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FORNERIS G., PASCALE M., PEROSINO G.C., ZACCARA P. Lezioni di idrobiologia (le acque continentali). CREST (To). 226 14 - I PESCI I pesci appartengono al Phylum Vertebrata. Essi sono Cordati, animali dotati di corda dorsale protetta dalla colonna vertebrale, di un sistema nervoso centrale e di fessure branchiali, almeno nelle fasi precoci di sviluppo e muniti di encefalo protetto dal cranio. Sono distinti in: Agnati e Gnatostomi (fig. 14.1). Gli Agnati (Agnatha) sono i Vertebrati più arcaici; le forme fossili si differenziano da quelle attuali in quanto dotate di uno scheletro esterno osseo, analogamente ai Placodermi. Sono privi di mascelle ed hanno un’unica narice impari e mediana (perciò anche detti monorrini). Comprendono le classi Ostracodermi (Ostracodermata) e Ciclostomi (Cyclostomata). I resti fossili più antichi degli Ostracodermi risalgono all’Ordoviciano (quasi 500 milioni di anni fa), con capo e torace protetti da una corazza; erano nuotatori che si muovevano lentamente presso i fondali, nutrendosi di sostanze in sospensione. Il Siluriano e il Devoniano (400 ÷ 300 milioni di anni fa) hanno visto il massimo sviluppo di questi Vertebrati, che scomparvero alla fine del Devoniano. I Ciclostomi rappresentano attualmente l’unica classe degli Agnati; comprendono forme di più bassa organizzazione dei Vertebrati. I Ciclostomi sono acquatici eterotermi, branchiati, privi di mascelle e di narici pari, dotati di scheletro cartilagineo e spesso di dermascheletro ossificato, privi di arti o muniti soltanto di arti pettorali. Comprendono alcuni ordini, la maggior parte dei quali parte estinti ed attualmente rappresentati dai Missinoidi (Myxiniformes), con una decina di specie tutte marine e dai Petromizonti (Petromyzontes), presenti nelle acque interne italiane con tre specie: lampreda di fiume (Lampetra fluviatilis), anadroma, lunga fino a 50 cm e due forme di piccola taglia stanziali delle acque dolci, e precisamente la lampreda di ruscello (Lampetra planeri) e la lampreda padana (Lampetra zanandreai). Gli Gnatostomi sono provvisti di mascelle. Sono note diverse forme arcaiche, a dimostrazione di come nel Siluriano si sia verificato lo sviluppo di molti gruppi filetici eterogenei, all’interno dei quali era presente il gruppo primigenio che diede origine alla superclasse dei Pesci (Pisces). La sistematica attuale riconosce, al suo interno, diverse classi: Acantodi, Placodermi, Condroitti e Osteitti. Acantodi e Placodermi sono più antichi ed oggi estinti. Gli Acantodi (Acanthodii) erano pesci di modeste dimensioni, fino ad un massimo di 50 cm, con corpo rivestito di scaglie romboidali, capo coperto con numerose ossa dermiche irregolari ed un muso breve, alla cui estremità si apriva la bocca. Vissero tra il Siluriano ed il Permiano (450 ÷ 250 milioni di anni fa). I Placodermi (Placodermi) avevano capo, dorso e ventre coperti di placche ossee e mascelle munite di denti o lamine taglienti; vissero fino a 60 milioni di anni fa e diedero origine a numerose forme, la maggior parte delle quali marine. Da questi gruppi, attraverso una serie di tappe evolutive non ancora ben chiare, si sviluppò la grande varietà di forme che caratterizzano attualmente i pesci. Della superclasse Pisces i Condroitti (Chondrichthyes) o Pesci cartilaginei e gli Osteitti (Osteichthyes) o Pesci ossei, sono i gruppi attuali. I primi hanno scheletro completamente cartilagineo, come quello dei Ciclostomi, ma più evoluto ed in parte calcificato; comprendono forme quasi esclusivamente marine, tra cui squali e Olocefali. Gli Osteitti, nelle forme primitive, hanno scheletro interno ancora cartilagineo, con elementi ossei dermici; in quelle più evolute lo scheletro è variamente ossificato, mentre manca il dermascheletro; essi annoverano numerose forme d’acqua dolce, comprese quelle dell’ittiofauna italiana. 14.1 - I pesci ossei Gli Osteitti sono Vertebrati gnatostomi con respirazione branchiale e con una sola camera branchiale per lato (aperta verso l’esterno attraverso un’unica apertura protetta da un opercolo), eterotermi, provvisti di una o due paia di pinne pari, di due narici, con endoscheletro più o meno ossificato, pelle rivestita di scaglie ossee e provvisti di linea laterale. La sistematica degli Osteichthyes distingue quattro sottoclassi: Attinopterigi (Actinopterygii), Brachiopterigi (Brachiopterygii), Crossopterigi (Crossopterygii) e Dipnoi (Dipneusti). Tale suddivisione non è condivisa da tutti gli zoologi; molti aspetti sono ancora da chiarire riguardo i tre gruppi dei Brachiopterigi, dei Crossopterigi e dei Dipnoi; essi comprendono più forme fossili che viventi e tra queste vi sono specie dai caratteri molto primitivi ed altre che potrebbero essere forme di transizione con gli Anfibi. Tra i Brachiopterigi ricordiamo i generi Polypterus e Calamoichthys, nelle acque dolci africane, capaci di sfruttare anche l’ossigeno atmosferico per la respirazione. Tra i Crossopterigi ricordiamo i Celacanti, ritenuti un tempo estinti, il cui primo esemplare, rinvenuto nel 1938 presso la Colonia del Capo, venne definito un “fossile vivente”; tra i Dipnoi il noto genere protopterus, pesce delle acque dolci africane in grado di resistere ai periodi di secca affossandosi nel fango. Brachiopterigi e Crossopterigi non comprendono gruppi appartenenti alla fauna italiana.

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14 - I PESCI

I pesci appartengono al Phylum Vertebrata. Essi sono Cordati, animali dotati di corda dorsale protetta dalla colonna vertebrale, di un sistema nervoso centrale e di fessure branchiali, almeno nelle fasi precoci di sviluppo e muniti di encefalo protetto dal cranio. Sono distinti in: Agnati e Gnatostomi (fig. 14.1).

Gli Agnati (Agnatha) sono i Vertebrati più arcaici; le forme fossili si differenziano da quelle attuali in quanto dotate di uno scheletro esterno osseo, analogamente ai Placodermi. Sono privi di mascelle ed hanno un’unica narice impari e mediana (perciò anche detti monorrini). Comprendono le classi Ostracodermi (Ostracodermata) e Ciclostomi (Cyclostomata). I resti fossili più antichi degli Ostracodermi risalgono all’Ordoviciano (quasi 500 milioni di anni fa), con capo e torace protetti da una corazza; erano nuotatori che si muovevano lentamente presso i fondali, nutrendosi di sostanze in sospensione. Il Siluriano e il Devoniano (400 ÷ 300 milioni di anni fa) hanno visto il massimo sviluppo di questi Vertebrati, che scomparvero alla fine del Devoniano. I Ciclostomi rappresentano attualmente l’unica classe degli Agnati; comprendono forme di più bassa organizzazione dei Vertebrati. I Ciclostomi sono acquatici eterotermi, branchiati, privi di mascelle e di narici pari, dotati di scheletro cartilagineo e spesso di dermascheletro ossificato, privi di arti o muniti soltanto di arti pettorali. Comprendono alcuni ordini, la maggior parte dei quali parte estinti ed attualmente rappresentati dai Missinoidi (Myxiniformes), con una decina di specie tutte marine e dai Petromizonti (Petromyzontes), presenti nelle acque interne italiane con tre specie: lampreda di fiume (Lampetra fluviatilis), anadroma, lunga fino a 50 cm e due forme di piccola taglia stanziali delle acque dolci, e precisamente la lampreda di ruscello (Lampetra planeri) e la lampreda padana (Lampetra zanandreai).

Gli Gnatostomi sono provvisti di mascelle. Sono note diverse forme arcaiche, a dimostrazione di come nel Siluriano si sia verificato lo sviluppo di molti gruppi filetici eterogenei, all’interno dei quali era presente il gruppo primigenio che diede origine alla superclasse dei Pesci (Pisces). La sistematica attuale riconosce, al suo interno, diverse classi: Acantodi, Placodermi, Condroitti e Osteitti. Acantodi e Placodermi sono più antichi ed oggi estinti. Gli Acantodi (Acanthodii) erano pesci di modeste dimensioni, fino ad un massimo di 50 cm, con corpo rivestito di scaglie romboidali, capo coperto con numerose ossa dermiche irregolari ed un muso breve, alla cui estremità si apriva la bocca. Vissero tra il Siluriano ed il Permiano (450 ÷ 250 milioni di anni fa). I Placodermi (Placodermi) avevano capo, dorso e ventre coperti di placche ossee e mascelle munite di denti o lamine taglienti; vissero fino a 60 milioni di anni fa e diedero origine a numerose forme, la maggior parte delle quali marine. Da questi gruppi, attraverso una serie di tappe evolutive non ancora ben chiare, si sviluppò la grande varietà di forme che caratterizzano attualmente i pesci.

Della superclasse Pisces i Condroitti (Chondrichthyes) o Pesci cartilaginei e gli Osteitti (Osteichthyes) o Pesci ossei, sono i gruppi attuali. I primi hanno scheletro completamente cartilagineo, come quello dei Ciclostomi, ma più evoluto ed in parte calcificato; comprendono forme quasi esclusivamente marine, tra cui squali e Olocefali. Gli Osteitti, nelle forme primitive, hanno scheletro interno ancora cartilagineo, con elementi ossei dermici; in quelle più evolute lo scheletro è variamente ossificato, mentre manca il dermascheletro; essi annoverano numerose forme d’acqua dolce, comprese quelle dell’ittiofauna italiana.

14.1 - I pesci ossei Gli Osteitti sono Vertebrati gnatostomi con respirazione branchiale e con una sola camera branchiale per lato (aperta verso l’esterno attraverso un’unica apertura protetta da un opercolo), eterotermi, provvisti di una o due paia di pinne pari, di due narici, con endoscheletro più o meno ossificato, pelle rivestita di scaglie ossee e provvisti di linea laterale. La sistematica degli Osteichthyes distingue quattro sottoclassi: Attinopterigi (Actinopterygii), Brachiopterigi (Brachiopterygii), Crossopterigi (Crossopterygii) e Dipnoi (Dipneusti). Tale suddivisione non è condivisa da tutti gli zoologi; molti aspetti sono ancora da chiarire riguardo i tre gruppi dei Brachiopterigi, dei Crossopterigi e dei Dipnoi; essi comprendono più forme fossili che viventi e tra queste vi sono specie dai caratteri molto primitivi ed altre che potrebbero essere forme di transizione con gli Anfibi. Tra i Brachiopterigi ricordiamo i generi Polypterus e Calamoichthys, nelle acque dolci africane, capaci di sfruttare anche l’ossigeno atmosferico per la respirazione. Tra i Crossopterigi ricordiamo i Celacanti, ritenuti un tempo estinti, il cui primo esemplare, rinvenuto nel 1938 presso la Colonia del Capo, venne definito un “fossile vivente”; tra i Dipnoi il noto genere protopterus, pesce delle acque dolci africane in grado di resistere ai periodi di secca affossandosi nel fango. Brachiopterigi e Crossopterigi non comprendono gruppi appartenenti alla fauna italiana.

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14.1 - La storia della Terra è paragonata ad un periodo di 12 ore: dalla mezzanotte (nascita circa 4,5 miliardi di anni fa) al mezzogiorno (attuale). Il neozoico, l’era dell’uomo, vale appena mezzo minuto dell’intero intervallo di 12 ore. I PESCI compaiono sulla Terra nell’intervallo orario 10 ÷ 11 (quasi 500 milioni di anni fa), all’inizio dell’era paleozoica. Gli agnati (privi di mascelle) sono gli Ostracodermi (provvisti di un derma scheletrico e vissuti nel paleozoico) ed i Ciclostomi (ancora viventi, quale per esempio la lampreda). I Placodermi sono pesci primitivi, vissuti fino al permiano (235 milioni di anni fa) e sono i primi gnatostomi (muniti di mascelle). Nel medio paleozoico, si affermarono i Condrichthyes (pesci cartilaginei; gli attuali squali e razze) e gli Osteichthyes (pesci ossei; gli attuali cefali, saraghi, trote, carpe,...). Nel devoniano comparvero gli Anfibi (oltre 350 milioni di anni fa), con la definitiva conquista del dominio continentale, da parte dei vertebrati. I Rettili compaiono nel permiano (oltre 250 milioni di anni fa), effermandosi in modo esplosivo nell’era successiva (mesozoica). Dai Rettili si sviluppano due linee evolutive: gli Uccelli ed i Mammiferi che dominarono l’era cenozoica ed il mondo attuale.

