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GIANPIERO VINCENZO 15 LEZIONI SUI RITUALI SOCIALI 1

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GIANPIERO VINCENZO

15 LEZIONISUI RITUALI SOCIALI

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Lezione 1 - Omaggio a Cassirer 3Lezione 2 - La teoria del denaro 8Lezione 3 - Gli idoli moderni 12Lezione 4 - Pro e contro le immagini 19Lezione 5 - La scoperta dei rituali 23Lezione 6 - Bianco e nero 29Lezione 7 - Spazio al tecnoconsumismo 33Lezione 8 - La televisione e il cinema 38Lezione 9 - La guerra 44Lezione 10 - La personalità autoritaria 49Lezione 11 - La rivoluzione del tempo 55Lezione 12 - La magia degli oggetti 62Lezione 13 - Arte nomade 67Lezione 14 - Socrate e Montalbano 72Lezione 15 - Rituali del benessere 76Bibliografia 81

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Lezione 1 - Omaggio a Cassirer

In queste lezioni intendiamo analizzare il comportamento umano sotto la particolare angolazione dei rituali sociali. Con questi ultimi non intendiamo né le abitudini, né i semplici comportamenti ripetitivi e istintivi, ma le azioni dotate di un carattere simbolico consapevole o inconsapevole, implicito o esplicito. Il rituale infatti è un simbolo agito, un simbolo messo in atto, un’azione dotata di carattere simbolico. La prima cosa da fare è quindi provvedere una definizione di simbolo, ma invece di darne una formulazione astratta vediamo quale sia concretamente la natura dell’uomo in rapporto ai simboli.

Siamo stati educati, infatti, presupponendo che l’uomo sia un animale razionale, con facoltà spiccatamente logiche e deduttive. Idea originata dalla cultura illuminista che del razionalismo ha fatto una filosofia vera e propria e all’interno vi si collocano una serie di scienze e la stessa idea di scienza è basata sull’idea di uomo come animale razionale. Tutto ciò è vero fino ad un certo punto. Ernst Cassirer è un filosofo tedesco di origine ebraica. Nel suo Saggio sull’uomo: una introduzione alla filosofia della cultura umana (1944), egli affronta il problema della natura umana sulla base di un ragionamento empirico talmente semplice che può essere esteso a tutti noi. Egli si chiede quanti uomini nella nostra esperienza empirica si comportino in maniera razionale. nella stragrande maggioranza dei casi la risposta è: pochissimi. Questa semplice considerazione dimostra che a livello empirico il modello dell’uomo razionale non regge alla stessa analisi razionale. Questo non vuol dire che le persone siano prive di ragionamenti razionali ma che questi sono, in percentuali diverse da individuo ad individuo, solo una parte dei comportamenti. La significativa presenza di comportamenti definibili come “non razionali” spinge Cassirer ad affermare che la definizione di uomo come essere razionale non è soddisfacente. Cassirer sostiene che l’uomo sia un essere simbolico. Capovolge quindi la piramide che vede in cima i comportamenti razionali. Razionale diventa una parte di comportamenti simbolici. La caratteristica del simbolo è di essere intuitivo, di sviluppare una dimensione intuitiva che è distinta da quella razionale. Il razionale arriva per sequenze logiche deduttive, sviluppa qualcosa che è già nelle premesse. L’intuizione rompe questa catena logico-deduttiva. Molto spesso davanti ad un’opera d’arte diciamo che per noi significa molto ma non riusciamo a darne una spiegazione razionale del significato. Non possiamo esprimerlo razionalmente ma ciò non significa che non ne siamo colpiti dal punto di vista simbolico. Secondo la teoria umorale (su cui si fonda la fisiognomica antica)

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la Gioconda di Leonardo è il perfetto mezzo di tutto, l’unione di tutti gli “umori”, il punto intermedio tra i “tipi” sanguigni, flemmatici, malinconici e biliosi, perfetta rappresentazione del simbolismo dell’unità nella molteplicità e della molteplicità nell’unità all’interno di una rappresentazione pittorica. Ma anche senza queste considerazioni “colte” si può godere lo stesso dell’opera. Queste sono le considerazioni di Cassirer in merito alle relazioni tra razionale e simbolico poste alla fine del capitolo “una via per la conoscenza della natura dell’uomo: il simbolo”:

I grandi pensatori che hanno definito l’uomo come animal rationale non erano empiristi e non

hanno inteso dare una spiegazione empirica della natura umana. Con tale definizione essi

posero piuttosto un imperativo morale. La ragione è un termine poco adeguato se si vuole

abbracciare in tutta la loro ricchezza e varietà le forme della vita culturale dell’uomo. Queste

forme sono essenzialmente forme simboliche. Invece di definire l’uomo come un animal

rationale si dovrebbe dunque definirlo come un animal symbolicum. In tal guisa si indicherà ciò

che veramente lo caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie e si potrà capire

la speciale via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà” (1944; 81).

Proviamo adesso un altro approccio al simbolo. Il fanciullo gioca e giocando effettua continuamente una sovrapposizione di significati: un guscio di noce diventa una nave, un cappello, un elmetto per un soldatino, ecc. il bambino si allena attraverso il gioco allo svelamento dei significati simbolici degli oggetti. Il giocattolo più interessante è quello con cui possono fare più cose cioè quello che può assumere forme simboliche diverse. Da bambini sperimentiamo come le cose possono essere lette in modo diverso.

Arrampicarsi su un albero. per esempio, significa mettere in atto il collegamento tra terra e cielo, simbolismo che appartiene a tutte le culture. Soprattutto in un albero verticale come il cipresso che anche oggi si pianta nei cimiteri e il cui legno veniva utilizzato per le icone. Nella cultura ebraica, ancora, l’albero sefirotico rappresenta i diversi livelli del creato. Nelle rappresentazioni medievali dell’albero al centro del mondo, gli uccelli sono il collegamento tra la terra e il cielo e sono la rappresentazione degli stati angelici. L’aneddoto di San Francesco che parla agli uccelli non è solo un racconto o una leggenda, ma soprattutto un evento simbolico, che mostra la possibilità del dialogo tra l’uomo e gli angeli. Analogamente, san Francesco che parla al lupo rappresenta la possibilità della conversione delle creature infere e malefiche. Questo tipo di simbolismo lo troviamo in tutte le culture. L’inversione del simbolo è un modo per rappresentare gli inferi, così ad esempio i demoni sono rappresentati come pipistrelli, poiché questi ultimi sono uccelli che

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si appollaiano a testa in giù. Praticamente ogni simbolo può essere usato in senso celeste o infero.

In tal senso molti film gialli possono essere visti come una rappresentazione della lotta tra il bene e il male: In tal senso gli “investigatori” sono esseri speciali - santi o semidei - che riescono a liberare l’uomo dalla malvagità. Il passo verso i “supereroi” dei fumetti è breve. È un esempio di come un simbolismo dall’apparenza “medievale” sia in realtà largamente utilizzato ancora oggi.

Il film Avatar (2009) di James Cameron è ad oggi quello che detiene il record di incassi nella storia del cinema (quasi 3 miliardi di dollari). Ci viene da pensare che parte del suo successo sia dovuto al sistematico riferimento a simboli e rituali delle società primitive. Nel film il protagonista Jake Sully, entra a far parte del popolo Na’vi dopo aver imparato a cacciare e ad uccidere la preda pronunciando una preghiera su di essa: non si uccide se non per necessità e in modo rituale (l’uccisione rituale si ritrova anche nell’ebraismo e nell’Islam). Il popolo Na’vi vive in simbiosi con il pianeta e tutte le specie naturali, i suoi membri vivono all’ombra del grande albero/casa e si ritrovano in preghiera vicino all’albero delle anime. Il corpo malato di Jake Sully, corrisponde alla società moderna malata perchè insensibile ai rituali, e il corpo forte e rigoglioso del suo Avatar, corrisponde a quello di un popolo in rapporto empatico e simbolico con la natura.

Il transumanesimo contemporaneo che cerca l’immortalità attraverso un trasferimento della coscienza in una macchina è il segno che i simboli dell’immortalità (come tutti quelli collegati alla cerca del Graal, per esempio) hanno significato ancora oggi anche se con una valenza diversa rispetto al passato. Transcendence (2014) di Wally Pfister con Johnny Depp, in cui la coscienza del protagonista defunto viene “riversata” in una intelligenza artificiale, è solo uno dei film più noti tra quelli che si ispirano al transumanesimo.

Cosa possiamo ancora suggerire per una definizione di simbolo? Possiamo dire che il simbolo è una simultanea di rappresentazione di una pluralità di significati e di mondi visti come proiezione di un centro o principio unico. In un certo senso quindi tutti i simboli sono proiezioni delle qualificazioni presenti sinteticamente in un punto cruciale che è il Centro. Tale centro è come il punto della geometria piana, che non occupa spazio ma dal quale ogni elemento spaziale, ogni superficie, ha origine. Il simbolo ha quindi un carattere sintetico, essenziale e universale, per quanto possa essere susciettibile di un processo di diminuzione e di reificazione, che può arrivare fino a farlo coincidere con un semplice segno denotativo, privo di ogni carattere connotativo.

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Sembra una cosa arcana e arcaica ma è una prospettiva che si può facilmente riscontrare nella esperienza ordinaria. L’amore, per esempio, è un simbolo suscettibile di una indefinita serie di significati (amore materno, filiare, sessuale, divino, ecc.) che pur se molto distanti tra loro sono concepiti come facenti parte di una medesima realtà simbolica. Anche l’urbanistica offre esempi di simbolismo spesso complesso. Si pensi a una piazza come Piazza Duomo a Catania (o in tante altre città italiane): all’interno della piazza si affacciano tutti gli elementi rappresentativi della città, i simboli della Chiesa, del Comune, la zona della perscheria, il Mare. Al centro l’elefante “Liotro”, simbolo della città con sopra un obelisco a sua volta rappresentazione verticale del centro, monolite sede della divinità. Nelle città moderne gli obelischi sono sostituiti dai grattacieli.

Nelle città americane moderne mancano quasi del tutto le piazze, luoghi fondamentali di incontro e socializzazione. I moderni centri commerciali sono stati inventati da un architetto austriaco di origini ebraiche Victor Gruen. Gruen aveva notato la mancanza di piazze analoghe a quelle europee. Prima di lui esistevano al massimo parchi commerciali, cioè gruppi di negozi riuniti in un unico complesso. Gruen crea un complesso chiuso, climatizzato, dove regna una eterna primavera, costruisce un luogo di ritrovo e di riflessione sul modello delle piazze europee. L’idea viene sviluppata da un gruppo di imprenditori che lo trasformano in un vero e proprio tempio: troviamo l’albero, acqua all’interno o all’esterno della struttura. Il centro commerciale diventa quindi una Terra santa verso la quale effettuare un riorientamento simbolico, indirizzato al consumo. Il successo dello Shopping Mall deriva anche dalla mancanza di altri luoghi simbolici nelle città moderne.

Agli inizi del 900 il consumismo sopperisce alla carenza simbolica e rituale della società moderna e crea un nuovo universo simbolico. Da allora dobbiamo convivere con un simbolismo dominante orientato al consumo. Nell’agosto del 2016, in una delle tante campagne estive di odio interreligioso che attraversano l’Europa, il ministro francese Manuel Valls veniva intervistato dal quotidiano La Provence a proposito della messa al bando del burkini, il costume integrale utilizzato da alcune musulmane, effettuata da alcuni comuni francesi. Il ministro francese esprimeva tutto il suo disappunto verso quella pratica sociale, affermando:

Il burkini non è una nuova linea di costumi da bagno, una moda. È la traduzione di un progetto politico, di

contro società (17 agosto 2016).

La moda, il consumismo, la finalità commerciale, sono sempre e ovunque accettabili, poiché si tratta valori cui tutti devono “liberamente” sottostare, mentre un particolare

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gruppo sociale o religioso non è altrimenti libero di vestirsi come gli pare, perché questo verrebbe ad assumere una carattere politico, rivoluzionario, antisistema. Ci troviamo di fronte al totalitarismo simbolico del consumo. Una legge non scritta echeggia sui templi del consumo e sulle onde dei media: non avrai altri simboli al di fuori dei miei.

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Lezione 2 - La teoria del denaro

Lo scopo della teoria è quello di permettere di vedere la realtà in modo più profondo, con occhi diversi (la radice di teoria è la stessa di teatro, thaymàxô, e fa riferimento al “guardare con ammirazione”). Abbiamo cominciato a parlare di una teoria del simbolo. Dobbiamo adesso affrontare il problema di un eccesso di confidenza che ci impedisce di guardare con attenzione ai simbolici che ci circondano. Una confidenza che mina la teoria.

Si tratta di vedere la realtà in modo più profondo e multidimensionale di come siamo abituati a vederla. Cassirer ci ha fatto notare come il comportamento di chi ci circonda (e anche il nostro) non sia propriamente razionale e che molte azioni devono essere spiegate in altra forma. Cassirer sostiene che questa altra forma è la dimensione simbolica. Se è un animale simbolico, infatti, l’uomo per essere uomo deve agire e pensare simbolicamenteDa questo punto di vista un artista non è altro che l’operatore simbolico. Un artista prende spunto dalla realtà umana o mitologica, per poi rielaborare simbolicamente il proprio contenuto di immagini e testi. La sua azione è quella di dare forma a realtà simboliche ahe altrimenti restano inespresse. Tramite gli artisti si crea una flusso di immagini simboliche all’interno della società. Affermare che Platone non vedesse di buon occhio gli artisti è una considerazione in parte sbagliata. In realtà il filosofo ce l’aveva con gli artisti troppo indulgenti verso il gusto decadente del pubblico, con gli artisti che si mettevano al servizio di un “sistema” dell’arte pervaso di materialismo e volgarità. Il flusso simbolico influenza, infatti, il “pensiero” della società. Da questo punto di vista la prospettiva platonica potrebbe sembrare decisamente attuale.

Facciamo ancora alcuni esempi concreti. Nel mondo della moda ci sono oggetti che vengono dichiaratamente considerati oggetti di culto. Ed essi provocano il cosiddetto “effetto Diderot”, teorizzato verso la fine degli anni ’80 dal sociologo Grant McCracken. Diderot era un uomo dai gusti semplici, con una casa spartana e un abbigliamento essenziale. Fino a quando non ricevette in dono una vestaglia pregiata che lo “costrinse” a cambiare il suo guardaroba e l’arredamento di casa per uniformarsi alla vestaglia.

Questo ci insegna che nel momento in cui mettiamo al centro di un sistema simbolico un particolare elemento questo definisce tutto ciò che lo circonda, una intera “cosmologia”. L’uomo simbolico è portato a rispettare le leggi di coerenza del simbolo, e il simbolismo non procede per ragionamenti lineari ma per ambiti concentrici di senso. Il simbolismo fissa un centro attorno al quale si definiscono cerchi concentrici sempre più periferici. Un

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territorio simbolicamente definito non ha una quindi una linearità “razionalistica”, ma una dimensione a cerchi concentrici. Nelle città europee siamo abituati a trovare un centro della città e di conseguenza strutture urbanistiche centripete o centrifughe a seconda del particolare rapporto con il centro. Esempio di struttura centrifuga sono le periferie “degradate”., ma possono anche esserci proiezioni del centro in periferia che vanno a costituire dei centri secondari: ogni chiesa è in qualche modo la proiezione del duomo centrale e attorno ad essa ruota il quartiere che riprende gli elementi del centro.

Perché ci siamo “dimenticati” dei simboli e sono stati riscoperti solo di recente, come afferma l’antropologo Christoph Wulf (Antropologia dell’uomo globale, 2013)? Un’altra nota antropologa britannica, Mary Douglas, nel libro Natural Symbols (1970) attribuisce alla cultura protestante una netta mancanza di interesse per i simboli e l’identificazione tra rituali e tradizione religiosa (cattolica). Così facendo la cultura protestante e il capitalismo da essa scaturito (Weber) hanno aumentato il tasso di anomia sociale. Se l’uomo è un animale simbolico senza simboli e norme rituali incorre in una particolare sindrome, secondo Durkheim va in anomia. Il termine indica letteralmente la mancanza di nomos, “norme”, ma ci prendiamo la responsabilità di sostenere che per uno studioso di tradizione ebraico le “norme”, i 613 mitzvot, sono anche e soprattutto la base simbolica e scritturale dei rituali. Le antiche leggi hanno tutte un valore sacrale e rituale, valore che si è mantenuto anche dopo la “secolarizzazione” del diritto.

Per Durkheim l’anomia è una delle più comuni cause di suicidio, e l’uomo, privato del suo universo simbolico, oppure, il che è lo stesso, in universo privo di simboli, è a rischio suicidogeno, segno estremo di un’esistenza vuota, un’esistenza in cui il mondo che ci circonda è privo di significato.

L’uomo simbolico non nega la natura sociale dell’uomo, affermata da Aristotele in poi. I rapporti sociali sono significativi nella misura in cui hanno uno spessore, una “densità”, simbolica. Ritorniamo al simbolo dell’Amore ad esempio. Portare un caffè a letto può essere un gesto d’amore oppure un servizio in camera. Dentro il simbolo amore si possono stratificare infiniti significati anche diversissimi nella pratica rituale quotidiana.

Questa densità di significati è propria del simbolo. Nel momento in cui i simboli religiosi sono stati accantonati, il nostro universo simbolico, per ovviare al vuoto anomico, si è arricchito di altri simboli. C’è uno spostamento tra almeno tre grandi universi simbolici che si sono articolati negli ultimi due secoli: universo simbolico religioso, universo simbolico razionalista, universo simbolico del consumo. Sono universi simbolici che si sono articolati uno dopo l’altro, uno sull’altro: credere in Dio, credere nella patria, credere nel denaro. In

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realtà sono tre fedi che si sono succedute e intrecciate nell’ultimo secolo. Mentre una cosmologia simbolica cadeva ne sorgeva un’altra e ognuna di queste fedi aveva una dimensione centrale e una dimensione periferica.

Attorno alla centralità del denaro abbiamo costruito la mitologia del mondo del consumo. Il Denaro funziona come elemento in grado di dare forma a una teoria sociale, di creare una cosmologia cui gli uomini possono ispirarsi per le proprie narrazioni simboliche. Nel mondo moderno sempre più le forme del sacrificio, del “fare sacro” hanno preso l’aspetto di un sacrificio economico, cui andare incontro per poter affermare il proprio ruolo sociale e la propria identità personale. La tensione verso la crescita costante, la ricerca del profitto a ogni costo, rappresentano la diretta conseguenze delle logiche interne del denaro, dei suoi contenuti simbolici. Il denaro misura infatti la “fortuna” delle persone, il loro rapporto con il “destino” e quindi con la divinità. In un mondo in cui la quantità ha sconfitto la qualità, il Denaro si è affermato come la divinità centrale. Se un’azione umana non mira ad accrescere il denaro, a generare profitti, non è un’azione degna. La stessa ricerca intellettuale si è ormai assoggettata a questa prospettiva. Uno studio teorico che accresca il sapere umano, ma non genera nuovi profitti non è più considerato credibile. Il risultato è che vi è una cappa d’ombra nel mondo moderno nel momento in cui ci si allontana dalla “luce” del denaro, dalle prospettive che vengono da esso scandite. In un mondo in cui anche la madre può essere in affitto, al posto dei genitori l’uomo moderno è chiamato in primo luogo a onorare il denaro.

La progressiva definizione di un mondo digitale procede di pari passo con la creazione di nuove monete virtuali, le criptovalute. Nel 2017 Ripple ha avuto una crescita del +36.018% fino ad arrivare al valore di 2,31 dollari. Nem è cresciuta del 29.842% attestandosi attorno a un 1 dollaro circa. Stellar è cresciuta del 14.441% fino a 50 centesimi, e Dash ha visto una crescita del 9.265% e un valore di 1.140 dollari. Nella classifica delle criptovalute che si sono più apprezzate nel 2017, Ethereum è quinta e Bitcoin è solo ottava.

Il nuovo mondo digitale cresce nella misura in cui dimostra di poter generare denaro dal nulla. Lo sviluppo di internet è punteggiato da effervescenze e bolle speculative. L’aura di invincibilità della new economy è stata appena scalfita dalla crisi delle aziende dot.com del 2000. Ancora oggi basta un semplice annuncio a effetto per raddoppiare un valore azionario. Come nel caso della Kodak, a seguito dell’annuncio del varo di una criptovalute, il KodakCoin, che dovrebbe essere utilizzata per il pagamento dei diritti fotografici. Va

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ricordato che la stessa azienda aveva appena licenziato un bilancio 2017 con un rosso di 46 milioni.

Come le antiche divinità avevano i loro ex voto, così il Dio denaro ha la pubblicità. La pubblicità produce un vortice di associazioni simboliche, di continui tentativi mitopoietici (la creazione di oggetti di culto). Il mondo delle associazioni simboliche sta sempre più riempiendo la vita, ma i simboli del consumo alla lunga posso stancare. Per questo il turismo diventa un fattore essenziale dell’esperienza di vita contemporanea (navigare in internet è una propaggine del turismo). Uno spazio è tecnologicamente moderno e compatibile con il consumo se può essere investito di pubblicità.

L’abbuffata di simboli consumistici può condurre all’estraneità, alla mancanza di piena condivisione, all’alienazione. Un esempio eclatante di alienazione simbolica è il carcerato: la vita in carcere è piena di simboli del potere e di rituali di rieducazione ma chi sconta una pena detentiva raramente è in sintonia con questa manifestazione continua dei simboli del potere: è un alienato. Lo stesso dicasi per le dittature che sono spesso gravide di simboli ma che sono alienanti per buona parte dei cittadini. Nel mondo moderno la teoria sociale è vetusta o è sparita del tutto. Le masse alienate non sanno nemmeno da che cosa si allontanano e verso che cosa si dirigono. L’unica teoria che sopravvive è quella dell’economia.

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Lezione 3 - Gli idoli moderni

L’azione rituale messa in atto attraverso il simbolo è reale per i partecipanti e poco importa in questi casi parlare di realtà “oggettiva”: chi si identifica completamente con il simbolo, con un eroe, è veramente quell’eroe o la realtà rappresentata dal simbolo. Basti pensare a chi si identifica con le squadre di calcio, al punto che l’offesa rivolta a un giocatore viene considerata come rivolta a se stesso.

D’altra parte lo stesso concetto di “oggettività”, nel senso di ciò che si presenta alla vista, ai sensi, contraddice la dimensione simbolica che per definizione trascende l’ordine materiale. Anche quando il simbolo viene sottoposto a un processo di “reificazione”, come nelle pratiche magiche, non si arriva mai alla completa “oggettività”. D’altra parte anche la scienza è consapevole che più si procede dall’analisi dei fatti all’interpretazione dei modelli, più è il caso di parlare di “possibilità” piuttosto che di “oggettività”. La scoperta delle leggi della materia implica così la possibilità di applicazione di modelli in cui azioni e reazioni diventano prevedibili. Analogamente la magia consiste nella messa in pratica di leggi che illustrano i rapporti tra i diversi aspetti della realtà. Come lo scienziato usa la moderna tecnologia per le sue ricerche, così la magia opera attraverso specifici simboli e azioni rituali. L’analogia tra magia e scienza è stata notata già da antropologi come James George Frazer, di cui va ricordata la monumentale opera Il Ramo d’Oro (The Golden Bough: A Study in Magic and Religion, 1890 e 1915), una vera e propria miniera di pratiche magiche di tutti i tempi.

