DC e i vertici ecclesiastici l’articolo 7 della Costituzione, a difesa dei Patti Lateranensi del 29 tra Chiesa e fascismo. La battaglia per l’abrogazione dell’art 7 e dei successivi accordi concordatari(84) è un atto doveroso di bilancio storico e di svolta che chiediamo a tutta la sinistra italiana.

Ma non è sufficiente una battaglia puramente laica e democratica . A fronte dell’emersione pubblica del lato criminale della Chiesa, rivendichiamo l’apertura di una grande inchiesta popolare sui crimini ecclesiastici, col pieno concorso unitario, di tutti i soggetti colpiti e interessati. Non si tratta di chiedere pulizia ai vertici ecclesiastici, cioè ai responsabili dei crimini, né si tratta di affidarsi alla magistratura di uno stato borghese colluso col Vaticano. Si tratta di intraprendere dal basso un processo vero ai crimini della Chiesa, basato sul

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lavoro collettivo e la mobilitazione dell’intero fronte anticlericale. Un processo che investa l’intero arco della criminalità ecclesiastica: criminalità sessuale, corruzione e malaffare, normale” criminalità finanziaria”.

Inoltre rilanciamo tanto più oggi un piano di rivendicazioni direttamente mirato contro i privilegi del capitalismo ecclesiastico: abolizione dell’attuale legge dell’8 x mille (un miliardo l’anno al Vaticano); abolizione di ogni forma di privilegio fiscale per la Chiesa (esenzione iva e ici) con la richiesta di destinazione delle risorse così liberate a scuola sanità, pensioni; l’abolizione di ogni forma di finanziamento pubblico a scuola e sanità private e confessionali con la destinazione delle relative risorse ai corrispondenti servizi pubblici. L’insieme di queste rivendicazioni tanto più nel quadro della crisi sociale in atto, potrebbe conquistare al movimento operaio il consenso di larghe masse popolari inserendosi nelle stesse contraddizione del blocco sociale reazionario.

Infine, da comunisti, rivendichiamo il rovesciamento del capitalismo ecclesiastico nell’ambito del più generale programma anticapitalistico del governo dei lavoratori: a partire dall’esproprio delle grandi proprietà immobiliari della Chiesa, a favore della soluzione della questione delle abitazioni per i lavoratori e le masse oppresse; e dall’esproprio delle proprietà azionarie e delle banche ecclesiastiche (in primo luogo lo IOR, crocevia e copertura istituzionale dell’ordinaria criminalità finanziaria vaticana).

PER LA LIBERAZIONE DALL’OPPRESSIONE DI GENERE. PER IL RILANCIO DEL MOVIMENTO DI LOTTA DELLE DONNE

La crisi capitalistica e le involuzioni reazionarie si scaricano in forma concentrata sulla condizione femminile, nel momento stesso della crisi del movimento di lotta delle donne. Si pone la necessità di un rilancio del movimento, della sua unità organizzativa, dello sviluppo di un’egemonia di classe e anticapitalista sulle rivendicazioni di genere.

La crisi congiunta di capitalismo e riformismo si scarica con raddoppiata violenza sulle condizioni delle donne. Nei paesi imperialisti disoccupazione di massa, precariato, privatizzazione dei servizi, abbattimento delle spese sociali riguardano prima di tutto la condizione femminile. In tanti paesi dipendenti, guerra e miseria provocate dalle politiche imperialiste , unite alla diffusione di tendenze religiose fondamentaliste e integraliste, rendono la condizione della donna letteralmente disumana. Le donne migranti, in particolare, rappresentano internazionalmente l’anello più debole della catena dell’oppressione femminile. Ovunque l’arretramento del movimento operaio trascina con sé conquiste sociali e democratiche delle donne, strappate nelle fasi di ascesa. E la distruzione di tali conquiste ha esteso e acuito l’oppressione femminile nella sua stessa specificità.

In Italia, il combinato di crisi capitalista, reazione berlusconiana, peso particolare del Vaticano, ha appesantito su tutta la linea l’aggressione alla condizione femminile: nel lavoro (precarietà, licenziamenti, aumento dell’età pensionabile), nella condizione sociale (tagli all’istruzione, ai servizi di cura..), nei diritti (rilancio dell’attacco anti aborto..), nella stessa immagine culturale (velinismo..). Il centrosinistra liberale, legato a Confindustria e Vaticano, dopo aver gestito dal governo l’attacco alle donne, oggi avalla, dall’”opposizione”, la nuova stagione di aggressione antifemminile (incluso l’innalzamento dell’età di pensione). Le sinistre riformiste, subalterne al centrosinistra, si limitano a protestare (mentre votano i tagli nelle amministrazioni locali). Le organizzazioni centriste, nel migliore dei casi, rivendicano un indeterminato “femminismo”, fuori da ogni bilancio.

Il PCL considera la lotta per la liberazione della donna un elemento costitutivo del programma comunista. E assume la necessità del suo rilancio come parte inseparabile della ricostruzione del blocco sociale anticapitalistico. Da un punto di vista generale, è necessario contrastare due posizioni specularmente opposte che si sono affacciate nel movimento operaio e nello stesso movimento femminile : da un lato una posizione riduzionista che nega in sostanza l’oppressione specifica del genere femminile, a favore di un interesse esclusivo per le rivendicazioni economiche delle donne proletarie; dall’altro lato una posizione interclassista (di marca “emancipazionista” o idealista) che separa la questione femminile dalla questione di classe e spesso copre l’ipocrisia “democratica” dei governi borghesi (v. l’istituzionalizzazione delle “pari opportunità”). In coerenza col marxismo, riconosciamo la specificità storica dell’oppressione femminile ( ben preesistente al capitalismo); e al tempo stesso rivendichiamo la necessità di un’egemonia di classe e anticapitalistica nel

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movimento delle donne, dentro la prospettiva rivoluzionaria socialista: condizione necessaria per la soluzione storica dell’oppressione di genere.

Questa impostazione- di valenza programmatica e internazionale- è tanto più attuale politicamente in Italia, a fronte del bilancio delle linee egemoni nel vecchio movimento femminista. Il forte successo delle teorie idealiste nel movimento femminile italiano negli anni 80 (filosofie della “differenza” ontologica uomo-donna)- teorie difese o avallate dal grosso della cultura riformista e centrista, PRC incluso- ha prodotto effetti disastrosi: per un verso ( anche per i suoi caratteri di speculazione intellettuale elitaria), ha contribuito ad isolare il movimento dai settori più proletari; per altro verso ha contribuito alla disgregazione organizzativa del movimento femminile (negazione della necessità di strutture d’azione e di coordinamento delle lotte, apologia dei collegamenti di rete..). Il risultato è che il movimento delle donne come soggetto nazionale è venuto meno. Le stesse relazioni col movimento lgbt, il cui protagonismo negli ultimi anni avrebbe permesso una sinergia di rilancio, sono ridotte e frammentate. E tutto ciò in presenza della massima offensiva dominante contro le donne. Proprio per questo, lo stesso rilancio del movimento delle donne è legato per molti aspetti allo sviluppo di un’impostazione alternativa: che si batta per la costruzione di una struttura nazionale di fronte unico per la lotta per i diritti delle donne, e parallelamente per il recupero di un’analisi materialistica della questione femminile, dei caratteri storici dell’oppressione di genere, della relazione tra produzione e riproduzione, dell’intreccio tra liberazione sociale e liberazione di genere. Lo sviluppo di questa impostazione è anche un investimento nello scenario di possibile ripresa di combattività femminile. Pur in un quadro prevalentemente negativo, “la brace arde sotto la cenere”. Le giovani generazioni di donne iniziano a dare segno di una ripresa di radicalità, spesso a partire dal controllo sul corpo femminile e in relazione a tematiche politiche più generali (antifascismo, antirazzismo..). La crisi economica e sociale, attraverso i tagli di spesa e i relativi aggravi del lavoro di cura, può produrre nuova sensibilizzazione. L’impatto della nuova generazione femminile con disoccupazione e precarietà da un lato, con la cultura machista e il vuoto ideale femminile della cultura dominante dall’altro, può favorire lo sviluppo di nuove prese di coscienza. L’essenziale è dare a queste nuove potenzialità un riferimento di organizzazione, di progetto, di proposte.

Affinchè il nostro partito diventi, soprattutto per le giovani generazioni, un riferimento politico, è necessario che esso si rifaccia ai principi e ai valori fondanti del comunismo rivoluzionario sulle questioni che riguardano la condizione della donna. Le leggi approvate dal governo sovietico immediatamente dopo la vittoriosa rivoluzione del 1917 e le risoluzioni della III Internazionale sul lavoro politico verso le donne basate sui principi del marxismo, vanno attualizzati e trasformati in efficaci strumenti di propoaganda, agitazione e azione nel movimento operaio e nel contesto politico contemporaneo.