La sottoclasse Attinopterigi annovera la maggioranza dei Pesci, dotati di scheletro ossificato, con una componente cartilaginea più o meno accentuata; hanbno un solo paio di aperture branchiali, in genere con opercoli composti di pezzi scheletrici ossei; privi di emisferi cerebrali, mancano di narici interne e di cloaca; la pelle è di solito coperta di squame dermiche embricate con margine posteriore liscio (cicloidi) o dentellato (ctenoidi). Questo gruppo comprende tutta l’ittiofauna italiana d’acqua dolce. In passato era suddiviso in due

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grandi sottogruppi: Ganoidi, con forme primitive con scheletro poco calcificato e Teleostei, con forme più evolute e scheletro ampiamente calcificato. Successivamente il gruppo dei Ganoidi venne suddiviso in Condrostei (o Acipenseriformi) e Olostei (Amiiformi e Lepisosteiformi). Negli ultimi decenni, grazie ai progressi della paleontologia, è apparso chiaro che la suddivisione in Condrostei, Olostei e Teleostei è inadeguato per le numerose forme di transizione dei caratteri tra i gruppi. Attualmente si ritiene più corretto suddividere gli Attinopterigi in ordini senza raggruppamenti di livello gerarchico superiore. Quelli che comprendono specie presenti nelle acque dolci italiane sono riportati nella tab. 14.1.

Tab. 14.1 - Pesci delle acque interne d’Italia e loro origine. In blu le specie autoctone, in rosso quelle alloctone. Con “V” è indicato il valore naturalistico intriseco (par. 14.7 - tab. 14.6) per ogni specie (negativo per quelle alloctone)

Ordine Famiglia Genere specie sottospecie Nome volgare V Acipenser naccarii storione cobice 9 Acipenser sturio storione comune 3 Acipenser trasmontanus storione bianco - 1

Acipenseriformes Acipenseridae

Huso huso storione ladano 6 Anguilliformes Anguillidae Anguilla anguilla anguilla 2 Clupeiformes Clupeidae Alosa fallax agone/cheppia/alosa 4

Abramis brama abramide - 1 Alburnus albidus alborella meridionale 6 Alburnus alburnus alborella alborella 3 Aspius aspius aspio - 1 Barbus barbus barbo d’oltralpe - 1 Barbus meridionalis barbo canino 6 Barbus plebejus barbo 2 Carassius auratus pesce rosso - 1 Carassius carassius carassio - 1 Chondrostoma genei lasca 6 Chondrostoma soetta savetta 6 Ctenopharyngodon idellus carpa erbivora - 1 Cyprinus carpio carpa - 1 Gobio gobio gobione 1 Hypophthalmichthys molitrix carpa argentata - 1 Hypophthalmichthys nobilis carpa testa grossa - 1 Leuciscus cephalus cavedano 1 Leuciscus souffia vairone 4 Phoxinus phoxinus sanguinerola 2 Pseudorasbora parva pseudorasbora - 1 Rhodeus sericeus rodeo amaro - 1 Rutilus erythrophthalmus triotto 3 Rutilus pigus pigo 6 Rutilus rubilio rovella 6 Rutilus rutilus gardon - 1 Scardinius erythrophthalmus scardola 1

Cypriniformes Cyprinidae

Tinca tinca tinca 1 Cobitis taenia bilineata cobite 4 Misgurnus angullicaudatus misgurno - 1 Cobitidae Sabanejewia larvata cobite mascherato 9

Cypriniformes

Homalopteridae Orthrias barbatulus cobite barbatello 2 Cyprinodontiformes Poeciliidae Gambusia holbrooki gambusia - 1 Gadiformes Gadidae Lota lota bottatrice 2

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Ordine Famiglia Genere specie sottospecie Nome volgare Gasterosteiformes Gasterosteidae Gasterosteus aculeatus spinarello 4

Blenniidae Salaria fluviatilis cagnetta 4 Lepomis gibbosus persico sole - 1 Centrarchidae Micropterus salmoides persico trota - 1 Gobius nigricans ghiozzo di ruscello 6 Orsinigobius punctatissimus panzarolo 9 Gobiidae Padogobius martensii ghiozzo padano 3 Gimnocephalus cernuus acerina - 1 Perca fluviatilis persico reale 1

Perciformes

Percidae Stizostedion lucioperca lucioperca - 1 Coregonus lavaretus lavarello/coregone - 1 Coregonidae Coregonus 0xyrhynchus bondella - 1

Esocidae Esox lucius luccio 2 Oncorhynchus mykiss trota iridea - 1 Salmo carpio carpione del Garda 9 Salmo fibreni carpione del Fibreno 9 Salmo [trutta] macrostigma trota macrostigma 4 Salmo [trutta] marmoratus trota marmorata 6 Salmo [trutta] trutta trota fario - 1 Salvelinus alpinus salmerino alpino - 1

Salmonidae

Salvelinus fontinalis salmerino di fonte - 1

Salmoniformes

Thymallidae Thymallus thymallus temolo 3 Scorpaeniformes Cottidae Cottus gobio scazzone 2

Ictalurus melas pesce gatto - 1 Ictaluridae Ictalurus pucntatus pesce gatto punteggiato - 1 Siluriformes

Siluridae Silurus glanis siluro - 1 In attesa di indagini di approfondimento, si ritiene di non considerare specie valide il Barbus tyberinus (barbo tiberino) ed il Leuciscus lucumonis (cavedano etrusco). Si nutrono dubbi circa l’autoctonia del pigo, bottatrice e persico reale. L’unico salmonide sicuramente endemico nel distrettopadano-veneto è la trota marmorata, mentre risultano forti dubbi per Salvelinus alpinus (salmerino alpino); l’unico salmonide endemico nel Distretto tosco-laziale è la trota macrostigma; la trota fario è specie esotica per l’Italia.

14.2 - Anatomia e fisiologia

I Pesci hanno dimensioni e peso assai diversi, dai pochi grammi del ghiozzo di fiume, ad oltre il quintale degli storioni. Il corpo (fig. 14.2) ha forma idrodinamica, per offrire poca resistenza al mezzo acqueo. L’aspetto è quello di un fuso più o meno compresso, con ampia variabilità a seconda delle specie; l’anguilla ha corpo serpentiforme, la scardola è compressa lateralmente. In linea di massima nelle acque stagnanti o a debole corrente prevalgono le forme tozze o compresse; nelle correnti veloci prevalgono quelle affusolate ed idrodinamiche. Ad influire sulla forma contribuisce anche la biologia delle diverse specie (fig. 14.3); i predatori come il luccio hanno una forma simile ad un siluro, con pinne posteriori molto sviluppate ed in grado di esprimere forti accelerazioni per la cattura delle prede. Alcuni pesci che vivono in acque tranquille, come la carpa od il persico sole, sono specialisti nel “nuoto di manovra” ed hanno perciò corpo compresso lateralmente. I pesci pelagici hanno forma molto idrodinamica, che consente loro di compiere lunghi spostamenti con basso consumo di energia. Altri infine hanno forma “generica”, che consente buone prestazioni in situazioni diverse, ma senza eccellere in ciascuna.

I Pesci sono eterotermi; non sono in grado di mantenere una temperatura corporea costante come gli Uccelli e i Mammiferi (omeotermi). La temperatura delle acque è quindi molto importante nel condizionarne le attività. La maggior parte delle specie, durante la stagione invernale, rallenta i movimenti fino ad una sorta di immobilismo in tane o nelle acque più profonde; sono stenoterme, come la tinca ed il barbo. Ve ne sono altre che, con le acque fredde, rimangono comunque attive, pur se in misura limitata rispetto alla

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specie ittica temperatura ottimale

temperaturaletale

salmerino alpino 9 18 trota iridea 13 22 trota fario 12 22 trota marmorata 12 22 lavarello 15 30 luccio 18 33 carassio 25 35 carpa 25 35 scardola 25 35 Tab. 14.2 - Temperature [°C] ideali e letali per alcune specie ittiche.

stagione estiva; sono definite euriterme; tra queste si possono citare, per esempio, cavedano e vairone. Pochi pesci, come le trote, sono adatti ad acque fresche o addirittura fredde. Dalla temperatura delle acque, oltre che da altri fattori, dipende quindi la distribuzione delle diverse specie ittiche; per ciascuna di esse, infatti, esistono temperature ottimali e valori estremi quali limiti massimi di tollerabilità (tab. 14.2).

Fig. 14.2 - Misure utili per le analisi morfometriche dei pesci. Lunghezza totale (LT), lunghezza alla furca (LF), lunghezza standard (LS), capo (Ca), tronco (Tr) e coda (Co).

Fig. 14.3 - Ai vertici del triangolo sono esempi di “forme speciali” che consentono determinate prestazioni di nuoto. Il luccio è in grado di esprimere notevoli accelerazioni per inseguire la preda. Il barbo ha ventre piatto e dorso arcuato per sfruttare la corrente al fine di rimanere presso il fondale. Il persico sole è abile nel “nuoto di manovra” in acque calme. Ciascuno di essi offre notevoli pre-stazioni rispetto al vertice che occu-pa, ma scarse rispetto agli altri due. L’alborella è un pesce generico, rela-tivamente abile in tutte (pur preferen-do le acque pelagiche), ma senza ec-cellere in ciascuna.

Dalla temperatura delle acque dipende la solubilità dell’ossigeno (par. 2.5) e quindi la respirazione da parte dei Pesci. Le specie con il metabolismo più accelerato e maggiori consumatrici di ossigeno, come la trota,

vivono in acque relativamente fredde e rese più ossige-nate dalla turbolenza provocata da salti e cascate. Nelle acque stagnanti di pianura, durante la stagione estiva, l’ossigeno non è abbondante; i pesci tipici di questi am-bienti (carpe, tinche, pesci gatto,…) necessitano di poco ossigeno (anche solo 4 mg/l) in quanto si muovono po-co, consumando poca energia. L’ambiente è tranquillo, con assenza di turbolenze, correnti, vortici, salti e la di-sponibilità di cibo è notevole. Nelle acque di un impe-tuoso torrente montano l’ossigeno è abbondante, non so-lo perchè più solubile in acqua fredda, ma anche per il continuo rimescolamento con l’aria. In questi ambienti la disponibilità di cibo è scarsa; perciò la trota, tipico pe-sce di torrente, oltre a dover nuotare molto per la turbo-lenza delle acque, deve muoversi molto alla ricerca di

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prede, con grande consumo di energia e di ossigeno. Non si deve pensare che la trota ami le acque fredde; essa, per il suo metabolismo e comportamento, ha bisogno di ossigeno che è più abbondante nelle acque fredde, alle quali si è adattata da tempi geologici. È possibile infatti allevare trote anche con temperature intorno a 18 °C, a patto che l’acqua sia costantemente “areata”, in modo da determinare condizioni di sopra-saturazione tali da garantire sempre una concentrazione di ossigeno non inferiore a 10 mg/l.

L’apparato respiratorio dei pesci è costituito dalle branchie (fig. 14.4), alloggiate nelle due camere branchiali bilaterali, comunicanti con l’ambiente anteriormente con la cavità boccale e lateralmente con due aperture delimitate e ricoperte dagli opercoli; inferiormente è presente un’altra formazione protettiva, la membrana branchiostega. Le branchie (quattro per ciascun lato) sono formate da un arco cartilagineo a forma di “V” più o meno accentuata con l’apertura rivolta anteriormente. Dal margine esterno traggono origine le lamelle branchiali, a livello dei quali avviene l’assunzione di ossigeno e la cessione di anidride carbonica. Durante l’inspirazione l’acqua penetra nella cavità boccale, richiamata anche dall’abbassamento della membrana branchiostega, mentre nella fase di espirazione, con meccanismo contrario, fuoriesce dalle aperture laterali, dopo aver irrorato le lamelle branchiali e realizzato gli scambi gassosi, grazie al sollevamento degli opercoli. Estratti dall’acqua quasi tutti i pesci, dopo un primo brevissimo periodo valutabile in pochi secondi, durante il quale l’assunzione di ossigeno aumenta, muoiono per asfissia; le lamelle branchiali si essiccano impedendo gli scambi respiratori. Le specie in grado di sopravvivere a lungo fuori dall’acqua, come anguilla e pesce gatto, devono questa loro caratteristica al fatto che gli opercoli chiudono ermeticamente le aperture branchiali, mantenendo le lamelle in un ambiente saturo di umidità.