Come sottolineato da Frazer, la magia è una disciplina empirica che, a differenza della scienza, non si basa sulle connessioni causali materiali, ma sui legami simbolici. Come la scienza, la magia non richiede l’intervento diretto di potenze superiori ma si basa su leggi “naturali”. Il presupposto è quello che i legami simbolici sono reali e quindi si può operare tramite essi. La natura simbolica dell’uomo implica infatti che l’uomo abbia una capacità di identificazione con i diversi ordini di realtà simboleggiati. I rituali sono processi mimetici tramite cui gli uomini possono arrivare a identificarsi con altri uomini, con altre realtà e con interi altri mondi (Wulf 2013). L’operazione magica muove dal presupposto del legame simbolico tra l’uomo e la realtà circostante. In questo senso i rituali magici sono rituali reificati e per questo gli stregoni sono sempre stati considerati come una classe inferiore rispetto ai sacerdoti. Dorfles ha più volte sottolineato che la perdita di telos, di finalità

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simbolica dell’arte e della tecnica tradizionale porta alla reificazione dei simboli e dei rituali. La mancanza di comprensione del simbolismo innesca un processo di reificazione, di identificazione con oggetti e con realtà materiali, che consiste in definitiva in una azione “magica” (Dorfles 1965). La finalità simbolica mira al raggiungimento dell’armonia universale, della conoscenza degli aspetti più profondi dell’esistenza, in questo mondo e negli altri, e si manifesta in forme conformi alle cosmologie di ciascuna civiltà. L’alienazione dalla finalità metafisica si riflette in una oggettivazione non solo dei simboli ma anche dell’uomo, che si fa “oggetto” nella misura in cui gli sfugge in parte o del tutto la finalità delle sue stesse azioni rituali. La reificazione simbolica va di pari passo con l’ “oggettualizzazione” dell’uomo. Allo stesso tempo, la finalità oggettuale corrisponde all’azione magica e, ancora secondo Dorfles, fa venire meno il momento “creativo” e artistico dell’azione rituale.

In passato rituali magici non erano esclusivo appannaggio degli stregoni e potevano essere operati anche da un qualsiasi membro della comunità che si trovasse in particolari condizioni. I rituali erano accomunati dal fatto di mirare a una finalità materiale attraverso una reificazione simbolica. Per il “pioggiaiolo” vestirsi di nero faceva parte di un più complesso rituale magico volto ad attirare le nuvole nere della pioggia, così come levare fumo nero al cielo. Per allontanare le nuvole, invece era necessario operare una serie di azioni come gettare bianca cenere calda al vento, in questo caso anche gli abiti sarebbero stati prevalentemente bianchi. Allo stesso modo il matrimonio creava una comunione reale, e le pratiche magiche potevano obbligare la moglie a comportarsi in modo da favorire e non nuocere al marito lontano. Se questi era in guerra, infatti, la consorte si doveva astenere dall’ungersi i capelli, per evitare che il marito scivolasse, o dallo stare troppo seduta ed evitare che le si informicolassero le gambe, altrimenti il marito avrebbe avuto difficoltà a fuggire dai nemici. Le mogli dei Daiachi del Sarawak non potevano nemmeno coprirsi il viso, altrimenti anche ai mariti si sarebbe offuscata la vista e non avrebbero trovato la strada nella giungla.

Il carattere magico di molti aspetti del consumismo moderno è stato sottolineato già alla metà del XX secolo da Marshall McLuhan, in The Age of Advertsing (1953), un articolo apparso sulla rivista cattolica Commonweal il cui sottotitolo era particolarmente eloquente: the ads are a form of magic which have come to dominate a new civilization.

La pubblicità si basa su associazioni simboliche e sul “potere” delle immagini tecniche, spesso proiettate ad altissima velocità. L’oggetto di consumo viene associato a una vasta gamma di immagini in modo che nella mente dello spettatore si possa creare un legame

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tra oggetto e mondi reali o immaginari. In tal modo si riversano “magicamente” nell’oggetto le qualità carismatiche di persone, la potenza di eventi naturali, il fascino di luoghi rinomati o di corpi femminili. I marchi delle multinazionali non sono semplici indicazioni di provenienza dei prodotti, ma una sorta di “istituzione totemica”, per usare le parole di McLuhan. D’altra parte il successo dell’advertising americano risiede in buona parte nell’aver capito molto presto che il consumismo non si basa sul consumo di oggetti ma sulla diffusione di nuovi simboli. Charles Revson, co-fondatore nel 1932 di una delle prime moderne aziende di cosmetici, la Revlon, aveva affermato, infatti, che: in the factory, we make cosmetics. In the drug store, we sell hope. Sulla stessa linea, un giornalista americano di origini italiane, Carmine Gallo, avrebbe indicato come uno dei sette principi della strategia vincente di Steve Jobs sarebbe stato l’imperativo: sell dreams, not products (The innovations principle of Steve Jobs, 2010).

Tramite l’oggetto di consumo così si entra a far parte di un clan, di una comunità, oppure si può entrare in un sogno, coltivare speranze e qualità particolari. Basta un bicchiere di whisky scozzese, per esempio, per diventare immediatamente persone eleganti e stimolare l’accoppiamento con persone dell’altro sesso. In particolare l’auto è al centro di una fitta rete di relazione simboliche con l’ambiente circostante. D’altra parte l’automobile è stata per decenni il punto di riferimento del consumismo. Il semplice tragitto in auto è rappresentato come l’inizio di un percorso che mette magicamente in contatto con una lunga serie di realtà fisiche e immaginative.

In uno spot televisivo della Citroen DS4 per il pubblico americano (2014) , le immagini dell’auto che esce da un parcheggio sotterraneo e si avvia fuori città sono messe in collegamento con tre veloci sequenze di immagini evocative, nell’ordine:

Prima sequenza:- un giocatore di football con la maglietta rossa che evita un placcaggio;- una poltrona che prende fuoco, davanti a un televisore, sullo sfondo una skyline di una generica città moderna;- una stellina scintillante tenuta da una ragazza bionda;- due inquadrature di un bisonte americano lasciato libero in città;- cellule al microscopio in rapido movimento;- un orologio barocco in ceramica che esplode dall’interno.Seconda sequenza:- un’orca marina che salta fuori dall’acqua;- un aborigeno australiano con il volto dipinto;

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- un gruppo di ragazze con uno strano copricapo che ballano.Terza sequenza:- uno skater che ondeggia all’interno di una grande conduttura;- un chewing-gum soffiato a palloncino da una bocca di una donna o un bambino;- l’iride che si allarga in un occhio in primo piano con le ciglia lunghe;- due amanti inquadrati di spalle, sullo sfondo la skyline di una città moderna illuminata da un lampo, e finalmente l’auto esce da un tunnel e spunta su di una strada costiera in aperta natura. Le immagini sono inserite per frazioni di secondo e la corretta sequenza può essere

correttamente analizzata solo al rallentatore. A velocità normale, tuttavia, l’intero spot assume l’aspetto di un rituale in cui ogni immagine corrisponde all’evocazione di una forza, di un “potere”. L’automobile rappresentata acquista un potere “liberatorio”, come nei rituali in cui un uomo o un oggetto sono “liberati” dalle forze negative e rimessi nelle condizioni di trarre beneficio da quelle positive. L’esorcismo è un classico esempio di rituali di questo tipo.

La catarsi rituale non riguarda solo persone o cose direttamente coinvolti, ma anche tutti gli spettatori che partecipano allo stesso processo di trasformazione e identificazione simbolica. Sono soprattutto i giovani a essere coinvolti in tali processi. Gli adolescenti, infatti, si identificano spesso completamente con le figure iconiche che prendono a riferimento. Si prenda ad esempio le Babymetal. Si tratta di un gruppo musicale che ha debuttato nel 2010 quando la frontwoman del gruppo aveva 13 anni e le altre due componenti solo 11. La band è stata creata a tavolino dalla società Amuse, specializzata nella creazione di idols per adolescenti, fondendo elementi della musica Heavy metal con quelli più soft della cultura Pop giapponese. Nei loro video musicali le Babymetal vestono in stile ghotic alternando gli abiti moderni a quelli tradizionali. L’ancoraggio a simboli tradizionali è evidente anche nel “saluto” del gruppo, laddove il tipico gesto delle corna (utilizzato in ambito musicale per esprimere amore, fortuna o satanismo) viene mutato in quello della kitsune, la tradizionale volpe giapponese, a sua volta assunta come nume tutelare della band al punto di creare una sorta di mitologia delle “ispirazioni” volpine che i componenti del gruppo riceverebbero come base delle loro creazioni artistiche. Curiosamente la Amuse ha anche aperto una catena di musei sulle tradizioni del Giappone.

Col tempo gli idol (in giapponese aidoru) sono divenuti sempre più digitali come i vocaloid della Yamaha, che nel 2007 ha messo a punto la seconda versione di un

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sintetizzatore vocale in grado di creare veri e propri cantanti digitali. Con l’aiuto di ologrammi, a partire da quella data si sono affermati una serie di aidoru, come la famosa Hatsune Miku, in grado di realizzare vere e proprie performance dal vivo. Aidoru (1997) è anche il titolo di uno dei romanzi dello scrittore di fantascienza William Gibson, che oltre ad aver inventato il termine cyberspazio, aveva anche precronizzato la creazione di star dello spettacolo digitali.

Non solo in Giappone il mondo della musica, così come in genere tutta la cultura “giovanile”, viene sempre più pervaso da un esplicito simbolismo, mentre nel quotidiano nella cultura “adulta” le persone sono disabituate al riconoscimento degli elementi simbolici. L’MDNA tour di Madonna (2012) è emblematico dell’utilizzo di simboli in ambito musicale, anzi rappresenta due ore di vero e proprio diluvio simbolico. Il concerto inizia con il dondolio di un’enorme turibolo cattolico che sparge fumo di incenso sul palco, accompagnato dal suono del Dungchen, il grande corno tibetano, suonato da monaci/ballerini. Il nome del tour, MDNA è inciso in una grande croce gotica, con attorno gargoyle animate, mentre risuonano le campane a morto e un canto liturgico. Quindi la croce si apre a sipario su di una architettura gotica e la cantante Madonna si presenta vestita di pizzo nero con un microfono e in braccio un mitra Al-47 Kalashnikov, l’arma dei terroristi, attorniata da ballerini avvolti nella porpora di un saio monacale. E si tratta solo dei primi cinque minuti di quello che la stessa Madonna descrive come:

The journey of a soul from darkness to light.

It is part cinematic musical theatre.

Part spectacle and sometimes intimate Performance art (Rolling Stones 28 agosto 2012).

Il consumismo è un processo mimetico che ha riempito il vuoto di simboli che la società industriale ha creato. L’esplicitazione dei contenuti simbolici è avvenuta progressivamente nel corso del XX secolo, in corrispondenza con il dilagare del consumismo. A volte si confonde il consumo con il consumismo, ma in realtà sono due cose molto diverse. Il consumo è sempre esistito, mentre il consumismo è una filosofia di vita, si direbbe oggi, che ha caratterizzato le società avanzate a partire dall’inizio del XX secolo.

In termini un po’ troppo semplicistici il consumismo può essere definito come la religione del consumo, ossia l’elevazione del consumo a forma rituale, a credenza collettiva. È stato descritto anche in termini compulsivi, come una nuova forma di schiavitù o di droga. Ma perché si compra troppo? Perché viviamo in una società in cui non ci sono simboli disponibili tranne quelli del consumo. Il vuoto simbolico diventa vuoto anomico,

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depressione, mancanza di “valori”. Il consumismo rappresenta un simbolismo disponibile, a volte anche a buon mercato. Ogni brand si è affermato costruendo, tramite la comunicazione pubblicitaria, una propria dimensione simbolica.

Per non relegare i simboli ad un lontano passato, però, dobbiamo imparare a leggere la realtà in maniera diversa, più profonda. Pensiamo al linguaggio. Le lingue hanno tutte una base simbolica e il loro utilizzo riserva possibilità magiche e spirituali. La potenza della lingua è tale che, secondo Flusser, i testi sacri sono appunto “scritti” per dominare e controllare i poteri magici degli oggetti e delle parole. Al conflitto tra magia e testo sacro fa riferimento, per esempio, l’episodio del vitello d’oro: mentre Mosè era sul Sinai a ricevere le taleve della legge, alcuni ebrei si lasciavano andare al culto di una statua “magicamente” animata.

Il linguista statunitense George Lakoff (assieme a Mark Johnson) ha dimostrato come senza l’utilizzo delle metafore non vi sarebbe linguaggio. La metafora potrebbe essere definita la forma embrionale del simbolo che si sviluppa e consolida nel rapporto con le forme simboliche. Metafore introdotte da termini come “sopra”, “sotto”, “al centro”, si rifanno al simbolismo spaziale e geometrico e non potrebbero essere comprese senza di esso. Attraverso l’utilizzo della metafora la creatività si coniuga con la tradizione simbolica.

Vi sono lingue in cui l’utilità del “parlato” quotidiano non ha mai fatto venir meno la dimensione metaforica e simbolica. L’italiano, per esempio, è nato in Sicilia ed è stato rifondato a Firenze tramite l’apporto degli esuli federiciani dopo la morte di Manfredi di Sicilia (1266), avvenuta un anno dopo la nascita di Dante. Firenze era allora la prima città relativamente libera da influenze papali che si incontrava risalendo la Penisola, per alcuni aspetti anche l’unica. L’italiano si costituisce come lingua particolare, con diversi livelli di senso e con termini difficilmente traducibili nelle lingue “volgari”.

Una curiosità: agli inizi del 900 un sacerdote spagnolo Miguel Asín Palacios ha scritto “La escatologia islamica nella divina commedia” (1919). Palacios aveva studiato Ibn ‘Arabi, un grande mistico della tradizione islamica, e aveva scoperto come moltissime delle immagini dantesche e la stessa idea di viaggio spirituale effettuato nel corso della vita erano state mutuate dalla letteratura Sufi islamica. Il viaggio dantesco sarebbe quindi il racconto simbolico di come una persona possa riuscire nella più grande trasformazione possibile: l’identificazione divina.

La pubblicità ha imparato molto presto a utilizzare il potere della parola e del suono. Fin dalla fine dell’Ottocento le prime grandi agenzie americane pubblicizzavano l’advertising attraverso motti e poesie. Allo stesso modo, nell’headline, lo slogan con il quale si

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comunicava il prodotto, richeggiava il grido del banditore del mercato. Ma è con l’avvento della radio che il potere incantatorio della pubblicità si dispiega nella sua interezza. Secondo McLuhan, il moderno jingle delle pubblicità commerciali ha sostituito le filastrocche con le quali si calmavano i bambini. Il tormentone (in inglese catchphrase, la frase che cattura, in tedesco Ohrwurm, baco dell’orecchio) è una melodia o una frase musicale che si imprime nella memoria e continua a ritornare alla mente. Si tratta di motivi il cui effetto è irresistibile e che decade in genere nell’arco di 24 ore. Il carattere incantatorio dei “bachi dell’orecchio” si evidenzia anche nel fatto che non è possibile resistere al loro “potere”. È stato verificato, infatti, che i tentativi di resistere attivamente al loro effetto sono destinati all’insuccesso e che tanto vale aspettare che il tormentone passi (Beaman e Williams 2009).

La pubblicità è un ambito in cui scienza e magia sembrano convergere, con risultati di indubbia efficacia. Uno dei miei studenti ha raccontato di come i genitori avevano registrato su cassetta una serie di pubblicità di prodotti alimentari. Quando erano in difficoltà azionavano il mezzo tecnico per stimolarlo a mangiare. Quei genitori non erano i soli a ricorrere ai jingle. La magia della pubblicità era usata in quel modo anche da famiglie di suoi coetanei. A quanto pare l’ “incantesimo” sortiva sempre il suo effetto....

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Lezione 4 - Pro e contro le immagini

Abbiamo già parlato di Natural symbols dell’antropologa Mary Douglas, in cui si ricorda come nel Protestantesimo sia venuto a prevalere il concetto sola scriptura, cioè che la Bibbia sia l’unico simbolo e di conseguenza tutte le altre “immagini” e gli altri rituali siano caduti in disuso.

Anche prima, però, il rapporto tra dottrine religiose e immagini simboliche è stato al centro di forti tensioni. L’Iconoclastia, per esempio, è stato un movimento religioso diffusosi all’inizio dell’VIII secolo in buona parte dell’Impero Romano d’Oriente e che comportava il rifiuto del culto delle immagini. Secondo gli iconoclasti le immagini recavano il pericolo di una forma di idolatria, detta iconodulia ed occorreva sganciare il culto divino dalla venerazione delle immagini, che risentiva di paganesimo.

Anche l’Ebraismo non è stato favorevole alla rappresentazione del mondo e per molti secoli gli artisti ortodossi hanno evitato di rappresentare immagini in cui vi fosse un riferimento naturalistico. In un passo dell’Esodo si legge, infatti, il monito divino: 

“Non avere altri dei al mio cospetto. Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono

lassù ne’ cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra (20: 4-5).

Nell’Islam l’unica figura umana ammessa è quella della Vergine Maria con in braccio il bambino. Vi sono eccezioni nella miniatura, in particolare persiana, e anche in quel caso viene evitato di riprodurre il volto del profeta Muhammad, celato da un contorno fiammeggiante. In generale l’Islam è l’esempio di un’arte dove le immagini antropomorfe sono utilizzate in modo estremamente parsimonioso, mentre il simbolismo geometrico costituisce il modo privilegiato per la realizzazione di immagini fortemente suggestive.

Anche la cosiddetta “avversione” di Platone per gli artisti deve essere vista nella prospettiva di un difficile rapporto tra dottrine e immagini. Il filosofo reputava gli artisti in grado di trasmettere contenuti simbolici fondamentali, ma anche facilmente inclini a piegarsi ai gusti del pubblico, gusti che possono essere decadenti e materialistici. A gusti decadenti poteva corrispondere un utilizzo fuorviante delle immagini, in un certo senso “idolatrico”. Per questo la permanenza degli artisti nella città ideale platonica risultava problematica.

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Per Flusser l’invenzione e l’utilizzo della scrittura si pongono come un modo per regolare l’effervescenza simbolica e “magica” delle immagini, in una prospettiva di maggiore linearità razionale. Tutti i grandi monoteismi si fondano su “sacre scritture”, su libri, testi che si pongono come filtro interpretativo nei confronti delle immagini. Con l’avvento della scrittura si esercita un maggior controllo sulle immagini, molte delle quali assumono la funzione di illustrazione di miti e testi.

Con la diffusione delle immagini tecniche e il loro utilizzo all’interno delle strategie rituali del consumo moderno i simboli vengono liberati dal vaso di pandora nel quale erano stati rinchiusi. Lo stesso Flusser parla di “diluvio” delle immagini, che può essere arginato sia attraverso simboli e forme culturali tradizionali, sia tramite un utilizzo delle immagini tecniche che “rallentino” il flusso incessante e caotico della produzione visiva. Un esempio di “rallentamento” tradizionale ci viene offerto dalla festa di Sant’Agata, una delle più grandi feste popolari al mondo per numero di partecipanti. Ogni anno, due volte all’anno, l’intera città di Catania si “ferma”, letteralmente, per la celebrazione della Santa concittadina. Sottolineiamo il “cittadino” poiché si tratta curiosamente di una festività comunale e non direttamente ecclesiale. Le stesse spoglie della Santa, così come il tesoro votivo accumulato nei secoli, sono infatti di proprietà del Comune, le cui autorità invitano ogni anno il vescovo a partecipare alle celebrazioni.

Per chi non conosca la città e la funzione di fondamentale collante sociale che il rituale agatino riveste per Catania, le festività dedicate alla Santa possono sembrare pervase di follia. Almeno era questa la prospettiva che avevano alcuni circoli laici cittadini quando a partire dal 1874, iniziavano una polemica nei confronti della festa che doveva portare all’assenza della Giunta comunale durante le celebrazioni del febbraio 1875. Le provocazioni erano state numerose e in particolare le reliquie della Santa erano state definite dai liberali “uno sciocco monumento di superstizione” (Gazzetta del Circolo di Cittadini, 6 dicembre 1874), al punto che le celebrazioni del febbraio 1876 recavano per la prima volta la firma dell’arcivescovo Dusmet e del suo segretario. La querelle doveva rientrare l’anno successivo, quando la nuova Giunta si sarebbe presentata compatta al cospetto della Santa, ma era indicativa di una stagione in cui si era cercato di ridurre drasticamente il bagaglio simbolico della cultura “popolare”.

Il riduzionismo simbolico non era appannaggio solo dei militanti laici. Anche da parte clericale si assisteva all’imposizione di una serie di limitazioni alle festività agatine. Il grande palio a Castello Ursino e la fiera che si teneva nei giorni precedenti erano già state cancellate nel corso dell’Ottocento. In coincidenza con le polemiche liberali, venne abolita

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anche l’usanza tipicamente agatina e femminile di andare in giro velate a prendersi gioco degli uomini (‘nduppatedde). L’usanza si ritrova ancora nel racconto di Verga La coda del Diavolo del 1877 e quindi si può ritenere fosse in vigore ancora fino a quella data. Verga ne attribuisce l’usanza ai Saraceni, “a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell’harem”, ma è più probabile che fosse una pratica di origine molto più antica e si ritrova infatti in altre festività agatine sparse per il mediterraneo e nel mondo interno. La festa di Sant’Agata si è potuta agganciare alle ritualità greche dedicate a Proserpina la cui descrizione si ritrova anche nelle Metaformorfosi ovvero L’Asino d’oro di Apuleio, un romanzo latino del II secolo d. C. Simbolo di Proserpina erano le mammelle da cui sgorgava latte, elemento simbolico che ha permesso la sovrapposizione del simbolismo della santa martire cui erano stati asportati i seni. Allo stesso modo la festa della nascita del Cristo era stata spostata in ambito romano alla fine di dicembre, per farla coincidere con le antiche festività del solstizio d’inverno, punto in cui il tragitto diurno del sole comincia il suo cammino ascendente che lo porterà alla pienezza dell’estate.

La festa agatina è talmente radicata nella cultura catanese che è sopravvissuta all’ondata di secolarizzazione a seguito della conquista piemontese. In molte altre città tradizioni analoghe si sono perse. Secolarizzazione che rappresenta in Italia l’avvento della industrializzazione. Le polemiche agatine possono essere considerate come parte di un processo di progressivo svuotamento simbolico e rituale o, a seconda di come lo si voglia vedere, del processo che ha portato a chiudere i simboli tradizionali nel vaso di Pandora della modernità.

Gli ultimi decenni del XIX secolo sono l’espressione di una fase di massima anomica. Anomia è un concetto che è stato per lunghi tratti dimenticato in ambito sociologico e che ancora oggi viene interpretato in modi diversi. Emile Durkheim, uno dei primi a studiare scientificamente il suicidio, ha scoperto che una delle maggiori cause di suicidio è l’anomia, la mancanza di norme. In realtà l’anomia nel senso stretto del significato di mancanza di norme poco significa. Le categorie che Emile Durkheim all’epoca ha individuato come maggiormente a rischio suicidogeno erano i divorziati. Nel divorzio vengono meno una serie di norme, certamente si rompe un vincolo giuridico. Ma è anche evidente che non è certo solo quello che nell’esperienza concreta crea un vuoto anomico. Il matrimonio non si basa sulla ripetizione degli articoli del codice civile o delle formule religiose che lo regolano. Quello che si spezza sono i rituali quotidiani, le forme simboliche che danno senso ai comportamenti concreti. Il caffè rituale alla mattina significa mia moglie mi ama. Così una nostra studentessa ci ha confessato di aver finalmente compreso

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come attraverso una tazzina di caffé è riuscita a creare un morning ritual addicted: suo marito. Così come non si è più stupita del fatto che la semplice l’interruzione della fornitura mattutina è bastata a scatenare una profonda crisi coniugale: fortunatamente risolta ripristinando il rituale mattutino.

Il momento del risveglio è importante e ha un carattere rituale in tutte le culture. Vedremo che anche Camilleri fa sempre iniziare un nuovo racconto di Montalbano con il risveglio dell’ispettore. Hegel ha scritto un aforisma: la lettura del giornale ha sostituito la preghiera mattino. Ciascuno prega quello con cui si mette in rapporto. Non è solo pregare dio ma definire me. Prego Dio o leggo un giornale e questo mi definisce. Dio non ha bisogno delle nostre preghiere per essere Dio, noi abbiamo bisogno delle preghiere per essere devoti in Dio. Se invece rivolgo l’attenzione al giornale mattutino prendo a riferimento la società e il tipo di società a cui faccio riferimento dipende dal giornale che scelgo. Così se guardo facebook mi definisco attraverso la società creata sui social e dai social. Anche la sera è importante, ma in maniera diversa, perché si pianifica il futuro: non a caso le pubblicità dei viaggi si programmano soprattutto la sera.