All’indomani della presa del potere dei soviet in Russia due aspetti fondamentali dovette affrontare il Governo dei lavoratori: l’ineguaglianza della donna rispetto all’uomo e la liberazione della donna dai compiti domestici. Per quanto concerne il primo aspetto, furono abolite tutte le leggi che ponevano la donna in una situazione di ineguaglianza rispetto all’uomo, tra cui quelle relative al divorzio, ai figli naturali e alla corresponsione degli alimenti. Furono ugualmente aboliti tutti i privilegi legati alla proprietà, mantenuti nel diritto familiare a beneficio dell’uomo. Furono introdotti decreti che sancivano la protezione legale per le donne e i bambini che lavoravano, l’assicurazione sociale e la parificazione dei diritti all’interno del matrimonio. Le donne conquistarono il diritto all’aborto legale e gratuito negli ospedali statali. La prima costituzione della Repubblica sovietica promulgata nel 1918 diede alla donna il diritto di votare e di essere votata per incarichi pubblici. Tuttavia la reale parità tra uomo e donna si sarebbe raggiunta solo liberando la donna dal giogo del lavoro domestico e cioè socializzando i compiti da lei svolti all’interno della casa, della famiglia. Nel luglio del 1919, Lenin insisteva sul fatto che il ruolo della donna all’interno della famiglia costituiva la chiave di volta della sua oppressione: “Indipendentemente da tutte le leggi che emancipano la donna, ella continua ad essere una schiava, perché il lavoro domestico la opprime, la strangola, la degrada e la limita alla cucina e alla cura dei figli; ella spreca la sua forza in lavori improduttivi, senza prospettiva, che distruggono i nervi e la rendono idiota. E’ per questo motivo che l’emancipazione della donna, il vero comunismo inizierà solamente quando sarà intrapresa una lotta senza quartiere, diretta dal proletariato, possessore del potere dello Stato, contro questa natura del lavoro domestico o, meglio, quando avrà luogo la totale trasformazione di questo lavoro in un’economia di grande scala”.

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Nel 1920 Klara Zetkin, incaricata di elaborare la risoluzione sulle forme e i modi del lavoro comunista tra le donne, che successivamente verrà approvata dal III Congresso dell’Internazionale Comunista, discusse con Lenin i nodi cruciali di quel documento. La risoluzione, adottata solamente nel giugno del 1921 trattava sia aspetti politici che organizzativi. Essa sottolineò la necessità della rivoluzione socialista per ottenere la liberazione della donna e la necessità che i partiti comunisti conquistassero il sostegno delle masse femminili se volevano condurre la rivoluzione socialista alla vittoria. Nessuno dei due obiettivi poteva essere ottenuto senza l’altro. Se i comunisti avessero fallito nel compito di mobilitare le masse femminili a fianco della rivoluzione, le forze reazionarie si sarebbero sforzate di organizzarle contro di loro. In un altro punto venne affermato che “non ci sono delle questioni femminili particolari” intendendo con ciò che non ci sono problemi che preoccupano la donna che non siano alla stessa stregua una questione sociale più vasta, d’interesse vitale per il movimento rivoluzionario, per il quale devono combattere sia gli uomini che le donne. La risoluzione condannava il femminismo borghese, in riferimento a quel settore del movimento femminista che era convinto che si potesse raggiungere l’emancipazione della donna riformando il sistema capitalista. La risoluzione esortava le donne a rifiutare questo orientamento.

Dal punto di vista organizzativo la III Internazionale dei primi anni non prevedeva un’organizzazione distinta per le donne nel partito. All’interno di ciascun partito (sezione nazionale dell’Internazionale Comunista) dovevano essere istituiti degli organismi speciali per il lavoro tra le donne. Divenne obbligatorio che ciascuna sezione nazionale organizzasse una commissione di donne, una struttura funzionante a tutti i livelli del partito, a partire dalla direzione nazionale fino alle sezione o alle cellule. La risoluzione imponeva ai partiti di garantire che almeno una compagna avesse il compito permanente di dirigere il lavoro a livello nazionale. Creò inoltre un Segretariato Internazionale della donna che si occupasse di supervisionare il lavoro e convocare, ogni sei mesi, regolari conferenze di rappresentanti di tutte le sezioni per esaminare e coordinare la loro attività. La risoluzione trattò anche alcuni tipi di azioni concrete che potevano essere d’aiuto per la mobilitazione delle donne in ogni parte del mondo. La proposte riguardavano manifestazioni e scioperi, conferenze pubbliche per organizzare le donne prive di partito, corsi, scuole quadri, l’invio di membri del partito nelle fabbriche dove lavoravano un gran numero di donne, l’utilizzo del giornale di partito, ecc. Il principale terreno d’azione fu individuato nei sindacati e nelle associazioni professionali femminili.

Inoltre l’Internazionale Comunista dava molta importanza al lavoro tra le donne oppresse nei paesi coloniali. Le indicazioni della risoluzione non furono applicate in maniera omogenea in tutte le sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista ma furono un evento di importanza storica per l’intero movimento socialista mondiale, tracciarono un programma e un orientamento per il lavoro tra le donne che, per la loro chiarezza e coerenza con i principi marxisti rimangono ancora oggi un'utile guida. Venne ribadito che “Quello che il comunismo darà alla donna, non potrà mai esserle dato dal movimento femminista borghese. Finchè esisterà il dominio del capitale e della proprietà privata, la liberazione della donna sarà impossibile”. In relazione alla recente (di allora) conquista del diritto al voto l’Internazionale mise in guardia le donne: il diritto di voto era una conquista importante che però non rimuoveva la causa primordiale della sua servitù all’interno della famiglia e della società e non risolveva il problema delle relazioni tra i sessi. “La parità reale, e non formale, della donna sarà possibile solamente in un regime in cui la donna della classe operaia è proprietaria dei mezzi di produzione e di distribuzione, prendendo parte all’organizzazione (del lavoro) e alle medesime condizioni di tutti gli altri membri della classe operaia; ciò significa che sarà realizzabile solo dopo la distruzione del sistema capitalista e la sua sostituzione con forme economiche comuniste”.

Sulla questione della maternità fu affermato che “unicamente all’interno del comunismo, questa funzione naturale della donna non entrerà più in conflitto con gli obbighi sociali e non impedirà il suo lavoro produttivo. E dato che il comunismo è il fine ultimo di tutto il proletariato “è per questo che la lotta della donna e dell’uomo deve essere condotta in maniera inseparabile”. Venne ribadito inoltre che secondo i principi fondamentali del marxismo, non esistono problemi specificamente femminili e che la donna deve mantenersi collegata alla sua classe e non unirsi alla donna borghese. “Tutte le relazioni dei lavoratori con il femminismo borghese e le alleanze di classe indeboliscono le forze del proletariato e rallentano la rivoluzione sociale, impedendo così la realizzazione del comunismo e la liberazione della donna”. Infine, l’Internazionale Comunista rinforzò il principio secondo cui il comunismo sarebbe stato raggiunto solo tramite l’unione di tutti gli sfruttati e non con l’unione delle forze femminili delle due classi opposte. Esortò tutte le compagne dei lavoratori a partecipare attivamente e direttamente alle azioni di massa, sia nel quadro nazionale che su scala internazionale.

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Alla fine degli anni 20, l’eredità dei principi affermati nelle risoluzioni dei congressi della III Internazionale sulla questione femminile, venne raccolta dalle forze riunite nell’Opposizione sovietica di sinistra e in seguito nell’Opposizione Internazionale di Sinistra, nella Quarta Internazionale delle origini, diretta da Trotsky. Interessante è la lettura del testo “La rivoluzione tradita” dove Trotsky analizza le conseguenze sociali della degenerazione stalinista e nel capitolo “La famiglia, la gioventù e la cultura” spiega quali furono le cause materiali che determinarono il fallimento della liberazione della donna. Oltre alla miseria diffusa ovvero “socializzata” ci si trovò di fronte ad un mancato elevamento generale del livello politico e culturale. La burocrazia ricominciò a rivalutare la famiglia piccolo-borghese. A partire dalla necessità ancora attuale di liberare la donna dall’oppressione di classe e di genere, nella consapevolezza che le conquiste realizzate nei passati decenni hanno solo in parte migliorato la condizione della donna all’interno dei paesi più industrializzati, lasciando invece nella miseria e nell’oppressione le donne dei paesi più poveri, avanziamo una serie di proposte per l’azione immediata, per la battaglia nel movimento femminile e nella classe operaia:

In questo quadro, la nostra proposta immediata avanza un insieme di rivendicazioni che collocano la battaglia di sesso a fianco della battaglia di classe:

- Una battaglia contro i tagli alle spese sociali e contro la sussidiarietà privata, primo elemento di peggioramento dei carichi del lavoro di cura.

- La difesa della scuola pubblica, di ogni ordine e grado, settore nel quale non a caso è così concentrata la presenza femminile ( sia per la conciliabilità dei tempi familiari, sia per la minor valorizzazione della professionalità)

- Abrogazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro, che per le donne in molti casi diventano trappole per ricatti sessuali e sociali ( v. la perdita del lavoro a seguito della scelta della maternità).

- Abrogazione di tutte le norme sull’obiezione di coscienza, promozione delle pratiche contraccettive, sviluppo degli investimenti nella sanità sotto controllo sociale, per un controllo delle decisioni sul corpo totalmente affidate alle donne, a favore di una maternità libera e consapevole.

- Denuncia della cultura sessista e sciovinista, che alimenta gran parte degli attacchi violenti alle donne, oltre allo sfruttamento del corpo delle donne.

- Denuncia della cultura religiosa e fondamentalista, che impedisce alle donne di decidere autonomamente di tutti gli aspetti della propria esistenza (vedi fecondazione assistita).

- Denuncia delle politiche razziste e securitarie che legittimano la violazione dei diritti delle donne migranti e, di fatto, pratiche di violenza diffusa nei loro confronti.

In questo quadro proponiamo un dibattito stabile tra comunità lgbt e organizzazioni e collettivi femminili, con l’obiettivo di saldare le lotte contro ogni concezione e pratica discriminatoria.