Fig. 14.4 - La respirazione con le branchie avviene in due tempi. A: l’acqua entra attraverso la bocca e raggiunge le branchie (inspirazione) con gli opercoli sono chiusi. B: l’acqua fuoriesce attraverso gli opercoli che si sono appositamente aperti (espirazione) permettendo all’acqua di “attraversare” le branchie per fornire ad esse l’ossigeno.

La cute dei pesci è costituita da uno strato esterno, epidermide, e da uno interno, derma, con caratteristiche e funzioni specifiche. L’epidermide è costituita da più piani di cellule piatte e giustapposte; diversamente da quella dei Mammiferi manca lo strato cheratinizzato e sono presenti numerose ghiandole secernenti muco. La protezione dall’eccessiva perdita dei liquidi corporei è tipica degli animali terrestri, assicurata dalla cheratinizzazione delle cellule superficiali; tale necessità manca nei Pesci immersi nel mezzo acqueo. Insieme alle cellule dell’epidermide sono presenti ammassi cellulari specializzati nella produzione della mucina, glicoproteina che a contatto con l’acqua forma il muco, sostanza vischiosa che ricopre il corpo del pesce in quantità variabile nelle diverse specie, in funzione della presenza, più o meno accentuata, delle squame, che costituiscono un’altra struttura protettiva. Il muco ha funzione di difesa da agenti patogeni quali batteri, parassiti e funghi, nonchè da sostanze nocive eventualmente presenti nelle acque. È una barriera protettiva, in grado di inglobare e rendere innocue particelle anche di una certa grandezza. Gli effetti dei danni provocati dall’asportazione del muco in seguito a piccoli traumi (ovodeposizione, manualità scorretta durante la slamatura da parte dei pescatori, piccole ustioni di origine chimica, ferite di predatori,...) sono visibili in breve tempo sotto forma di ammassi rotondeggianti bianco giallastri, di aspetto cotonoso, dovuti a funghi. Il derma è caratterizzato dalla presenza di cellule, i cromatofori, responsabili delle colorazioni spesso molto vivaci. Di forma irregolare, in grado di modificare la superficie in funzione di stimoli ambientali o fisiologici, i cromatofori assumono denominazioni diverse a seconda del colore dei pigmenti: melanofori (neri), xantofori (gialli), eritrofori (rossi); altri colori sono dovuti a fenomeni ottici legati ad interferenze fra le diverse lunghezze d’onda. Le modificazioni della livrea sono la conseguenza di quelle dei cromatofori in seguito ad stimoli soprattutto dell’ipofisi, delle gonadi e degli organi sensoriali sensibili ai

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fattori ambientali. Molte specie assumono una colorazione mimetica; nel persico reale le striature dorsali lo rendono quasi invisibile nella vegetazione acquatica; nelle trota la colorazione brunastra la rende difficilmente individuabile in torrenti riparati da una fitta vegetazione riparia e con fondali scuri. Anche la maturazione delle gonadi può indurre cambiamenti cromatici, soprattutto nei maschi di alcune specie; per esempio, durante la frega, il corpo delle sanguinerole si adorna di macchie rosse e il maschio della trota iridea presenta una fascia iridescente lungo la linea laterale.

Le squame o scaglie esercitano una importante funzione protettiva. Sono piccole e numerose, come nelle trote o poche o di grande dimensioni come nelle carpe a specchi; in alcuni casi mancano ed il corpo è ricoperto da una maggior quantità di muco. Le squame sono formazioni ossee con un margine inserito nel derma, da cui giunge il materiale necessario al loro accrescimento. Nella stagione fredda, per la scarsità del cibo e per il rallentamento delle attività, la crescita delle squame rallenta; esse presentano anelli concentrici, (circoli) più ravvicinati quasi a fondersi in alcune zone. Queste aree, dette annuli, indicano i momenti invernali di minore accrescimento; dalla lettura del numero di annuli è possibile determinare il numero di inverni trascorsi e quindi l’età del pesce (fig. 14.5). Le squame con margine libero dentellato vengono dette ctenoidi; se il margine è liscio vengono dette cicloidi.

Fig 14.5 - Relazione tra il nu-mero degli annuli (aree corri-spondenti al notevole avvici-namento dei circoli in conse-guenza della scarsa crescita in periodo invernale) e l’accre-scimento dei pesci.

Alcune squame sono modificate in modo da costituire un importante organo sensoriale: la linea laterale (fig. 14.6). Le squame della linea laterale sono poste in una serie longitudinale su ciascun lato del pesce, dall’opercolo al peduncolo caudale e presentano, sul lato esterno, un foro cui afferisce un tubicino ripieno di un liquido simile al muco, collegato con terminazioni nervose in grado di informare il pesce sulle variazioni di pressione e vibrazioni che si verificano nell’ambiente. Tale sistema è simile al timpano dell’orecchio di un Mammifero; attraverso la linea laterale il pesce viene informato delle alterazioni nello stato di equilibrio dell’ambiente provocate, per esempio, da un pesce ferito, dai passi di un pescatore sulle rive o da un insetto che cade sulla superficie dell’acqua; tali fenomeni sono “sentiti” più o meno nello stesso modo con il quale si percepiscono i rumori con l’orecchio.

Lo scheletro è costituito da tessuto osseo o, come negli storioni, in gran parte cartilagineo; ha funzione di sostegno e protezione ed è fondamentale per i meccanismi di movimento (fig. 14.7). Il gruppo osseo più completo e diversificato è il cranio, formato da numerose ossa per lo più saldate tra loro. La colonna vertebrale è composta da vertebre articolate e numericamente variabili a seconda delle specie. Le vertebre addominali hanno una spina verticale (neurospina), un corpo vertebrale e due protuberanze inferiori (parapofisi) su cui sono inserite le coste. Nelle vertebre del segmento caudale le parapofisi si uniscono formando l’ematospina. Oltre alle coste, innestate sulle vertebre addominali, sono presenti formazioni ossee particolari, le miospine (lische), piccoli ossicini molto sottili e pungenti inseriti all’interno dei muscoli, più o meno abbondanti a seconda delle specie. Altre ossa, esterne alle masse muscolari e unite da membrane elastiche, sono le pinne (fig 14.6), organi locomotori e stabilizzatori. Le pinne pettorali e ventrali sono pari ed hanno funzione di stabilizzatori e freni. Le impari sono distinte in dorsali, anale e caudale. Nella trota e nel pesce gatto, oltre ad una prima pinna dorsale ben sviluppata a circa a metà dorso, ne compare una

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seconda piccola e priva di raggi di sostegno, detta “adiposa”. Nei ciprinidi la pinna dorsale è unica, nei perciformi è divisa in una parte anteriore con raggi ossei spiniformi ed una posteriore con raggi molli. Nel pesce gatto il primo raggio è ossificato ed indurito, in grado di provocare ferite anche dolorose. Le pinne dorsale ed anale funzionano come timoni, mentre la propulsione è data da quella caudale, formata da due lobi generalmente simmetrici (pinna omocerca) o come nello storione, con il lobo superiore più lungo di quello inferiore (pinna eterocerca). Dallo sviluppo di alcuni settori dell’apparato muscolare, soprattutto la zona del peduncolo caudale e della parte posteriore del corpo, dipende la velocità di nuoto del pesce: fino a 4 ÷ 5 m/sec dei salminidi, contro i 40 ÷ 60 cm/sec di pesce gatto, tinca e carpa.

Fig. 14.6 - Morfologia del persico reale. La pinna dor-sale è distinta in una por-zione anteriore (A), costi-tuita da raggi ossei spini-formi ed in una posteriore con raggi molli (B).

La circolazione è assicurata dalle pulsazioni ritmiche del muscolo cardiaco. Il cuore, posto tra le branchie e la cavità addominale, è formato da un atrio e da un ventricolo; in esso circola solo sangue venoso e la circolazione è semplice e completa. Le vene raccolgono dai tessuti sangue povero di ossigeno e ricco di anidride carbonica per convogliarlo al cuore da cui viene spinto alle branchie per gli scambi gassosi e quindi nuovamente a tutto il corpo (fig. 14.7).

L’apertura boccale, primo segmento dell’apparto digerente, è differenziata a seconda delle abitudini alimentari. Pesci come il barbo e la carpa, che “grufolano” sul fondo alla ricerca di macroinvertebrati, hanno bocca “infera” o “tubiforme”. Nei predatori, come il luccio ed il persico trota, la bocca ha un’ampia possibilità di apertura per afferrare le prede. I denti sono presenti in alcune specie sul margine interno delle mascelle, sul palato e sulla lingua; non hanno funzione masticatoria, ma di prensione del cibo. Alcune specie sono prive dei denti, sostituiti da altre formazioni ossee, i denti faringei, inseriti sulle ossa faringee, dietro le branchie. Nei ciprinidi i denti faringei vengono usati per macinare grossolanamente il cibo. Alla bocca ed alla faringe (fig. 14.7), quest’ultima in comune con l’apparato respiratorio, fa seguito l’esofago, un corto e spesso tubo ricco di fibre muscolari in grado di provocare, in alcune specie, l’espulsione del cibo quando costituito da materiale non digeribile. All’esofago segue lo stomaco, la cui funzione è quella di immagazzinare il cibo e di compiere una grossolana demolizione chimica grazie all’azione degli enzimi in grado di agire in ambiente acido. Lo stomaco non è presente in tutte le specie; nei ciprinidi è assente ed il cibo è demolito in altri tratti dell’apparato digerente. Le maggiori dimensioni dello stomaco vengono raggiunte dai predatori che ingeriscono prede di una certa grandezza. Nell’ultimo tratto dello stomaco, presso il punto di congiunzione con l’intestino, si trovano i ciechi pilorici, appendici a volte molto numerose e terminanti a fondo cieco, la cui funzione è quella di aumentare la superficie di contatto tra il cibo e la superficie digerente che produce enzimi per ultimare la digestione. L’intestino, la cui funzione principale è costituita dall’assorbimento, è più lungo negli erbivori che nei carnivori per la maggiore difficoltà nella digestione delle fibre vegetali. A tale organo sono annessi il pancreas ed il fegato. L’ultimo tratto dell’intestino, il retto, che sbocca all’esterno tramite l’apertura anale, anteriormente alla papilla genitale ed alla pinna anale. La quantità e la qualità del cibo variano in misura in funzione dell’età e a seconda delle specie. I pesci possono essere suddivisi in erbivori (carpa erbivora, anche se non si nutre esclusivamente di vegetali), onnivori (quasi tutti i ciprinidi) e carnivori (luccio, persico reale, persico trota, trota). Il gruppo più numeroso nelle acque interne italiane è il secondo, anche se nella dieta di tali animali sono più frequenti materiali di origine animale che vegetale. La necessità di cibo è maggiore negli individui giovani; ciò non significa che un pesciolino di 10 cm mangi più di un individuo di oltre 30 cm di lunghezza, ma che la massa di un insieme di individui giovani consuma molto di più di una equivalente massa di individui più grandi.

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Salmo [trutta] marmoratus (trota marmorata). Acquarello.

Salmo [trutta] fario (trota fario). Acquarello.

Un organo esclusivo dei pesci è la vescica gassosa, che permette di variare il peso specifico in funzione della profondità a cui si trovano, consentendo di stazionare senza eccessivi sforzi al livello desiderato. È collocata tra il tubo digerente e la porzione inferiore della colonna vertebrale (fig. 12.7) ed ha l’aspetto di un sacco con pareti trasparenti in alcune specie o perlaceo in altre; nei salmonidi è indivisa, nei ciprinidi è divisa in due camere intercomunicanti. La vescica trae origine dalla parete dorsale dell’esofago, con cui rimane in comunicazione per mezzo di un “dotto pneumatico”, come nei salmonidi e nei ciprinidi. In altri pesci, quali i percidi, il dotto si chiude subito dopo la nascita. La variazione del peso specifico è assicurata dal riempimento o dallo svuotamento della vescica con gas (ossigeno, azoto, anidride carbonica) da parte di vasi capillari riuniti in due formazioni particolari dette “corpo rosso” e “corpo ovale”. Nei ciprinidi la vescica funge da organo recettore in grado di emettere suoni, essendo collegata ai centri nervosi per mezzo di una serie di piccole ossa derivanti dalle prime vertebre modificate.