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Lezione 5 - La scoperta dei rituali

Walter Benjamin muore mentre cerca di scappare in America a Port Bou, in Spagna nel 1940. Si suicida, terrorizzato che la polizia di frontiera lo potesse estradare, rimandare nella Francia nazista. Lui è un tedesco di origini ebraiche, che ha già sperimentato il campo di concentramento e non regge all’idea di cadere definitivamente in mano ai carnefici, non regge al vuoto anomico rappresentato dall’invasione nazista e dalla fine di Parigi come centro culturale e simbolico dell’epoca.

Benjamin è uno dei primi a rilevare che la fotografia ha cambiato lo statuto delle immagini. Prima dell’avvento della fotografia le immagini erano realizzate da artisti. L’artista è stato per millenni un manipolatore simbolico che interpretava la realtà per estrarne i contenuti essenziali, che poi ritrasmetteva a un pubblico più o meno vasto. Gli artisti cercavano prima di comprendere, poi di rielaborare e riconcettualizzare, e infine di realizzare nuove immagini, suoni, movimenti. Il cambiamento introdotto dalle immagini tecniche era un cambiamento epocale, non era solo un modo diverso di produrre immagini.

La fotografia, per dirla con Flusser (il più benjaminiano dei pensatori novecenteschi), è la prima delle immagini tecniche introdotte dalla rivoluzione tecnologica. C’è infatti una profonda continuità concettuale tra i punti delle molecole di nitrato d’argento della fotografia analogica e i pixel della fotografia digitale. Quando si pensa alla fotografia, quindi, bisogna pensare più in generale alla grande famiglia delle immagini tecniche, di cui è la capostipite.

Nel caso di quelle tradizionali, l’immagine subisce un processo di simbolizzazione artistica, nel caso delle immagini tecniche, l’immagine è una rappresentazione ordinata di un flusso disordinato di dati. L’immagine tecnica perde l’ “aura” simbolica presente in quella artistica: è un insieme di punti determinato da un programma tecnico. Secondo Benjamin le immagini tecniche non hanno il valore rituale che avevano le immagini artistiche ma hanno un valore piuttosto “espositivo”. L’immagine artistica ha un contenuto simbolico intrinseco mentre le immagini tecniche hanno eventualmente un contenuto simbolico estrinseco, non inerente la loro natura ma che gli può essere attribuito dall’esterno. Possono quindi subire un processo di reincanto che le porta ad avere un’aura (come fanno gli artisti/fotografi, ma lo vedremo meglio dopo).

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Benjamin non si riferisce al rituale in senso strettamente liturgico, religioso. Sostiene che passare dal rituale medievale al culto della bellezza rinascimentale sia un processo inerente il rituale stesso, non un cambiamento radicale. Anche il passaggio dal culto della bellezza alla dimensione nazionalistica dei musei non è ancora un cambiamento radicale. Sono al più fasi di una reificazione inerente i simboli e i rituali. Anche se dal punto di vista simbolico c’è un abisso tra Medioevo e Rinascimento, secondo Benjamin ci si è mossi sempre nell’ambito della dimensione “rituale” dell’immagine. Curiosamente, Enrico Filippini, cui si deve la per altri aspetti ottima traduzione de “L’Opera d’Arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” per Einaudi, utilizza il termine “cultuale” laddove sia nella prima edizione in francese che nelle successive in tedesco, Benjamin impiega i termini “rituelle” e “Ritual”: è un segno della poca considerazione che i rituali hanno avuto fino a non molto tempo fa, ma è anche causa di una lettura parziale dell’opera più famosa di Benjamin almeno in Italia. Il “culto”, infatti, va inteso come una forma rituale più specificamente diretta alla venerazione religiosa. Il concetto di rito permette invece di considerare una serie di azioni simboliche che non si pongono come atti di culto, almeno non immediatamente. L’arte “cultuale”, in tal senso, è soprattutto arte votiva, mentre l’arte ”rituale”, come la intendeva Benjamin, implica una pluralità di aspetti estetici e sociali che il primo concetto tende a escludere.

“L’epoca della riproducibilità tecnica” a cui fa riferimento Benjamin non indica solo la possiblità di produrre copie industriali. Non è questo il senso principale delle rivoluzione tecnica, anche perché i multipli esistevano da lungo tempo e le tecniche dell’incisione sono molto antiche. Benjamin si riferisce al fatto che l’immagine tecnica non è più immediatamente soggetta al processo creativo dell’artista. Prima della fotografia, la prima “immagine tecnica” della storia, le immagini erano create solo da artisti. Dopo la fotografia, la rivoluzione tecnica ha innescato, con la facilità di riproduzione, un “diluvio” di immagini create senza la mediazione dell’artista.

Senza aura, senza valore “rituale”, le immagini tecniche tendono ad avere un valore meramente espositivo, si pongono come simboli reificati, forme simboliche che non richiamano più a realtà trascendenti, ma a elementi sottili, psicologici, emotivi, materializzanti. A dire il vero il loro carattere simbolico è surrettizio, perchè tendono piuttosto al decorativo, all’accessorio. Anche nel cinema d’autore, una delle forme tecniche che tende a recuperare un’aura pienamente artistica, la difficoltà di effettuare una programmazione “simbolica” è evidente. Il programmatore, così come il regista, il montatore, ecc. deve continuamente ricorrere a stratagemmi per alludere a significati

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simbolici. Gli attori, per esempio, devono assumere espressioni generiche e astratte che, attraverso la successione delle differenti scene, riescono in qualche modo a richiamare un significato simbolico. Sono piuttosto gli utilizzatori, gli spettatori della performance tecnologica che attribuiscono un significato simbolico attraverso la ritualizzazione della performance stessa. Se nei rituali tradizionali il simbolo esiste prima del rituale, lo precede se non altro logicamente, nei rituali reificati il simbolo viene spesso evocato parallelamente, quando non successivamente, all’azione mimetica del rituale. Parafrasando Flusser, si può ritenere che le superfici tecniche siano affette da una congenita “superficialità” di significato. Le immagini tradizionali, infatti, si pongono come chiavi simboliche per l’interpretazione e la comprensione del mondo, dell’essenza della realtà. Quelle tecniche, invece, utilizzano il mondo e le sue forme simboliche per rimandare a loro stesse.

La reificazione simbolica spiega la sintonia che si è creata immediatamente tra immagini tecniche e il consumismo. Il consumismo è l’ideologia del capitalismo moderno, una ideologia capace di ricreare immagini simboliche a partire da oggetti di consumo. La rivoluzione d’Ottobre arriva nel 1917, il fascismo nasce ufficialmente nel 1919. Il consumismo è un loro coetaneo. Il primo supermercato apre nel 1930, ma la filosofia “salvifica” del consumismo si afferma già prima. All’inizio degli Anni Venti, in una delle prime pubblicità della Listerine, si racconta la storia patetica di Gerarldine Proctor, bella fanciulla condannata a non sposarsi mai perché ha l’alitosi (malattia di nuova invenzione) e non usa il colluttorio (prodotto di nuova creazione). Ci troviamo di fronte a un rituale negato dalla mancanza di consumo: siamo già in pieno spirito consumistico. Il consumismo differisce dalle altre ideologie proprio per la sua innovativa la capacità di incidere sui comportamenti quotidiani della popolazione. in un articolo sul Corriere della Sera del 9 dicembre 1973, Pasolini diceva che il fascismo aveva solo tentato quello che il consumismo (Pasolini non usa questo termine ma è chiaro a cosa si riferisce) era riuscito a fare:

Ha imposto (…) i suoi modelli che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si

accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella

del consumo. Un edonismo laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo

alle scienze umane (…) Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione

impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria).

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Pasolini ancora definiva il consumismo come il nuovo fascismo, permettendo così un chiaro confronto sul piano ideologico tra le prospettive coetanee. Dal punto di vista del consumo, il fascismo assume i contorni di un male necessario, di un passaggio utile a “ripulire” le società dalle usanze popolari, dai rituali tradizionali, dalle autonomie delle sterminate “perifierie” sociali, ponendo le premesse per lo sviluppo del consumismo. L’avversione verso l’altra ideologia, il comunismo, sembra fondata non tanto su motivi umanitari o libertari, quanto sul fatto che essa negava uno dei pilastri del consumismo, quei rituale di possesso che rappresenta il primo anello della catena dei rituali di consumo. Il fascismo, invece, diventerà una delle forme privilegiate delle politiche neoliberiste. In America latina, ma anche in molti paesi arabi o asiatici regimi fascisti saranno imposti con la forza e sarebbero durati a lungo, mentre le forme simboliche del consumismo venivano fatte penetrare sempre più a fondo nella vita delle popolazioni (Klein 2007).

Religione arte e cultura, sono gli ambiti in cui si rifugiano i refrattari al mondo del consumo. Intellettuali e artisti “disorganici” sono stati in molti casi le punte di diamante dell’opposizione tanto al fascismo quanto al consumismo. Gli artisti soprattutto hanno inventato modi per il reincanto degli oggetti delle immagini, per ridare senso simbolico alle forme visive e uditive.

Se un artista è in grado di operare un reincanto dell’immagine, una rielaborazione simbolica, dobbiamo considerare che noi siamo per lo più il terminale di un flusso costante di immagini che nella maggior parte dei casi non ha un significato profondo. Immaginiamo una situazione concreta. Andiamo a Parigi e rimaniamo per un’ora nella cattedrale di Notre Dame, poi mettiamoci davanti a un video e visioniamo per lo stesso tempo spot pubblicitari. Nel secondo caso siamo più logorati che nel primo. Perché il sovraccarico di immagini che ci dà un opera come Notre Dame a Parigi non è stressante mentre il sovraccarico di immagini pubblicitarie lo è? Se partiamo da Walter Benjamin potremmo rispondere nel modo seguente: dell’immagine rituale-artistica, che è piena simbolicamente, io, che sono uomo simbolico, mi nutro. Le immagini pubblicitari hanno solo un ruolo espositivo e io, animale simbolico, devo caricarle di valore simbolico, devo fare uno sforzo per dar loro un senso (a meno che non accetti completamente di vivere in un mondo privo di senso e rinunciare alla propria umanità di animali simbolici). Se io sono un animale simbolico la persona che mi sta vicino deve significare qualcosa, la devo amare. Si può anche accettare di vivere accanto ad una persona che non significa nulla, che ha solo un valore espositivo, ma lo percepiamo come una forzatura, se non proprio

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come una cosa contro natura. Se non accettiamo di vivere in una realtà come immagini puramente espositive, quindi non riusciamo a vivere con un minore grado di umanità, la nostra fatica sarà quella tramutare valore espositivo in valore rituale, dando una forma simbolica alle cose e alle relazioni. Il caso limite è quello del pubblicitario, il quale, come le persone che sanno fingere bene, è in grado di spremere un significato simbolico anche da oggetti e relazioni semplicemente materiali. Il consumismo corrisponde proprio alla capacità di fornire senso e stimolare rituali partendo da oggetti di consumo. Ma il continuo consumo di simboli comporta uno sforzo anti-anomico da parte dei consumatori e l’investimento di enormi budget pubblicitari da parte dei produttori.

Torniamo all’arte, questa volta contemporanea. La Biennale di Venezia è uno degli eventi più significativi del sistema dell’arte, con un forte carattere simbolico e con pratiche altamente ritualizzate. Rappresenta infatti uno degli appuntamenti “globali” di un mondo che altrimenti ha un carattere disperso e nomadico. Vi si ritrovano quindi molte delle aporie di un sistema che ondeggia periodicamente tra i due caratteri opposti della valenza rituale e di quella espositiva o piuttosto quella relativa ai simboli reificati, poiché in un contesto così ritualizzato la dimensione meramente espositiva è difficilmente praticabile. La Biennale del 2017 (la 57°) è stata la Biennale dell’ottimismo, il vitalismo nell’arte: Viva Arte Viva, diretta da  Christine Macel, la curatrice del Centre Pompidou di Parigi. Il vitalismo è la filosofia che il consumismo ha affermato nel XX secolo: esaltazione della vita per la vita (da cui le innumerevoli pubblicità del tipo “vivi la vita”, ”prendi la vita”, “sii te stesso”, come se ci fosse bisogno che qualcuno ce lo dica). Ovviamente un tema che strideva con quella della Biennale precedente che si interrogava sui futuri possibili mettendo in discussione il senso del positivismo stesso. Il positivismo è quella filosofia dell’800, antesignana del vitalismo contemporaneo, dove il progresso diventava automaticamente un valore positivo. Per il positivismo il domani sarebbe stato sicuramente migliore dell’oggi. Una filosofia sostenibile finché l’economia è in crescita, ma difficile in tempi di crisi e recessione continua. Cos’ è stata sostituita dal vitalismo, che non si interroga sul futuro, e con un’arte che non si pone troppe domande, che accetta di avere un valore espositivo, e che in qualche modo è vicina alla pubblicità. Singolare, comunque, che nella Biennale 2017 si sia fatto largo uso di tematiche di carattere simbolico, a cominciare dai nomi stessi dei nove padiglioni curati dalla Macel: Padiglione degli artisti e dei Libri, il  Padiglione delle Gioie e delle Paure,  il Padiglione dello Spazio Comune, Padiglione della Terra, Padiglione delle Tradizioni, Padiglione degli Sciamani, Padiglione Dionisiaco, Padiglione dei Colori; fino ad arrivare al Padiglione del Tempo e dell’Infinito. A

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riprova del tentativo di mantenere un’ “aura” simbolica, la 57° Biennale ha visto la realizzazione di Tavola Aperta, una iniziativa che permette ai visitatori di condividere con gli artisti uno dei rituali più antichi di sempre, il pasto in comune. Vale la pena riportare il resoconto dell’esperienza apparso sul Corriere.

Si inizia all’una. L’artista arriva e i visitatori prenotati prendono posto. Catering a base di affettati, pane

genovese, pasta fredda, frutta mista e biscottini con acqua minerale o prosecco. Come centrotavola

microfoni per porre domande. Requisiti consigliati: poca timidezza e spiccicare due parole di inglese.

Massima attenzione ai piattini di cartone progettati da qualche diabolico designer per favorire l’involontaria

fuoriuscita del cibo. Attenzione anche a come mangiate, perché il pranzo va in diretta streaming sul sito della

Biennale, quindi vi vedono da casa. Per partecipare non sono previsti costi aggiuntivi, solo la prenotazione.

Abbiamo provato questa pausa pranzo con l’artista Liliana Porter, 76enne argentina che vive a New York dal

’64 e che espone all’Arsenale El hombre con el hacha, che sarebbe una baraonda di oggetti e figurine posati

alla rinfusa. Il nostro pranzo conviviale fa poco testo, poiché eravamo alla «prima» con tanto di curatrice

Christine Macel, critici e collezionisti come Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (qui anche per sostenere il

lancio delle Officine grandi riparazioni, nuovo spazio espositivo di Torino). Quello che abbiamo capito è che

l’artista non riesce a mangiare neanche un pomodorino perché deve rispondere. A sentire la Porter, però, è

un’iniziativa «utile», non solo alla dieta, «perché rompe le barriere tra il pubblico e l’artista». La Porter dice di

aprire spesso anche le porte della sua casa-studio agli amici anche se qui i visitatori non sono tutti degli

amiconi... il rischio che ogni tanto cali un po’ di gelo c’è. Diciamo che è un’iniziativa stile «Arts and Leisure»,

da «supplemento Food». (Pierluigi Panza, La Biennale punta (anche) sul gusto, Corriere della Sera, 11

maggio 2017).

Fanno da contraltare i duelli di mondanità dei grandi ricevimenti dei magnati della moda, che controllano buona parte del sistema dell’arte. Per il ricevimento di Pinault sono state fatte arrivare 4.000 ostriche direttamente dalla Francia e sono state servite su tovaglie di finto sacco: millecinquecento invitati di cui duecento placée (l’èlite dell’élite), quattordici isole di buffet apparecchiate dall’oste trevigiano Celeste Tonon. A pochi giorni di distanza si sono succeduti i ricevimenti di Fendi (Scuola Grande di San Rocco), Bulgari (Gallerie dell’Accademia), Dolce & Gabbana (a Palazzo Ducale), Prada (a Ca’ Corner della Regina) e Swatch (alla fondazione Guggenheim).

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Lezione 6 - Bianco e nero

Il film Inferno (2016) diretto da Ron Howard, basato sul romanzo omonimo di Dan Brown, gioca solo sulle immagini e architetture simboliche. La trama è sempre la stessa, quella di un qualsiasi film d’azione dove i cattivi vogliono distruggere il mondo e i buoni cercano di salvarlo e ovviamente riescono: un modo per celebrare un rituale di salvezza che purtroppo non corrisponde alla realtà di un pianeta che si va a distruggere. Le immagini di Firenze, Venezia e Istanbul nobilitano il film: in particolare gli interni degli Uffizi valgono da soli la visione. È un dato di fatto che un film moderno privo di trama e altri punti di interesse possa reggersi in piedi rispolverando il simbolismo tradizionale e portare avanti per due ore, tutto sommato dignitosamente, il suo scopo ricreativo.

Noi viviamo una schizofrenia simbolica. Da una parte non vi è alcuna consapevolezza di tutto ciò che è simbolismo, dall’altra parte l’industria dell’intrattenimento, in modo ossessivo, sembra capace di sfornare solo prodotti con un forte impatto simbolico. Blade Runner (1982) il film di Ridley Scott tratto dal romanzo di Philip Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, (1968), mostra i caratteri del cyberpunk, un genere di fantascienza di grandissimo interesse perché ha definito molti caratteri dell’attuale società della rete.

La morte del transumano, del “replicante”, si manifesta in Blade Runner con i simboli della Pasqua, quando il protagonista “cattivo”, muove liberando una colomba che serrava in pugno e pronunciando un “sermone” memorabile. Nell’ultimo capitolo della famosa trilogia dei fratelli Wachowski, Matrix, Revolutions, il protagonista Neo incontra la Divinità degli automi e dell’informatica: quando muore viene portato dalle macchine in una sorta di processione con simboli cristici. Nella cinematografia più recente i simboli sono usati in maniera sempre più radicale. Ho già ricordato come lo scrittore di fantascienza cyberpunk William Gibson, a partire da Neuromante (1984), avesse anticipato aspetti della società della rete, come lo stesso concetto di cyberspazio (che in Gibson è tridimensionale) e l’intreccio tra intelligenza umana e artificiale. È un caso evidente di profezie che si autoavverano: il World Wide Web viene ideato da Timothy John Berners-Lee e Robert Cailliau nel 1991, ma si comincia a lavorare sulla “navigazione” tra le informazioni nell’architettura di rete già dal decennio precedente. Navigare implica già una dimensione simbolica, un viaggio, un’avventura, una scoperta di nuovi territori: la rete, così come la società dei consumi, ha fin dall’inizio una fortissima vocazione simbolica.

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Se non si fosse basata su simboli rituali la società dei consumi non si sarebbe potuta affermare, ma il simbolismo del consumo ha un ritmo ben diverso da quello tradizionale. Quest’ultimo mirava a indicare relazioni simboliche con realtà essenziali immutabili, il simbolismo del consumo deve fare i conti con la durata. Il problema dei simboli del consumo è appunto quello del loro veloce consumo, incoraggiato dalla stessa società dei consumi. L’obsolescenza dei prodotti è programmata. Fin dall’inizio si è programmata la durata delle lampadina o delle calze di nylon. Nella società dei consumo siamo abituati alla obsolescenza estetica, di design. Ogni anno le società si mettono d’accordo per selezionare il colore dell’anno che fa andare fuori moda tutti gli altri colori. Altro modo per rendere obsolete le cose è creare un nuovo modello che rende obsoleto il precedente: obsolescenza indotta dalla ciclicità dei modelli.

In qualche modo l’obsolescenza dei simboli è stata sollecitata dall’industria del consumo e questo ha indotto ad avere simboli molto reificati che hanno un utilizzo e una capacità di conferire aura ai prodotti e di conseguenza al rituale che viene innescato relativamente bassa. Ci sono comunque anche gli evergreen, prodotti che vanno bene sempre ma normalmente i simboli vengono velocemente consumati. Siamo in una società che deve continuamente ricreare secondo un meccanismo di ancoraggio e oggettivazione nuovi simboli.

La dinamica dei simboli è stata studiata da uno psicologo sociale francese Serge Moscovici che ha illustrato il meccanismo di ancoraggio e oggettivazione, cioè che ogni nuova rappresentazione sociale, si àncora ad un simbolo precedente e dà luogo una nuova oggettivazione (simbolica, aggiungiamo). Ad esempio il Natale del consumo è stato ancorato al Natale religioso e oggettivato nella figura di Babbo Natale, oppure in psicanalisi dove si è creata una nuova immagine dello psicanalista, ancorandosi sul rapporto con il confessore religioso, laddove il lettino ha sostituito il confessionale come oggettivazione. Buona parte del successo della psicanalisi è dovuto al fatto che è stata vista come una confessione laica.

Questo processo di ancoraggio e oggettivazione è molto veloce e molto dispendioso dal punto di vista dell’investimento emotivo che dobbiamo fare noi. Causa stress questo continuo attribuire noi valore a simboli che dopo pochi giorni non ne avranno più. Compro un nuovo cellulare ma dopo pochi giorni mi dà le stesse sensazioni del vecchio.

A che servono i simboli? Ci aiuta Dante. Per Dante l’uomo può andare all’inferno, in purgatorio, in paradiso. Ciò significa che l’uomo può incarnare stati dell’essere, da quelli

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sovrumani a quelli infraumani o infernali. Parafrasando le dottrine tradizionali, l’uomo è una sorta di viandante celeste, che si incarna nei corpi ai momento della nascita e ne esce al momento della morte. Durante l’arco della vita continuamente torna il “ricordo” della sua natura di viandante tra i mondi, i riflessi dei quali egli vede in tutti gli aspetti della realtà mondana. I mondi sono di diversa natura, così come le esperienze che l’uomo conduce dentro e fuori di se.

Se in Dante i dannati sono insieme ai demoni e i beati insieme agli angeli, significa che l’uomo può realizzare la stessa realtà angelica e demonica, quindi l’uomo è un “mutante”. Un angelo, a parte l’eccezione di Lucifero che conferma la regola, nasce angelo e tale rimane, l’uomo no, può cambiare. Nella prospettiva dantesca l’uomo ha questa capacità di mutare. i simboli rappresentano i vari modelli di realtà, mentre i rituali sono i processi mimetici per realizzare i simboli. L’uomo ha bisogno di simboli e rituali per trasformarsi. Il Cristo per il cristiano è un modello cui identificarsi e trasformarsi per somigliargli e comportarsi come lui. In qualche modo l’uomo nei confronti del simbolo manifesta una possibilità di identificazione, di trasformazione.

Il simbolo è quindi uno strumento di identificazione, un modello che può condurre a realtà metafisiche o infraumane cui l’uomo può conformarsi. Cos’è una messa nera se non un rituale in cui l’uomo può realizzare realtà demoniche? Cosa sono le Blue Whales russe (giochi di ruolo in cui gli adolescenti vengono condotti al suicidio) se non una messa nera moderna? Persone adescate in rete attraverso un rituale satanico e alla fine di questo percorso l’istigazione al suicidio come possibilità di realizzazione di una vita infraumana al di là della morte. Un rituale demoniaco come quello delle Blue Whales non ha interessi economici né di potere in senso classico. I vari stadi delle Blue Whales vengono chiamati gioco anche per dare una valenza positiva. Il gioco è la prima attività con cui l’uomo comincia a operare coi simboli, quando si gioca con la Barbie si diventa la bambola.

Purtroppo oggi vi è pochissima consapevolezza della realtà dei simboli. Esempi si ritrovano dappertutto, basti solo ricordare che un libro fondamentale come La formazione del simbolo nel bambino di Jean Piaget non è stato più pubblicato in Italia dal 1979. In Giappone c’è il fenomeno degli Hikikomori, gli “isolati”. Ragazzi o giovani adulti che decidono di isolarsi dalla vita reale per vivere nel mondo - ricco di simboli - dei manga e anime. Il film coreano Castaway on the Moon, è illuminante a riguardo. Il protagonista è un impiegato in disgrazia che tenta il suicidio, ma finisce in un isolotto del fiume Han a Seul. Come Robinson Crusoe deve crearsi un riparo e mangiare. Finisce per appassionarsi a

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quel ritrovato senso della vita, mentre una hikikomori lo nota tramite telescopio con cui scruta il mondo da cui si è esclusa.