Il Partito Comunista dei Lavoratori si batte quindi per i diritti delle donne. Ma la nostra battaglia si inserisce nella prospettiva transitoria della costruzione delle condizione per la presa del potere da parte del proletariato, per conquista della maggioranza dei lavoratori al programma per la rivoluzione. Noi ci battiamo per: la parità di salario alle donne a parità di lavoro; la piena occupazione femminile; l’istituzione di Nidi d’infanzia pubblici e gratuiti; i servizi sociali di cura degli anziani e dei disabili pubblici e gratuiti; le mense pubbliche in ogni quartiere e le lavanderie gratuite; l’innalzamento dell’obbligo scolastico per tutti/e fino a 18 anni; l’istituzione di Case protette per la difesa delle donne dalla violenza.

Il Partito Comunista dei Lavoratori combatte al proprio interno ogni fenomeno di maschilismo affinchè il programma rivoluzionario che si è dato sia rispettato, difeso e applicato. Promuove la più ampia partecipazione delle compagne in tutti i ruoli dell’organizzazione nel rispetto della nostra morale rivoluzionaria.

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IV PARTE: LA LINEA POLITICA DEL PCL

LA COSTRUZIONE INDIPENDENTE DEL PCL. L’AUTONOMIA POLITICA DEL NOSTRO PARTITO

L’autonomia politica del nostro partito è la base di partenza di tutta la nostra politica e della nostra costruzione. E’ il riflesso naturale dell’ unicità del P.C.L. nell’ ambito della sinistra italiana.

La prospettiva programmatica dell’alternativa socialista, su scala nazionale e internazionale, è il fondamento dell’esistenza del PCL come partito indipendente. La difesa dell’autonomia del PCL è la difesa del suo programma. E viceversa ogni cedimento sul terreno dell’autonomia è, di fatto, in contraddizione col nostro programma indipendente.

La stessa nascita del PCL è stato il punto d’approdo di una lunga battaglia di demarcazione politico-programmatica del marxismo rivoluzionario dal riformismo e dal centrismo all’interno del PRC. Il consolidamento politico del partito, nei suoi primi due anni, è passato attraverso la difesa del suo patrimonio politico programmatico e dunque della sua autonomia.

Il II Congresso del PCL conferma pienamente questo orientamento di fondo. In questo quadro il PCL respinge tutte le soluzioni e proposte che in nome dell’ “unità” subordinerebbero il PCL ad altri programmi e minerebbero la sua stessa ragione.

La proposta della Federazione della sinistra, com’è evidente, subordinerebbe il PCL, alla continuità della politica riformista, per di più fallimentare, dei gruppi dirigenti riformisti: l’assicurazione secondo cui il PCL potrebbe salvaguardare, nella Federazione, la propria formale autonomia organizzativa serve solo a cercare di comprare la nostra subordinazione politica ed elettorale ad un cartello riformista.

La proposta della cosidetta “unità dei comunisti” avanzate a più riprese da forze o correnti staliniste, ripropone nella sua stessa impostazione, l’equivoco contro cui il PCL è nato: quello per cui il comunismo è un astratto riferimento “ideologico” o una somma di eredità e tradizioni, sotto il quale possano convivere politiche e programmi diversi ed opposti. E’ la riproposizione in miniatura e in chiave neostalinista dell’equivoco ideologico della Rifondazione comunista degli anni 90. L’accettazione di questa proposta significherebbe nei fatti la liquidazione del nostro programma a favore di una finzione senza futuro.

La proposta di una “sinistra anticapitalista, ecologista, femminista”, avanzata da Sinistra Critica esprime il desiderio di un’aggregazione “antagonista” attorno al programma della “democrazia partecipativa” e di una pura sommatoria di istanze critiche, senza centralità di classe, e senza prospettiva rivoluzionaria .L’anticapitalismo è ridotto alla critica letteraria, seppur radicale, del capitalismo. Il comunismo a residuato ideologico del 900. Il trotskismo ad un contributo culturale e storiografico .Le oscillazioni pendolari di Sinistra critica (dal voto a Prodi, all’antagonismo senza rivoluzione ) sono il riflesso dell’eclettismo delle sue basi politiche e dell’assenza di principi. Il suo costante attacco al PCL (“settario”) è uno strumento della sua autoconservazione.

La demarcazione del marxismo rivoluzionario dalle altre correnti del movimento operaio, è una costante decisiva della sua storia. Il Manifesto di Marx del 1848 nasce in rottura con le altre tendenze del “socialismo” (utopistico, borghese, conservatore). La nascita della II Internazionale fu il punto d’approdo di un processo di rottura, intrapreso nella I Internazionale, con l’anarchismo e il mazzinianesimo. La III Internazionale nacque e si candidò con la rottura col riformismo ed il centrismo di Kautsky. Il bolscevismo si sviluppò nel primo 900 attraverso una lunga e costante battaglia programmatica e di principio contro le altre correnti del movimento operaio e popolare russo (socialisti rivoluzionari, menscevichi) e contro la ricorrente proposta dell’ “unità dei rivoluzionari”. Per questo i marxisti rivoluzionari sono sempre stati considerati e denunciati come “settari” dalle altre correnti e partiti. Ma tutto ciò che hanno costruito (inclusa la Rivoluzione d’Ottobre) l’hanno costruito grazie alla difesa rigorosa dell’autonomia del proprio programma. E viceversa tutti i processi distruttivi e degenerativi che ciclicamente l’hanno attraversato hanno messo in discussione, non a caso, quell’autonomia.

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Il PCL si rifà apertamente alla tradizione rigorosa del marxismo. Il movimento operaio italiano e la sua avanguardia hanno già vissuto non solo i tradimenti delle burocrazie riformiste, grandi e piccole, ma anche l’inconsistenza del “rivoluzionarismo” piccolo borghese, delle mitologie movimentiste e spontaneiste (Lotta Continua), dei “partiti contenitori” antagonisti (tipo D.P.) delle unificazioni senza principi (PRC). Tutte esperienze dissoltesi come neve al sole sotto il peso delle proprie contraddizioni. Il PCL non vuole ripercorrere quei sentieri. Non vuole dissolvere il proprio programma nell’ennesima variante di un partito centrista senza futuro, fonte inevitabile di nuove delusioni e disgregazioni. Vuole costruire in Italia il partito della rivoluzione. E quel partito ha come suo fondamento l’autonomia del programma rivoluzionario. L’unità dei comunisti o si realizza attorno a questo programma o semplicemente non è.

PER UN METODO LENINISTA NEL RAPPORTO CON LE ELEZIONI

La partecipazione alle elezioni borghesi e la presentazione autonoma dei comunisti sono il riferimento centrale della nostra politica elettorale. Entro un quadro più generale di padroneggiamento teorico e politico leninista della tattica elettorale, in funzione della costruzione indipendente del nostro partito.

La piena comprensione, teorica e politica, della questione elettorale è importante per l’orientamento politico dei rivoluzionari e lo sviluppo del proprio progetto indipendente. Anche su questo terreno, come sulle questioni programmatiche più generali, il leninismo rappresenta per il PCL un riferimento centrale. Non per ripeterne meccanicamente ogni formulazione, ma per assimilarne a fondo il metodo e la scuola. Evitando di riprendere involontariamente posizioni, argomenti, atteggiamenti, contro cui storicamente il marxismo rivoluzionario si è formato e forgiato.

I comunisti partecipano normalmente alle elezioni borghesi. L’intera tradizione rivoluzionaria comunista ha combattuto aspramente sia l’”astensionismo di principio”, sia più in generale ogni posizione di disimpegno o sottovalutazione dell’importanza delle scadenze elettorali. E questo non per una ragione “elettoralistico istituzionale”, ma per la ragione esattamente opposta: la partecipazione ovunque possibile alle elezioni borghesi è un’occasione preziosa di propaganda rivoluzionaria tra le masse, di intervento nella lotta di classe, di costruzione del partito rivoluzionario. Tanto più nel caso di un piccolo partito, che ha l’esigenza vitale di estendere la riconoscibilità pubblica del proprio programma nella stessa avanguardia larga della classe ai fini del proprio radicamento e sviluppo. La battaglia del bolscevismo tra il 1907 e il 1910 contro la sua frazione “otzovista” che contestava la partecipazione alle elezioni della Duma; la battaglia di Rosa Luxemburg nel 1918 contro il rifiuto dei comunisti tedeschi di partecipare alle elezioni dell’Assemblea Costituente; ma soprattutto la forte battaglia di Lenin e della larga maggioranza della terza Internazionale comunista contro le posizioni astensioniste del bordighismo italiano, del Kapd tedesco, del tribunismo olandese (Gorter), hanno avuto questo segno costante. Non si tratta affatto- diceva Lenin- di aderire al “parlamentarismo borghese” o di attenuare la denuncia della sua natura. Al contrario: si tratta di utilizzare a fondo con tutti i mezzi disponibili la tribuna delle elezioni borghesi- e l’eventuale elezione di una propria rappresentanza nelle istituzioni borghesi- per allargare la denuncia del parlamentarismo e creare le condizioni del suo superamento rivoluzionario: lavorando a sviluppare, anche per questa via, la coscienza politica delle masse. Sotto questo profilo il rapporto dei rivoluzionari con le elezioni è esattamente opposto alla logica riformista. Per le sinistre riformiste il terreno elettorale è normalmente l’ambito di concretizzazione di compromessi istituzionali con i partiti borghesi in vista di ministeri o assessorati. Per i rivoluzionari è un terreno di denuncia della borghesia, dei suoi partiti, delle politiche collaborative dei riformisti. Di conseguenza, è opposta la valenza e l’uso di eventuali eletti. Per le sinistre riformiste, gli eletti nelle istituzioni borghesi sono una pedina negoziale del “gioco istituzionale”. Per i comunisti sono preziosi tribuni del proprio programma rivoluzionario agli occhi del proletariato: e per questo fisiologicamente collocati, per principio e senza eccezioni,all’opposizione di ogni governo borghese (nazionale e locale). Per la stessa ragione i comunisti si battono per una legge elettorale coerentemente proporzionale, senza soglie di sbarramento e distorsioni maggioritarie: perché contrappongono il principio della piena rappresentanza democratica al feticcio della governabilità borghese. La battaglia per il proporzionale sarà oggetto di una specifica campagna del PCL.