Gli organi di senso sono di-versi a seconda della nicchie occupate dalle diverse specie. Nei pesci di fondo, viventi in acque più o meno torbide, la vista ha un ruolo meno im-portante rispetto a pesci come la trota od il cavedano, spe-cializzati nel predare insetti in acque trasparenti. Condi-zioni fisiche estreme hanno favorito la selezione di organi sensoriali particolari; la presenza di barbigli forniti di papille gustative ed olfattive consente alla carpa o al pesce gatto di individuare il cibo in condizioni visive proibitive. I sensi più sviluppati sono l’olfatto ed il gusto. Nell’ambiente aereo la propagazione di odori e sapori è limitata per i primi e richiede un contatto diretto con i secondi; invece nell’acqua i due sensi sono sovrapponibili. L’acqua è un cocktail ricco di sostanze di varia provenienza; per distinguere in tale massa di gusti e odori sono necessari organi in grado di analizzare e riconoscere sostanze presenti anche in piccolissime quantità. Un lombrico che si muove è individuato attraverso le vibrazioni percepite dalla linea laterale; arrivato vicino alla preda il pesce si accerta che l’oggetto sia commestibile fiutandone l’odore per mezzo delle fossette nasali o delle papille gustative. Un anguilla percepisce l’odore del cibo anche ad una cinquantina di metri di distanza e riesce a riconoscere l’acqua in cui si siano trovate altre anguille. Altre sostanze possono suscitare risposte di allarme che induco-

no il pesce a fuggire o a nascondersi; fra questi “odori di allarme” vi sono quelli emessi da certi predatori o quelli che vengono liberati dalla pel-le di pesci feriti. Altre sostanze trasportate dal-l’acqua comunicano ai pesci informazioni utili per l’orientamento durante le migrazioni, per la difesa da sostanze tossiche o per il riconosci-mento dell’altro sesso durante il periodo ripro-duttivo. Pesci che vivono in acque limpide come i salmonidi possiedono un’ottima vista ed utiliz-zano l’olfatto nel riconoscimento dei territori di migrazione grazie ad una “memoria olfattiva” delle caratteristiche fisico-chimiche delle loro acque natie. Generalmente i pesci che vivono in superficie posseggono un’ottima acutezza visiva e percepiscono beni i colori; in quelli di fondo lo sviluppo della vista è mediocre per l’adattamen-

to in ambienti scarsamente luminosi. Gli occhi dei pesci, posti lateralmente, hanno forma globosa; ciascuno copre un campo visivo di oltre 100 gradi con un piccolo settore di visione binoculare. I pesci, quindi, non percepiscono bene distanze e rilievi delle forme; in compenso possiedono un campo visivo molto ampio, entro il quale gli oggetti appaiono poco nitidi, ma ugualmente visibili soprattutto se in movimento.

Per quanto riguarda la riproduzione tutte le specie delle acque interne italiane, ad eccezione della gambusia (alloctona), sono ovipare: le uova sono fecondate dopo l’espulsione all’esterno. Ovaie e testicoli sono posti

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nella zona superiore della cavità addominale e nel periodo precedente la frega, possono occuparne buona parte, comprimendo l’intestino e riducendo l’ingestione di cibo. Non tutte le specie sono dotate di un ovidotto in grado di convogliare le uova al poro genitale ed in tal caso, come nella trota, esse cadono nell’addome, da cui sono espulse per contrazioni della muscolatura.

La maturazione delle gonadi dipende dal ciclo ormonale controllato dall’ipofisi. Nel caso della trota l’innesco di tale fenomeno è in relazione con la diminuzione della luminosità e della temperatura nell’autunno. Invece in quasi tutti i ciprinidi la maturazione viene innescata dall’aumento del fotoperiodo e della temperatura dell’acqua, in primavera. Caratteristiche dei fondali o presenza di substrati vegetali condizionano la riproduzione. Per i salmonidi sono necessarie acque poco profonde, limpide, con corrente costante e temperature inferiori a 10 ÷ 12 °C, su fondali ghiaiosi; la femmina, con poderosi colpi di coda, scava una fossa destinata a contenere le uova fecondate; alla schiusa le larve si trovano in un ambiente ricco di rifugi tra i ciottoli. La carpa si porta in acqua calde e ricche di vegetazione e fa aderire le uova alle piante acquatiche; il pesce persico le depone in lunghe ghirlande presso le rive sugli oggetti sommersi.

L’uovo è costituito da una membrana esterna con microscopici fori (~ 10-1 µm) e di un micropilo, attraverso cui gli spermatozoi giungono a contatto col gamete femminile. Il tuorlo, separato dalla membrana da un sottile spazio, detto perivitellino, garantisce il nutrimento all’embrione. Appena espulso, l’uovo non è sferico, ma poligonale e flaccido e rimane tale fino a quando l’acqua, penetrata nello spazio perivitellino per osmosi, non abbia disteso la membrana esterna in un processo di idratazione o indurimento dell’uovo. Ciò provoca la chiusura del micropilo, rendendo impossibile il passaggio degli spermatozoi. Il maschio deve fecondare le uova prima della chiusura del micropilo, durante o immediatamente dopo la loro deposizione. Numero e dimensioni delle uova sono molto variabili; più sono piccole, maggiore è il loro numero. La trota depone poche uova, di grandi dimensioni, ricche di vitello; essa vive in ambienti poveri di cibo. Pochi individui sono quindi necessari per mantenere la popolazione a livelli accettabili; la gran quantità di vitello è indispensabile per l’avannotto per affrontare un lungo periodo di alimentazione endogena, prima di iniziare ad alimentarsi con ciò che l’ambiente mette a disposizione. La carpa depone uova piccole, ma numerosissime; vivendo in ambienti con catene trofiche molto complesse le giovani carpe sono soggette ad elevata predazione; nel contempo, un ambiente in cui grande è la disponibilità di cibo consente agli avannotti di non dover dipendere per lungo tempo dall’alimentazione endogena.

La durata dell’incubazione diminuisce con l’aumentare delle temperatura e viene espressa in “gradi⋅giorno”, cioè il numero di giorni teoricamente richiesti per la schiusa alla temperatura di 1 °C; il numero di gradi⋅giorno varia da specie a specie (tab. 14.3). Il tempo di incubazione della trota fario è pari a 450 gradi⋅giorno; alla temperatura di 10 °C, è teoricamente necessario un tempo pari a 45 giorni. Nella carpa il tempo di incubazione è di a 100 gradi-giorno; alla temperatura di 25 °C, la schiusa avviene in soli 4 giorni.

specie ittica Periodo

riproduttivo [mesi]

Diametro uova [mm]

Numero uova deposte [103/kg]

Tempo di incubazione [°C⋅giorni]

trota fario 10 ÷ 03 4 ÷ 6 2,5 450 trota iridea 11 ÷ 04 4 ÷ 6 2,5 300 trota marmorata 11 ÷ 01 4 ÷ 6 2 ÷ 2,5 400 salmerino di fonte 10 ÷ 12 3 ÷ 5 2,5 350 temolo 03 ÷ 05 2 ÷ 3 6 ÷ 7 200 luccio 02 ÷ 05 2,5 ÷ 3,0 20 ÷ 35 120 carpa 05 ÷ 07 1,5 100 ÷ 200 100 tinca 05 ÷ 08 1,0 400 ÷ 600 90 pesce gatto 03 ÷ 06 4 ÷ 6 7 ÷ 15 150 persico reale 03 ÷ 06 3 ÷ 5 100 150 Tab. 14.3 - Caratteristiche riproduttive di alcuni Pesci d’acqua dolce. Il numero di uova deposte è riferito ad un chilogrammo di peso della femmina.

Al momento della schiusa, dall’uovo esce una piccola larva dall’aspetto talvolta molto diverso da quello dell’adulto; essa è impedita nel nuoto da una grossa dilatazione dell’addome, il sacco vitellino, e giace sul fondo capace di limitati movimenti. Il sacco vitellino contiene sostanze nutritive utili a garantire la

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sopravvivenza del piccolo pesce finchè esso non è in grado di alimentarsi autonomamente. I tempi di riassorbimento del sacco vitellino sono funzione delle dimensioni dell’uovo e della temperatura dell’acqua; lunghi in pesci di acque fredde come la trota, molto brevi in pesci di acque calde come alcuni ciprinidi. Tra i pesci le cure parentali sono l’eccezione. In alcune specie introdotte in Italia, come il pesce gatto od il persico trota, questa strategia ne ha consentito un’ampia proliferazione. Più spesso il comportamento dei genitori sulla prole contempla episodi di cannibalismo, come nel luccio e nei salmonidi.

14.3 - Le zone ittiche

Le difficoltà nello studio di un fiume sono dovute alla variabilità degli ambienti, dalle sorgenti alla pianura; da monte a valle diminuiscono pendenza dell’alveo, velocità della corrente e granulometria dei materiali dei fondali; aumentano portata, larghezza dell’alveo, profondità, temperatura, concentrazione dei soluti, produttività biologica e torbidità (par. 5.5). I parametri fisici e chimici delle acque subiscono notevoli cambiamenti procedendo dalla sorgente alla foce e su essi sono basate le prime proposte di zonazione. È difficile che uno o pochi fattori possano fornire una buona base per una zonazione longitudinale che tenga conto della complessità dei diversi ambienti. Per tali ragioni si sono utilizzate altre variabili: pendenza degli alvei, velocità delle acque, portata, profondità, larghezza, qualità e presenza degli organismi,… L’utilizzo dei macroinvertebrati, indicatori di zone differenti, ha permesso la seguente suddivisione:

• crenon; zona sorgiva, con stabilità delle caratteristiche fisico - chimiche, in particolare la temperatura; • rhithron; zone di ruscello e di torrente, con acque fredde, ossigenate, buona corrente, fondali a

granulometria grossolana, raramente fine; fauna ittica rappresentata da trote e/o temoli; da monte a valle divisa in epi - meta - iporhithron;

• potamon; corsi d’acqua di pianura, con acque meno fredde, corrente debole e fondali prevalentemente limosi; fauna ittica caratterizzata da ciprinidi; anche questa zona è suddivisa in epi - meta - ipopotamon; l’ultima corrisponde alla foce, con mescolanza di acque marine con quelle dolci.

Nel 1925 l’ittiologo A. THIENEMAN proponeva uno schema basato sulla distribuzione delle specie di pesci dominanti valido per l’Europa Centrale:

1 - regione della sorgente; 2 - regione della trota - Salmo [trutta] fario; 3 - regione del temolo - Thymallus thymallus; 4 - regione del barbo - Barbus fluviatilis; 5 - regione dei ciprinidi - Abramis brama; 6 - regione di foce - Acerina cernua, Pleuronectes flexus.

Per i fiumi dell’Europa occidentale, nei primi anni ‘50, la classificazione in zone dei corsi d’acqua fu modificata e semplificata da M. HUET in quattro zone (tab. 14.4 e fig. 14.8). È una zonazione longitudinale valida per quasi tutta l’Europa, caratterizzata da fiumi nei quali i diversi ambienti sono, in generale, ben rappresentati nei tratti montani (trota), pedemontani (trota e temolo), collinari (barbo) e di pianura (ciprinidi limnofili). Secondo l’idrobiologo francese infatti “...In una regione determinata, acque correnti aventi larghezza e pendenza equivalenti, presentano analoghe caratteristiche di ambienti e di popolazioni ittiche “.