Succede che, soprattutto nella cultura otaku (appassionati di manga) delle persone si isolino dalla vita reale per vivere solo nel loro universo otaku: si parla in Giappone di più di un milione di persone. Uomini e donne che rifiutano la società e migrano verso uno stile d vita che gli permette di vivere in casa coi genitori (il cordone ombelicale non viene rotto, anzi) davanti al computer, nel loro mondo otaku. Il mondo digitale in questo caso può fungere da ritrovato universo di senso, quando il mondo reale ormai è alienato e alienante.

Ancora un dettaglio sul simbolismo del viaggio spirituale. La collana di sfere con pendente è uno degli oggetti più antichi del mondo. Somiglia al rosario, che arriva in Occidente intorno al 12° secolo, portato dai crociati, a imitazione del rosario islamico (a sua volta analogo a quello induista) che si divide in tre parti di 33 grani ciascuno. Anche la Divina Commedia si divide in tre parti, o cantiche, di 33 canti ciascuno. Curiosa analogia che lega la divina commedia e l’escatologia islamica.

L’eccezionalità di Dante è che in vita visita i diversi mondi dell’aldilà e ci potrebbe essere una analogia tra la divisione 3 per 33 della divina commedia e il rosario islamico. I vari gironi e cieli possono essere interpretati come mondi e non è un caso che nell’originale induista le sfere sono chiamate mondi e il rosario è una “catena di mondi” tenuta insieme dal filo che non si vede ma c’è. La tradizione islamica riporta che il rosario rappresenta i 99 più bei nomi di Dio (33x3) tra questi anche nomi paurosi e terribili ma tra essi non è compreso il nome di Dio Allah. Quindi le sfere della collana sono i mondi tenuti insieme da un filo invisibile che ne rappresenta l’essenza invisibile, straordinaria immagine simbolica della presenza divina. Il centesimo nome di Dio, Allah, non è nella catena dei mondi, la divinità trascende la catena dei mondi. Per questo le collane e i rosari hanno quasi sempre un pendaglio, che simboleggia l’uscita dal cerchio. Nella tradizione islamica come in quella indù e buddista la realizzazione divina è l’uscita dalla catena dei mondi. La reincarnazione nella dottrina originaria non è una vera reincarnazione, ma è la reincarnazione in un altro mondo, è il passaggio da un canto dantesco all’altro. La liberazione secondo gli indù, moksha, è l’uscita dalla catena dei mondi e quindi la realizzazione del grado spirituale che trascende e fuoriesce dalla collana e rappresenta la virtù spirituale nel senso più pieno.

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Lezione 7 - Spazio al tecnoconsumismo

Per descrivere la nuova attuale società rituale è utile innanzitutto tracciare i lineamenti del territorio su cui essa insiste. L’uomo infatti investe lo spazio e ne prende possesso. Il termine territorio è quindi più appropriato per definire lo spazio umano. La parola latina territorium ha un legame con territor, che significa “possessore della terra”, così come come con il verbo terrere, “spaventare”. Il territorio definito dall’intervento umano indica quindi sia la presa di possesso di uno spazio, sia la capacità di allontanare chi e che cosa non ne fa parte. Il nostro seminario intende dimostrare come il consumismo definisca un nuovo territorio ed evolva naturalmente verso un tecno-consumismo.

Nelle città antiche gli spazi ampi all’aperto erano l’ambito pubblico per eccellenza. I cittadini si ritrovavano in pubblico per poi ritirarsi verso le loro case private. Negli spazi pubblici c’erano templi, mercati e teatri: “piazza” (simile al provenzale plassa) deriva dal latino platea (propriamente “luogo ampio”) con il quale si indica ancora oggi lo spazio più grande di un teatro.

Le abitazioni erano propriamente spazi separati dal pubblico, quindi “privati”, e il visitatore occasionale si trovava proiettato direttamente nella vita quotidiana dei residenti. Nell’antica Grecia i luoghi sacri erano situati nel centro della città mentre tutt’attorno, almeno fino a Ippodamo di Mileto, sorgevano in maniera disordinata case e botteghe. La città rispecchiava il corpo umano, e dal cuore il flusso spirituale si irradiava nelle membra. Mura sorgevano attorno alla città per difendere l’ordine dal caos.

Il teatro antico rispecchiava la teoria sociale (teatro e teoria derivano entrambi dal greco thaymaxo, “guardo con meraviglia”) e i grandi spazi comuni erano condivisi da attori e pubblico, talvolta senza alcuna distinzione (come nelle sacre rappresentazioni). Sia il teatro che la teoria sviluppavano narrazioni sulla natura dell’uomo e dell’universo, sulle realtà simboliche che si manifestavano attraverso la molteplicità delle forme (le idee, gli stati angelici). Non vi era retroscena, tutto era in primo piano, come nelle residenze degli aristocratici fino alla Rivoluzione francese: essere ammessi nei bagni di Luigi XIV, il Re Sole, era considerato un privilegio.

I riti pubblici si distinguevano da quelli privati, ma partecipavano di una visione unitaria dell’esistenza. Essi avevano un potere trasformante, tramite essi si poteva combinare e superare la natura umana, arrivando all’identificazione con le realtà essenziali che informavano la manifestazione nei suoi molteplici aspetti. Simboli e riti erano strumenti per

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trascendere l’ordinario e l’umano e realizzare lo straordinario e il sovrumano. Il territorio e gli oggetti in esso compresi era lo strumento simbolico per innescare le azioni rituali, guidate da narrazioni mitopoietiche.

Lo spazio moderno è invece uno spazio modulare, in cui pubblico e privato si intersecano. La casa borghese ospita uno spazio pubblico, un salone adatto a ricevere che si differenzia dal resto della casa, che resta uno spazio privato. Come nello spazio teatrale, anche nelle abitazioni la scena si distingue dal retroscena. La vita quotidiana diventa convenzionale più che simbolica, almeno si mostra come tale. Il retroscena diventa la parte più significativa, quella che deve essere scoperta. Sulle scene del teatro borghese, come nei corrispondenti salotti, si rappresenta e si discute di quello che il retroscena nasconde. Secondo Flusser, il teatro moderno ha messo in scena le conseguenze della “morte di Dio”: la divinizzazione dell’uomo e la demonizzazione del mondo. Il mistero della vita e della morte non è più nel cielo sopra la testa del pubblico (cielo ha la stessa radice di “celare”), ma dietro le spalle degli attori. Il razionalismo moderno accende le luci della ribalta per spingerle sempre più nell’oscurità del retroscena, fino a quando non c’è più nulla da svelare, nulla da rincorrere, perché la luce abbagliante della ragione sbiadisce simboli e segreti. Il mondo moderno è un mondo anomico, senza simboli e rituali praticabili, vale a dire senza gli elementi per mettere in scena rappresentazioni coinvolgenti.

Il consumismo ha ereditato un palcoscenico vuoto di misteri e su questo vuoto ha costruito un nuovo mondo. Il consumismo può essere lo stadio finale di una forma di manipolazione simbolica e di creazione di nuovi processi rituali con lo scopo di consumare il mondo e, se possibile, l’intero universo. Per dirla in termini mitologici, rappresenta la personificazione dell’Entropia e il dio cui più assomiglia è l’egizio Seth, popolare per secoli, fino ad essere alla fine demonizzato e dimenticato, con buone ragioni.

Per il suo primo radicarsi il consumismo ha prediletto gli ambienti anomici, vale a dire le strutture sociali con scarsa se non scarsissima densità rituale. Se l’uomo è un animale simbolico e rituale, come lo hanno definito rispettivamente Ernst Cassirer e Mary Douglas, allora la sua tendenza è quella di cercare di entrare in sintonia con una particolare cosmologia simbolica. Il consumismo è in grado di fornire una cosmologia più accattivante e completa di quanto possano prospettare molte religioni “popolari”. Questo spiega anche la sua iniziale diffusione in America.

Se prima rituali e simboli dovevano condurre alla comprensione della realtà essenziale del mondo e della natura, ora il mondo e la natura sono utilizzati per alimentare un

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processo rituale di consumo degli oggetti simbolici. Le narrazioni consumistiche tendono a minimizzare i rischi e massimizzare i vantaggi: durante questo processo il mondo e la natura sono consumati.

Il consumismo ha messo in atto una profonda trasformazione dello spazio umano, paradossalmente resa possibile proprio basandosi sulla tradizione, sia pure attraverso un meccanismo di inversione simbolica. Il supermercato, per esempio, è il tempio degli oggetti di consumo, nel quale recarsi in silenzioso raccoglimento. Mentre il centro commerciale rappresenta una sorta di città santa, verso la quale dirigersi in periodico pellegrinaggio. Tuttavia la vera e propria rivoluzione del consumo ha cominciato a manifestarsi tra le mura domestiche.

Per prima cosa gli oggetti di consumo hanno conquistato il cuore della casa. La prime pubblicità di frigoriferi li collocavano nel salotto. Successivamente l’attenzione si è spostata dagli oggetti alle immagini tecniche che ne veicolavano i contenuti simbolici. Il posto centrale in salotto è stato preso dal televisore e dal divano di fronte ad esso. Infine lo spazio stesso si è disintegrato in un open space nel quale più che le persone sono i dispositivi tecnici a potersi muovere liberamente. La casa del futuro (immediato) è pervasa di domotica e di internet delle cose.

In questo processo, fuori dalle abitazioni lo spazio pubblico risulta completamente collassato, non esiste più, ma viene tenuto in vita artificialmente. I social network corrispondono alla pubblicizzazione del privato non a uno spazio di discussione sulla cosa pubblica. La vita politica è così artificiale, sia nel senso che la maggior parte delle scelte politiche sono artificialmente predeterminate (determinate da programmi tecnici e intelligenze artificiali), sia nel senso che la scena pubblica è tenuta artificialmente in vita. Per questo si può assistere al paradosso apparente di questi mesi in cui la più avanzata nazione del pianeta ha un presidente universalmente riconosciuto come inadatto, ma allo stesso tempo la borsa di Wall Street conosce i massimi di sempre. Per gli operatori economici, infatti, il presidente americano è di fatto ininfluente per il paese. Il consumismo sta definendo un mondo governato da processi informatici e automatici in cui gli oggetti e i loro simulacri (le immagini tecniche) determineranno sempre più non solo i comportamenti umani ma anche lo stesso pensiero.

Se pure si arriverà alla completa digitalizzazione del territorio umano, un passo intermedio è senz’altro quello della realtà “aumentata”, che oggi va molto di moda e che deve essere presa sul serio vista la mole di investimenti in nuove aziende come Magic Leap. C’è da chiedersi il perché di questi passi intermedi e di queste attese forzate a cui il

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progresso tecnologico sembra doversi adattare (il progetto Google Glasses è stato definitivamente accantonato solo un anno fa). La ragione è che simboli e rituali hanno favorito e allo stesso tempo rallentato l’avanzata del consumismo.

Il consumismo non è religioso, anche se per semplicità si è potuto parlare di una religione dei consumi, ma non può nemmeno definirsi laico. Il suo carattere, e quindi la sua fortuna, è quello di essere come un parassita che riesce a vivere a spese di diversi organismi e strutture sociali, piegandoli alle proprie condizioni di esistenza. In New Ritual Society ho cercato anche di dimostrare come il consumismo si ancori a una forma simbolica e la oggettivizzi in una nuova forma rituale, secondo il meccanismo delle rappresentazioni sociali individuato da Serge Moscovici.

Il tecno-consumismo attuale è la forma cui il consumismo tende fin dalle sue origini e che si manifesta ora in maniera più definita. Senza le immagini tecniche, a partire dalla fotografia fino alle diverse realizzazioni digitali, non sarebbe stato possibile innescare il vortice di rappresentazioni simboliche che ha consentito il radicarsi del consumismo. I primi apparati fotografici industriali (la Kodak Brownie, per esempio) sono stati programmati allo scopo di spingere allo “scatto” del maggior numero di foto, di consumare più apparati, pellicola, stampe e soprattutto simboli: il consumismo può essere visto come una filosofia di programmazione degli apparati tecnologici.

All’inizio ci si è avvalsi delle immagini per ricreare un’aura simbolica attorno agli oggetti di consumo. Successivamente gli stessi oggetti hanno mostrato di non essere strettamente necessari e presto le immagini possono essere esse stesse un prodotto di consumo. Non è detto che presto anche le proiezioni digitali, gli “ologrammi”, non possano avere una consistenza “materiale”.

La programmazione tecnica ha preso il sopravvento ovunque. Programma significa propriamente “prima della scrittura”, quindi esprime perfettamente quella seconda oralità postmoderna di cui parlava Walter Ong. Davanti a noi si schiude un’era di programmi programmati e programmanti. Se la programmazione tecnica avviene in termini matematici, quella umana si esprime attraverso immagini simboliche e processi mimetico-rituali. La maggior parte degli apparati tecnici è stata programmata fin dall’inizio per il consumo e quindi prosegue automaticamente in tal senso. Il territorio del consumo è un territorio definito e consumato dalle performance degli apparati, il territorio del tecno-consumismo. In questa direzione ogni cosa sulla terra che non sia inserita in un processo di tecno-consumo rischia di sparire. I centri commerciali del futuro saranno luoghi in cui ci si potrà muovere attraverso varie dimensioni di realtà, vari mondi.

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Le strategie mimetiche sono il volano del tecno-consumismo, ma anche il suo tallone d’Achille, poiché azioni simboliche contrarie al consumismo sono sempre possibili, a patto di riuscire a resistere al suo parassitismo. Molte iniziative artistiche del XX e XXI secolo hanno cercato di rallentare il processo del consumo, cercando talvolta di creare una realtà parallela a quella consumistica (per esempio il movimento Fluxus).

Da tempo, però, il consumismo guarda anche oltre il mondo fisico e brucia le energie del pianeta per produrre mondi alternativi, nuove forme simboliche verso le quali orientare i rituali quotidiani. Finché i rituali di consumo continueranno ad essere l’ossatura della vita quotidiana le persone non si accorgeranno di questo travaso di energia, anche perché dipendono sempre più dai dispositivi, sia per comunicare, sia per lavorare. La nuova sociologia dovrà considerare che nel mondo del tecno-consumo non vi sono più classi sociali, vi sono solo funzionari (addetti agli apparati), disoccupati (aventi diritto al cosiddetto “reddito di cittadinanza”). Le forze sociali sono determinate dalle relazioni tra uomini e apparati, e lo stesso concetto di Potere deve essere rivisto nel senso della capacità d’intervento nella programmazione degli apparati tecnici.

Quando arriverà il momento in cui le realtà virtuali assumeranno anche una parvenza fisica, materiale, non sarà più possibile nemmeno accorgersi del carattere distruttivo del consumismo, perché si manifesteranno sempre nuove realtà. Fino a quando non saranno esaurite le energie del pianeta e non vi saranno altre fonti disponibili, ci sarà il mondo del tecno-consumismo. Il diluvio di immagini e simboli sarà sempre più fitto e impedirà di vedere cosa si prepara dopo. Il progressivo collasso dello spazio fisico, del mondo “originario”, e la possibilità di esistenza relegata nei mondi alternativi. A meno che non succeda qualcosa di inaspettato, una radicale presa di coscienza e una generale “riprogrammazione”, qualcosa che un tempo veniva chiamato “miracolo“.

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Lezione 8 - La televisione e il cinema

Vediamo adesso il significato simbolico e i modi di funzionamento della televisione, per lungo tempo la regina dei dispositivi tecnici e destinata a rimanere un dispositivo tecnologico fondamentale ancora a lungo.

La complessità della televisione si vede anche nell’incertezza dei suoi esordi. All’inizio la televisione, infatti, non ha trovato subito la sua strada come medium. Forse sarebbe stato logico aspettarsi un ancoraggio al cinema, il primo dei grandi dispositivi tecnici da spettacolo. Invece la televisione delle origini si è mossa in maniera timorosa e si è volta verso il teatro, di cui ha mantenuto a lungo la struttura scenografia aperta sul lato dello spettatore. Di sicuro i primi programmatori si sono resi conto di avere un mezzo in grado di avere un grande impatto sul pubblico, ma hanno inteso andare sul sicuro ed ancorarlo su strutture rappresentative collaudate come quelle teatrali.

L’idea della televisione è comunque completamente diversa dal teatro. Il teatro borghese svolgeva buna funzione analoga a quella che avrebbe rivestito il “salotto”, la “sala” in cui prendevano forma le rappresentazioni domestiche. La televisione invece, frantuma la struttura rappresentativa e intende aprire una finestra sulla parete del salotto e da questa finestra collegarsi al mondo fuori. Le aperture sono sempre stati importanti all’interno delle abitazioni e la loro collocazione riveste un significato simbolico. Le primitive capanne avevano un’apertura verticale, al centro del tetto. Non aveva solo il significato pratico di permettere lo scarico dei fumi. Permetteva anche uno sguardo verso il cielo. Una forma elementare di capanna è quella dell’igloo degli inuit, che ha conservato la stessa struttura nel corso dei millenni. La casa mediterranea con le stanze aperte solo sul cortile centrale è certamente molto più complessa, ma è simbolicamente più vicina alla capanna primitiva di quanto lo sia alla casa moderna. Non solo il cortile è infatti aperto sul cielo, ma la vasca, pozzo o fontana che si trova solitamente al centro del cortile è uno specchio di riflessione del cielo stesso. Anche se l’uomo non guarda più direttamente il cielo, contempla egualmente la sua immagine riflessa, ne percepisce ancora il senso di mistero e di scoperta che esso contiene: il termine latino coelum ha la stessa radice di celare.

Il rapporto con il cielo si interrompe dopo il Medioevo, quando l’ampiezza delle aperture “verticali” diminuisce fino a sparire mentre aumenta quasi ovunque quella delle finestre

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orizzontali. Durante tutto il Rinascimento non è più il cielo ma la città a rappresentare lo specchio privilegiato della contemplazione.

Dopo la rivoluzione industriale l’urbanistica si allontana sempre più dal simbolismo del Bello e le case moderne consentono una vista solo su di un esterno che, a parte le case dei quartieri più centrali e lussuosi, si proietta sul nulla dei lunghi e anonimi viali e delle periferie senza volto.

Quando le finestre comune si aprono su di un mondo sempre più svuotato di senso, a questo punto appare la televisione. Secondo Flusser la televisione è nata per permettere a tutti di avere una finestra sul mondo, sugli avvenimenti più importanti, su di un mondo in grado di riacquistare senso. L’idea iniziale era quella di uno strumento di condivisione della visione, di allargamento delle possibilità di relazione con gli avvenimenti significativi dell’epoca. Ancora oggi i programmi televisivi spesso rappresentano un sottofondo che accompagna la giornata, in un gioco di simmetrie tra lo studio televisivo e il salotto di casa.

La prospettiva era anche quella di creare un canale di comunicazione diretta, di poter entrare in contatto con altre persone e avvenimenti. Sempre secondo Flusser, questo scopo è stato in larga parte travisato, o quantomeno i significati simbolici mostrati dalla televisione si sono per lo più concentrati all’interno dell’orizzonte del consumismo. Il carattere di finestra sul mondo della televisione si così è limitato alla programmazione di comportamenti di consumo. In tal senso la pubblicità ha rivestito fin dall’inizio un ruolo centrale nella programmazione televisiva.

Attualmente la televisione viene usata per indurre il destinatario dei suoi messaggi a un comportamento

specifico, ovvero il consumo di quei beni fisici e spirituali a cui i possessori di televisioni (Fernsehsystems)

sono interessati (Flusser 1997, 107).

Questo comportamento “passivo” è stato incoraggiato dal carattere pseudo-religioso con il quale la televisione è stata recepita. Flusser pone il supermercato in relazione con il cinema, ma a nostro avviso è la televisione a essere in relazione con il primo tempio del consumismo. Non a caso la televisione appare un decennio dopo l’apertura del primo supermercato con lo scopo di ricoprire una funzione educativa relativa al consumismo. Quello che accomuna i due modelli di televisione delle origini, quello europeo e quello americano, è infatti l’intuizione del ruolo educativo svolto dalla televisione. In America la televisione viene subito messa al servizio dell’educazione ai rituali di consumo, della mitopoiesi pubblicitaria. La “passività” della religione esteriore moderna viene calata all’interno del rituale del consumo. Con la televisione lo spazio di discussione che si era

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aperto nel salotto della casa borghese si restringe e diventa uno spazio di passivo raccoglimento.

Attorno all’apparecchio televisivo sta sorgendo una nuova forma di vita contemplativa, ammirativa,

devota: una nuova forma di religione (ivi, 114).

Quello che rende la televisione un dispositivo irrinunciabile all’epoca attuale è la sua capacità di sviluppare una programmazione completa della scansione temporale e rituale della giornata. La scansione del tempo ha sempre rivestito in significato simbolico in tutte le civiltà. La sequela dei mattutini e dei vespri scandiva la giornata cristiana, così come le cinque preghiere quotidiane quella islamica. La programmazione televisiva ha assunto oggi quella stessa funzione. La televisione permette così anche di mostrare chiaramente il carattere programmante dei dispositivi tecnici, la capacità di regolare le pulsioni emotive e i riferimenti simbolici di intere società. Per questo anche canali tipicamente digitali, come YouTube, si stanno evolvendo nella direzione della programmazione televisiva, sviluppando un canale a pagamento come YouTube Red, in grado di realizzare prodotti non più amatoriali ma con qualità e contenuti tipicamente televisivi.

Le intuizioni di Flusser sulle nuove forme della “religione” moderna sono confermate dall’esperienza televisiva più recente. Secondo Carlo Freccero, che è stato tra l’altro direttore di Rai4 dal 2008 al 2013, il “culto” rappresenta il genere principale per dare una veste e una riconoscibità a una rete televisiva. Per “culto” si intende un consumo non più distratto, ma sempre più coinvolgente, come nelle partite di calcio o nei nuovi telefilm americani. Il pubblico dei prodotti cult non è più un semplice pubblico ma una rete di fan, che si confrontano anche prima e dopo la fruizione televisiva, avviando una sempre maggiore transmedialità di consumo. E il rapporto tra fan e prodotto cult può arrivare a una dipendenza analoga a quella dell’alcool o delle droghe (Freccero 2013, 140 sgg.).

I telefilm di ultima generazione sono prodotti molto più sofisticati di quelle precedenti, ormai analoghi a quelli cinematografici per investimenti e cura nella realizzazione. Permettono numerose repliche senza che venga meno l’attenzione del pubblico. In Italia uno dei pochi telefilm analoghi è rappresentato da Montalbano, in onda da quasi vent’anni, il cui carattere cult è certamente più “mediterraneo” di quello delle serie americane, come vedremo meglio in seguito.

Anche il mito del prosumer, del produttore consumatore deve essere visto nella prospettiva della programmazione televisiva. Il moderno prosumer, infatti, non ricalca un

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modello di produttore consumatore come quello, per esempio, del contadino che coltiva i prodotti e li consuma di conseguenza o li scambia con altri produttori. Il prosumer attuale è in realtà un funzionario, nel senso che la sua funzione consiste nella cura del funzionamento degli apparati e nel collaborare al consumo dei prodotti e delle immagini frutto dei diversi dispositivi tecnici. Il prosumer è un consumatore e produttore di oggetti e di concetti programmati. Il suo ruolo nel processo di produzione è analogo da una parte a quello di un qualsiasi vecchio operaio cui veniva chiesto come meglio organizzare il lavoro in fabbrica, dall’altra a quello di un qualsiasi precedente consumatore cui veniva chiesto un parere sui prodotti di consumo. L’unica differenza è che non vi è più differenza tra atteggiamento di produzione e atteggiamento di consumo, essendo entrambi programmati per non dare scelta. D’altra parte i ritmi di lavoro, così come quelli di consumo sono stati talmente aumentati da non permettere una riflessione e una presa di coscienza analoga, quanto meno, a quella della antica classe operaia. L’unico modo per sottrarsi al ritmo sempre più alienante è utilizzare il tempo libero per quelle attività che sono considerate “evasione” dalla vita ordinaria. E che, come vedremo, esse stesse sono diventate uno dei maggiori rituali moderni. Il turismo, infatti, sarà sempre più una delle grandi industrie culturali del XXI secolo.