La forma normale di partecipazione dei rivoluzionari alle elezioni, è quella della presentazione autonoma e alternativa. Nella tradizione rivoluzionaria le elezioni non sono un terreno di fronte unico d’azione, ma

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prevalentemente un terreno di propaganda e presentazione del proprio programma indipendente: non di ciò che unisce i rivoluzionari ad altri partiti, ma di ciò che li distingue o li contrappone ad essi (siano questi i partiti borghesi, oppure siano, su un versante diverso, partiti di sinistra riformista o centrista). L’indipendenza elettorale dei comunisti, come espressione della loro indipendenza politica e programmatica, è un riferimento ricorrente del marxismo rivoluzionario. La presentazione elettorale autonoma dei comunisti è rivendicata da Marx nell’Indirizzo alla Lega del 1850, contro ogni ipotesi di blocco con la piccola borghesia democratica. E’ ampiamente rivendicata nella tradizione bolscevica contro la logica generale dei blocchi elettorali tra il menscevismo e l’opposizione borghese liberale (partito cadetto). E’ sostenuta da Trotsky in Germania all’inizio degli anni 30 contro la proposta avanzata dall’organizzazione centrista Sap di un candidato di fronte unico tra comunisti e socialdemocratici per le elezioni presidenziali (posizione tanto più significativa nel momento in cui Trotsky rivendicava il fronte unico d’azione contro il fascismo): “L’idea di far proporre il candidato alla presidenza dal fronte unico operaio è un’idea radicalmente sbagliata. Si può proporre un candidato solo sulla base di un programma ben definito. Il partito non ha il diritto di rinunciare, durante alle elezioni, alla mobilitazione dei suoi aderenti e all’inventario delle sue forze. La candidatura di partito, contrapposta a tutte le altre candidature, non può impedire in nessun modo l’accordo con altre organizzazioni per obiettivi immediati di lotta” (Trotski, 1931). I comunisti rifiutano di rimuovere o nascondere l’autonomia del programma comunista, e quindi del proprio partito, di fronte alle masse: questa è stata sempre l’indicazione di fondo. E questa indicazione si è frequentemente scontrata con l’impostazione centrista. Per il centrismo il rapporto con le elezioni è subordinato per lo più a considerazioni contingenti “di movimento” o all’inseguimento di “un vantaggio” immediato (reale o presunto), fuori dalla coerenza di un programma generale indipendente: da qui la frequente oscillazione tra disimpegno elettorale ( “ci preoccupiamo delle lotte, non delle elezioni”) e la ricerca privilegiata di blocchi elettorali con i partiti riformisti ( o di proprio nascondimento in liste genericamente “alternative”). Per il marxismo rivoluzionario, invece, il rapporto con le elezioni è sempre principalmente finalizzato al proprio progetto generale: da qui il privilegiamento della presentazione autonoma e alternativa.

Questa cornice generale non esaurisce- nella stessa esperienza storica, la problematica delle scelte elettorali dei comunisti. Al contrario consente di padroneggiarla, nella sua complessità e nelle sue articolazioni, subordinandola alla politica rivoluzionaria.

“Negare per principio i compromessi, negare in generale ogni ammissibilità di compromessi, di qualunque genere essi siano, è una puerilità, che è persino difficile prendere sul serio” dichiarava Lenin nella critica dell’Estremismo ( 1920), riprendendo esattamente la critica di Engels ad alcuni comunardi blanquisti (1874). L’essenziale - egli diceva- è saper distinguere “compromesso e compromesso”, dal punto di vista del progetto indipendente dei rivoluzionari: “Il compito di un partito realmente rivoluzionario non consiste nel proclamare un’impossibile rinuncia a qualsiasi compromesso, ma nel saper conservare, attraverso tutti gli inevitabili compromessi, la fedeltà ai principi, alla propria classe, al proprio compito rivoluzionario, alle preparazione della rivoluzione e all’educazione delle masse popolari per la vittoria della rivoluzione”(Lenin, settembre 17). Questo metodo è valido in ogni campo della politica rivoluzionaria ( come ad es. nel campo dell’azione sindacale quotidiana). E dunque è valido anche in campo elettorale. Quali sono i “compromessi”elettorali, obbligati o volontari, che sono compatibili coi principi e che possano favorire l’avanzamento della politica rivoluzionaria? La tradizione rivoluzionaria offre una risposta di metodo a questo interrogativo.

Per fare alcuni esempi:

a. I rivoluzionari possono accettare l’apparentamento di altri soggetti della sinistra attorno ai propri candidati: se ciò può favorire e rafforzare un più largo raggruppamento di forze attorno alla centralità della propria campagna e costruzione. Così come possono realizzare apparentamenti con altri soggetti della sinistra e/o di movimento, in evoluzione verso il partito, se questa scelta può accelerare tale evoluzione. In questi casi il “compromesso” volontario è direttamente finalizzato allo sviluppo del partito.

b. I rivoluzionari possono realizzare apparentamenti tecnici con altre forze di sinistra in presenza di leggi elettorali reazionarie che impediscano la loro presentazione indipendente: proprio considerando l’importanza della tribuna elettorale ai fini della propaganda rivoluzionaria. In questo compromesso è decisiva la riconoscibilità del partito rivoluzionario, del suo specifico programma, del suo simbolo di riferimento, di ciò che lo distingue dalle altre sinistre. Fuori e contro ogni indistinta aggregazione politica con riformisti e/o centristi ( tipo “ liste anticapitaliste” “liste antagoniste”). E’ l’esperienza, ad esempio, che hanno condotto i bolscevichi nel

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1907, a fronte della nuova legge elettorale zarista: quando realizzarono un blocco con i socialisti rivoluzionari per le elezioni alla Duma- in contrapposizione ai liberali e alla destra- senza minimamente cessare la propria battaglia di fondo, ideologica e politica, contro il populismo russo, lungo la durata dello stesso blocco.

c. I rivoluzionari possono realizzare, su un altro piano, forme particolari di tattica elettorale in occasione di elezioni di secondo grado e ai ballottaggi, anche in rapporto alla natura particolare di un regime politico: senza compromettere di una virgola la presentazione autonoma alle masse nel primo turno (“nella prima fase i candidati operai devono scendere in lotta unicamente in maniera autonoma, con liste proprie” insisteva Lenin), ma senza estraniarsi dalla lotta politica e dal rapporto col sentimento popolare. Così nelle elezioni di secondo grado previste dalla complessa legge elettorale zarista (assemblee di grandi elettori), i bolscevichi privilegiavano normalmente i cosiddetti “blocchi di sinistra” (basati sull’alleanza con la democrazia rivoluzionaria contadina) contro i liberali e la destra: per consolidare la demarcazione dal liberalismo borghese ( in polemica col menscevismo) e al tempo stesso massimizzare la possibilità di elezione di propri candidati rivoluzionari. Ma laddove, eccezionalmente, i liberali erano più deboli degli zaristi (come nelle assemblee elettorali di governatorato) i bolscevichi votavano normalmente il candidato liberale contro il candidato zarista (“il blocco delle opposizioni”). Una contraddizione? Per nulla. Sullo sfondo di un regime autocratico (non di un’alternanza tra reazionari e liberali in un quadro democratico borghese com’è tuttora il nostro), e quando non era in discussione l’autonomia del proprio rapporto di massa (primo turno), i bolscevichi rifiutavano l’equidistanza elettorale tra liberali e zaristi (come i socialisti tedeschi, sotto il Kaiser, rifiutavano, nei ballottaggi, l’equidistanza tra liberali e candidati reazionari). E ciò proprio in funzione della battaglia per l’egemonia rivoluzionaria tra le masse ,in contrapposizione e in alternativa alla borghesia liberale.

d. Compromessi elettorali con altre forze della sinistra possono essere indotti dalla dinamica della lotta di classe e dall’intervento in essa dei rivoluzionari. Fu il caso ad esempio della proposta di compromesso elettorale con i laburisti che Lenin suggerì nel 20 ai comunisti inglesi. Quando propose loro di concordare una suddivisione dei collegi elettorali col partito laburista, tale da favorire una loro vittoria contro liberali e conservatori; e in caso di rifiuto dei laburisti di “limitare la presentazione dei candidati comunisti ai soli seggi in cui la presentazione di candidature nostre non potrebbe portare alla vittoria del liberale contro il laburista”. Perché questa tattica? Per favorire la sconfitta di liberali e conservatori, affrettare la costituzione di un governo laburista, aiutare le masse a capire in base alla propria esperienza il carattere traditore di questo governo, estendere l’influenze dei comunisti tra le masse e favorire la rivoluzione sociale. Qual’era la condizione decisiva di questa tattica? La salvaguardia, dentro il “compromesso”, della piena libertà di agitazione, di propaganda, di attività politica dei comunisti e quindi della loro “piena libertà di smascherare” i dirigenti laburisti agli occhi della loro base. “ Senza questa condizione- diceva Lenin- non si deve fare alcun blocco, perché sarebbe un tradimento”. Ancora una volta il compromesso elettorale non è concepito come conciliazione col riformismo: ma come un mezzo di lotta contro di esso, a vantaggio del progetto rivoluzionario.