L’Italia è un territorio stretto e allungato, ricco di montagne, dove i corsi d’acqua, relativamente brevi, giungono in pianura per sfociare in mare o confluire nel Po dopo un ripido tratto montano, senza transizioni graduali. Ciò comporta molte complicazioni quando si cerca di individuare le zone lungo i fiumi italiani. A parte alcune eccezioni (Po, Sesia, Tanaro,...) nell’Italia Settentrionale buona parte dei fiumi, come quelli appenninici, giungono alla foce in mare dopo un breve percorso, a partire da sorgenti situate in montagna a poca distanza dalla costa; in questi brevi corsi d’acqua spesso convivono specie con caratteristiche diverse ed endemismi non presenti in altre porzioni europee. Anche nel bacino del Po molti fiumi e torrenti non mostrano la successione ittica tipica indicata da HUET. Per il Po ed ai suoi affluenti à stata adottata, per un certo periodo di tempo, una zonazione diversa rispetto a quanto proposto da HUET (tab. 14.5 e figg. 14.9).

I pesci sono dunque adatti per caratterizzare la varietà di ambienti in un corso d’acqua. Le porzioni più elevate dei torrenti montani presentano condizioni ambientali proibitive per la maggior parte degli organismi; le acque fredde e povere di nutrienti non riescono a sostenere una buona produttività biologica; la trota fario è la specie ittica più frequente, spesso l’unica. L’ambiente è la “zona a trota fario” (zona della

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trota di HUET). Più a valle le condizioni ambientali consentono una maggior presenza di specie animali e vegetali e compare lo scazzone, un piccolo pesce bentonico spesso preda della fario.

Tab. 14.4 - Zonazione longitudinale secondo HUET per l’Europa centro-occidentale. ZONE AMBIENTI ITTIOFAUNA

Zona della TROTA Corsi d’acqua a corrente rapida. Fondi rocciosi, ghia-iosi o a ciottoli. Scarsa profondità. Acque molto ossi-genate. Temperatura inferiore a 15 °C.

Salmonidi dominanti

Zona del TEMOLO Corsi d’acqua a corrente rapida. Fondi con materiale meno grossolano. Maggiore larghezza, profondità fi-no a 2 m. Acque meno ossigenate.

Mista: salmonidi dominanti in forte corrente, ciprinidi in cor-rente debole.

Zona del BARBO Fiumi a gradiente moderato. Corrente alternativa-mente rapida e debole. Fondi con materiale più mi-nuto.

Mista: salmonidi in corrente forte; ciprinidi reofili domi-nanti.

Zona dell’ABRAMIDE

Corso inferiore del fiume. Corrente debole. Ossigeno scarso. Temperatura estiva elevata. Torbidità. Fondi limosi.

Ciprinidi reofili in corrente. Ciprinidi limnofili dominanti.

Tab. 14.5 - Zone ittiche del bacino del Po. Indice di abbondanza per specie: assente (0), sporadica/accidentale (1), presente (2), abbondante (3), molto abbondante (4).

Nome volgare zona 1 zona 2 zona 3 zona 4 Trota fario 3/4 0/1 0/1 0

Trota marmorata 0/1 0/1/2/3/4 0/1 0 Temolo 0/1 0/1/2/3/4 0/1 0

Scazzone 0/1/2/3/4 0/1/2/3/4 0/1 0 Vairone 0/1 0/1/2/3/4 1/2/3/4 0

Barbo canino 0/1 0/1/2/3/4 0/1/2/3/4 0 Barbo comune 0 0/1 0/1/2/3/4 0/1/2

Cavedano 0 0/1 1/2/3/4 2/3/4 Alborella 0 0 0/1/2 1/2/3/4

Lasca 0 0/1 0/1/2/3/4 0/1 Scardola 0 0 0/1 0/1/2/3/4

Carpa 0 0 0 0/1/2 Tinca 0 0 0 0/1/2

Anguilla 0 0/1 0/1 0/1/2 Zona 1 (zona ittica a trota fario). Trota fario almeno abbondante. Presenza di altre specie poco importante (marmorata e temolo solo presenti). Zona 2 (zona ittica a trota marmorata e/o temolo). Trota marmorata e/o temolo abbondanti. Presenza di altre specie poco importante (purché trota fario non sia molto abbondante). Zona 3 (zona ittica a ciprinidi reofili). Temolo, salmonidi e ciprinidi limnofili assenti o presenti. Vairone dominante insieme a ciprinidi reofili (barbo e lasca). Zona 4 (zona ittica a cirpinidi limnofili). Temolo e salmonidi assenti. Specie tipica è l’alborella (spesso accompagnata dal cavedano). Importanti i ciprinidi limnofili.

Quando il torrente diviene più ampio, sul fondo delle principali vallate alpine, apprestandosi a sfociare in pianura, la trota fario diminuisce di consistenza numerica, per lasciare il posto alla trota marmorata. Compare anche il temolo e oltre allo scazzone, è presente la sanguinerola, uno dei pochi ciprinidi, con il vairone ed il barbo canino, che prediligono le acque fresche e correnti della zona “a trota marmorata/temo-lo”, corrispondente alla“zona del temolo” di HUET. Barbo, vairone e lasca sono i pesci caratteristici della successiva zona “a ciprinidi reofili”, la “zona del barbo” di HUET. Nella porzione più a valle di questa zona cavedano e barbo comune sono molto abbondanti e frequenti. anche nei pochi tratti di buona corrente nella successiva zona, quella dei “ciprinidi limnofili”, che corrisponde alla “zona della carpa” di HUET.

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Fig. 14.8 - Il diagram-ma di HUET consente di attribuire un tratto di fiume, sulla base della pendenza e della lar-ghezza, ad una determi-nata “zona ittica”. Con il diminuire della pen-denza e l’aumento della larghezza, le comunità ittiche tipiche delle ac-que correnti (lotiche) vengono sostituite con quelle tipiche di acque calme (lentiche).

La zona dei “ciprinidi limnofili” è caratterizzata da acque lente e in alcuni tratti, nei momenti di magra, addirittura stagnanti; la temperatura più elevata e la maggior disponibilità di nutrien-ti consentono una maggior pro-duttività biologica sostenuta da un discreto sviluppo di vegetali acquatici, quasi assenti nelle zo-ne superiori. Oltre al cavedano, sono presenti l’alborella, la scar-dola, la tinca, la carpa, il luccio, il persico reale,... I pesci della zona “a ciprinidi limnofili” sono rappresentativi anche delle zone umide ad acque stagnanti di pia-nura. Nei laghi alpini, caratteriz-zati da acque fredde e da spicca-ta oligotrofia prevalgono invece i salmonidi ed in particolare i salmerini alpini, ma la cui pre-senza è, quasi sempre, dovuta ad immissioni. Il tratto terminale della zona a ciprinidi limnofili, se il fiume sfocia in mare, è un ambiente particolare e meritevo-le di essere distinto. È una fascia

di transizione, in genere con acque salmastre, tra gli ambienti continentali e quelli francamente marini. I pesci tipici delle acque dolci a lento decorso diminuiscono rapidamente per essere sostituiti da cefali, muggini, latterini, ecc..

Fig. 14.9 - Schema grafico delle frequenze delle diverse specie ittiche nelle zone considerate nella tab. 14.5. La frequenza abbondante o molto abbondante è in funzione delle larghezze degli areogrammi che diventano linee continue (presente, ma poco frequente) e tratteggiate (occasionale).

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ACIPENSERIDI

Alcuni autori hanno proposto zone ittiche differenti anche per i fiumi appenninici:

• zona a trota fario; tratto montano con acque limpide ed ossigenate; forti pendenze dell’alveo ed elevata velocità di corrente; fondo a massi, ciottoli o ghiaia grossolana; scarsa o moderata presenza di macrofite, temperatura raramente superiore a 13 ÷ 14 °C; trota fario dominante e vairone di accompagnamento;

• zona mista trota fario/ciprinidi reofili; tratto pedemontano con pendenze e velocità di corrente ancora abbastanza elevate; trota fario dominante e specie di accompagnamento quali vairone, cavedano, barbo comune, barbo canino e lasca.

• zona a ciprinidi reofili (a deposizione litofila); tratti di fondovalle e planiziali con acque limpide; corrente veloce/moderata alternata a zone dove l’acqua rallenta ed aumenta la profondità; fondo con ghiaia fine e sabbia, moderata presenza di macrofite, temperatura raramente oltre 18 ÷ 19 °C; ciprinidi reofili dominanti.

• zona a ciprinidi limnofili (a deposizione fitofila); tratti planiziali con pendenze e velocità di corrente molto ridotte, acqua frequentemente torbida, fondo pelitico, temperature fino a 25 °C, abbondanti macrofite, con alborella, scardola, triotto, tinca e carpa dominanti; ciprinidi reofili di accompagnamento.

Queste proposte di zonazione sono oggi superate, soprattutto per nuove acquisizioni sull’autoctonia di alcuni salmonidi nel territorio italiano. Se, come sembra, gran parte delle popolazioni di trota fario presenti nei fiumi italiani, sono artificiali, in quanto introdotte dall’uomo in tempi piu o meno remoti, l’identificazione di una zona “a trota fario” andrebbe rivista. Appare oggi piu corretto parlare di una zona ittica a salmonidi, distinta in superiore ed inferiore, dove gli unici salmonidi sicuramente autoctoni sono la trota marmorata per i corsi d’acqua alpini e la trota macrostigma per i corsi d’acqua appenninici tirrenici.

14.4 - Specie autoctone Storione comune (Acipenser sturio). Specie anadroma, diffusa in Europa ed in Asia minore; compie la fase trofica in ambiente marino e si riproduce in acque dolci. Durante la migrazione pre - riproduttiva copre distanze notevoli, spesso di centinaia di chilometri, per raggiungere i siti riproduttivi favorevoli. La sua distribuzione nelle acque italiane, un tem-po piuttosto ampia, è oggi limitata a causa della pressione di pesca e soprattutto dalla presenza di sbarramenti invalicabili che impediscono ai pesci di raggiungere le aree riproduttive. Emblematica in questo senso è la sua scomparsa dal Po piemon-tese, dopo la costruzione degli sbarramen-ti di Casale Monferrato, in provincia di Alessandria e di Isola Serafini, in provin-cia di Piacenza. Oltre allo storione comu-ne, indigeni delle acque italiane sono lo Storione cobice (Acipenser naccarii) e lo Storione Ladano (Huso huso). Gli Aci-penseridi hanno forma allungata, e carat-teristici scudi ossei cutanei in file longitu-dinali. Bocca infera, munita di barbigli. La differenza tra le specie risiede nella forma del muso, dei barbigli e nelle taglie massime raggiungibili.

Anguilla (Anguilla anguilla). Specie cata-droma, ampiamente diffusa lungo le coste e le acque interne italiane, oggetto di intensa pesca ed allevamento per il notevole interesse commerciale. Il ciclo vitale è complesso, svolto parzialmente in acque dolci o salmastre e parzialmente in acque pelagiche. La riproduzione dell’anguilla avviene nel Mar Dei Sargassi (Oceano Atlantico) comune sia alla specie europea sia a quelle americane. Le larve, nate dopo la schiusa (leptocefali), sono trasportate dalle correnti lungo le coste europee, dove nelle acque litoranee subiscono una prima metamorfosi. Le “cieche” iniziano quindi la risalita dei corsi d'acqua, compiendo migrazioni talora lunghe centinaia di chilometri. Durante la

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migrazione la giovane anguilla acquisisce l’aspetto definitivo. Successivamente le anguille compiono, in fiumi e torrenti, la fase trofica e di accrescimento, al termine della quale una nuova trasformazione anatomica e fisiologica prelude alla discesa dei corsi d’acqua verso il mare e i siti di riproduzione nell’oceano. L’aspetto dell’animale adulto è tipicamente serpentiforme, con colorazione nerastra sul dorso ed addome grigio - giallastro. Durante la discesa verso il mare i fianchi mostrano una colorazione argentea (anguille argentine). L’anguilla è una forte predatrice, di ampia valenza ecologica. Nonostante la relativa facilità di allevamento, le popolazioni selvatiche sono in diminuzione a causa degli sbarramenti (dighe soprattutto) che ne impediscono la risalita verso i tratti superiori di fiumi e torrenti. Nel bacino del Po sono quindi particolarmente penalizzati i bacini occidentali, dove l’anguilla è in regressione.