Per poter sfruttare anche il carattere “programmante” della televisione, Google, che già detiene assieme a Facebook il monopolio della pubblicità digitale, sta cercando di entrare nel business della pubblicità televisiva. È di quest’anno infatti l’accordo con la CBS l’utilizzo della piattaforma pubblicitaria del colosso della rete. In questo modo Google cerca di sottrarre quote di un mercato da 72 miliardi di dollari (solo in America) a Comcast che possiede la piattaforma Freewheel, leader nella fornitura di pubblicità negli spettacoli televisivi in streaming sul web. Google mira evidentemente ad aggiungere i dati degli spettatori televisivi a quelli che navigano in rete, sui quali ha già il monopolio. Questo fa comprendere l’importanza dei comportamenti rituali di consumo che ruotano attorno alla televisione e alle possibilità che comporta la loro raccolta e gestione. Non avrebbe altro senso infatti, l’interesse di Google, che già controlla buona parte della pubblicità digitale il cui fatturato complessivo si prevede possa aumentare di anno in anno il divario già esistente con quello televisivo.

Vediamo adesso il cinema. L’uomo contemporaneo si colloca in diversi modi nei rapporti con le immagini tecniche e queste diverse modalità rappresentano le categorie della nuova sociologia postindustriale. In tal senso il rapporto tra cinema e pubblico riveste un ruolo significativo. A differenza della televisione, il cinema nasce come forma d’arte e

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mantiene a lungo in vita questa prospettiva, nonostante il ruolo di punta all’interno dell’ “industria culturale”. Si veda in particolare il libro di Antonio Bisaccia, Punctum Fluens, che ripercorre le esperienze del cinema sperimentale degli anni Venti. Il cinema delle origini si interroga infatti sulla sua stessa struttura, la mette a nudo, sviluppa una drammaturgia puramente visiva. Solo in seguito il cinema verrà cooptato all’interno delle strategie di consumo, diventando un “cinema senza razza”, per usare sempre le parole di Bisaccia, che ha “come destino la spoliazione di un immaginario rovesciato”.

Col cinema la dimensione mistica delle immagini tecniche e quindi del tecno-consumismo assume una valenza paradigmatica. A differenza della televisione, il cinema non rimanda alla realtà quotidiana, ma presenta un “altro mondo”, costituisce un rituale di distacco dalla quotidianità, un rito di passaggio nel quale ci si separa dall’ordinario e si ci proietta nello straordinario. Col cinema l’antro della caverna platonica si arricchisce di scene che raccontano nuove storie, nuove mitologie che creano nuovi mondi. le persone sono perfettamente consapevoli che esiste un mondo reale, ma proprio per questo si rifugiano nel ventre caldo e rassicurante della mistica cinematografica. Fin dall’inizio della cinematografia è stato osservato lo stato di trance in cui entra lo spettatore davanti alle immagini che scorrono sullo schermo, al punto da consolidare l’immagine del cinema come arte “ipnotica” (Eugeni 2002).

Il fondamento rituale che conferisce questo potere incantatorio al cinema si può ritrovare nello stesso simbolismo della caverna, uno dei più ancestrali e radicati nell’umanità, strettamente connesso all’utero. Le caverne sono state fin dagli albori il luogo di comunicazione con i diversi mondi metafisici e immaginali, punto di partenza delle esperienze mistiche anche in epoca storica. Il frontone del tempio greco ha la forma triangolare della montagna così che il visitatore può penetrare all’interno del suo ventre. Secondo lo Pseudo Matteo, un vangelo apocrifo, Maria ha partorito Gesù in una grotta e dopo tre giorni ne esce per deporlo in una stalla. Ancora in epoca gotica, la cattedrale nascondeva nel suo ventre la cripta, la caverna dei riti iniziatici. Analogamente, il Profeta Muhammad ha ricevuto la rivelazione divina nella caverna del monte Hira e da allora i mistici Sufi si ritirano in contemplazione in una Khalwa, spesso scavata sotto il pavimento del luogo di preghiera.

Proprio per questo carattere di alterità dalla vita ordinaria il cinema è per lungo tempo stato considerato anche sotto un carattere “rivoluzionario”, per quanto il concetto fosse viziato dalle vecchie e inapplicabili categorie della politica. D’altra parte il cinema è anche uno straordinario strumento di propaganda utilizzato in senso consumistico, come

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dimostra buona parte della produzione hollywoodiana. Più in generale le immagini tecniche hanno riscoperto il potere della caverna e lo hanno utilizzato all’interno di una logica di consumo. Proprio su questo tema occorre vedere Visitors (2013), il film con il quale il regista Godfrey Reggio è tornato sugli schermi a undici anni dall’ultimo capitolo della trilogia qatsi.

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Lezione 9 - La guerra

Dead Birds (1963) è un documentario sulla guerra rituale presso le popolazioni Dani in Nuova Guinea, girato dal noto antropologo Robert Gardner (1925-2014). I Dani vivono nella condizione delle prime popolazioni dedite all’agricoltura. Per loro la guerra riveste una forma chiaramente rituale. I combattenti vestono abiti rituali e si impegnano in atteggiamenti che mirano a incutere timore, a soggiogare l’avversario prima che avvenga un vero combattimento. I due schieramenti si affrontano con grida, finti attacchi e contro finte. Le danze di guerra maori messe in scena di fronte al nemico sono forme analoghe di combattimento rituale. Come anche nelle antiche sfide cavalleresche occidentali, la possibilità di uccidere è in qualche modo un effetto marginale, secondario, della performance rituale.

Tra gli eschimesi inuit il diverbio e la vendetta viene trasposto in un “duello di canti”, una sfida a canzoni e motteggi in cui sono gli anziani e il resto della comunità a decidere, a volte dopo mesi, chi è il vincitore. Anche quando la polvere da sparo generalizza i conflitti, le guerre sono combattute solo dagli eserciti. In arabo esistono due parole per indicare la guerra, il primo ha una valenza rituale ed esprime la guerra santa, jihad, il secondo indica invece il conflitto di basso livello, harb, la macelleria senza regole e senza onore. Anche in Occidente i militari incarnano un “codice d’onore” e solo dell’ottocento cadono le regole militari e i conflitti coinvolgono anche i civili. A partire dal Della Guerra di Carl von Clausewitz (pubblicato postumo tra il 1832 e il 1837) la pratica militare non comporta più una dimensione simbolica, ma è ridotta a un processo bestiale: famosa l’affermazione del generale prussiano secondo il quale “la guerra è l'impiego illimitato della forza bruta.”

Il generale Slobodan Praljak si è ucciso il 29 novembre 2017, a L’Aia, subito dopo la sentenza che confermava la sua condanna a 20 per i crimini commessi in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1995. Nel compiere quel gesto ha affermato di non essere un criminale di guerra, rivendicando così la legittimità del suo operato come militare. La Bosnia in quegli anni si trovò a essere dilaniata da un conflitto in cui Croazia e Serbia cercavano di annettersi parte del suo territorio. La Bosnia era un paese multietnico e multireligioso, con il 44% della popolazione musulmana, il 32,5 % serbo-ortodossa e il 17 % croato-cattolica e un restante 6 % che si considerava solo jugoslavo. Praljak ebbe un

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ruolo di primo piano nella pulizia etnica contro la popolazione musulmana, compiendo violenze contro la popolazione e arrivando a distruggere come puro gesto simbolico il ponte di Mostar, lo Stari Most ottomano, che collegava le due diverse sponde della città. Dopo il suicidio di Praljak, Nika Pintar, il suo avvocato, ha rilasciato all'agenzia di stampa croata Hina, la seguente dichiarazione:

Sono molto triste, ma rispetto il suo gesto. Sinceramente non avrei mai potuto immaginare che potesse

fare una cosa del genere, ma conoscendolo come un uomo che tiene tantissimo al proprio onore, lo capisco

completamente, e so bene che non avrebbe potuto vivere con il pensiero di uscire dall'aula in manette (Il

Messaggero, 30 novembre 2017).

È singolare e che venga evocato il concetto di “onore” in relazione a un comportamento criminale. Più in generale, l’onore implica il rispetto verso chi occupa una condizione di alto grado - i nobili, per esempio, e di conseguenza i magistrati e le alte cariche di governo - così come in senso riflessivo indica la considerazione che si ha per il proprio ruolo. Chi ha considerazione del proprio “onore” si comporta in modo “onesto”: due termini condividono la stessa radice. Che sia “onesto” il comportamento di abbia fatto ucciso e stuprato civili inermi è certo discutibile. Qui si vuole piuttosto sottolineare la necessità che hanno anche i criminali di potersi richiamare a un “codice d’onore”, a un codice che permetta di dare un significato simbolico alle proprie azioni. Pur se la guerra ha progressivamente perso ogni carattere simbolico, sembra che il militare, anche criminale, non possa fare a mano in qualche modo di proiettare sulle proprie azione un “codice di guerra”. Analogamente il mafioso non ha timore di recarsi alla funzione religiosa domenicale, poiché le sue azioni sono state giustificate dal codice simbolico che lui ha adottato come condotta di vita.

Per Giuseppe Frazzetto, la spettacolarizzazione della morte appartiene alla categoria estetica del Sublime, riecheggiando così le descrizioni delle interminabili esecuzioni comminate a parricidi e regicidi che Foucault riporta in Sorvegliare e Punire (1975). Il suicidio di Praljak avvenuto in diretta televisiva, di fronte alla stessa corte che aveva appena ribadito la sua condanna a 20 anni di reclusione, appartiene certamente alla stessa classe di avvenimenti.

Per Vilém Flusser il “fascismo” nella società digitale è costituito dal flusso di informazioni che scorre dall’emittente al dispositivo tecnico e quindi al terminale umano che si interfaccia con il fascio di informazioni. L’irraggiamento a “fascio” del flusso di immagini e informazioni corrisponde alla passività e al consenso programmato dei “terminali”, richiama direttamente il fascismo storico e l’azione polverizzante da esso

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condotto nei confronti delle forme di aggregazione sociale. La comunicazione “fascista” è quindi il presupposto per una società autoritaria, individualista e prevaricatrice. In una tale società l’individuo si trova isolato, non incoraggiato allo sviluppo di relazioni interpersonali orizzontali, legato al flusso “verticale” di immagini tecniche, di programmi programmanti. Non deve stupire la terminologia del filosofo praghese. Dal punto di vista della cultura digitale, infatti, l’annullamento della sfera pubblica, e quindi della politica, comporta anche la completa ridefinizione delle categorie del politico, dello stesso concetto di “democrazia”.

Due tipi di società si contrappongono e si intrecciano, la società autoritaria e “fascista”, e quella invece orizzontale, relazionale e reticolare. I due tipi di società sono in stretta relazione con lo sviluppo della cultura digitale e con i caratteri che questa manifesta. Se autoritarismo e partecipazione sono da sempre caratteri sociali che si contrappongono e si intersecano, nella società digitale l’autorità si delinea in maniera molto simile a quel particolare autoritarismo che il fascismo ha introdotto sulla scena politica.

Qualche anno fa due ricercatori messinesi si sono attirati le ire del mondo politico e di quello accademico con uno studio sui rituali militari all’interno della brigata Folgore. Lo studio si intitolava Autoritarismo e costituzione di personalità fasciste nelle forze armate italiane e gli autori erano i sociologi Charlie Barnao e Pietro Saitta che articolano la ricerca sulla base del racconto autobiografico sul servizio di leva di uno degli autori. Centinaia di lettere vennero indirizzate al rettore dell’ateneo messinese chiedendo la “testa” dei ricercatori. Il Giornale pubblicava nella circostanza un articolo dal titolo L’Università di Messina infanga la Folgore: Gli ex parà insorgono (7 dicembre 2012).

Le critiche si concentravano sugli aspetti secondari dello studio, che invece documentava in ambito italiano un fenomeno già ben noto in America, vale a dire la militarizzazione della polizia, lo spostamento dei conflitti dal nemico esterno al nemico interno e la fine di una netta distinzione tra lo status della guerra e quello della pace (Messner e Rosenfeld 2001). I rituali dei reparti di paracadutisti erano analizzati a fondo, in modo da comprendere come determinati comportamenti potessero essere resi accettabili e quale fosse il tipo di personalità che si delineava dietro tali azioni. Gli autori concludevano che il percorso simbolico strutturato all’interno del corpo militare tendeva a riprodurre una personalità che corrispondeva al Tipo F (fascista) indicato da Adorno e dai suoi collaboratori ne La personalità autoritaria (1950). I ricercatori siciliani sintetizzavano i caratteri del Tipo F nei punti seguenti:

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Le caratteristiche della personalità descritte nella Scala del fascismo (F) sono: a) il rispetto per le

convenzioni; b) la sottomissione all’ordine vigente; c) la mancanza di introspezione; d) la superstizione; e) le

credenze stereotipate; f) l’ammirazione per il potere e la durezza; g) l’emersione di tendenze ciniche e

distruttive; h) un eccessivo interesse ed una eccessiva attenzione verso la sessualità (Saitta e Barnao

2012).

Lo studio ricordava anche come la professionalizzazione dell’esercito e i canali preferenziali che da questo conducono all’arruolamento nei corpi di polizia indicasse come una tale personalità si indirizzasse sempre più verso il nemico interno, verso il dissenso sociale, piuttosto che verso quello esterno. Mentre scriviamo, la procura militare ha comunicato di stare indagando sull’esposizione di bandiere neofasciste all’interno di una caserma dei carabinieri di Firenze. Nello stesso giorno Mattia Feltri, editorialista de La Stampa, pubblica un articolo dal titolo Allarmi siam fascisti, in cui si denuncia “il nostro esercizio giornaliero di inconsapevole e intimo fascismo”. Va dato atto ai due studiosi di aver segnalato per tempo un fenomeno oggi dilagante.

La data del 2048 viene generalmente indicata come quella in cui gli eserciti saranno completamente automatizzati e sparirà il “fattore umano” dalla guerra. Gli ordini di attacco viaggeranno attraverso una rete di sistemi di intelligenza artificiale, di satelliti, di terminali di telecomunicazione, di velivoli senza pilota e di robot combattenti, il tutto indipendente dal controllo umano. Ma già prima di quella data l’innovazione porterà al continuo ammodernamento degli arsenali militari. Nuove tecnologie come i cannoni a rotaia magnetica permetteranno di sparare colpi ipersonici, capaci di viaggiare a Mach 7 e di perforare, a 160 km. di distanza, sei lastre d’acciaio di 12 mm. di spessore. La sorveglianza del campo di battaglia sarà sempre più affidata ai mini droni black hornet, che pesano solo pochi grammi. Naturalmente le vecchie armi non verranno buttate via, ma riciclate nei conflitti che sempre più spesso “capiteranno” nelle zone calde del pianeta. Il sito guerrenelmondo.it riporta (4 dicembre 2017) che ci sono guerre, ribellioni o scontri armati in 29 Stati africani, in Asia in 16 Stati, in Europa orientale in 9 Stati (dall’Ucraina alla Cecenia); in Medio oriente in 7 Stati e nelle Americhe in 6 stati. Sembra inutile quindi chiedersi se ci sarà un nuova guerra: le guerre ci sono già, resta da chiedersi solo quando coinvolgeranno anche il territorio che occupiamo noi.

Buona parte dei videogiochi sono di guerra e di combattimento, in tutte le diverse forme immaginabili. Con l’avvento della rete, il fenomeno si è ulteriormente ampliato. Mentre

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all’inizio dell’era del videogaming si combatteva con il computer, adesso ci si scontra contro immagini tecniche che rappresentano nostri simili. Nel corso degli anni si è abbondantemente dibattuto sulle conseguenze psicologiche della violenza nei videogiochi. Meno si è riflettuto invece sulla sociologia dei videogiochi di guerra, così come sulla sociologia della guerra in genere.

Abbiamo già detto come a partire da von Clausewitz sia maturata una concezione della guerra come pratica della violenza illimitata, una prospettiva che ha trasformato radicalmente le antiche pratiche rituali. Proprio per questo scollamento la disciplina militare assume un significato simbolico suscettibile di essere trasposto anche in altri ambiti. In questo modo ha potuto costituire un modello educativo cui improntare, attraverso la scuola dell’obbligo, l’intera società. Il codice cavalleresco-militare all’epoca rappresentava un esempio di integrazione e solidarietà fino all’epoca più recente, si pensi alla diffusione dei boy-scout (creati nel 1907 dal tenente generale inglese Robert Baden-Powell, al ritorno dalla guerra boera).

In mancanza di una pratica rituale della guerra, il codice militare si è rapidamente adattato alle nuove circostanze. Ciò avviene soprattutto quando un rituale assume una dimensione “speculativa” e perde una sua reale operatività. il codice militare moderno scivola sempre più verso la formazione di un sottoposto perfetto: arrendevole verso i superiori e violento verso gli inferiori, servizievole, ammiratore della violenza, non riflessivo. Con il fascismo, abbiamo visto, si sono cominciati a delineare i contorni di una “personalità autoritaria”, che meglio si presta a esprimere i caratteri delle moderne forme di dominio. Nel giro di meno di un secolo il codice fascista si è sostituito progressivamente al vecchio codice militare, diventando un linguaggio simbolico diffuso. Se il codice cavalleresco ha continuato ad avere fortuna in generi “artistici” come la letteratura e la cinematografia, il codice fascista si è perfettamente adattato alla cultura digitale dei videogiochi. D’altra parte il carattere autoritario dei media, a partire dalla radio, ha svolto un ruolo importante nell’affermazione delle ideologie totalitarie già all’inizio del XX secolo..

Nel 2048, se le “profezie” cabalistiche troveranno riscontro, si assisterà alla completa digitalizzazione del codice simbolico fascista: da una parte la popolazione educata a sottomettersi tramite la violenza, dall’altra una polizia completamente inumana e robotizzata chiamata a far rispettare un ordine pubblico in cui le differenze sociali ed economiche saranno veramente galattiche.

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Lezione 10 - La personalità autoritaria

In una recente intervista sulla rivista on line Axios, Sean Parker ha rilasciato alcune interessanti dichiarazioni in merito al funzionamento di Facebook, di cui è stato presidente nel 2004, agli albori dell’avventura del colosso dei social.

And that means that we need to sort of give you a little dopamine hit every once in a while, because

someone liked or commented on a photo or a post or whatever, and that's going to get you to contribute

more content, and that's going to get you ... more likes and comments.

It's a social-validation feedback loop ... exactly the kind of thing that a hacker like myself would come up

with, because you're exploiting a vulnerability in human psychology.

The inventors, creators — it's me, it's Mark [Zuckerberg], it's Kevin Systrom on Instagram, it's all of these

people — understood this consciously, and we did it anyway (Axios 8 novembre 2017).

Vi sono due passaggi da sottolineare. In primo luogo la vulnerabilità umana scoperta dal gruppo di creatori dei social. In secondo luogo il fatto che gli stessi creatori sono andati avanti nelle loro attività nonostante la scoperta di quella vulnerabilità, comportandosi come degli hacker nei confronti di falle nei software.

L’affermazione dei social è stata così esplosiva da far pensare che la falla aspettasse solo di essere scoperta, una falla consistente nel “social-validation feedback loop” innescato dai social, un particolare meccanismo di validazione sociale legato al network digitale. Un meccanismo sorprendente, per molti versi. Tuttavia, vorremmo mostrare come la comprensione di questa sorprendente “falla” può fondarsi proprio su di un’analisi che parte dal secondo fatto sociale indicato da Parker, che è decisamente meno sorprendente, vale a dire dal fatto che i creatori dei social network sono andati avanti anche dopo aver scoperto l’importante leak nei comportamenti psicologici di massa.

In primo luogo vogliamo attirare l’attenzione proprio sul fatto che non si trovi sorprendente il comportamento degli inventori informatici. Siamo infatti del tutto abituati che gli imprenditori si comportino senza molti riguardi nei confronti dell’ambiente e degli altri esseri umani. Quando lo fanno, in genere, è perché non possono farne a meno, nel senso che un comportamento diverso rischierebbe di arrecare un danno alla loro azienda. Il comportamento degli inventori di Facebook rientra insomma nello schema classico del capitalismo moderno. Ed è forse su questo che ci si deve interrogare.

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Ammettiamo come ipotesi di partenza che le intenzioni dei programmatori in qualche modo influenzino la programmazione, che i loro modi e le loro motivazioni teleologiche si ritrovino anche nei modi e nelle finalità dei programmi da loro creati. Per dirla con le parole di uno dei padri dell’informatica contemporanea, Alan Kay, che il programma sia la “simulazione” dei modi del programmatore (Manovich 2013). Nel caso specifico, considerato anche il successo commerciale delle aziende in questione, possiamo quindi considerare la possibilità di reperire nello “spirito” dei programmi qualcosa dello “spirito” dei capitalisti che ne sono gli inventori.

Dobbiamo a Gianfranco Poggi un volume fondamentale per aiutarci nella comprensione di una delle opere più famose, ma anche più controverse dell’intera storia della sociologia: L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo. Nel suo Calvinismo e Spirito del Capitalismo, Poggi affronta la lettura non solo dell’ Etica di Max Weber, ma anche di tutte le parti dell’opera del sociologo tedesco che possono essere utili a una migliore comprensione di uno dei capisaldi della sociologia.

Mutuandola da Sombart, Weber adotta la distinzione tra “attività acquisitiva” (Erwerb), vale a dire quella dell’impresa commerciale che svolge un’attività tesa al profitto e all’aumento del capitale, e la “gestione domestica” (Haushalten) che ha come scopo la soddisfazione dei bisogni delle persone e l’eventuale aumento del patrimonio.

Il capitalismo consiste nello sviluppo delle imprese e nel loro assumere un aspetto preponderante nell’ordine sociale. Le imprese fanno costantemente un bilancio monetario delle proprie attività, adottando una strategia basata sul “calcolo del capitale”. Corollario di questa premessa è la realizzazione di un “libero mercato” nel quale l’azienda possa operare in base al puro calcolo del capitale. Tra tutte le forme di capitalismo, quello moderno ha adottato la massima “razionalità formale” della condotta economica, fondando l’impresa sul calcolo più preciso possibile dei presupposti e delle conseguenze di tale condotta. A questo punto già si scorge una prima corrispondenza tra capitalismo e programmazione digitale, poiché l’informatica estremizza gli stessi presupposti dell’azienda, il calcolo, attraverso l’automatizzazione dei processi computazionali. La società digitale non è che l’estremizzazione e la globalizzazione dell’ordine capitalistico.

Come i processi informatici, anche quelli capitalistici costituiscono un “sistema” dotato di “una dinamica propria che automaticamente ne controlla il funzionamento” (Poggi 1984, 57). Questo sistema è fondato su di un elevato grado di impersonalità, che “contrasta nettamente con ogni forma spontanea di rapporto umano” (Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, in Poggi 1984, 45). Così tutte le strategie aziendali, dalla selezione e

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formazione della forza lavoro, alla produzione e commercializzazione dei prodotti, sono dirette da processi sempre più automatici e impersonali.

In tal senso si assiste alla convergenza tra le intuizioni di Weber e quelle di Flusser, per il quale la sorgente delle informazioni del sistema “fascista“ della comunicazione digitale potrebbe non essere più umana, nel senso che la dimensione automatica della tecnologia implica la creazione di un sistema in cui l’apporto umano si limita sempre più al semplice funzionamento degli apparati tecnici: il mondo digitale è un mondo di “funzionari”. Anche gli scritti di Lev Manovich, uno dei maggiori studiosi dei media tecnologici, vanno in tale direzione a cominciare dal titolo di uno dei suoi libri più recenti: Software takes control.