e. La stessa logica ispira un’altra possibile forma della tattica elettorale dei comunisti: quella dell’appoggio critico ad altre forze di sinistra, elettoralmente contrapposte ai partiti borghesi. “In tutti i collegi in cui non vi fossero candidati nostri, inviteremmo a votare il candidato laburista contro il borghese” diceva Lenin nel 20 ai comunisti inglesi. E continuava: “I compagni Silvia Pankurst e Gallacher sbagliano quando vedono in questa linea di condotta un tradimento del comunismo.. Al contrario la causa della rivoluzione ne avrebbe un indubbio vantaggio. Oggi per i comunisti inglesi è spesso molto difficile persino accostare le masse. Se io mi presento come comunista e invito a votare per Henderson contro Loyd George mi si ascolterà.. E potrò anche spiegare che io vorrei sostenere Henderson col mio voto proprio come la corda sostiene l’impiccato, che l’avvicinarsi del momento in cui gli Henderson formeranno un proprio governo dimostrerà che io ho ragione, e avrà per effetto quello di attrarre le masse dalla mia parte..”. Anche in questo caso, come si vede, la tattica elettorale non vuole affatto diplomatizzare il rapporto con i riformisti, ma assume un fine esattamente opposto: allargare l’influenza rivoluzionaria presso la loro base. Questa tattica leninista appartiene alla tradizione del marxismo rivoluzionario. E ha trovato forme molteplici di applicazione i contesti diversi e in relazione a partiti riformisti o centristi di diversa natura e consistenza. Ma in ogni caso la condizione decisiva del suo esercizio è l’aperta presentazione del proprio programma, la critica pubblica dei riformisti e/o centristi, la presentazione del partito rivoluzionario e della sua costruzione come unica vera alternativa

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La scelta dell’astensione elettorale, nell’ esperienza rivoluzionaria, rappresenta normalmente una scelta subordinata alla obiettiva impossibilità della propria diretta partecipazione elettorale e all’impossibilità o non opportunità di altre scelte. Ma non significa che si riduce necessariamente alla risultante passiva della mancata presentazione. L’indicazione di astensione può infatti assumere gradazioni e significati diversi in rapporto alla natura delle forze in campo e alla dinamica della lotta di classe. Lungo un arco di possibilità molto ampio che va dal rifiuto di un indicazione di voto tra i due tradizionali poli borghesi, ad una campagna astensionista attiva ( ad es. a fronte dell’esclusione arbitraria dei rivoluzionari dalle elezioni), sino all’autentico boicottaggio attivo delle elezioni borghesi: una scelta tradizionalmente legata allo sviluppo di una dinamica rivoluzionaria del movimento di massa che scavalca lo stadio elettorale dello scontro politico e pone la questione del potere (v. il boicottaggio bolscevico delle elezioni per la Duma di Bulyghin nel 1905, in piena crisi rivoluzionaria, e la successiva posizione antiboicottista da parte di Lenin dopo il riflusso della rivoluzione). In ogni caso la posizione di astensione non è mai una posizione “morale” ma politica, legata allo sviluppo della politica rivoluzionaria. E per questo, in ogni caso, deve sempre combinarsi con la presentazione attiva delle nostre posizioni e del nostro programma.

Come si vede, tra la ricerca assolutamente prioritaria della propria diretta partecipazione alle elezioni borghesi , come forza pienamente autonoma e alternativa, e l’indicazione elettorale di astensione in assenza di questa possibilità, esiste una possibile articolazione di soluzioni tattiche, consegnataci dalla storia del nostro movimento: tutte legate, senza eccezione, alla centralità della prospettiva rivoluzionaria e alla piena salvaguardia dei principi. Questo grande bagaglio di attrezzi della tradizione rivoluzionaria non predetermina meccanicamente l’uso di questo o quell’altro strumento, a prescindere dall’analisi concreta della situazione data e dei suoi mutevoli sviluppi: il marxismo “è una guida per l’azione, non un dogma”. Ma certo definisce la ricchezza di un metodo generale e di un’esperienza storica che è assurdo ignorare per un partito come il nostro, che, a differenza del centrismo, assume il leninismo come proprio riferimento. La ricchezza di questo metodo deve inquadrare le scelte elettorali del PCL e lo stesso livello di discussione attorno ad esse. Proprio in funzione del nostro programma, dei nostri principi, della nostra costruzione indipendente. Che è l’alfa e l’omega di tutta la nostra politica.

LA CONQUISTA DELLA MAGGIORANZA

L’autonomia politica del nostro partito e del suo programma, non è e non va inteso come un semplice atto di autorecinzione: ma come precondizione di un’azione politica volta alla conquista delle masse, della loro maggioranza politicamente attiva e innanzitutto della loro avanguardia larga.

Il marxismo rivoluzionario ed in particolare il leninismo si è sviluppato non solo contro ogni forma di unitarismo programmatico con tendenze riformiste e centriste; ma anche, sul versante opposto, contro ogni forma di chiusura e di rinuncia alla proiezione di massa, all’azione di conquista della maggioranza della classe operaia e delle masse oppresse alla prospettiva della rivoluzione; alla necessità di molteplici forme di articolazione tattica, mirate a quella conquista.

E’ questa la battaglia che il bolscevismo sviluppò in Russia tra il 1906 e il 1910 contro le tendenze estremiste che respingevano la partecipazione alle elezioni e il lavoro dei sindacati di massa reazionari. E’ soprattutto la battaglia che Lenin e Trotsky svilupparono al III Congresso dell’Internazionale Comunista contro il rifiuto della politica e della proposta di unità d’azione con i “partiti riformisti e centristi” da parte della sezione francese e italiana (bordighista) e che fu anticipata e accompagnata dal testo di Lenin contro “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” (1920).

E’ importante osservare che questa battaglia contro l’estremismo, non muoveva da un versante per così dire “moderato”, ma, all’opposto, da un versante rivoluzionario. Proprio il programma della rivoluzione socialista – se non vuole ridursi a “frase altisonante” – richiede l’azione di conquista delle masse: perché solo l’azione di grandi masse, accompagnata dallo sviluppo della loro coscienza politica, può rendere possibile la rivoluzione sociale e la conquista proletaria del potere. E questa proiezione costante verso la conquista delle masse – contro ogni auto isolamento settario – è tanto più importante, osservava Lenin, quando il partito comunista è

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un piccolo partito; e quando la coscienza delle masse è pesantemente influenzata da illusioni riformiste, pregiudizi borghesi, pulsioni reazionarie.

Il PCL recupera questa concezione leninista. E proprio in quanto partito rivoluzionario. Le organizzazioni centriste non hanno bisogno di una proiezione verso la conquista della maggioranza. Proprio perché la loro vocazione non è la conquista del potere, ma la propria sopravvivenza fosse pura “antagonista” all’interno della società borghese, possono accontentarsi della propria autocelebrazione ed autoconservazione. Ma un partito come il nostro che assume la rivoluzione e il potere dei consigli come programma reale, ha il dovere di proiettarsi verso le masse, di lottare per la loro conquista, di lottare per la liberazione delle masse e innanzitutto della loro avanguardia dall’influenza di quegli apparati burocratici, grandi o piccoli, vecchi o nuovi, che vogliono subordinarle alla società capitalistica.

Il concetto di masse politicamente attive non indica una realtà statica ma dinamica. La consistenza e gli equilibri interni a queste masse sono una variabile della lotta di classe e dell’evoluzione della rappresentanza politica del movimento operaio. Nelle condizioni attuali, in Italia, la dissoluzione del PCI e l’approdo dei D.S. nel Partito Democratico da un lato; la crisi politica e la frantumazione organizzativa delle sinistre riformiste dall’altro fanno sì che manchi una rappresentanza politica maggioritaria della classe lavoratrice. I lavoratori che partecipano ordinariamente agli scioperi sindacali e/o alle manifestazioni politiche antigovernative hanno riferimenti politici ed elettorali variegati: in parte il PD, in parte oggi la IDV, in parte PRC, PDCI, SEL, senza che nessuna di queste forze eserciti una direzione politica maggioritaria della lotta di classe: il PD e l’IDV, in quanto partiti borghesi; le sinistre riformiste, in quanto piccole e frammentate (ciò che assegna alla burocrazia CGIL un ruolo obiettivo di supplenza politica “socialdemocratica” nel controllo del movimento operaio). Tuttavia resta il fatto che milioni di lavoratori sindacalmente e politicamente attivi assumono a riferimento (subendone il condizionamento) o partiti che rappresentano direttamente gli interessi della classe avversa, o forze che li subordinano alla collaborazione con quegli interessi.

Liberare milioni di lavoratori, e innanzitutto i loro settori più avanzati, dall’influenza di quei partiti e apparati è compito decisivo di una politica rivoluzionaria. Ciò che richiede una presenza e un intervento paziente del PCL – nella misura delle proprie forze – con le proprie posizioni indipendenti, in ogni manifestazione progressiva, per quanto contraddittoria, del movimento operaio e della lotta di classe.