Agone (Alosa fallax lacustris). La famiglia dei clupeidi comprende circa 200 specie, quasi tutte marine. Alcune sono migratrici anadrome; altre compiono l’intero ciclo vitale nelle acque dolci. Nelle acque italiane è presente un unica specie, Alosa fal-lax, con due sottospecie, l’agone, stan-ziale nei laghi prealpini ed in alcuni la-ghi dell’Italia centrale e la Cheppia (Alosa fallax nilotica), migratrice ana-droma e diffusa in tutto il Mediterra-neo. Le due forme sono sostanzial-mente indistinguibili, ma la cheppia raggiunge taglie superiori avendo una alimentazione che comprende, oltre ad invertebrati e crostacei, anche piccoli pesci. L’agone è, al contrario, spic-catamente planctofago. Esso ha note-vole importanza commerciale ed è soggetto ad elevata pressione di pesca professionale nei grandi laghi del nord Italia, tanto da risultare in lenta e co-stante diminuzione. Analogamente si vanno riducendo le aree di distribuzio-ne della cheppia, a causa degli sbarra-menti che impediscono la risalita nei fiumi per la riproduzione. Questo fe-nomeno, già descritto per lo storione, è la causa principale della progressiva rarefazione di tutte le specie anadrome e risulta negativo anche per quelle che vivono in acque dolci, ma che compio-no migrazioni più o meno lunghe per accedere ai siti riproduttivi.

Alborella (Alburnus alburnus alborel-la). Piccolo pesce gregario, indigeno dell’Italia settentrionale, diffuso in molti ambienti ricchi di vegetazione, sia in acque moderatamente correnti, sia in quelle ferme. Al genere Alburnus appartiene un’altra specie, Alburnus albidus o Alborella meridionale, endemica di alcuni corsi d’acqua dell’Italia meridionale. I due ciprinidi sono riconoscibili per alcuni caratteri morfometrici e meristici, essendo difficilmente distinguibili ad un esame visivo. Entrambi presentano corpo fusiforme, più accentuato nell’alborella meridionale, con bocca supera nell’alborella e supero - mediana nell’alborella meridionale. La livrea varia dal blu con riflessi metallici al verde scuro sul dorso; fianchi e addome di colore bianco - argenteo. Le due specie hanno buona resistenza ed adattabilità. Anche nel caso dell’alborella meridionale, così come per la rovella, sono soprattutto le massicce transfaunazioni di ciprinidi a costituire un reale pericolo per la sopravvivenza della specie.

Barbo (Barbus plebejus). Nei corsi d’acqua pedemontani e di fondovalle della penisola, nelle zone “a ciprinidi reofili”, dove spesso risulta la specie più abbondante. Corpo fusiforme, capo allungato. Bocca infera, munita di due paia di barbagli. Colorazione variabile, tendenzialmente grigio - verdastra sul dorso, con addome chiaro. Negli esemplari più giovani è presente una punteggiatura scura diffusa sul dorso e sui fianchi, mantenuta in fase adulta anche in alcune popolazioni dell’Italia centro - meridionale. Nonostante le

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capacità di adattamento e l’ampio spettro trofico che gli consentono un’ampia diffusione, anche il barbo ha visto restringere il suo areale di distribuzione a causa delle diminuzioni delle portate, delle alterazioni degli alvei e della costruzione di dighe e sbarramenti che impedendo le migrazioni e l’accesso alle aree di frega.

Barbo canino (Barbus meridionalis). Specie reofila che colonizza tratti montani inferiori e pedemontani dei fiumi dell’Italia centro - settentrionale, spingendosi talora nelle zone a trota fario. Forma molto simile a quella del barbo comune, dal quale si differenzia per la livrea, caratterizzata da una maculatura scura diffusa ed irregolare su sfondo grigio e per le dimensioni massime raggiungibili, molto inferiori a quelle del barbo. Distribuzione limitata e frammentaria; forte contrazione numerica a causa dei fenomeni già descritti nel caso del barbo comune. Inoltre il barbo canino, condividendo in parte lo stesso habitat dei salmonidi, ha risentito dei massicci ripopolamenti con trote fario ed iridee, delle quali è una preda potenziale e con le quali può entrare in competizione alimentare.

Lasca (Chondrostoma genei). Ciprinide reofilo, indigeno dell’Italia centro - settentrionale. Il limite meridionale del suo areale di distribuzione coincide con i corsi d’acqua adriatici dell’Abruzzo. Condivide i tratti pedemontani e di fondovalle di fiumi e torrenti con il barbo, con il quale spesso forma sciami misti. La bocca, infera, ha mascella prominente ed un caratteristico rivestimento corneo mandibolare. Livrea scura sul dorso, con fianchi ed addome argentei ed un’evidente banda scura longitudinale. L’attaccatura delle pinne pettorali, ventrali ed anale è di colore rosso - arancione, particolarmente acceso durante il periodo riproduttivo. Dieta onnivora. Specie piuttosto esigente dal punto di vista della qualità ambientale; ovunque in netta diminuzione.

Savetta (Chondrostoma soetta). Come tutte le specie appartenenti al genere Chondrostoma, è riconoscibile per l’apparato boccale infero con labbra cornee. Rispetto alla lasca, ha una livrea con tonalità meno accese; banda scura longitudinale assente. La savetta è gregaria e compone gruppi talora molto numerosi che colonizzano i tratti medio inferiori dei fiumi di maggiore portata dell’Italia settentrionale, di cui è endemica. Durante la fase riproduttiva compie ampie migrazioni per accedere ai letti di frega nei tratti più a monte. La costruzione di dighe e sbarramenti ha ridotto la consistenza delle popolazioni di savetta su tutto il suo areale di distribuzione e costituisce una grave minaccia per la sopravvivenza della specie.

Gobione (Gobio gobio). Specie indigena dell’Italia settentrionale, colonizza i corsi d’acqua di fondovalle con fondale ghiaioso o sabbioso, nelle zone “a ciprinidi reofili” e in alcuni tratti di quelle “a ciprinidi limnofili”. Spesso confuso dai pescatori con il barbo canino per la colorazione simile e per la presenza dei barbigli, benché le due specie occupino distinte nicchie ecologiche. Il gobione possiede, a differenza del

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barbo canino, un solo paio di barbigli. Anche al gobione è riconosciuta una relativa sensibilità alle alterazioni ambientali; ciò spiega la diminuzione nel suo areale di distribuzione.

Cavedano (Leuciscus cephalus). Specie ad ampia distribuzione, in laghi, stagni, fiumi e torrenti di fondovalle e collinari. A volte si spinge nei tratti superiori dei corsi d’acqua, fino al limite delle zone a salmonidi. Ha un’ampia valenza ecologica e una notevole adattabilità alle differenti condizioni ambientali. È tipicamente gregario, tipica caratteristica di tutti i ciprinidi, soprattutto in fase giovanile. La forma del pesce è fusiforme e slanciata, con scaglie grandi. Colorazione generalmente grigia, con addome biancastro o giallastro. Bocca mediana, priva di barbigli. Onnivoro, benché gli esemplari di grossa taglia si nutrano in prevalenza di piccoli pesci. In un bacino dell’Italia centrale è stata descritta una specie affine, il cavedano dell’Ombrone (Leuciscus lucumonis), di taglia inferiore rispetto al cavedano; secondo alcuni Autori potrebbe essere un ibrido tra il cavedano ed un altro ciprinide del genere Leuciscus.

CIPRINIDI REOFILI

Vairone (Leuciscus souffia). Piccolo ciprinide reofilo, indigeno dell’Italia settentrionale e di parte dell’Italia peninsulare, ampiamente diffuso in tutti i corsi d’acqua con fondali ciottolosi ed acque limpide e ossigenate. Corpo fusiforme, bocca piccola e mediana, priva di barbigli; l’attaccatura delle pinne pettorali, ventrali ed anale spesso mostra un colore rosso - aranciato molto acceso. Sui fianchi è presente una banda scura longitudinale, evidente sulla colorazione di fondo grigiastra. La specie è gregaria. Nonostante una diffusione ancora piuttosto ampia, l’entità delle popolazioni ha subito un notevole ridimensionamento, a causa del deterioramento degli ambienti fluviali e delle immissioni massicce di altre specie competitive o predatrici.

Sanguinerola (Phoxinus phoxinus). Piccolo ciprinide reofilo, nei corsi d’acqua ed in bacini limpidi e ben ossigenati dell’Italia settentrionale, in grado di colonizzare sia ambienti planiziali, sia ambienti d’alta quota, purché di buona qualità. La sanguinerola è considerata un buon indicatore, essendo una delle specie più sensibili alle modificazioni dell’ambiente. Nel periodo riproduttivo si evidenzia un notevole dimorfismo sessuale nella livrea; i maschi hanno colorazione con tonalità rosse molto accese, soprattutto nella zona ventrale, le femmine una colorazione più tenue, bruno - verdastra, con una banda scura sui fianchi. Tale

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differenza scompare al di fuori del periodo nuziale, quando la colorazione è uniformemente tenue e sfumata. La sanguinerola è il ciprinide che più ha risentito dell’espansione dell’areale della trota fario, operata artificialmente dall’uomo con i ripopolamenti. È infatti scomparsa in molte acque, marcatemente in quelle di risorgiva e nei piccoli laghi alpini, ambienti di difficile e delicato equilibrio, dove l’introduzione di un forte predatore come la trota ha provocato una riduzione dei pesci presenti.

Triotto (Rutilus erythrophthalmus). Endemismo dell’Italia settentrionale, tipico di acque ferme o a lento decorso ricche di vegetazione acquatica. Comune nelle zone “a ciprinidi limnofili” ed in molti laghi e stagni; areale di distribuzione ampliato ad opera dei ripopolamenti. Corpo fusiforme e tozzo, bocca mediana priva di barbigli. L’occhio, come indica il suo nome scientifico, ha l’iride rossastra. La livrea, scura sul dorso, si schiarisce progressivamente sui fianchi e sull’addome, di norma biancastro. Lungo i fianchi decorre una banda scura, a volte contornata da un alone verde - azzurro. Specie ad ampio spettro trofico, piuttosto tollerante, non sembra risentire più di tanto del generale degrado ambientale provocato dall’uomo.

CIPRINIDI LIMNOFILI

Pigo (Rutilus pigus). Endemico dell’Italia settentrionale, nei corsi d’acqua di maggiore portata ed in alcuni laghi del bacino padano - veneto. Nonostante sia stato segnalato un ampliamento del suo areale di distribuzione verso occidente, è in netta, costante diminuzione, a causa delle alterazioni dell’ambiente che limitano fortemente il suo potenziale biotico, soprattutto dighe, sbarramenti e asciutte impediscono le migrazioni verso le aree di frega. È segnalata la sua presenza in alcuni bacini dell’Italia centrale, introdotto a scopo di ripopolamento o accidentalmente con immissioni di ciprinidi provenienti dai bacini dell’Italia

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settentrionale. Corpo fusiforme e tozzo; complessivamente la forma è simile a quella del cavedano, ma più sviluppata in altezza. La pinna anale ha una concavità accentuata, utile elemento diagnostico per il riconoscimento degli esemplari giovani rispetto agli stadi giovanili del cavedano. Analogie vi sono anche nella livrea, con dorso scuro e fianchi argentei con riflessi dorati.

Rovella (Rutilus rubilio). Endemica dell’Italia centro – meridionale, preferenzialmente nei corsi d’acqua di fondovalle, nella zona “a ciprinidi limnofili”. Le sue capacità di adattamento le consentono di colonizzare laghi, stagni, acque salmastre e di spingersi nei tratti montani di alcuni fiumi appenninici. Livrea ed aspetto complessivo simili a quelle del triotto, così come molti aspetti della sua ecologia. Nonostante la rovella possieda una elevata valenza ecologica, risente negativamente delle frequenti immissioni di specie padane nei corsi d’acqua che la ospitano. In particolare le immissioni del triotto potrebbero avere influenze negative sulla distribuzione e sull’entità delle attuali popolazioni di questo particolare endemismo.

Scardola (Scardinius erythrophthalmus). Ciprinide limnofilo ben distribuito nelle acque interne della penisola. Predilige, come l’alborella ed il triotto, le acque con corrente moderata o lenta e gli ambienti lacustri. La forma è tozza e molto sviluppata in altezza. Bocca piuttosto piccola, supero - mediana. Caratteristica, ma non tipica della specie, è l’iride, di colore rossastro. Colorazione delle pinne varia grigio al rosso acceso, ma non è chiaro se la differente colorazione sia attribuibile a variabilità intraspecifica o a possibili sottospecie. La scardola è un pesce dallo spettro trofico ampio e diversificato, la cui distribuzione ed entità dei popolamenti non sembra aver risentito del progressivo degrado ambientale.