Tuttavia, vi era anche qualcos’altro, e in questo costituisce la vera originalità dell’apporto di Weber. Il grande sociologo tedesco si rese conto, infatti, che le attività capitalistiche, pur improntate al calcolo razionale, erano comunque “orientate, sorrette, sospinte, anche da una visione morale, un codice etico, una concezione del significato dell’esistenza e dell’agire, uno “spirito” (ivi, 61). Per Weber si trattava di comprendere da che cosa dipendesse un tale orientamento. La risposta, come è noto, sarebbe stata trovata in una particolare elaborazione della cosmologia calvinista, quale si ritrovava già in Benjamin Franklin (1706-1790). Usiamo il termine cosmologia perché si tratta propriamente di una visione del mondo, piuttosto che di un discorso sulla Divinità, poiché già all’ìepoca di Franklin il capitalismo aveva assunto un aspetto secolare. Riportiamo alcune frasi famose presenti nell’Autobiografia di Franklin:

“Considera che il tempo è denaro”.

”Considera che il credito è denaro”.

”Considera che il denaro ha una natura feconda e fruttuosa”.

”Chi sopprime una somma di cinque scellini, uccide tutto quello che si sarebbe potuto produrre con essa:

intere colonne di lire sterline”.

Il passaggio dalle problematiche religiose a una morale mondana avviene quasi senza soluzione di continuità. Per il Calvinista la trascendenza divina è inarrivabile e assoluta. Questo mondo, l’intero creato, fanno parte di una realtà a se stante, una “sostanza separata” finita, corrotta, peccaminosa. All’interno di questo mondo ogni individuo ha un destino predefinito, assegnatogli fin dalla nascita ed immutabile. Lungi dall’infondere rassegnazione, questa impostazione cosmologica comporta una preoccupazione costante e profonda ansia per il proprio destino, e quindi un “bisogno psicologico”, un’ansia di rassicurazione circa la propria collocazione, un intenso bisogno di “prove” sulla propria

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redenzione sociale. Tali prove vengono continuamente e ossessivamente cercate nel mondo. Ad ogni conferma si acquisisce un quantum di certezza circa la propria condizione. Alla salvezza o dannazione dell’anima si sostituiscono progressivamente il successo o il fallimento nel mondo.

Torniamo per un attimo alle debolezze evidenziate dai creatori delle reti social. Se gli psicologi certamente potrebbero intraprendere molte strade per spiegare la dipendenza che likes e commenti innescano negli utilizzatori attuali, dal punto di vista sociologico dobbiamo tenere nella debita considerazione le intuizioni di Weber. La generalizzazione e globalizzazione della cultura capitalistica ha innescato una serie di bisogni psicologici e simbolici, una ricerca di nuovi rituali sociali. L’ “ansia assillante, acuta” (ivi, 94), richiede un “esercizio” continuo, una “ascesi mondana”, per utilizzare i termini di Weber, una pratica di rituali sociali sostitutivi di quelli religiosi, che ancora persistono però come una lontana eco. L’ascesa materialista può così considerare di avere una dimensione “spirituale” e persino coltivare una vaga idea di divinità, la cui lontananza e irraggiungibilità può essere aggirata solo attraverso la pratica consumistica e la condivisione di una cultura capitalista.

Anche il comportamento dei creatori dei social, dei moderni capitalisti, parte dalla possibilità di modellare il rapporto tra l’individuo e il mondo sulla stessa base di quella tra Dio e il mondo. Il dogma della predestinazione provoca necessariamente un acuto senso di isolamento. Nessuno può essere trattato realmente con familiarità e solidarietà, tutti possono essere male indirizzati, tutti possono essere colpiti da un destino avverso. Solo il capitalista ha la prova evidente e costante della propria elezione mondana e spirituale: il capitale e il suo aumento. Per il capitalista l’onnipotenza è una qualità che concretamente si manifesta attraverso la sua azione imprenditoriale. Una onnipotenza che si basa sulla verifica di un destino positivo e quindi sulla impossibilità che l’azione capitalista possa sortire effetti autenticamente negativi. Ogni distorsione non può che essere apparente e transitoria. Il mondo è separato da Dio, è un ambito manipolabile, al limite sacrificabile, poiché soltanto l’arena in cui misurare la propria grandezza spirituale.

Un mondo che non possiede significati simbolici e valenze sacre è ipso facto, da un punto di vista

religioso, un mondo aperto alla manipolazione, al controllo obbiettivo (ivi, 101).

Il capitalista considera come parte della sua vocazione “religiosa” lo sforzo continuo di ricercare la massimizzazione del tasso di profitto del proprio capitale. L’innovazione diventa quindi parte di questa stessa “fede”, così come la tensione per ordinare la realtà in

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maniera sempre più dinamica e flessibile. Per il capitalista quindi la ricerca di sicurezza circa il proprio status “spirituale” lo impegna “all’attività stessa dell’ordinare, invece che a mantenere un determinato ordinamento della realtà” (ivi, 104). L’ordine sociale non esiste, poiché la società, così come il mondo, sono solo supporti dell’attività capitalista. Il capitalista è infatti il campione dell’individualismo, una propensione che trova il solo limite nei doveri giuridici che scaturiscono da quelle stessi leggi che garantiscono il libero mercato e la possibilità del capitalista di operare libero di attaccamenti e solidarietà nei confronti di dipendenti, fornitori, clienti, concorrenti.

In questo si coglie la convergenza con la “personalità autoritaria” indicata da Adorno, così come con l’organizzazione ”fascista” della società digitale, definita da Flusser. Il progetto autoritario del capitalismo contemporaneo non ha più bisogno di simboli politici dell’Impero, perché ad essi ha sostituito quelli del tecno-consumismo. Ma la simpatia politica del neoliberismo non è cambiata nel corso degli anni, basti pensare a tutte le giunte militari e ai regimi fascisti che sono stati “stimolati” dall’imperialismo consumistico nei paesi del cosiddetto terzo mondo. Si veda in tal senso il pregevole lavoro della giornalista americana Naomi Klein, Shock Economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri (2007).

Vi è ancora dell’altro. Paggi giustamente mette in relazione all’ Etica protestante, anche il saggio dal titolo “quasi” identico Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, in cui Weber spiega che anche la struttura organizzativa di determinati gruppi è in grado di rafforzare la cosmologia calvinista e i comportamenti ansiosi che essa innesca. La setta, infatti, è un gruppo “esclusivo” che non riconosce nulla al di fuori di essa e in cui gli unici rapporti significativi avvengono al suo interno. Una setta è chiusa all’interno e proselitista all’esterno. Nelle sette i comportamenti dei membri sono soggetti a costante sorveglianza, alla ricerca di “segni” che possano testimoniare della grazia o della perversione, e che possano definire una gerarchia di “successo” spirituale. I rapporti, per quanto cordiali, sono improntati a una diffidenza di fondo, allo stesso distacco che si ritrova tra capitalisti e loro sottoposti.

Di conseguenza, le sette si servono della loro “disciplina” per tener vivo nei membri un intenso e

incessante bisogno di dare prova de se stessi, lo stesso bisogno che, come si è visto, costituisce il fulcro

dinamico dell’ascetismo mondano (ivi, 110).

La particolare struttura delle sette protestanti è divenuta prima il modello di ogni altra setta occidentale, quindi un modello di organizzazione aziendale. Il rapporto tra sette e

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aziende è di antica data, basti qui ricordare la Kellogg’s, fondata nel 1907 da aderenti alla Chiesa avventista del settimo giorno nella stessa città, Battle Creek, in cui la setta ha visto la luce nel 1863.

Una analisi dei comportamenti settari nella cultura aziendale sarebbe certamente molto lunga, ma interessante. Mi limito a menzionare il film The Circle (2017), basato sull’omonimo romanzo di Dave Eggs, che indaga sulla cultura di una ideale azienda informatica (alcuni elementi fanno pensare a Google, altri a Facebook), e mette in rilievo i comportamenti settari che si celano dietro il velo “luminoso” della comunicazione social e le profonde ansie che da essi scaturiscono. Il film mostra come la cultura capitalista, e i suoi rituali sociali, abbiano costruito una vera e propria cosmologia, una visione del mondo funzionale alla passività innescata dalle immagini tecniche dei nuovi e dei vecchi media. Un atteggiamento che spinge a rinunciare o a mistificare le stesse possibilità relazionali della moderna tecnologia.

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Lezione 11 - La rivoluzione del tempo

Abbiamo già ricordato la frase divenuta proverbiale di Franklin Benjamin: “considera che il tempo è denaro”. Il primo significato è che il denaro prestato frutta nel tempo, il secondo è che aumentando la produzione nella stessa unità di tempo aumentano anche i profitti. Ma l’identità tra tempo e denaro suggerisce anche qualcos’altro: quanto più aumenta il ritmo del denaro, della produzione di ricchezza, tanto più il tempo accelera.

L’accelerazione del tempo nel corso della storia è stata notata già in passato. Alla fine del Medioevo vi doveva essere già la consapevolezza che qualcosa fosse cambiato nello scorrere del tempo. Shakespeare, infatti, faceva dire ad Amleto:

Il tempo è fuor dai cardini. O maledetto dispetto della sorte che io sia nato per rimetterlo in

sesto! (atto I, scena V).

In epoca moderna la percezione del collasso temporale si è generalizzata. Non si tratta solo di un effetto dell’età, che può comportare un differente percezione del tempo tra più giovani e anziani, laddove questi ultimi percepiscono maggiormente lo scorrere più veloce del tempo (Wittmann e Lenhoff 2005). Si tratta di una percezione che investe tutto l’ambito sociale. Dall’inizio della modernità ad oggi si può rintracciare una serie ininterrotta di testimonianze autorevoli circa l’accelerazione temporale. Ma anche l’uomo comune può fare esperienza di modifiche nella struttura del tempo, passando per esempio da luoghi del tempo accelerato, come le metropoli, a luoghi di un tempo più lento, come avviene ancora in alcune parti del mondo. Il tempo, insomma, dimostra evidentemente di non essere una grandezza definita una volta per tutte, appare in una dimensione qualitativa oltre che quantitativa.

Non è una cosa nuova. Già i greci indicavano con due termini distinti il tempo: chronos (χρονος), era il tempo nel suo aspetto cronologico, appunto, di misura e determinazione delle sequenze spazio-temporali, kairos (καιρος) invece, era il tempo qualitativo, speciale, il tempo simbolico. In italiano cairologico indica piuttosto il “momento opportuno”. In origine il tempo aveva in sé tutti gli aspetti, qualitativi e quantitativi. Nel mito si racconta che Crono teneva imprigionati i suoi figli, perché sapeva che lo avrebbero soppiantato e non dava quindi corso agli aspetti distruttivi del tempo. A quell’epoca l’umanità era nell’età dell’oro, e

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i nostri antenati vivevano senza dolore, senza fatica, senza temere la morte. Un Paradiso terrestre.

D’oro la prima stirpe degli uomini nati a morire

fecero dunque i Numi d’Olimpo che vivono eterni.

Vissero sotto Crono, che era sovrano del cielo:

vivean di Numi al pari, con l’animo senza cordoglio,

senza fatica, senza dolor; né su loro incombeva

la sconsolata vecchiaia; ma forti di piedi e di mani,

scevri di tutti i mali, passavano il tempo in conviti,

morian come irretiti dal sonno.

In seguito, Zeus, il figlio di Crono, prese il sopravvento, vennero le età dell’argento, del bronzo e da allora gli uomini conobbero le sofferenze, l’odio, la guerra. Zeus relegò suo padre Crono ai confini del mondo, nell’isola dei Beati, di cui divenne il sovrano e dove le anime elette potevano ancora godere dei frutti paradisiaci. Il tempo aveva preso a correre inesorabilmente e sempre più velocemente. Per sottrarsi allo scorrere del tempo gli uomini presero a venerare Kairos, e a ricercare gli eventi cairologici, magici, miracolosi, che si sottraggono alla corrosione del tempo e sono come un freno al suo scorrere sordo e incessante.

La pluralità del tempo suggerita dal mito greco riecheggia anche nelle ricerche delle moderne neuroscienze. Sylvie Droit-Volet, docente di Psicologia sociale a Clermont-Ferrant, in un’intervista a Le Monde (08.11.2012), ha affermato che non esiste un solo tempo, ma vi sono molteplici livelli temporali con i quali l’uomo deve fare i conti e adattarsi di conseguenza.

il n'existe pas un temps unique, homogène, mais plutôt de multiples temps dont on fait l'expérience. Nos

distorsions temporelles sont le reflet direct de la façon dont notre cerveau et notre corps s'adaptent à ces

temps multiples, ces temps de la vie.

Consideriamo almeno tre livelli del tempo. Il tempo del mondo, il tempo soggettivo e il tempo sociale. In realtà, quest’ultimo livello sarebbe suscettibile di ulteriori divisioni, come vedremo pia avanti, poiché ci sono tante forme del tempo quanti ordini simbolici. Per semplicità riferiamoci però solo ai tre livelli anzidetti.

In epoca preistorica il tempo del mondo doveva essere l’unico sistema simbolico percepito e gli uomini dovevano riferirsi completamente ad esso (preferiamo parlare di

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epoca preistorica piuttosto che di popoli primitivi, per la difficoltà di valutare quanto siano “primitivi” i popoli di oggi, soprattutto dopo i contatti con la società moderna). Dal ciclo solare, a quello lunare, dalle stagioni allo zodiaco, ogni aspetto del tempo, così come dello spazio, era simbolicamente significativo. Una tale sensibilità simbolica corrisponde all’età dell’oro indicata da Esiodo. Alcuni aspetti del tempo del mondo sono “incarnati” nella biologia umana. Il ritmo circadiano - circa dies (circa un giorno) temine coniato dal biologo tedesco Franz Halberg negli anni ‘50 - rappresenta per esempio una sorta di orologio interno legato al ciclo solare.

Con lo sviluppo della complessità storica il tempo sociale si differenzia da quello del mondo. Quest’ultimo resta sempre il punto di riferimento e molte attività si mantengono legate al simbolismo naturale del tempo. Tuttavia, il tempo della guerra, per quanto legato a particolari momenti stagionali (i mesi sacri del calendario lunare arabo, per esempio) rappresenta un esempio di tempo tipicamente sociale. Di conseguenza si differenzia al che il tempo soggettivo, il tempio percepito da ciascuno di noi, nella misura in cui deve adattarsi agli altri tempi. L’orologio individuale può scorrere più lentamente o più velocemente degli altri due, dando l’impressione di un’accelerazione del tempo, o di un suo rallentamento. Quando il nostro tempo soggettivo scorre più lento ci sentiamo scavalcati e sorpassati dal tempo, incapaci di tenere il ritmo delle giornate e della società, in eterno ritardo, con quella sensazione che qualcosa sia già passato, non torni più e noi l’abbiamo perso.

Con l’epoca moderna il tempo è del tutto uscito dai suoi cardini, in particolare il tempio sociale che si è frammentato in una molteplicità di tempi differenti, spesso in contrasto tra loro. Secondo il sociologo russo Sorokin ogni scienza ha il suo tempo, il suo ritmo interno, e lo riversa nel tempo sociale (Bergmann 1992). Fino a una certa epoca il tempo del mondo ha rappresentato la possibilità di una base per il sincronizzarsi dei diversi tempi. Ma la società moderna ha elaborato ritmi sempre più veloci e autonomi, da tutto, persino dall’uomo. Il consumismo ha maturato il distacco sempre più netto del tempo sociale da quello naturale, un distacco che diventa completo con il tecnoconsusmismo, con il consumismo dell’epoca virtuale. L’epoca della moda autunno/inverno e primavera/estate sembra ormai lontanissima. Le nuove catene come H&M o Zara presentano nuove collezioni con cadenze ravvicinate, mensili o settimanali. La scansione del tempo della rete ormai non ha più nessuna relazione con tempo dell’uomo e quello delle natura.

Abbiamo tutti scoperto che il tempo è tiranno, suscettibile di assumere forme diverse, di dilatarsi e contrarsi, di sparire e di riapparire, di mostrarsi scontato oppure misterioso. Non

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a caso uno dei best-seller del 2017 è un libro dal titolo affascinate, L’ordine del tempo (Adelphi), scritto da un fisico quantistico, Carlo Rovelli. L’uomo moderno, ancora alle prese con l’elaborazione della morte di Dio, si trova oggi sui fronte al baratro del mistero del tempo, e si rivolge ai suoi scienziati migliori in cerca di una risposta.

Hartmut Rosa è sociologo tedesco che ha pubblicato anche in Italia un saggio su Accelerazione e Alienazione. Suo il tentativo di rifondare una teoria critica sulla base di una valutazione degli effetti del capitalismo sul tempo e sulla creazione di un ambiente alienante. La sua ricerca dei motori dell’accelerazione moderna sembra ricalcare le considerazioni di Weber sul capitalismo protestante. La competizione capitalista, vale a dire la continua ricerca di nuovi margini di profitto e lo slancio economico che non si ferma di fronte a nulla poiché in null’altro crede, tutto questo è uno dei due principali motori dell’accelerazione.

Il secondo motore consiste invece nel carattere eminentemente esperienzale della filosofia vitalistica moderna. La vita viene vista come la possibilità di accumulare il maggior numero di esperienze. L’accumulo di capitale imprese corrisponde insomma a quello esperienziale sul piano umano. Tramite l’accumulo delle esperienze si manifesta la promessa di vita eterna della società consumistica. Vivere la vita in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue possibilità, rappresenta la forma di una moderna teologia, che si accompagna e completa con l’accumulo di capitale. “Le esperienze rimarranno eternamente”: questo sembra essere il credo della società dei consumi e allo stesso tempo il secondo fattore di accelerazione del tempo. L’accelerazione del tempo si manifesta così, sempre secondo Rosa, nelle tre diverse prospettive dell’ambito tecnologico, della vita sociale e di quella individuale.

Tuttavia si può essere ancora più precisi nel definire il meccanismo tramite il quale l’azione dei motori dell’accelerazione si imprime nelle società moderne. Se ci mettiamo dal punto di vista rituale, possiamo facilmente osservare come sia l’ambito simbolico quello su cui si articola il movimento. Parafrasando il Paul Ricoeur di Tempo e Racconto, potremmo affermare che “il tempo diviene tempo umano nella misura in cui viene espresso secondo un modulo simbolico (per Ricouer era piuttosto una narrazione), e che l’azione rituale raggiunge la sua piena significazione quando diventa una condizione dell'esistenza temporale”.

Abbiamo già visto come la competizione capitalista sia alla base del consumismo. E abbiamo anche considerato come il consumismo consiste in primo luogo nella produzione e nel consumo di immagini simboliche, le quali sono prima associate ad oggetti e poi, nel

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tecnoconsumismo, esse stesse diventano gli elementi significativi della società dei consumi, della semiosfera - per usare un termine introdotto dal linguista russo Jurij Lortman - della cultura moderna. Le esperienze del vitalismo, della moderna filosofia di vita, sono essenzialmente esperienze che hanno un contenuto simbolico o almeno un simulacro di esso. Devono in qualche modo essere “significative”, avere quindi un significato che non sia del tutto scontato o banale.

Il combinato disposto dei due motori dell’accelerazione determina il rapido consumo simbolico, il continuo passaggio da una fase di eccitazione consumistica a una di depressione post-consumo. Si determina una forma di vita fatta di continui stop and go, di ripetute azioni rituali le quali perdono il carattere duraturo e diventano effimere come lo sono gli stessi simboli del consumo, destinati a perire ciclicamente e rapidamente. Il simbolo dell’amore, come sempre, permette delle semplici valutazioni empiriche. L’esperienza di un grande amore dura a lungo, spesso impregna tutta la vita di una persona, mentre tanti piccoli amori non riescono ad avere un effetto analogo, tendono a scomparire rapidamente, richiedono di essere rinnovati continuamente. La percezione della velocità non si ha tanto nella verlocità assoluta, quanto nell’accelerazione, nella rapidità con la quale si passa da una bassa velocità, o dalla sua assenza, a una velocità maggiore. La variazione di velocità avvenuta in un derminato intervallo di tempo contrae il tempo stesso.

Il consumismo insomma ha ridestato la magia degli oggetti, ha risvegliato un ordine simbolico che sembrava sopito nella fase anomia agli albori dell’ecopa moderna. Ma i simboli e i rituali che hanno preso il posto di quelli tradizionali sono caduchi, destinati per loro stessa natura a svanire in fretta, a lasciare spazio ad altro. In un mondo ”ordinato” simboli e rituali sono strutturati per mantenere un ordine che rende durature le strutture sociali, per creare relazioni profonde tra le persone, per determinati processi mimetici di trasformazione e di universalizzazione interiore ed esteriore. Il mondo moderno utilizza invece il ritmo simbolico per stravolgere continuamente l’ordine sociale, per creare non solo una shock economy, come quella descritta da Naomi Klein, ma anche una shock society, una società delle continue crisi sociali, una società dell’instabilità.

Al consumismo non interessa altro ordine che quello del consumo, e questo si basa sul disordine sociale, sull’insoddisfazione, sulla capacità di riuscire a indirizzare non solo il consenso, ma anche e soprattutto il dissenso. Nel disordine dei cicli simbolici il tempo si contrae e così aumentano i profitti. Non è un caso che nei periodi di crisi economica e sociale, siano aumentati enormemente il numero di miliardari e parallelamente la quota di

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capitale globale detenuta da pochissimi. Nel 2008 l’1% della popolazione “ricca” del pianeta deteneva il 42,5% del patrimonio globale. Dopo quasi 10 anni di crisi, nel 2017, il patrimonio dell1% è salito al 50,1% della ricchezza globale, per un totale di 140mila miliardi di dollari e più di 8.000 nuovi milionari a partire dal 2007 (Global Wealth Report). Di questo 1% inoltre, i miliardari sono solo 2.473, i quali detengono un patrimonio di 7.700 miliardi di dollari (Wealth-X 2017). I primi 8 miliardari, da soli, posseggono più di 420 miliardi di dollari, la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia 3,6 miliardi di persone: nel biennio 2015/2016 dieci tra le più grandi multinazionali hanno realizzato profitti superiori a quanto raccolto dalle casse da 180 Paesi del pianeta (Oxfam 2017). L’accelerazione delle differenze sociali si è accentuata non solo dalla crisi del 2008, ma più in generale dalla fine dell’epoca “moderna” e con l’inizio del tecnoconsumismo postmoderno. Sempre secondo l’Oxfam tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero della popolazione mondiale è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% della popolazione più ricca è cresciuto di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto.

L’accelerazione delle diseguaglianze economiche e sociali è un’ulteriore riprova della validità delle intuizioni di Weber sull’influenza del capitalismo moderno nella percezione del tempo. Se per il capitalista il “tempo è denaro”, vale a dire se il tempo produce denaro, allora l’accelerazione del tempo innesca un processo circolare di velocizzazione delle transazioni economiche e quindi di aumento del denaro. Il capitalista, colui che possiede denaro e strutture utili a poterlo far fruttare, è l’unico quindi a poter approfittare di tempi di crisi. Le bolle speculative, le crisi economiche, infatti, sono operazioni che favoriscono gli operatori veloci, i capitalisti, a danno di quelli lenti, gli investitori e le persone comuni.

Tornando a Rosa, l’accelerazione sarebbe anche una delle cause dell’alienazione moderna. Per lui l’alienazione si può esprimere semplicemente come il contrario di “sentirsi a casa” ed in effetti si mostra in ogni ambito dell’esistenza come impossibilità di entrare in sintonia con lo spazio, con gli oggetti, con le altre persone, con il nostro agire e persino con noi stessi. L’accelerazione è un disordine simbolico che contrae il tempo e in questo caos si perdono i punti di riferimento che permettono una visione ordinata della vita. L’alienazione ci accompagna nella misura in cui non riusciamo a entrare in sintonia con l’ambiente che ci circonda, nella misura in cui abbiamo fatto entrare il caos del capitalismo avanzato in noi stessi. Un capitalismo che crea caos nel mondo per permettere l’affermazione di un ordine puramente economico, del quale si avvantaggiano solo pochi “eletti”, solo i pochi che possono muoversi alla velocità del capitale. Tutti gli altri

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devono fare i conti con la passività cronica, altra faccia dell’alienazione, cui dovremo dedicare una prossima lezione.

Prima però dobbiamo ricordare che esiste sempre la possibilità di un tempo simbolico non consumistico, un tempo cairologico che ricollega l’uomo al tempo del mondo, e che scavalca gli ostacoli del tempo sociale. Un tempo che qualifica la vita e rende meno preoccupante la morte. La rivoluzione del XXI secolo, se ci sarà, sarà la rivoluzione del tempo.