Parallelamente la crisi del PD e delle sinistre riformiste, assieme alla crisi del movimento operaio, fanno sì che alcuni settori sociali di popolo della sinistra (precariato giovanile, settori intellettuali) trovino ciclicamente forme e canali di espressione attiva e di massa esterni o estranei ai partiti tradizionali o alle forme tradizionali della politica. E’ il caso del fenomeno del cosiddetto “popolo viola”, o, in forma politica oggi più definita, del “grillismo”. La totale inconsistenza delle loro leadership e della loro impostazione politica-culturale (democratico-minimalista e/o mediatico-qualunquista) è del tutto evidente: e le espone non a caso alle influenze dirette o indirette del PD o del giustizialismo. Ma è altrettanto evidente la capacità d’attrazione e persino di mobilitazione di questi “movimenti” e soggetti all’interno della giovane generazione quale canale d’espressione di una domanda di “cambiamento” priva di riferimenti a sinistra. La partecipazione e l’intervento del PCL alle manifestazioni di questi movimenti – nelle forme possibili – è stato e può essere un’ occasione utile di presentazione del nostro programma e delle nostre proposte a settori di giovani senza partito.

LA POLITICA DEL FRONTE UNICO

Dentro una linea di proiezione di massa, la tattica del fronte unico – opportunamente articolata – è uno strumento importante per presentare il programma del nostro partito, estendere la sua influenza, allargare le contraddizioni del riformismo e del centrismo.

Il PCL – in quanto partito rivoluzionario – è il partito più “unitario”, in un certo senso, della sinistra italiana sul terreno della lotta di classe, della proposta e della pratica nei movimenti di massa, dei rapporti d’azione e di confronto con le altre forze della sinistra.

Le forze riformiste e centriste, avendo lo scopo di negoziare i compromessi con i liberali (riformisti) o di conservare la propria nicchia “antagonista” (centristi) misurano le proprie scelte, iniziative e proposte, in

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relazione ai propri interessi particolari. Il PCL, non avendo altro interesse che l’affermazione di una prospettiva rivoluzionaria e la conquista delle masse a quella prospettiva, misura le proprie scelte, iniziative e proposte unicamente in relazione allo sviluppo del movimento reale della lotta di classe, all’allargamento del fronte unitario della lotta, alla crescita della coscienza politica delle masse e della loro avanguardia.

Da qui la nostra partecipazione a tutte le manifestazioni che abbiano carattere progressivo, seppur limitato, contro il governo e le forze dominanti, indipendentemente dalla nomenclatura delle forze promotrici (fuori da contese demenziali e settarie sulle primogeniture, sulle date…).

Da qui la nostra partecipazione a tutte le occasioni di confronto unitario e pubblico con le altre forze della sinistra, attorno ai temi dell’unità d’azione o della prospettiva generale (contro la pratica dell’esclusione pregiudiziale del PCL dal confronto a sinistra, abusata contro di noi da riformisti e centristi).

Da qui, soprattutto, il nostro appello costante alla massima unità di lotta, sul terreno dell’azione di massa, tra le diverse forze della sinistra politica e sindacale, in rapporto alle necessità obiettive dello scontro politico e di classe (contro le pregiudiziali incrociate di sigla, le logiche auto conservative e di piccoli spazi burocratici a scapito del movimento reale).

Da qui, più in generale, la nostra proposta complessiva, rivolta all’insieme delle sinistre politiche e sindacali, di rompere col centrosinistra e di costituire un polo di classe indipendente sul terreno di un programma anticapitalistico e nella prospettiva del governo dei lavoratori.

La politica di fronte unico non è una pura “manovra” ma ha una corrispondenza innanzitutto con le esigenze obiettive della lotta di classe e della prospettiva anticapitalista. Tutte le nostre proposte “unitarie” rispondono a questo criterio. La nostra proposta di vertenza generale unificante risponde all’esigenza obiettiva di ricomporre il fronte proletario contro la crisi capitalistica e contro le manovre divisorie dell’avversario. La nostra proposta di coordinamento nazionale delle aziende in lotta, di occupazione generale delle aziende che licenziano e di loro esproprio, risponde alla necessità obiettiva di unire e allargare le lotte di resistenza in corso al nuovo livello di scontro imposto dal padronato. La nostra proposta di Assemblea nazionale intercategoriale di delegati eletti come sede democratica e deliberante di una svolta di lotta, risponde all’esigenza di comporre un quadro unitario dell’avanguardia di classe, capace di travalicare le divisioni sindacali che l’attraversano e di sviluppare l’autorganizzazione democratica di massa del movimento operaio. E così ogni altra nostra proposta di fronte unico, nei diversi ambiti dell’autodifesa antirazzista e antifascista, dell’autorganizzazione del movimento studentesco, della lotta di massa ambientalista, della campagna anticlericale.

La nostra proposta complessiva del polo autonomo di classe e anticapitalista è il coronamento d’insieme di questa logica di fondo: indica la necessità oggettiva di rompere col sistema capitalista e di lottare per un’alternativa di potere quale condizione decisiva per dare uno sbocco unificante alle lotte parziali e una risposta reale alle loro rivendicazioni di fondo.

In questo quadro generale, la politica del fronte unico ha anche tuttavia un’articolazione tattica: funzionale ad evidenziare le contraddizioni e l’ipocrisia delle direzioni riformiste (e centriste), ad approfondire quelle contraddizioni, ad ampliare i canali di comunicazione tra i rivoluzionari e più ampi settori di classe. L’articolazione tattica passa per la proposta sfida costantemente rivolta a tutte le forze della sinistra politica e sindacale: “Rompete con il Centrosinistra, con i liberali, con i giustizialisti, assumetevi la responsabilità di una risposta anticapitalistica alla crisi; lottiamo insieme per un governo dei lavoratori…”.

Questa articolazione non fa alcuna concessione a riformisti e centristi, né esprime illusioni nei loro confronti. Al contrario. Combinata con la costante denuncia della loro politica, e con l’avanzamento nelle lotte delle nostre proposte politiche e programmatiche, mira a disvelare la vera natura delle altre sinistre agli occhi dei settori più avanzati della loro base (militante ed elettorale). Dimostrando che i loro dirigenti politici preferiscono ricercare o salvaguardare “l’unità” subalterna con liberali e populisti, piuttosto che realizzare l’unità di lotta della classe operaia attorno ad un proprio programma; che i loro dirigenti sindacali preferiscono ricercare il recupero della concertazione con Confindustria (o salvaguardare la propria nicchia), piuttosto che unire in una lotta vera tutte le energie del movimento operaio sul terreno della rottura con la borghesia. E che dunque solo il PCL e il suo programma danno una risposta autonoma e di fondo alla crisi sociale e alle politiche reazionarie.

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Questa proposta ed articolazione tattica ha ulteriore utilità politica, dentro l’attuale dibattito sull’ “unità” della sinistra e in rapporto al sentimento unitario che anima larga parte del popolo della sinistra. La presenza di un governo delle destre particolarmente reazionario, gli effetti disgregatori della crisi sociale, la frantumazione politico-organizzativa delle sinistre, combinata con la loro estromissione dal Parlamento, hanno alimentato e alimentano, a diversi livelli, una confusa domanda di “unità” nelle fila del movimento operaio, della sua avanguardia, e più in generale nella base sociale ed elettorale della sinistra. Proprio per questo il cavalcamento strumentale e distorto di questo sentimento diventa un autentico sport per tutto l’arco politico delle opposizioni a Berlusconi.

Il PD cavalca il sentimento di unità per subordinare i lavoratori al centrosinistra e al bipolarismo. L’IDV per motivare il blocco politico col PD, o per invocare la subordinazione delle sinistre al giustizialismo. La SEL per riproporre l’ennesimo “nuovo” Centrosinistra con PD e IDV, preferibilmente attorno alla candidatura di Vendola. La Fed per giustificare il “realismo” delle coalizioni di governo con PD-IDV-SEL, ed evitare di essere scaricate ed emarginate dell’asse Bersani-Vendola. Ogni attore politico della cordata del Centrosinistra usa la bandiera dell’ “unità” contro gli interessi dei lavoratori per subordinarli alla borghesia e all’alternanza. Il PCL ha un compito opposto. Quello di connettersi col sentimento unitario di massa di milioni di lavoratori e di giovani; per contrapporlo alla politica borghese e tradurlo sull’unico terreno possibile: l’unità dei lavoratori e di tutti gli sfruttati in contrapposizione alla borghesia, per il proprio potere.

IL RUOLO DELLA PROPAGANDA

Padroneggiare, nella teoria e nella pratica, il ruolo della propaganda rivoluzionaria è un aspetto importante della politica del PCL e della sua costruzione.

Tutta la nostra politica di massa ruota attorno alla necessità della rivoluzione sociale. Questa prospettiva è oggi, in termini generali, oggetto di propaganda. Non perché la rivoluzione non sia oggettivamente e storicamente attuale: è attualissima tanto più oggi, di fronte alla grande crisi del capitalismo. Ma perché la comprensione soggettiva di questa necessità da parte delle masse, e della loro stessa avanguardia, è oggi assente e lontana; e il livello dato dei rapporti di forza tra le classi non pone all’ordine del giorno quello sbocco. Per costruire il ponte tra l’arretratezza della coscienza di massa e la necessità della rivoluzione sociale, la propaganda svolge oggi dunque un ruolo insostituibile.

A sua volta la propaganda rivoluzionaria abbraccia livelli diversi.