Tinca (Tinca tinca). Diffusa uni-formemente in Europa ed in Asia, è presente in tutte le acque sta-gnanti ed a lento decorso della pe-nisola. In Sardegna ed in Sicilia è stata introdotta. Forma tozza, piut-tosto sviluppata in altezza. Bocca mediana, munita di un solo paio di barbigli. Colorazione varia dal bruno del dorso al giallo dell’ad-dome, con riflessi dorati o verde smeraldo sui fianchi. Esiste dimor-fismo sessuale a carico delle pinne ventrali, molto più lunghe nel ma-schio. La riproduzione è preceduta da un lungo rituale di corteggia-mento cui partecipano una femmi-na e più maschi sessualmente ma-turi. La deposizione avviene su piante acquatiche, dove le uova re-stano adese fino alla schiusa. Per la relativa facilità di allevamento e per la buona adattabilità, la tinca è considerata in espansione.

Cobite (Cobitis taenia). I cobiti sono piccoli pesci, con forma al-lungata e bocca munita di tre paia

di barbigli. La livrea è variabile, con due fenotipi estremi, definiti “puta”, con macchie regolari lungo i fianchi, e “bilineata”, con due evidenti fasce scure lungo i fianchi ed un numero variabile di fenotipi intermedi. Sul capo è presente una piccola plica cutanea retrattile, definita spina suborbitale. Vivono in acque limpide e poco veloci, con fondale sabbioso o melmoso in cui tendono a sotterrarsi durante le ore diurne. L’areale di distribuzione, originariamente limitato all’Italia settentrionale e ad alcuni corsi d’acqua tirrenici, si è diffuso a tutta la penisola ad opera dell’uomo. Specie affine è il Cobite mascherato (Sabanejewia larvata), endemico dell’Italia settentrionale, dalle abitudini ecologiche simili a quelle del cobite comune, ma con limitato areale di distribuzione.

Cobite barbatello (Orthrias barbatulus). Specie indigena della parte orientale della nostra penisola, presente, ma poco diffusa, nei corsi d’acqua a fondali ciottolosi e con acque limpide. Simile al cobite, si

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distingue per il capo, depresso in senso dorso ventrale e per la livrea irregolarmente maculata. L’ecologia è affine a quella del cobite.

Bottatrice (Lota lota). I gadiformi sono tipicamente marini, diffusi soprattutto nell’emisfero settentrionale, i cui rappresentanti più noti sono i merluzzi. La sottofamiglia Lotinae comprende però specie dulcacquicole, distribuite in Europa nord orientale, il cui limite di distribuzione meridionale è costituito dai laghi prealpini italiani e dai tratti sublacuali degli emissari. L’unico rappresentante dei gadidi della nostra penisola è la bottatrice, legato agli ambienti lacustri, rinvenibile sporadicamente in alcuni corsi d’acqua con essi comunicanti. Forma allungata, capo con apparato boccale ampio e munito di un lungo barbiglio mandibolare e di due piccoli barbigli sopra le mascelle. Pinna anale allungata, come la dorsale, sdoppiata. Livrea mimetica, con macchie e marmoreggiature scure su fondo giallo - bruno. È un predatore con attività prevalentemente notturna, che integra la sua dieta con uova di specie lacustri pregiate, quali carpione e coregone; ciò ha intensificato, negli ultimi anni, la pesca di questo pesce e la sua forte riduzione.

Spinarello (Gasterosteus aculeatus). Specie ad ampia distribuzione; colonizza sia le acque salmastre, sia quelle dolci. Presente in Italia in alcuni ambienti di risorgiva e in lagune e canali a bassa salinità, nonché in alcuni laghi alpini ed appenninici a quote non elevate. Nonostante la relativa ubiquitarietà, le popolazioni sono in contrazione numerica a causa delle modificazioni ambientali e delle introduzioni di specie esotiche, particolarmente negli ambienti dall’equilibrio delicato come quelli di risorgiva.

Cagnetta (Salaria fluviatilis). Specie diffusa in tutta la penisola in ambienti fluviali, lacustri e salmastri, purché con acque limpide. Ha abitudini bentoniche ed il suo habitat preferenziale è costituito sia da fondali ciottolosi sia da quelli melmosi con vegetazione sommersa. È affine alla bavosa (Salaria pavo), un pesce marino comune, diffuso lungo le nostre coste. Caratteristica è la strategia riproduttiva, con spiccate cure parentali da parte del maschio dopo l’ovideposizione, in un nido approntato dal maschio stesso, in genere sotto pietre od ostacoli sommersi.

Ghiozzo padano (Padogobius martensii). Ghiozzo di ruscello (Gobius nigricans). Ghiozzo puntato o panzarolo (Gobius punctatissimus). I Gobidi sono rappresentati in Italia da un elevato numero di specie, sia nelle acque litoranee e salmastre, sia in quelle dolci. Caratteristica comune a questa famiglia è la taglia ridotta, forma allungata con capo depresso ed appiattito, bocca ampia con labbra pronunciate. Pinne ventrali unite a formare una struttura adesiva denominata disco pelvico. Bentonici, con dieta costituita da larve di insetti ed anellidi. La biologia riproduttiva prevede cure parentali dopo la schiusa delle uova. Le tre specie hanno distribuzione differente. Il ghiozzo padano è diffuso nei corsi d’acqua pedemontani e di fondovalle dell’Italia settentrionale, di cui è endemico. Il suo areale di distribuzione si sovrappone parzialmente a quello del ghiozzo puntato o panzarolo, anch’esso endemico della porzione centro - orientale della pianura padana, più comune nelle risorgive. Il ghiozzo di ruscello è un endemismo dei piccoli corsi d’acqua tirrenici dell’Italia centrale. Delle tre specie, il solo ghiozzo padano è ancora relativamente frequente, essendo le altre due minacciate dal progressivo degrado dei delicati e limitati ambienti cui sono legate.

Persico reale (Perca fluviatilis). Indigeno dell’Italia settentrionale, in particolare dei grandi laghi prealpini e dei tratti di pianura dei maggiori fiumi padani, ma recentemente introdotto in alcuni bacini chiusi dell’Italia centro - meridionale. Vive in branchi, talora numerosi, soprattutto in fase giovanile. Nei grandi bacini lacustri, dove un tempo era abbondante, è oggetto di intensa pesca professionale. Corpo mediamente

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slanciato, con testa piccola. Pinna dorsale divisa. Quella anteriore è sorretta da raggi spiniformi, quella posteriore da raggi molli. Colorazione tipica bluastra o bruno verdastra, con evidenti bande scure trasversali. Pinne ventrali ed anale di norma rosso aranciate. Nonostante sia presente su tutto il probabile areale di distribuzione originario, è in diminuzione a causa della pesca eccessiva e del generale degrado ambientale.

Luccio (Esox lucius). Specie ittiofaga ad ampia diffusione, nelle acque interne dell’Europa, dell’America settentrionale e dell’Asia. Corpo fusiforme ed allungato; pinna dorsale spostata a ridosso di quella caudale. Testa allungata, con bocca ampia e munita di numerosi denti, grandi e robusti. La spiccata idrodinamicità e lo sviluppo delle pinne caudale, dorsale ed anale gli permettono attacchi fulminei alle prede potenziali nel suo raggio d’azione. Colonizza corsi d’acqua, canali artificiali, laghi e stagni di fondovalle, ricchi di vegetazione ed ostacoli sommersi. La presenza di vegetazione sommersa è fondamentale per l’attività riproduttiva. Il continuo uso di diserbanti ed il prosciugamento delle zone umide planiziali, insieme alla caccia spietata da parte dell’uomo, hanno contribuito alla rarefazione di questa specie, il cui ruolo ecologico ai vertici della catena trofica degli ambienti fluviali è oggi universalmente riconosciuto.

Carpione (Salmo carpio). Endemismo del lago di Garda, è una specie con esigenze ecologiche molto particolari. È l’unico salmonide ad avere due distinti periodi riproduttivi annuali, uno invernale (dicembre - gennaio) ed uno estivo (luglio - agosto). Morfologicamente non si differenzia molto dagli altri salmonidi; ha una livrea simile agli ecotipi lacustri di trota fario e marmorata, con colorazione di fondo grigio - argentea e macchie nere rade nella zona dorsale. L’alimentazione è prevalentemente a base di zooplancton. Essendo una specie legata esclusivamente ad un unico ambiente, si può considerare a forte rischio di estinzione.

Carpione del Fibreno (Salmo fibreni). Endemismo del lago di Posta Fibreno, piccolo bacino lacustre carsico dell’Italia centrale. Segnalata per la prima volta al termine degli anni ’80, vive in simpatria con la forma autoctona del distretto tosco-laziale e peninsulare, Salmo [trutta] macrostigma, dalla quale si è evoluta differenziandosi per alcune peculiarità: attitudini cavernicole, accrescimenti e taglie massime ridotte, ciclo vitale breve (2 ÷ 3 anni). Livrea simile a quella della trota macrostigma. La sua ecologia è ignota, sia per gli aspetti trofici, sia per le modalità riproduttive, che non dovrebbero essere molto dissimile da quella degli altri salmonidi e collocarsi nel periodo invernale.

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Trota macrostigma (Salmo [trutta] macrostigma). La trota sarda o trota macrostigma è un salmonide tipico della porzione meridionale dell’Europa e del Nord Africa, diffuso un tempo in Italia nei corsi d’acqua tirrenici e in fiumi e torrenti della Sicilia e della Sardegna. Come la trota marmorata, ha subito una rarefazione progressiva a causa delle alterazioni ambientali e dei ripopolamenti con trote fario, con cui è in grado di interagire riproduttivamente, generando forme ibride. La livrea prevede, su una colorazione di fondo grigio - verdastro, la presenza di macchie ellittiche trasversali (macchie “parr”) anche in fase adulta, e una evidente macchia scura dietro l’occhio (macchia preopercolare). Questi caratteri, rinvenibili anche nelle popolazioni “mediterranee” di trota fario, potrebbero portare ad una possibile revisione sistematica del genere Salmo, secondo cui trota fario di ceppo mediterraneo e trota macrostigma sarebbero un’unica entità zoologica tipica dei corsi d’acqua del bacino mediterraneo (fig. 14.10).

Fig. 14.10 - Il genere Salmo in Italia. L’incertezza sulla differenziazione in due sottospecie della trota fario di ceppo mediterraneo e della trota macrostigma è evidenziata dal punto interrogativo. È tuttavia probabile che si tratti di un’uni-ca entità zoologica tipica dei corsi d’ac-qua del bacino mediterraneo.

Trota marmorata (Salmo [trutta] marmoratus). Salmonide endemico del bacino del Po, inconfondibile per la tipica marmoreggiatura sul dorso e sui fianchi e per l’assenza della puntinatura rossa e nera. È una delle specie che più ha risentito delle massicce semine con trote fario nei fiumi dell’Italia settentrionale. L’areale di distribuzione originario, comprendente gli affluenti di sinistra del Po, quelli di destra fino al fiume Tanaro ed alcuni bacini diretti tributari dell’alto Adriatico (fino al bacino dell’Isonzo) è in lenta, costante contrazione. I tratti montani inferiori e di fondovalle dei grossi fiumi e torrenti alpini, tipici ambienti della trota marmorata, ospitano oggi rari esemplari di questo salmonide, un tempo sovrano incontrastato di quegli ambienti. Le cause della rarefazione della trota marmorata vanno ricercate nelle già citate ripetute semine con trote fario; tali ripopolamenti hanno provocato un aumento delle popolazioni di ibridi che costituiscono spesso il 100 % delle popolazioni di alcuni corsi d’acqua e sono comunque sempre presenti nelle zone “a trota marmorata”. Sono però soprattutto le alterazioni ambientali quali i prelievi idrici, i disalvei, gli inquinamenti a costituire il rischio maggiore per la sopravvivenza per questo salmonide.