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Lezione 12 - La magia degli oggetti

In un saggio del 1988, L’identità smarrita, il ruolo degli oggetti nella vita quotidiana, Luisa Leonini metteva in risalto l’importanza degli oggetti nella definizione dell’identità delle persone e la relativa crisi indentitaria sopraggiunta a seguito dell’inflazione degli oggetti di consumo. Se l’uomo si definisce in relazione agli oggetti, in momenti ed epoche in cui il ruolo simbolico degli oggetti viene meno anche i processi identitari ne soffrono. Il lavoro della Leonini è utile anche per comprendere alcune delle problematiche più attuali, quelle che riguardano il tecnoconsumismo, vale a dire i modi del consumismo nell’era digitale.

Abbiamo già detto come la pubblicità moderna scandisca un nuovo universo magico (Lezione 3). Il ruolo magico degli oggetti è stato sottolineato da numerosi autori. Propp, per esempio, per primo ha messo in risalto come le strutture narrative della fiaba di magia abbiano un numero relativamente limitato di personaggi che danno vita alle diverse fasi dell’intreccio narrativo. Tra questi spicca il ruolo dell’ “aiutante”, in grado di fornire al protagonista l’oggetto magico che risulterà risolutivo. L’oggetto è quindi il vero deus ex machina di una delle più antiche forme di racconto a noi pervenute: le fiabe di magia infatti hanno un’origine molto antica che lo stesso Propp, ne Le radici storiche dei racconti di magia, collega a rituali di passaggio risalenti almeno all’età del bronzo (circa 3.300-1.200 a. C.).

Se la creazione dell’oggetto è “fatta ad arte”, essa permette di calare nella materia una parte del grande segreto della creazione. L’artista partecipa dell’arte del Creatore, tanto che in tutte le tradizioni l’origine delle arti è ”divina”. Insieme ad elementi naturali come pietre, alberi, fiumi o montagne, gli oggetti “fatti ad arte” partecipano dello stesso carisma del Creatore o quantomeno di alcuni degli aspetti della Divinità. Negli oggetti vi è quindi un potere più o meno grande, in relazione alla “potenza” che vi è stata impressa all’atto della creazione: le epopee cavalleresche, per esempio, sono gravide di lame leggendarie, di libri fatati e di luoghi miracolosi, per non considerare l’intera epopea del Graal, nella quale viene delineato un intero universo di oggetti simbolici. Il ruolo degli oggetti nelle fiabe di magia esprime le possibilità più prosaiche del loro utilizzo simbolico. La “magia” coglie gli aspetti più reificati del simbolismo degli oggetti e quindi opera una riduzione del loro significato. Non è un caso che secondo molte tradizioni la vicinanza con un oggetto

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magico porti alla follia, come avvenuto per esempio nel personaggio di Gollum de Il signore degli anelli di Tolkien.

Flusser distingue cinque fasi dello sviluppo umano, nelle quali fin dall’inizio si delinea come fondamentale l’utilizzo della mano e la creazione degli oggetti. Vengono in mente le centinaia di impronte di mani presenti nei disegni rupestri. Secondo Flusser, lo stendere le mani verso il mondo può essere definito “azione” e le azioni guidate da una Weltanschaung conducono alla nascita della cultura.

Più in generale si può affermare che le cose, gli oggetti si dividono in quelli creati dalla Divinità e quelli creati dall’uomo. In entrambi i casi, però, gli oggetti sono immagini di azioni creatrici. Anche i cosiddetti “utensili” sono immagini, rappresentazioni di azioni simboliche. Un falcetto, per esempio, non è solo uno strumento di mietitura, esso incarna l’atto del contadino, e allo stesso tempo è un oggetto dotato di potere sovrannaturale, tanto che Crono lo userà per evirare il padre Urano, che teneva segregati i suoi figli. La rivoluzione celeste è rappresentata in terra dalla rivoluzione dell’agricoltura, che ha portato una completa ridefinizione dell’universo simbolico dell’uomo, che prima di allora viveva raccogliendo e cacciando direttamente i frutti e gli animali della natura. Anche nella Bibbia il passaggio da un’epoca all’altra è segnato da fatti sanguinosi, come l’uccisione di Abele, nomade e cacciatore, da parte di Caino, agricoltore, che dopo di allora divenne “costruttore di città”. Quello che oggi viene indicato come potere “magico” degli oggetti, in passato era il riconoscimento della loro operatività simbolica, del potere delle azioni rituali di innescare processi di identificazione e di trasformazione.

In principio, quindi, ogni azione aveva una finalità contemplativa. La costruzione di una freccia serviva alla caccia - che i greci facevano risalire ad Artemide - a sua volta la selvaggina era offerta in olocausto o in parte in sacrificio alla Divinità. Ancora nel Medioevo l’economia materiale e spirituale di intere comunità era messa al serivizio della costruzione di cattedrali le quali costituivano strumenti di elevazione e di contemplazione. Questa tendenza costante verso l’azione simbolica è quella che abbiamo definito la natura rituale dell’uomo.

Il rapporto con gli oggetti muta soprattutto con l’industrializzazione. La potenza creativa della mano si assottiglia, si concentra sulla punta delle dita, sulla pressione dei pulsanti delle macchine e degli apparati tecnici. E l’azione razionalizzata si separa dalla contemplazione, dall’identificazione con i diversi ordini di realtà espressi dal simbolo. Gli oggetti prodotti dall’uomo diventano di due tipi, strumenti e immagini. I primi servono alla manipolazione del mondo ordinario, i secondi a quella del mondo immaginario. La

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concretezza dei primi spinge all’azione mimetica, la visionarietà dei secondi palesa contenuti simbolici altrimenti invisibili. L’inizio dell’epoca moderna è caratterizzato da un’anomia rituale, dalla mancanza di simboli da poter mettere in azione e con i quali potersi identificare.

Il consumismo moderno riscopre il potere magico delle cose, che viene riversato sugli oggetti di consumo. Nelle conclusioni del nostro New Ritual Society abbiamo tracciato il quadro sintetico di come il consumismo abbia liberato i simboli dal vaso di Pandora in cui erano stati rinchiusi dal razionalismo. E come da questo sia nata una nuova forma rituale in grado di dare una risposta ai bisogni primari dell’uomo: quelli simbolici. Di conseguenza, si è arrivati alla creazione di forme specifiche di “misticismo” consumistico, come la nascita dei supermercati e dei centri commerciali, i nuovi “templi” e le nuove “città sante” del mondo moderno.

Tuttavia la reificazione dei simboli operata dal consumo ha comportato una sempre minore attività, una sempre più diradata azione mimetica. Sempre meno spazio è stato dato all’azione dei corpi e l’uomo è divenuto in oggetto tra gli oggetti. La modernità ha rivoluzionato il rapporto tra simboli e corpi. Richard Sennett ha dedicato un intero saggio alla esaltazione della manualità, della capacità di informare oggetti e immagini, della forza che in essi si trasmette e del potere realizzativo e identitario che risiede nell’azione manuale (Sennett 2008). Con l’epoca moderna le mani vengono meno e gli strumenti si rendono autonomi, diventano macchine automatiche. Lo stesso avviene per le immagini, che vengono prodotte da particolari dispositivi tecnici, primo tra tutti la macchina fotografica.

Luisa Leonini ha fatto risalire la sua analisi alle intuizioni di Arnold Gehlen, che ne L’uomo nell’era della tecnica aveva individuato nei comportamenti del consumatore moderno “una passività di nuovo genere”. Una tale passività è innescata dalla “perdita dell’esperienza”, da un’esistenza in cui non si riesce più a immaginare il senso delle proprie azioni, se ancora ne hanno uno, e così ci si ritrova indirizzati verso mondi immaginari, paralleli. Nel lavoro l’uomo è un funzionario, un addetto alla pressione di sequenze di pulsanti, un ingranaggio di un processo produttivo la cui natura concreta ormai gli sfugge quasi del tutto.

Se uno ha l’impressione di essere soltanto una rotella facilmente permutabile e un poco consumata del

grande meccanismo; se è convinto, e del resto con ragione, che questo sia in grado di funzionare anche

senza di lui, e se non vede le conseguenze del suo agire ovvero non le vede che cifrate in un linguaggio

numerico e geometrico o addirittura unicamente sotto forma del conteggio della sua paga, allora il suo senso

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di responsabilità dovrà diminuire nella stessa proporzione con cui aumenta il suo senso di abbandono

(Gehlen 1957, p. 74).

Sempre secondo Gehlen, la mancanza di responsibilità e di azione nell’universo simbolico che ci circonda ha una serie di importanti conseguenze anche dal punto di vista della conoscenza. Il sapere, infatti, è comunque legato a un agire orientato, a una prospettiva simbolica che ci trova partecipi e coinvolti. Noi sappiamo nella misura in cui partecipiamo, esperiamo concretamente azioni responsabili, controllate e consapevoli della propria meta. Quando viene a mancare una tale prospettiva anche il sapere diventa un simulacro della conoscenza.

Se passiamo in rassegna le formule meschine con le quali gli uomini cercano di rendersi conto delle

grandiose, complesse reazioni a catena della storia, che oggi si svolgono passando al di sopra delle loro

teste, queste formule ci fanno in realtà l’effetto di rituali stereotipi, privati però dell’invitto ottimisto dell’antica

magia (ivi, p. 76).

Nell’era digitale la perdita di responsabilità si mostra ancora più chiaramente. L’universo delle immagini tecniche è un mondo superficiale, nel doppio senso che è fatto di superfici su cui appaiono immagini e che tali superfici comportano un simbolismo “superificiale”, destinato sempre meno a innescare reazioni corporee. L’antica “magia” viene meno e per questo è sempre più necessario forme di ”reicanto”, come le moderne tecniche di marketing esperienziale, basato sul coinvolgimento di tutti i sensi. La mixed reality, l’utilizzo di visori in grado di fondere nella vista immagini digitali e sfondi reali, rappresenta così uno dei modi di realizzare un simulacro di azione sociale, la parvenza di un’azione che superi l’orizzonte strettamente individuale. Le azioni di consumo, anche quando assumono la struttura degli antichi riti di passaggio, sono rituali individuali e individualizzanti. Il tempo libero, in tal senso, non è più solo “svago” (leisure), ma diventa un modello della vita stessa, in cui il gioco rappresenta un modo per ridare senso alle azioni e la gamification della vita, quindi, non è che l’espediente del tecnoconsumo per fondare nuove azioni simboliche, nuove pratiche rituali.

Nelle sue ultime opere, Victor Turner aveva coniato il termine liminoide, per indicare l’ambito in cui avvengono azioni para-rituali, vale a dire che si fondano sull’imitazione della liminalità dei riti di passaggio senza averne la completezza e soprattutto l’azione di “presenza” che questi ultimi comportano. Il flusso dell’azione mimetica, per essere coinvolgente, deve innescare azioni relative, deve rendere le persone padrone delle

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proprie azioni, più consapevoli di sè stessi e dell’ambiente in cui agiscono. I guru della comunicazione pubblicitaria, gli strateghi del marketing, hanno sempre cercato di ricreare un “flusso” coinvolgente di azioni di consumo, di far passare le loro narrazioni tecniche dal luminoide al luminale.

E così l’azione rituale del consumismo si è potuta dispiegare nella misura in cui la mitologia del consumo ha saputo innescare azioni simboliche concrete: pratiche di acquisto, divismo dello spettacolo, viaggi programmati, economia del “sacrificio” debitorio, ecc. Oggi davanti al consumismo del mondo digitale si presenta un nuovo ostacolo da superare. Il tecnoconsumo non vende prodotti “fisici”, se non in minima parte, ma permette soprattutto accessi a servizi ed esperienze virtuali. Queste esperienze inducono un atteggiamento ancora piu passivo di quello che il consumismo classico poteva ispirare. E con la passività si perde la magia.

Luisa Leonini aveva sottolineato come non pochi cercassero di sottrarsi al consumismo ripiegando in attività come lo sport e l’hobby. Soprattutto quest’ultimo, nonostante i suoi chiari legami con le mode di consumo, in molti casi permetteva il ritorno a una manualità d’altri tempi. In tal modo permaneva la possibilità di una emancipazione, di un ritorno all’artigianato, all’arte, alle pratiche performative.

Oggi, la sfida lanciata dal consumismo allo “stare al mondo“, invece, è piuttosto quella di colonizzare l’immaginario con una nuova magia, quella dei tecnoggetti, e di stimolare le pratiche di una sorta di stregoneria digitale. Pigiando pulsanti possiamo cambiare continuamente il nostro mondo: la programmazione cinematografica e televisiva sono già da tempo orientate in tal senso, la loro convergenza con la rete sta facendo il resto.

Occorrerebbe piuttosto sviluppare un controllo cosciente sui simboli che ci circondano e che nutrono il nostro immaginario. L’ “ignoranza” simbolica dell’uomo moderno è in questo senso straordinaria, così come la sua “eterodirezione”. Al contrario, una riconsiderazione dell’universo simbolico e delle relative azioni rituali potrebbe avere conseguenze notevoli e attualmente inimmaginabili. Se si tornasse a fantasticare a occhi aperti, a lasciar correre l’immaginazione dietro le storie e i simboli che popolano i pensieri, allora potrebbe riprendere vigore anche la forza creativa dell’uomo. Per questo i rituali di creazione artistica godono da sempre un posto privilegiato all’interno delle società umane.

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Lezione 13 - Arte nomade

Le difficoltà di comprensione del ruolo moderno dell’arte dipendono dalla complessità e diversità dei rapporti che si instaurano in relazione alle immagini tecniche.

Come ho già ricordato a proposito di Walter Benjamin, le immagini tradizionali sono il prodotto degli artisti e degli artigiani. Seguendo il processo di creazione tradizionale l’artista osserva il mondo, rielabora interiormente le sue forme simboliche, quindi proietta le immagini sulle superfici rappresentative. Le immagini sono specchio dell’interiorità dell’artista. Lo spettatore osservandole si specchia a sua volta e coglie se quelle stesse immagini riflesse sono corrispondenti alla sua stessa interiorità. L’osservazione mimetica porta a un arricchimento, a una contemplazione, a una trasformazione. Non vi sono solo le immagini visive, ma anche una lunga serie di possibilità performative, di commistioni tra musica, pittura, teatro.

Le immagini tecniche sono invece prodotte da dispositivi tecnici. Il programma del dispositivo determina la sequenza di azioni che portano a realizzare le immagini tecniche. La corrispondenza tra queste e le forme simboliche del mondo è di fatto puramente casuale. Dispositivo e programma, hardware e software, sono frutto di un procedimento lineare, di un’astrazione concettuale, quindi l’immagine ha un carattere concettuale. Il processo informatico è determinato dalla volontà di realizzare informazioni che possano in qualche modo “arricchire” l’esperienza umana. Ma è un arricchimento concettualmente programmato. Non è più il mondo il campo dell’esperienza umana, simbolicamente arricchito e compreso dall’arte, ma è il mondo a fornire significato e forma simbolica alle immagini tecniche, che sono esse stesse il fine dell’esperienza umana. Le immagini tecniche sono bidimensionali o tridimensionali a seconda del tipo di schermo su cui vengono proiettate. Ma sono sempre proiezioni.

Il fotografo, o più in generale il creatore di immagini tecniche, deve indirizzare il dispositivo in modo che le immagini che esso produce siano in qualche modo ”significative”. Lo può fare solo nei limiti imposti dal dispositivo e dal programma. A meno che non cerchi di tradire e di superare questi limiti programmati, tornando a rivolgere lo sguardo verso l’interiorità dell’uomo e la realtà essenziale del mondo. Le immagini tecniche e possono essere quindi di due tipi nettamente distinti.

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La gran parte sono immagini che rimandano a se stesse o agli oggetti che rappresentano. Questo è anche il motivo per cui il consumismo è in piena sintonia con le immagini tecniche e il loro matrimonio genera quello che può essere definito tecno-consumismo. Si tratta di un universo rappresentativo utilizzato per programmare mimeticamente l’uomo al consumo di immagini. Anche molti artisti utilizzano le immagini tecniche in modo da non tradire i programmi su cui esse si basano e di fornire immagini che sono a loro volta oggetti fini a se stessi. Le immagini tecniche hanno un significato “superficiale”, poiché sono pure superfici le cui due dimensioni solo in un secondo momento entrano in rapporto con lo spazio tempo della realtà esterna. Al punto che le immagini tecniche tendono a superare anche il limite di doversi riferire a una tale realtà, fondando un proprio spazio/tempo, una realtà totalmente virtuale. La realtà aumentata, in questo senso, rappresenta la necessità di una fase di passaggio in cui il rapporto con la realtà esterna non venga del tutto e improvvisamente superato.

Una ristretta parte delle immagini tecniche può essere considerata invece come il prodotto di artisti che cercano di superare i limiti dei programmi tecnici, di cortocircuitare il loro svolgimento concettuale e di utilizzare i dispostivi come strumenti tradizionali. La differenza tra fotografia analogica e digitale non risiede tanto nella intima natura delle immagini tecniche, quanto nella possibilità dell’artista che usa un dispositivo analogico di intervenire più direttamente nella manipolazione del programma di realizzazione dell’immagine. Una parte del pubblico d’arte è interessata a vedere come si possono mettere in crisi le immagini tecniche e questo spiega la fortuna che le nuove tecnologie hanno avuto negli ultimi decenni in ambito artistico. In relazione alle immagini tecniche si svolge in effetti buona parte del dibattito sulla possibile rivoluzione dei nostri tempi.

L’abbondanza delle immagini tecniche e la ridondanza del tecno-consumismo generano un diffuso senso di alienazione. L’alienazione, dal nostro punto di vista, emerge dalla mancanza di sintonia con determinati sistemi simbolici e insiemi di pratiche rituali. Quando il diluvio tecnico lascia un po’ di spazio le persone cercano di riflettere, o quanto meno di trovare degli ambiti di gratificazione simbolica diversi da quelli prospettati dalla cultura “fascista” e autoritaria. L’arte è in tal senso uno dei principali ambiti in cui le persone cercano rifugio. Frazzetto, come vedremo anche più avanti, intravvede un stato dell’arte contemporanea in cui l’artista non è più delegato dal sistema alla produzione di oggetti artistici, ma rappresenta un ruolo “diffuso” che tutti in principio possono incarnare. Questa estetica diffusa si può praticare in proprio, così come in presenza di estranei. Ma è soprattutto l’ambito domestico ad essere investito da una nuova stagione dell’estetica,

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della creatività artistica. La messa in crisi dell’artista professionista, o quanto meno la sua permanenza solo all’interno dell’ambito istituzionalizzato del Sistema dell’arte, apre a una serie di considerazioni sul nomadismo dell’arte.

La distinzione tra nomadi e sedentari rimanda a quella fatta da un protosociologo arabo Ibn Khaldun, di cui ho scritto in passato e che sintetizzo così. La storia degli imperi (in arabo dinastie) si succede secondo le ondate periodiche di nomadi che apportano nuova linfa alle nazioni sedentarie che si indeboliscono sempre di più. Allo stesso tempo i nomadi si sentono portatori di uno spirito libero e più profondo dei loro fratelli che vivono nelle case e che hanno dimenticato il rapporto col cielo. La distinzione serve a inquadrare il rapporto tra artisti (e comunque operatori dell’arte) e sistema. I primi stanno dalla parte del nomadismo, il sistema da quello della sedentarizzazione. 

Frazzetto nel suo ultimo libro (Artista sovrano, 2017) fa una distinzione per certi versi analoga. L’artista si muove tra festa (nel senso di rituale libertà dell’arte) e mobilitazione (nel senso che aveva nei sistemi politici totalitari (la mobilitazione fascista o sovietica per esempio). In altre parole l’arte deve avere un contenuto anti-sistema (nomade) oppure essere una manifestazione creativa controllata dal sistema (mobilitazione).

Appuntamenti periodici come la Biennale di venezia, la quadriennale di Kassel, la fiera di Basilea, ecc. sono punti di incontro/scontro tra le due prospettive. Per questo si è definita in epoca contemporanea la figura del curatore, come figura di mediazione, il cui compito è quello di scendere nelle pieghe dell’antisistema per portare alla “luce” opere e artisti e immetterli nel sistema. Il rapporto tra nomadi e sedentari non è mai stabile. Così avviene che curatori e artisti che stanno dalla parte della festa, scivolano verso la mobilitazione. Il contrario avviene più di rado, forse.

A proposito di strategie artistiche “non convenzionali”, va ricordato il lavoro del fotografo Andreas Müller-Pohle che ha svolto un ruolo importante per la conoscenza e la diffusione delle idee di Flusser, avendo pubblicato con la sua casa editrice la maggior parte delle prime edizioni delle opere di quest’ultimo. Nell’articolo The Photographic Dimension (1993), Müller-Pohle traccia il quadro delle differenti prospettive della fotografia come arte contemporanea. Sono prospettive nelle quali svolge un ruolo determinante l’interpretazione performativa dell’artista, poiché tramite essa si innesca un mimetismo creativo che sottrae lo spettatore, almeno per poco, all’azione comunicativa del consumismo, e rallenta il “diluvio” delle immagini tecniche. Egli suggerisce di sviluppare cinque modi di una vera e propria “messa in scena” della fotografia per poi calarli all’interno di un sistema di coordinate i cui assi sono rappresentati dall’estetica, dalla

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politica e dalla tecnologia. Secondo Müller-Pohle i differenti modi di messa in scena creativa sono i seguenti. Dal nostro punto di vista essi manifestano un carattere performativo e rituale.

A) Messa in scena del soggetto, vale a dire la rappresentazione di sé del fotografo. L’apparato fotografico viene usato quindi come uno specchio.

B) Messa in scena dell’oggetto. In questo caso l’artista imprime la propria azione creativa sugli oggetti, non li trova come il semplice utilizzatore, ma li crea.

C) Messa in scena dell’apparato, vale a dire la messa in discussione delle funzioni programmate degli apparecchi fotografici. L’artista in questo caso sonda le possibilità disfunzionali del mezzo tecnico.

D) Messa in scena della luce. Se la luce è fondamentale per la fotografia, l’artista può produrre eventi luminosi autonomi.

E) Messa in scena della stessa immagine. L’azione creativa in tal senso consiste nell’appropriarsi dell’immagine e di manipolarla e collettivizzarla, transcodificandola o trasportandola in un differente e inusitato contesto. L’immagine in tal senso diventa installazione spaziale, creando un nuovo contesto spaziale, un nuovo canale di comunicazione e distribuzione.

Se la messa in scena ha un carattere rituale, gli assi cartesiani rappresentano piuttosto le linee guida lungo le quali si dispiegano le narrazioni relative all’azione performativa dell’arte. Sono gli assi della coscienza dell’artista e della responsabilità che indirizza la sua azione.

1) L’asse dell’estetica svolge la funzione di delineare l’alto e il basso dell’azione artistica. La consapevolezza da avere in tal caso è quella che le immagini tecniche sono state le maggiori responsabili della trivializzazione dell’arte, della sua perdita dell’aura. L’artista può quindi mettere in atto ”strategie di riciclo”, di recupero di ciò che è andato perduto o di raddrizzamento dello svilimento dell’arte. L’estetizzazione del trash o del kitsch fanno parte di queste strategie e Müller-Pohle ricorda i nomi di artisti come Sigmar Polke e Johannes Brus, oppure Fritz Vogel, Joachim Schmid, Keith Arnatt e se stesso.

2) L’asse della politica, ribalta i punti di riferimento, da alto e basso diventano destra e sinistra, intese qui soprattutto nel senso di “fascismo” e democrazia, totalitarismo e partecipazione. Se per Flusser nella società digitale la politica era destinata a scomparire o al più a essere ridotta a simulacro, proprio il fatto di prenderla ancora in considerazione rappresenta un modo di reazione e di “riciclo” tipico dell’arte. L’azione politica non è autoriflessiva ma proiettiva, si completa nel rapporto con il pubblico e nello spazio

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pubblico. Gli artisti citati in riferimento a questo asse sono Eugene Smith, Alfredo jar, Hans Haacke, Victor Burgin, Barbara Kruger e alcuni collettivi.