Un primo livello elementare ma fondamentale tanto più oggi – è costituito dalla denuncia della fallimento del capitalismo, e dalla presentazione del programma socialista come unica vera alternativa: il fatto che oggi la borghesia mondiale sia culturalmente sulla difensiva (anche se socialmente all’offensiva) rispetto alla crisi del proprio sistema sociale , crea uno spazio più ampio per la propaganda rivoluzionaria in particolare presso la nuova generazione . Declinare in termini socialisti il vecchio concetto “un nuovo mondo è possibile”; spiegare in termini semplici e con linguaggio popolare che un’organizzazione alternativa della società umana è possibile e necessaria e che solo il potere dei lavoratori può riorganizzare da cima a fondo la società, deve occupare – più di ieri – uno spazio costante della nostra attività e comunicazione pubblica. Per la cultura centrista – secondo cui “il movimento è tutto, il fine è nulla” (Bernstein) – si tratta di “astratta” propaganda “ideologica”. Per i rivoluzionari la propaganda del fine è una componente decisiva della propria azione.

Un secondo livello della propaganda è rappresentato dall’articolazione transitoria del programma. Si tratta delle rivendicazioni che cercano di ricondurre il movimento al fine; che partendo dall’esperienza concreta delle lotte e dalle esigenze oggettive delle masse indicano come la loro soluzione sia incompatibile con il capitalismo e il potere borghese, e richiede una rottura di sistema. Ad es. la parola d’ordine della scala mobile delle ore di lavoro e delle nazionalizzazioni senza indennizzo, o dell’esproprio delle proprietà ecclesiastiche o dei processi popolari contro i crimini del Vaticano, non trainano, nelle condizioni date, movimenti reali di lotta di massa. Le direzioni politiche e sindacali del movimento operaio e dei movimenti di lotta sono per loro natura, impermeabili a queste rivendicazioni. E il PCL è ancora troppo piccolo per affermarle nella classe operaia e nella sua stessa avanguardia larga. In questo senso le rivendicazioni transitorie sono per noi

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oggetto di propaganda. Ma questa propaganda è essenziale. Traduce la necessità della rivoluzione non nel linguaggio della battaglia culturale, ma in quello dell’esperienza quotidiana di vita e di lotta delle masse. Mostra quale dovrebbe essere oggi il programma di mobilitazione di un blocco sociale alternativo in rapporto alla radicalità delle classi dominanti. Indica, prefigurandoli, contenuti e misure di un governo dei lavoratori. I centristi respingono sempre queste rivendicazioni, accusandole di essere “irrealizzabili”. I rivoluzionari vedono il loro valore, paradossalmente, proprio nella loro irrealizzabilità all’interno dell’ordine borghese. Proprio nella loro allusione alla necessità di una rivoluzione sociale, quale condizione della loro realizzazione.

Un terzo livello di propaganda è rappresentato dall’articolazione politica ordinaria delle nostre parole d’ordine di fase, sociali e politiche.

La proposta della vertenza generale e dello sciopero generale prolungato; oppure le stesse formule politiche di fronte unico, nelle loro declinazioni diverse e complementari (“polo autonomo di classe e anticapitalistico”, “rompete con liberali e giustizialisti”, “parlamento dei lavoratori e delle sinistre ecc.) non sono suscettibili oggi di “concretizzazione” su un piano generale. Non perché non corrispondano a necessità oggettive, o perché siano di per sé impraticabili: sono al contrario l’unica proposta concreta di reale mobilitazione generale, capace di strappare risultati e l’unica proposta oggi di indipendenza e di unità di classe, a sinistra. Ma perché, ancora una volta, le direzioni delle sinistre politiche e sindacali respingono queste necessità; e il PCL è ancora troppo debole non solo per dirigere il movimento operaio, ma anche per imporre le proprie parole d’ordine come oggetto diretto di confronto pubblico di massa . Per questo si tratta ancora, ad oggi, per parte nostra, di formule di propaganda. Tuttavia, anche qui, si tratta di un livello propagandistico fondamentale. Configura la nostra proposta come una proposta di direzione politica alternativa del movimento operaio e dei movimenti di lotta, ed evidenzia l’impasse e le contraddizioni delle sinistre politiche e sindacali. Il fatto di non poter esercitare noi oggi questa direzione non toglie nulla alla sua propaganda: alla spiegazione paziente di ciò che le altre direzioni potrebbero e dovrebbero fare e non fanno, e delle ragioni di fondo per cui non lo fanno. E’ un aspetto della costruzione indipendente del PCL e della sua credibilità come riferimento alternativo.

Più in generale l’insieme dell’attività propagandistica è tanto più utile per un piccolo partito come il nostro, il cui principale fattore di richiamo (e reclutamento) è dato finora dal profilo complessivo del proprio programma e della propria proposta, più che dall’impatto diretto sul movimento delle masse.

PROPAGANDA, AGITAZIONE, AZIONE

Pur essendo ancora un partito dedito principalmente ad un’attività propagandistica nella lotta politica e di classe, il PCL non può limitarsi alla propaganda . Ma deve cercare ovunque di aprire varchi per l’agitazione politica delle proprie parole d’ordine e per la loro sperimentazione pratica, per quanto embrionale, nel movimento di lotta.

Da un punto di vista generale, la stessa funzione della propaganda rivoluzionaria è quello di arare e preparare il terreno per lo stadio dell’agitazione: ossia per il passaggio ad una fase più avanzata in cui le parole d’ordine dei rivoluzionari, opportunamente articolate, possano trasformarsi in strumenti di orientamento, appello diretto all’azione in settori di massa e candidarsi a trainare movimenti reali. Questo passaggio all’agitazione dipende da due fattori intrecciati : da un lato lo sviluppo del partito e del suo radicamento, la crescita dell’influenza delle sue parole d’ordine all’interno dell’avanguardia di classe e dei movimenti, la formazione di agitatori rivoluzionari provvisti di un ruolo e di una riconoscibilità reale, la maturazione di una capacità d’intervento come collettivo; dall’altro lato l’evoluzione della situazione sociale e politica obiettiva, lo sviluppo di accelerazioni e radicalizzazione delle mobilitazioni di massa, il prodursi di brusche svolte di lotta, che creino le condizioni propizie per il salto all’agitazione.

Questi due fattori raramente si producono in forma unitaria e combinata. E nessuno dei due matura in modo lineare. Anche per questo la relazione tra propaganda e agitazione va padroneggiata dialetticamente.

Nell’ambito di una situazione complessivamente negativa e arretrata della lotta di classe in Italia si sono prodotte in diverse situazioni reazioni di lotta radicali contro la crisi: 300 fabbriche presidiate dai lavoratori, e decine di aziende occupate ad oltranza ne sono il segno. In relazione a questo contesto il nostro partito ha

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combinato la propaganda generale per l’esproprio delle aziende in crisi, con la parola d’ordine “più agitatoria” dell’occupazione di tutte le aziende che licenziano e del loro coordinamento nazionale. Provando ad attivare su questa specifica indicazione un primo pronunciamento operaio. L’attuale debolezza del PCL non ha consentito l’allargamento di questa iniziativa (che pur ha aperto brecce di comunicazione con nuovi settori operai). Ma, metodologicamente, è stato ed è corretto provare sul campo un’indicazione agitatoria, al di là della nostra debolezza soggettiva, quando le condizioni oggettive della lotta lo suggeriscono. E’ il metodo che i nostri compagni hanno utilizzato all’Unilever, all’Alitalia, alla Merloni e in diverse altre situazioni. E’ il metodo di un partito rivoluzionario, che non misure le proprie parole d’ordine su ciò che gli è possibile ma su ciò che è necessario alle masse e alle loro dinamiche di lotta in funzione di un progetto di rivoluzione.

Questo metodo è di fondamentale importanza in relazione a possibili brusche svolte della lotta di classe sul piano più generale (come in specifici settori di massa). Contrariamente a diffuse visioni libresche che vedono la “rivoluzione” come orizzonte mitologico astratto, esplosioni sociali radicali e persino situazioni rivoluzionarie possono prodursi con relativa rapidità, e contro ogni possibile previsione di calendario anche della migliore organizzazione rivoluzionaria. Così è stato spesso nella storia. E così può ripetersi, nonostante tutto, in un contesto generale segnato – come abbiamo detto in sede d’analisi – dal progressivo cumularsi delle fascine del malcontento sociale della classe operaia e di ampi settori di gioventù . Il nostro partito deve saper combinare la prudenza delle previsioni con la preparazione soggettiva ad ogni possibile svolta. E dunque con la massima determinazione all’agitazione e all’azione su quel possibile terreno.

Peraltro un partito rivoluzionario, e persino un piccolo partito – se riesce a conquistare e dirigere uno spazio di lotta, nell’avanguardia - può essere a volte con la propria azione un fattore di accelerazione della situazione politica e della radicalizzazione di classe. E’ stato così in molte occasioni (come nel caso del ruolo di settori trotskisti nell’innesco del Maggio 68 in Francia). E così potrebbe ripetersi. Se la piccola lotta e vittoria della INSE fosse stata diretta e gestita da nostri compagni, e non da un piccolo gruppo auto centrato e settario, quel piccolo fatto avrebbe potuto essere investito in un salto di credibilità nazionale della nostra proposta complessiva di unificazione e radicalizzazione della lotta di classe. Per questo ogni tentativo di conquista di posizioni d’avanguardia e di direzione di lotta da parte del nostro partito, assume una rilevanza politica potenziale superiore alle sue dimensioni. Sia per la maturazione di più ampi settori di massa. Sia per la nostra stessa costruzione.

LA PROSPETTIVA DEL NOSTRO PARTITO

Un partito rivoluzionario non si sviluppa in modo lineare, ma per salti.

Nel documento organizzativo trattiamo ampiamente e in modo articolato il bilancio della nostra costruzione. In questa sede, ci pare utile riassumere alcune considerazioni politiche conclusive sulla nostra prospettiva.

In questi anni , tra molti problemi, e con molti limiti, Il PCL ha “tenuto”. Ha realizzato una stabilizzazione complessiva del numero dei propri iscritti, un allargamento geografico della propria presenza , un minimo di riconoscibilità pubblica attraverso la partecipazione alle campagne elettorali del 2008-2009 sul piano nazionale (e in varie elezioni locali), il consolidamento della sua presenza in organizzazioni di massa e in alcuni luoghi di lavoro

Questa tenuta non era scontata. Il cambio di quadro politico dopo il nostro congresso fondativo con l’avvento di Berlusconi; la ricollocazione delle sinistre, seppur in crisi, all’opposizione; la mancata affermazione di Vendola al congresso del PRC e la sua conseguente scissione, con la relativa recita della “svolta a sinistra” da parte del PRC di Ferrero; la nascita di “Sinistra Critica” a sinistra del PRC, hanno costituito, nel loro insieme, un indubbio fattore di complicazione della nostra riconoscibilità politica, sia a livello di massa che di avanguardia. A ciò si è aggiunta nell’ultimo anno la pressione materiale della crisi capitalistica sulle dinamiche di lotta.

Il PCL ha retto alla prova impegnativa del cambio politico. E oggi rappresenta, nonostante tutto, la principale formazione politica a sinistra del riformismo: in termini di consistenza, di capacità operativa, e soprattutto di estensione territoriale. Questo è il lato positivo del nostro bilancio. Che convive con numerose insufficienze.

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Si tratta ora di razionalizzare il nostro progetto di costruzione e di prospettiva. Comprendendo i nostri stessi limiti in una visione d’insieme.

La costruzione di un partito rivoluzionario è un processo molto complesso. Tanto più su un terreno segnato dalla sconfitta sociale del movimento operaio, dalla rovina politica delle sinistre, dall’impatto profondo di questi eventi sul senso comune e l’immaginario collettivo delle masse, e di ampi strati d’avanguardia (“comunisti hanno fallito” “i partiti non servono e sono tutti uguali”..ecc.). Naturalmente questi stessi fattori hanno una dimensione dialettica a due facce, e contemplano anche un lato positivo: in particolare la dissoluzione, sul piano politico, di grandi apparati burocratici di controllo del movimento operaio, e l’erosione degli spazi storici del riformismo. Questo “lato” è prezioso per la nostra costruzione. Ma è indubbio che complessivamente la nostra costruzione procede controcorrente, tanto più a fronte di rapporti di forza e di un’economia di mezzi obiettivamente impari. Chi si fosse atteso o si attendesse una crescita lineare del PCL, partirebbe da presupposti sbagliati di merito e di metodo.

Detto questo, va evitata ogni concezione puramente “resistenziale” e della nostra presenza politica e della nostra costruzione. Proprio perché complessa, la costruzione di un partito rivoluzionario e il suo futuro si intreccia con l’evoluzione politica e sociale, con la dinamica imprevedibile della lotta di classe, con i successi variabili dello stesso intervento politico dei rivoluzionari nelle lotte. Oltrechè col processo di ricomposizione delle rappresentanze del movimento operaio e delle sinistre.

Tutti i partiti rivoluzionari si sono costruiti nell’infinito saliscendi della lotta politica e di classe. Non in modo lineare, ma per salti. Così è stato nella grande lezione storica del bolscevismo, che prima del 1905 contava alcune migliaia di militanti in tutta la Russia zarista: e che incrociandosi con la dinamica imprevedibile della crisi dello zarismo, della guerra, dell’ascesa rivoluzionaria delle masse, della capitolazione governista delle altre sinistre, si è ritrovato 12 anni dopo alla testa della Rivoluzione d’Ottobre. In altre forme, e a livelli certo molto diversi, la stessa lezione si è riproposta infinite volte nell’esperienza della costruzione di partiti rivoluzionari. Nel suo piccolo, la nostra stessa organizzazione argentina si è costruita per salti: passando ad esempio dai 700 militanti del ’99 ai 2000 militanti attuali (e 18000 aderenti al Polo Obrero), dopo essersi incrociata con l’esplosione sociale dell’Argentinazo del 2001-2002 e aver conquistato una posizione dirigente nel movimento piquetero, sullo sfondo della crisi.

La stessa lezione ci viene peraltro, in primo luogo, dalla nostra storia. Il percorso di sviluppo del marxismo rivoluzionario in Italia negli ultimi decenni è stato tutt’altro che rettilineo. Per 15 anni le sue posizioni sono state difese e rappresentate da una piccolo gruppo di poche decine di compagni/e, molto attivo politicamente, ma del tutto marginale. All’inizio degli anni 90, l’incontro col crollo internazionale dello stalinismo, con lo scioglimento del PCI, col fenomeno Rifondazione, ha consentito a questa organizzazione di estendersi nazionalmente, di raggruppare attorno al proprio programma diverse centinaia di militanti, di segnare un salto di riconoscibilità nell’avanguardia, di preparare le condizioni della nascita del PCL. Uno sviluppo impensabile fuori dallo sfondo storico nuovo del post 89.

E’ col bagaglio di questa esperienza che dobbiamo dunque guardare al futuro del nostro partito. Non si tratta di “attendere” gli eventi. Ma di comprendere che la prospettiva storica del PCL è inseparabile dall’imprevedibile vicenda sociale e politica del movimento operaio.

In Italia, ad esempio, una brusca svolta della lotta di classe in direzione di un’esplosione sociale; o una crisi distruttiva del PRC o della Fed; o la conquista da parte del PCL di un ruolo di direzione in una lotta importante, di richiamo nazionale; o una qualche combinazione di alcuni di questi fattori, potrebbe rappresentare, a certe condizioni, un elemento imprevedibile di accelerazione e nella nostra costruzione. Con un salto, piccolo o grande, nell’accumulazione delle forze. Si tratta naturalmente di ipotesi di scuola. Ma metodologicamente essenziali, nella razionalizzazione della nostra prospettiva.

Proprio per questo va assunto un concetto generale: non è il partito che dispone di tutti i fattori del proprio sviluppo. Ma certo è il partito che deve predisporre e controllare, al livello più alto, quei fattori soggettivi che gli consentano di utilizzare a proprio vantaggio svolte favorevoli della situazione oggettiva. Oltrechè di cercare di favorire, nei propri limiti, e in condizioni particolari, questa svolta.

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Alcuni di questi fattori soggettivi, di grande importanza, sono affrontati compiutamente nel testo organizzativo.: la cura dell’organizzazione militante, la formazione programmata dei propri quadri, l’attenzione all’estensione del tesseramento largo come bacino di costruzione,la stabilizzazione dell’intervento pubblico secondo piani di lavoro definiti dalle sezioni… Su questo terreno il 2° Congresso è chiamato a realizzare un progresso qualitativo capace di riscontro.

Altri fattori, di eguale importanza, attengono al profilo politico delle nostre scelte:

- La finalizzazione dell’intervento al radicamento sociale, nei luoghi di lavoro, nelle organizzazioni di massa, nei movimenti. Affinchè ogni nostro militante conquisti una sua “trincea” di combattimento.

- L’utilizzo di ogni canale disponibile di propaganda e comunicazione di massa della nostra proposta politica e programmatica, e della nostra stessa esistenza, a partire dalla partecipazione ovunque possibile alle prove elettorali con la nostra piena riconoscibilità politica.

- Lo sviluppo di un lavoro di raggruppamento di tendenza nei diversi settori d’intervento attorno alle nostre posizioni programmatiche di settore (nelle diverse organizzazioni sindacali, nell’università e nella scuola, nei movimenti) per costruire attorno alle nostre posizioni caratterizzanti un punto di riferimento e una nostra area d’influenza, sull’esempio dell’approccio che stiamo ipotizzando sulla scuola e l’università.

- L’attenzione alla dialettica politica e a possibili nuovi processi di crisi entro l’area della sinistra riformista e centrista, ai fini del nostro intervento diretto sulle sue contraddizioni, e di una nostra capitalizzazione politica e organizzativa della loro eventuale precipitazione: sia in termini di conquiste individuali, sia in termini di possibili conquiste collettive. Ad oggi non si segnalano sul piano nazionale organizzazioni, tendenze o raggruppamenti interni ad altre formazioni in evoluzione verso il marxismo rivoluzionario e il PCL. Ma per il futuro non è possibile escluderle a priori. E, nel caso, il nostro partito dev’essere pronto a polarizzarle attorno a sé, integrandole nel progetto di costruzione del partito rivoluzionario. Come sempre hanno cercato di fare i marxisti rivoluzionari nella loro storia.

In buona sostanza, il nostro metodo di costruzione deve basarsi sulla capacità di combinare l’assoluta autonomia programmatica dei rivoluzionari in contrapposizione al riformismo e al centrismo (il loro “spirito di scissione” come diceva Gramsci), con la proiezione di massa della nostra proposta, la duttilità leninista dell’articolazione tattica, lo spirito di conquista di nuove forze.

Come scriveva Trotsky: “Per i rivoluzionari essere per un certo tempo un piccolo partito non è una disgrazia. Alla condizione che non venga considerata una virtù”.

Rimini, 8 gennaio 2011