3) L’asse della tecnologia. La consapevolezza relativa a quest’asse comporta la presa di coscienza dello sprofondamento delle immagini in un “vortice digitale”. Le categorie tradizionali vengono perse nello spazio digitale si rischia di rimanere totalmente passivi nei confronti degli apparati tecnici. All’inizio degli anni Novanta erano pochi gli artisti che si avventuravano in questi nuovi territori. Uno di questi è Nancy Burson che, assieme allo scienziato David Kramlich, ha creato la The Human Race Machine (HRM), un dispositivo con il quale il pubblico può trasformare la propria immagine secondo i caratteri delle differenti etnie, ma che è stato anche impiegato dall’FBI per il ritrovamento di persone scomparse. A Jeffrey Shaw si deve invece la creazione di uno dei primi esperimenti di Museo Viirtuale.

Müller-Pohle invitava a continuare a cercare nuovi modi di rappresentazione artistica alla periferia del sistema, in quegli ambiti in cui l’arte, la cultura, la spiritualità stessa, hanno ancora una dimensione nomadica, una dimensione con innumerevoli interfacce, una dimensione autenticamente simbolica. L’impressione, tuttavia, è quella che il nomadismo debba essere condotto fino in fondo, vale a dire partendo dal pieno distacco da una cultura “sedentaria”, che oggi si identifica completamente col consumismo. Artisti e pubblico dovranno considerare che senza una rottura decisa con il sedentarismo non vi sono molti spazi per una attività simbolicamente creativa. Lo stesso sistema dell’arte sembra essere consapevole di questo, più di quanto lo siamo molti dei suoi stessi operatori. Al punto che il mondo dell’arte contemporanea, con i suoi mille appuntamenti in giro per il mondo, sembra sempre più imitare le tribù nomadiche.

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Lezione 14 - Socrate e Montalbano

Ogni significativo cambiamento sociale è anticipato da una “rivoluzione” nell’ordine simbolico. Questa può essere veloce, e allora il cambiamento potrà essere violento ed effimero, oppure lenta e progressiva, capace di ingerire cambiamenti profondi e duraturi. Come abbiamo visto prima, lo stesso capitalismo moderno è stato preparato dalla particolare cosmologia messa a punto da Benjamin Franklin e da un gruppo relativamente ristretto di capitalisti. Vorremmo concludere questo ciclo di lezioni mostrando un modello di cambiamento che procede dal fatto letterario alla più generale rappresentazione sociale.

La forma dell’acqua è il romanzo di Andrea Camilleri pubblicato nel 1994 da Sellerio che ha inaugurato il ciclo di opere incentrate sul commissario Salvo Montalbano. Cinque anni dopo, nel 1999, avrebbe preso vita anche la serie di sceneggiati televisivi che hanno contribuire a fare dei libri di Camilleri uno dei casi letterari del XXI secolo, con 30 milioni di copie vendute in Italia e altrettante all’estero, tradotto in trentadue lingue (tra le quali l'arabo, il cinese e lo Swahili) e pubblicato in 33 Paesi. La fortunata serie televisiva è stata vista non solo nel nostro Paese, ma anche negli Stati Uniti, in Canada, in tutta l'America Latina, in Australia, Francia, Spagna, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Svezia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, in Ungheria, Slovacchia, nella ex Jugoslavia, in Albania, Georgia, Bulgaria, Germania, Inghilterra, Galles, Scozia, Romania e persino in Iran, per un numero di oltre un miliardo spettatori complessivi (Salvatore Ferlita, Repubblica, 4/09/2015).

Fino all’apparizione di Montalbano l’immagine della Sicilia era ancora legata alle sue radici rurali e soprattutto ai suoi trascorsi di mafia. Nel 1990, per esempio, era stato pubblicato da Rizzoli La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini, che riprendeva alcuni temi verghiani sull’Isola, e nel 1996 Bompiani pubblicava Tutti a cena da Don Mariano, un saggio di Massimo Onofri sulle relazioni tra mafia e letteratura a partire dal 1861.

In estrema sintesi, la prima tesi che vorrei sostenere è quella che Andrea Camilleri, e con lui un gruppo di scrittori siciliani a cavallo tra XX e XXI secolo (Pietrangelo Buttafuoco, convertito all’Islam e al sufismo, Ottavio Cappellani, Giovanna Giordano, per citarne solo alcuni), avrebbero contribuito in maniera decisiva a sviluppare una nuova rappresentazione sociale della Sicilia attraverso l’elaborazione di nuovi codici simbolici e nuovi comportamenti rituali. Tali codici si sarebbero emancipati da una visione legata alla criminalità organizzata e sarebbero stati improntati ad una visione della vita più vicina ad

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antiche tradizioni mediterranee. Destinata ad avere molto successo, in Italia e nel mondo, si tratterebbe di una prospettiva basata sulla fusione di temi legati alla filosofia stoica e ad eredità popolari connesse in particolare alla tradizione spirituale sufi.

Ancora più velocemente, vorrei illustrare anche una seconda tesi, vale a dire che il successo della narrativa di Camilleri è legata a elementi che permettono un affrancamento dalla cultura capitalista e dal settarismo consumista da essa promosso. Il binomio tra rivoluzione o rivolta, da una parte, e sottomissione, dall’altra, viene in questo caso superato all’interno di una prospettiva di “reincanto” simbolico.

Che il personaggio di Montalbano esprimesse una saggezza stoica era stato rilevato già da Aldo Grasso in una delle prime recensioni degli sceneggiati televisivi incentrati sul commissario di Vigata (Corriere della Sera del 04/05/2000). Il personaggio di Salvo Montalbano ostenta infatti un disinteresse per il successo e la carriera, un altrettanto forte distacco dalle autorità pubbliche, manifestando allo stesso tempo una profonda ammirazione per le virtù umane e a una altrettanto viscerale ricerca della verità. Sempre restando nell’ambito dell’opera di Camilleri, il personaggio di Catarella, riprendeva i temi dello sciocco/saggio della tradizione popolare sufi, cristallizzata intorno alle figure dello Giufà (Jafar) arabo e del Nasreddin Khoja (il Maestro Nasreddin) turco. Ancora, il rapporto tra Montalbano e l’ispettore Fazio propone una relazione maestro/discepolo più che un semplice legame di lavoro. in uno dei romanzi più recenti, La rete di protezione (2017), Montalbano indaga su di un misterioso filmato che riprende un pezzo di muro scrostato. Una serie di immagini a prima vista del tutto scollegate dalle indagini in atto. Ciò nonostante Fazio si appassiona alle ricerche del commissario, contento di seguire le orme di una persona interessata a scoprire la verità di una semplice pellicola cinematografica. La Sicilia di Camilleri riscopre così la sua natura di culla della civiltà, di luogo magico in cui le diverse culture si sono confrontate e sedimentate, senza combattersi, ma fondendosi insieme.

Mentre il distacco consumista riguarda tutto il mondo, Montalbano lo manifesta solo in relazione al potere costituito, mentre mostra la più viva umanità per le persone semplici, così come mostra il significato simbolico degli atti più elementari: guardare il mare, dialogare con un granchietto, abbandonarsi ai piaceri della tavola e alle bellezze della terra. Il commissario non opera una rivoluzione, non intende cambiare l’ordine del mondo. Semplicemente non l’ho considera e si muove piuttosto nella direzione del “reincanto”, della possibilità di mostrare il significato simbolico di un mondo che è stato “oscurato” dalla cultura dominante.

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Secondo Flusser, i rivoluzionari moderni devono avere una scarsa visibilità, altrimenti non potrebbero sviluppare la loro azione. Il loro operato si fonda sulla sulla conoscenza della natura del tecno-consumismo e si manifesta attraverso una capacità di manipolazione simbolica, di riprogrammazione culturale. La loro poca visibilità si rende necessaria per evitare di essere fatti bersaglio dalle attenzioni della cultura dominante, di essere risucchiati nel vortice delle tecno-immagini. La loro funzione, sempre secondo Flusser, dovrebbe essere proprio quella di “rallentare” il diluvio delle immagini, di permettere almeno a qualcuno di “fermarsi” a riflettere, staccandosi dal ritmo frenetico imposto dalla cultura capitalista. Una azione di rallentamento potrebbe strutturarsi sia attraverso l’utilizzo di procedimenti tradizionali, sia riprogrammando processi e apparati tecnici moderni. Abbiamo già fatto riferimento a Visitors, di Godfrey Reggio, in cui si fa del rallentamento l’estetica stessa dell’esperienza cinematografica. Anche Bill Viola, uno dei più importanti videoartisti del XX secolo, basa spesso sul rallentamento delle immagini la sua estetica.

Nella prospettiva dei Cultural Studies, la rappresentazione narrativa della Sicilia si inserirebbe così nel più vasto ambito della ricerca di nuovi orizzonti culturali, di nuove prospettive di vita (si veda in tal senso la sociologia del turismo di Erik Cohen). Filosofia stoica e il sufismo, non hanno solo una base teorica e spirituale, ma si basano in buona parte sulla concreta messa in pratica di uno stile di vita. Esse rappresentano una valida alternativa a una filosofia consumistica, la cui ricerca del successo materiale si è rilevata uno degli elementi della moderna disfunzione sociale anomica (si veda la Institutional Anomie Theory elaborata nel 1994 da Messner e Rosenfeld).

L’analisi delle prospettive simboliche espresse dalle nuove rappresentazioni sociali della Sicilia e la fortuna che queste hanno avuto anche in molti altri paesi, permette anche di analizzare lo sviluppo e la penetrazione di elementi culturali mediterranei all’interno di alcuni dei maggiori paesi occidentali. Le città un tempo sono state sede di grandi strutture corporative, di grandi gilde di artigiani. Il capitalismo moderno ha prima combattuto contro le gilde, disgregandole, poi ha preso possesso delle città ricreandole come nodi all’interno dei fasci di informazioni mediatiche e digitali. Le grandi metropoli sono il luogo in cui si è affermata la cultura capitalista egemone, ma anche il luogo dove si può rimetterla in discussione.

Vi è nel commissariato di Vigata qualcosa dell’antica gilda cittadina: un’organizzazione devota al bene collettivo, alla giustizia, lontana dagli interessi economici, dalla strumentalizzazione politica, dalla concorrenza con le altre istituzioni. Una boccata di

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ossigeno nei confronti di una cultura dominante che ha invece improntato i rapporti umani alle stesse regole della competizione commerciale. Ancora Poggi ci ricorda come Weber abbia tracciato le diverse tappe della storia del capitalismo a partire dalla Bürgertum, dalla borghesia, intesa in origine come l’insieme degli abitanti di un “borgo”, una città protetta di mura, a loro volta legati da conjuratio, il giuramento rituale che poneva le basi per l’unione tra persone che condividevano lo stesso suolo. La resistenza cui si assiste oggi nel tentativo di non riconoscere lo ius soli, fa parte della strenua resistenza del capitalismo contro ogni forma di solidarietà e di umanità.

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Lezione 15 - Rituali del benessere

Nel 1977 un gruppo di psicologi del Centro per lo studio della famiglia di Milano, capeggiati da Mara Selvini Palazzoli, pubblicava un articolo in cui si illustravano i vantaggi della comprensione dei rituali familiari all’interno della terapia di famiglia. Il caso di studio verteva su di una giovane adolescente, Nora, afflitta da anoressia che dopo un primo trattamento era arrivata addirittura a tentare il suicidio. La famiglia della giovane era di antiche origini contadine, con molti rami collaterali, che si era trasferita in blocco in città, riuscendo a raggiungere una certa agiatezza. All’interno della famiglia allargata le tradizioni erano state accuratamente salvaguardate, divenendo con il luogo di una vera e propria mitologia incentrata sulla solidarietà, l’aiuto reciproco e l’equa ripartizione delle risorse collettive. Le eventuali deviazioni dal mito erano accuratamente ignorate e bandite dal discorso collettivo. I problemi di Nora - depressione, anoressia - mettevano alla prova il mito stesso della “famiglia perfetta”, che era stato creato e gelosamente salvaguardato per resistere alle tensioni dell’ambiente cittadino.

In un primo tempo, i terapeuti avevano cercato di demistificare il racconto di famiglia ma gli effetti erano stati controproducenti. La stessa paziente aveva finto la guarigione per non mettere a repentaglio la tradizione famigliare, con la conseguenza però di peggiorare nel giro di poche settimane e di arrivare a tentare il suicidio. Solo dopo quest’episodio gli psicologi avevano cercato di assecondare i comportamenti rituali della famiglia piuttosto che contrastarli, dando indicazioni di avviare un confronto fortemente ritualizzato ogni sera a una certa ora, in occasione della cena in comune. Il confronto rituale dei membri della famiglia ristretta aveva così permesso di mettere in luce le tensioni all’interno di quella allargata. Nora, infatti, proprio nel momento in cui si stava mostrando come una donna di particolare bellezza, era stata fatta oggetto delle gelosie di zie e cugine, gelosie che avevano rotto l’armonia familiare e delle quelli la piccola Nora si sentiva direttamente responsabile. I terapisti concludevano che la prescrizione del rituale aveva permesso loro di intervenire nella situazione familiare evitando ogni intervento verbale che potesse mettere in discussione l’equilibrio complessivo. I nuovi contenuti simbolici e rituali (confronto nella famiglia ristretta) avevano semplicemente e silenziosamente preso il posto delle vecchie forme simboliche (mitologia della famiglia allargata).

La storia, così come il presente, delle terapie familiari, o sistemiche, è ricco di invenzioni di prescrizioni rituali, da svolgere dentro o fuori dalle sedute. Il lavoro di Mara Selvini

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Palazzoli sui rituali familiari portò alla nascita di una vera e propria tradizione di studi, soprattutto in America, che sarebbe stata raccolta e consacrata nel 1988 nel volume collettivo Ritual in Families and Family Therapy.

L’importanza dei rituali famigliari per la stabilità psicologica dei membri di una famiglia è ormai una realtà comprovata da una lunga e coerente tradizione di studi. Fin dal 1993 è stato anche messo a punto un efficace questionario per “misurare” il grado di ritualizzazione familiare (Fiese 2002). Ormai è chiaro che quando sono presenti alti livelli di ritualizzazione, c’è più coesione e maggiori aspettative per il futuro. Questo benessere si riflette in una migliore qualità della vita anche nei casi di malattie come il cancro che mettono a dura prova per lunghi periodi l’intera famiglia. Mentre nelle famiglie con figli asmatici si è riscontrato come i rituali familiari proteggano i figli dall’ansia legata alla loro condizione. Ancora recentemente è stato osservato come il rituale della cena abbia un ruolo protettivo nei confronti delle famiglie con un elevato stress dovuto a bassi livelli di reddito. L’effetto si manifesta soprattutto nei confronti dei padri e delle figlie, ma naturalmente tutta la famiglia ne trae beneficio (Yoon et al. 2015).

Di contro, variazioni nella pratica dei rituali familiari e nei significato loro attribuiti comporta cambiamenti nel quadro socioemotivo dei figli, nel loro linguaggio, nei risultati connessi allo studio e nei comportamenti sociali. In tal senso la stabilità familiare sembra essere messa fortemente alla prova dalla nuova cultura digitale. Recentemente è stata infatti trovata una relazione tra tempo di utilizzo dei nuovi media tra gli adolescenti americani e insorgenza di disturbi psicologici, con picchi anche dei casi di suicidio, soprattutto per quanto riguarda le femmine (Twenge et al. 2018). A partire dal 2010, infatti, vale a dire da quando lo smartphone si è affermato come dispositivo di massa, gli adolescenti spendono sempre più tempo collegati ai nuovi media. Di conseguenza ne hanno progressivamente sofferto le relazioni umane, provocando una rottura dei rituali sociali collettivi. Il fatto che siano soprattutto le femmine a risentire dell’utilizzo intensivo dello smartphone è in relazione con la diversa partecipazione domestica dei ragazzi rispetto alle ragazze, laddove i primi scopro più orientati all’esterno e risentono di meno quindi della rottura dei rituali familiari. Ho già sottolineato come a mio avviso sia importante il rapporto tra rottura dei rituali sociali, aumento dell’anomia e picchi nel tasso di suicidi (Vincenzo 2018). Nel marzo 2018, Matt Hancock, Segretario di Stato inglese per Digitale, Cultura, Media e Sport, ha lanciato dalle colonne del Times una crociata per regolamentare il “selvaggio west” digitale, attraverso un timer che limiti le ore di accesso alla rete da parte dei teenagers.

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Tramite il consumismo si è messa così in atto una delle più grandi trasformazioni della storia, quella che ha visto il passaggio da un ordine sociale basato sui rituali collettivi a quello fondato sui rituali individuali. Forse qualcuno potrebbe obiettare, e con ragione, che rituali collettivi e individuali sono sempre esistiti e che i primi si fondono con i secondi in modi diversi a seconda delle diverse tradizioni e forme sociali. Tuttavia i rituali individuali del tecnoconsumismo sono diversi da tutti gli altri per il loro carattere di esclusività: piuttosto che coordinarsi con altri rituali di carattere collettivo, tendono piuttosto a escluderli.

L’utilizzo dello smartphone, oppure il videogioco, la frequentazione del centro fitness o della beauty farm, costituiscono rituali incentrati sulla persona e spesso condotti in maniera ossessiva. Non costituiscono pratiche isolate, ma piuttosto fanno parte di un’unica “famiglia” di comportamenti egocentrici che si possono definire come “rituali self-help”.

La fiorente industria del self-help si è sviluppata a partire dagli anni ottanta e determina oggi, tra libri, trasmissioni e corsi di auto-realizzazione, un fatturato di almeno una decina di miliardi di dollari (solo in America). Secondo una tale “cultura dell’egocentrismo”, gli stessi legami con i famigliari, con le persone vicine e quindi con tutto il resto dell’umanità, sono visti come ostacoli da superare. La socialità diviene così un limite, il retaggio di uno stile di vita superato. Di contro la vita autonoma e indipendente da tutto, uno spirito da Robinson Crusoe metropolitano, costituisce l’obbiettivo dell’intera esistenza.

Una studiosa canadese ha analizzato con attenzione i modi in cui la letteratura del self-help prova a convincere che la realizzazione del benessere personale costituisce una vera e propria operazione “magica” che si attiva solo quando si scopre la presenza “divina” dell’individuo (Rimke 2000). Attraverso l’assolutizzazione dell’individuo si arriva quindi al vero amore per se stessi, all’emancipazione dalla codipendenza affettiva e quindi a una nuova formula dell’esistenza: l’iperindividualità. La cultura dell’autorealizzazione rappresenta da una parte l’estremizzazione dell’individualismo moderno, dall’altra la naturale conseguenza del vitalismo, dell’esaltazione della vita senza limiti, né vincoli morali e soprattutto sociali. La negazione della socialità è uno degli aspetti più problematici della tendenza. Quando viene meno l’idea stessa di società, di collettività umana, vengono messe in discussione strutture antropologiche ancestrali. Le conseguenze non possono essere facilmente individuate, ma rischiano di essere profonde e di delineare un futuro estremamente incerto, nei confronti del quale rischiano di essere ininfluenti sia gli atteggiamenti vagamente “apocalittici” che quelli forzatamente “integrati”.

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In America con l’inizio del XXI secolo per la prima volta la percentuale di single ha superato nettamente il 25% delle abitazioni occupate. I single sono i rappresentanti dell’umanità consumistica del futuro. Hanno una vita altamente ritualizzata, ma rifuggono le forme sociali e si riconoscono sempre meno nei simbolismi collettivi. Per molti di loro tutto deve essere ricondotto all’individuo. L’onestà con se stessi sostituisce le virtù passate. Forme di auto-confessione - sotto forma di test, diari, questionari, corsi di potenziamento personale - sono molto frequenti. Ci si sottrae così alla politica perchè non riconosce uno spazio pubblico, uno spazio aperto all’azione collettiva. Il mondo si trasforma piuttosto un palcoscenico di gossip, di azioni individuali prese a modello da altri individui.

Lo sviluppo della rete non ha fatto altro che amplificare il fenomeno. A partire dal 2009, Google ha avvertito di ricorrere alla profilazione degli utenti, vale a dire alla raccolta dati in vista della “personalizzazione” della comunicazione. Ciò significa che le ricerche effettuate da due persone diverse sugli stessi termini danno da allora risultati sempre più diversi, sempre più confacenti alla preferenze e convinzioni dei singoli. Si tratta di quella che l’attività Eli Parisier ha definito già nel 2011 come “gabbia dei filtri”. La profilazione dell’utente ha messo in atto la più grande raccolta dati della storia. Oggi le società di ricerca detengono migliaia di informazioni su ogni singolo cittadino, e sono in grado di accentuare la personalizzazione di ogni tipo di comunicazione, mettendo in atto campagne che non sono mai state più persuasive. Google usa almeno 57 indicatori per la profilazione, mentre Netflix possiede la più grande banca dati del pianeta in merito alle preferenze riguardo gli audiovisivi. Le informazioni circolano ma sempre più a compartimenti stagni. Ogni persona, al più ogni gruppo virtuale, naviga all’interno di una echo chamber, di una camera dell’eco, un ambiente claustrofobico in cui risultano magnificate le informazioni che concordano con le proprie convinzioni, anche se dichiaratamente false, mentre non penetrano quelle discordanti, pur se indiscutibilmente vere. Uno storico della scienza americano, Robert Proctor, è arrivato a fondare una nuova disciplina, l’agnotologia, per studiare la condizione di ignoranza indotta da dati scientifici parziali o fuorvianti. Alla solitudine fisica e all’ignoranza culturale si sommano così i loro doppi digitali. Non è mai stato così facile prima d’ora esercitare un accurato e “personalizzato” controllo sociale.

Non stupisce che un governo molto attento alle trasformazioni sociali come quello dell’Inghilterra (il primo paese ad avere affrontato gli sconvolgimenti del l’industrializzazione) abbia istituito nel gennaio 2018 un Minister for Loneliness, un ministro

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per la solitudine, chiamato a fronteggiare un esercito di 9 milioni di inglesi che vivono “isolati”, di 2 milioni di persone che vivono sole e di 200.000 anziani che trascorrono intere settimane senza mai incontrare nessuno. Per il Regno Unito la solitudine è diventato un problema di salute pubblica. Non si tratta di un fenomeno isolato, se è vero che dalla parte opposta del pianeta, in Giappone, il numero di hikikomori, le persone che decidono di non uscire più di casa, supera di molto il milione e si propaga anche negli altri paesi. Sono soprattutto adolescenti e giovani a vivere separati da un mondo percepito come violento e alienante, con il quale entrano in contatto solo tramite il web. Per gli anziani si registra un comportamento apparentemente opposto. Nel paese del Sol Levante un detenuto su cinque ha più di 65 anni, molte sono le donne, e quasi la metà dei detenuti “anziani” viveva da solo prima di compiere un reato, solitamente minimo, ma sufficiente ad aprire le porte della prigione e di una vita non più solitaria. In carcere si riscopre la socialità, si hanno compagni di cella, si può lavorare.

Di questo passo la società moderna, se di “società” si potrà ancora parlare, andrebbe a somigliare sempre più a quella degli “spaziali” descritti da un maestro della fantascienza come Isaac Asimov: “single” che hanno tecnologicamente prolungato un’esistenza sostanzialmente solitaria, ancorché circondata (per la parte più abbiente della popolazione). da robot servizievoli e fantasmi virtuali.

Alla luce di queste considerazioni, la nuova “arte dello stare al mondo” non potrà prescindere da una riconsiderazione della comunità, dello stare insieme, dei principi e simboli attorno ai quali può costituirsi una “società”. Ma allo stesso tempo non potrà non considerare l’andamento della cultura digitale, la sempre maggiore tensione verso l’egocentrismo eterodiretto del tecnoconsumismo. Le persone “non convenzionali” potrebbero avere la necessità di affrontare la “solitudine” moderna con occhi diversi, con una prospettiva di maggior apertura verso il mondo circostante, verso la natura, nei confronti della dimensione essenziale del tempo e dello spazio, della vita stessa. Occorrerà una buona dose di immaginazione per concepire il recupero di un universo simbolico estraneo e alternativo al mondo del consumo. Forse è proprio questa la “creatività” che gli artisti saranno chiamati a sviluppare in futuro. E che potrebbe essere “diffusa” quanto mai prima d’ora.

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