Temolo (Thymallus thymallus). Indigeno dell’Italia settentrionale ed in particolare dei corsi d’acqua padani tributari di sinistra del Po e dei corsi d’acqua tributari dell’alto Adriatico. L’areale di distribuzione è sovrapponibile a quello della trota marmorata; le due specie convivono nei tratti pedemontani dei fiumi alpini con portate elevate definite infatti “zone a trota marmorata e/o temolo”. Per il notevole interesse alieutico si è tentata a più riprese la sua introduzione in alcuni bacini appenninici; nel solo bacino del Trebbia il temolo pare essersi acclimatato formando una popolazione stabile. Il temolo è sensibile alle alterazioni ambientali, particolarmente ai prelievi idrici. Le popolazioni sono in contrazione e le pratiche di ripopolamento con esemplari giovani di allevamento, di provenienza o di ceppi balcanici, costituiscono un ulteriore rischio per le residue forme indigene, la cui sopravvivenza è legata alla tutela degli ampi corsi

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d’acqua di fondovalle. Il temolo è un pesce inconfondibile, considerato da molti il più elegante, con un’ampia pinna dorsale con sfumature bluastre e con forma e colori unici nell’ambito dell’ittiofauna italiana.

SALMONIDI

Scazzone (Cottus gobio). Specie bentonica di taglia modesta, legata a corsi d’acqua alpini ed appenninici settentrionali; coabita con la trota fario nei tratti montani superiori e con la trota marmorata, il temolo ed i ciprinidi reofili nelle zone di fondovalle. È considerato un buon indicatore biologico; risente delle alterazioni ambientali ed il suo areale di distribuzione è in progressiva restrizione. Ha sbito, come altre specie, le massicce immissioni di trote fario a scopo di ripopolamento; è infatti una delle prede preferite del salmonide. In alcune risorgive delle prealpi venete intere popolazioni sono scomparse per questa ragione. Lo scazzone è un tipico Scorpaeniforme, con capo largo e depresso, bocca larga e pronunciata, corpo fusiforme con pinne molto sviluppate ed epidermide priva di scaglie, a volte con appendici spiniformi.

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14.5 - Specie alloctone Brema - abramide (Abramis brama). Originaria dell’Europa Orientale, comune nelle acque stagnanti ed a lento decorso, è stata introdotta in Italia con i ripopolamenti di “pesce bianco”. Corpo alto e compresso, bocca estroflettibile, ampia pinna anale con 27 - 28 raggi, livrea con dorso bruno - grigio, fianchi chiari, con riflessi argentati, addome bianco o giallastro. Taglia massima di 60 cm. Riproduzione tardo primaverile, durante la quale i maschi hanno vistosi tubercoli nuziali. Dieta onnivora, con dominanza della componente macrobentonica. Occupa una nicchia ecologica in parte coincidente con quella dei ciprinidi limnofili (tinca, carpa,…) con i quali entra in competizione. Attualmente è in espansione nelle acque italiane.

Aspio (Aspius aspius). Ciprinide di origine balcanica, è un predatore ittiofago nei tratti di pianura dei corsi d’acqua dell’Europa orientale. Forma allungata, con corpo grande. Livrea simile a quella del cavedano, da cui si differenzia per l’apparato boccale, con bocca ampia che si apre verso l’alto e per le scaglie più piccole. Vive in folti branchi. Deposizione in primavera, in zone ghiaiose. La taglia massima, nell’area d’origine, supera il metro di lunghezza. La forte attitudine predatoria dell’aspio costituisce un grave pericolo per le popolazioni di piccoli ciprinidi quali alborella, triotto e scardola, nonché per gli stadi giovanili di tutte le specie tipiche della pianura padana.

Barbo europeo (Barbus barbus). Ciprinide di derivazione balcanica, nei tratti di pianura dei fiumi dell’Europa orientale. Corpo fusiforme, con capo allungato. Bocca infera, munita di due paia di barbagli. Colorazione grigio - verdastra sul dorso, con addome chiaro. Affine al barbo comune (Barbus plebejus), se ne differenzia per il raggio più lungo della pinna dorsale con una vistosa dentellatura sulla parte posteriore e per scaglie più grandi. La riproduzione è primaverile, su fondali ghiaiosi. La presenza e l’incremento delle popolazioni di barbo europeo costituiscono un serio pericolo per le popolazioni autoctone di barbo, condividendo le due specie la stessa nicchia ecologica ed essendone documentata l’ibridazione.

Carassio (Carassius carassius). Al genere Carassius, diffuso originariamente in Europa centrale ed in Asia, appartengono due specie: il carassio ed il Pesce rosso (Carassius auratus), entrambe introdotte in Italia in epoca remota, benché alcuni Autori reputino il carassio autoctono del bacino padano - veneto. Sono in forte espansione, grazie alle ripetute immissioni di ciprinidi di provenienza eterogenea. A causa del regime alimentare opportunista, basato anche sulla predazione di uova ed avannotti di altre specie, dell’adattabilità e della capacità di ibridarsi con la carpa, il carassio è specie indesiderabile; ogni sua nuova immissione andrebbe impedita. Gli individui inselvatichiti di carassio e pesce rosso sono molto simili; la forma generale del corpo è tozza, simile a quella della carpa, dalla quale si differenzia per l’apparato boccale privo di barbigli. La colorazione giallo rossastra del pesce rosso allevato in cattività viene sostituita, in ambiente naturale, da una più tenue, bruno verdastra sul dorso e più chiara sui fianchi, analoga a quella del carassio. Per la determinazione sistematica ed il riconoscimento delle due specie si ricorre normalmente all’analisi di caratteri meristici, quali il numero di branchiospine ed il numero di scaglie lungo la linea laterale.

Carpa (Cyprinus carpio). È l’unica specie del genere Cyprinus, originaria di alcuni bacini dell’Europa centrale e dell’Asia ed importata in tempi remoti in Italia, dove si è ben acclimatata. Ciprinide limnofilo, negli ambienti lacustri e nei fiumi e canali a corrente lenta, dove colonizza le zone con fondali pelitici ed abbondante vegetazione. La livrea presenta almeno tre fenotipi: “regina” (il più comune, con scaglie distribuite uniformemente su fianchi, sul dorso e sull’addome) “a specchi” (scaglie di grosse dimensioni limitate ad alcune zone del dorso e dei fianchi), “nudo” (privo di scaglie). Gli ultimi due sono stati selezionati dagli allevatori e la loro presenza in natura è legata alle immissioni. La forma della carpa è tipicamente tozza, anche se le popolazioni selvatiche sono più slanciate. Apparato boccale munito di due paia di barbigli. Pinna dorsale molto sviluppata in lunghezza, con profilo concavo.

Pseudorasbora (Pseudorasbora parva). Originaria dell’Asia orientale; verso il 1960 è stata introdotta nei bacini danubiani e di qui in Italia con i ripopolamenti di “pesce bianco”. Corpo fusiforme, compresso lateralmente, capo appuntito, livrea con dorso grigio, fianchi più chiari, con riflessi argentati, addome biancastro. Lungo i fianchi decorre una banda scura, dall’occhio fino al peduncolo caudale. Bocca piccola, aperta verso l’alto. Taglia massima di 10 cm. Predilige laghi, stagni e corsi d’acqua a lento decorso, con fondali pelitici. Riproduzione primaverile, durante la quale i maschi hanno vistosi tubercoli nuziali. Dieta onnivora. Occupa una nicchia ecologica in parte coincidente con quella dei ciprinidi reofili, in parte con quella dei ciprinidi limnofili, con i quali entra in competizione. È in forte espansione nelle acque italiane.

Rodeo amaro (Rhodeus sericeus). Ampiamente diffuso in Europa, è stato introdotto con i “ripopolamenti” in molti corsi d’acqua in Italia. Piccolo pesce con corpo alto e compresso, con livrea chiara ed una

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caratteristica striscia verde - azzurra sui fianchi, decorrente dalla coda fino a circa metà del corpo. Colonizza le sponde di laghi e fiumi a lento decorso, ricchi di vegetazione. Onnivoro, con preferenza alimentare per i vegetali. La riproduzione è primaverile e necessita di molluschi bivalvi (gen. Unio) per l’ovideposizione. Nonostante le caratteristiche ecologiche particolari, il rodeo amaro è un fattore di rischio per specie con spettro trofico simile, quali alborella, scardola e triotto.

Gardon (Rutilus rutilus). Specie ad ampia distribuzione dell’Europa nord-orientale, è un pesce assai diffuso nei laghi e nei fiumi a lento decorso, nelle zone “a ciprinidi limnofili”. Corpo fusiforme e tozzo, bocca mediana priva di barbigli. L’occhio ha l’iride rossastra. La livrea, scura sul dorso, si schiarisce progressivamente sui fianchi e sull’addome, di norma biancastro. Pinne con colorazione bruno - rossastra. Specie ad ampio spettro trofico, con dieta costituita da invertebrati, alghe e piante acquatiche. Taglia massima di 25 cm. Riproduzione primaverile. Occupa una nicchia ecologica in parte coincidente con quella del trotto e della scardola, con i quali entra in competizione. In espansione nelle acque italiane.

Gambusia (Gambusia holbrooki). Diffusa originariamente negli Stati Uniti, fu introdotta in Italia nel 1922 per la lotta biologica contro la malaria. Piccolo pesce che si nutre prevalentemente degli stadi larvali dei ditteri, tra cui (sembra) la Anopheles, portatrice del Plasmodium malarico; colonizza le acque ferme o a lento decorso di laghi, stagni e canali. Presenta un evidente dimorfismo sessuale a carico degli organi sessuali secondari; il maschio possiede un organo copulatore (gonopodio) derivato dalla trasformazione della pinna anale ed ha taglia più ridotta. I risultati della lotta biologica contro le larve di Anopheles non sono stati confortanti e più efficaci si sono rivelati i consueti trattamenti chimici, ma la gambusia, in alcuni ambienti, si è diffusa determinando la contrazione numerica di specie autoctone.

Persico sole (Lepomis Gibbosus). Piccolo centrarchide alloctono, introdotto agli inizi del secolo nelle acque italiane. Come nel caso del persico trota, rispetto al quale riveste un interesse minore per la pesca sportiva, l’introduzione di questa specie ha determinato gravi danni sulla fauna ittica autoctona. È specie ad ampia valenza ecologica, onnivora, opportunista; nella sua dieta sono comuni uova ed avannotti di altre specie. Colonizza i sottoriva di laghi, stagni e canali, dove mostra una spiccata territorialità. La riproduzione è estiva e dopo la nascita degli avannotti il maschio esercita spiccate cure parentali. Per la vivace colorazione con toni di verde, azzurro, giallo ed arancione e per la forma ovale molto accentuata, è inconfondibile. L’attuale areale di distribuzione comprende le acque ferme e a corso lento di tutta la penisola.

Persico trota (Micropterus salmoides). Boccalone e black bass sono i nomi gergali con cui viene normalmente definito il persico trota, centrarchide introdotto nelle acque italiane all’inizio del 1900 dal Nord degli USA e dal Canada meridionale. Preda ambita dai pescatori nel suo areale d’origine, tanto da essere considerata il simbolo della pesca sportiva, ha causato notevoli danni alle comunità locali degli ambienti dove è stato introdotto, essendo un forte predatore ai vertici delle catene trofiche. Sembra eserciti una concorrenza alimentare con il luccio negli stadi giovanili e con il persico reale in fase adulta determinandone, in alcuni casi, la scomparsa. Ha forma allungata, testa grande e bocca molto ampia. Pinna dorsale allungata ed incisa; la parte anteriore è sorretta da raggi spiniformi e quella posteriore è sorretta da raggi molli. Le scaglie sono ctenoidi. Il persico trota manifesta, come tutti i centrarchidi, cure parentali. La specie è attualmente diffusa in laghi, stagni, canali e corsi d’acqua a lento decorso di tutta la penisola.

Lucioperca (Stizostedion lucioperca). Il lucioperca o sandra è un percide ittiofago originario dell’Europa centro - settentrionale, introdotto in Italia in alcuni bacini del nord (lago Maggiore) e del centro (lago di Corbara) dove si è acclimatato e da cui si è diffuso negli emissari Ticino e Tevere. L’ecologia di questa specie e l’interazione con la fauna autoctona dei bacini dove è stata introdotta sono poco note, ma è probabile la competizione alimentare con il luccio ed il persico reale. Rispetto al persico reale, ha forma più allungata, con capo appuntito. La colorazione è simile a quella del pesce persico, ma con toni attenuati.

Lavarello (Coregonus lavaretus). Specie alloctona introdotta da alcuni laghi svizzeri nei grandi bacini lacustri prealpini nel secolo scorso. Le introduzioni ebbero successo, tanto che si costituirono popolazioni stabili, importanti per la pesca professionale. Nonostante questa specie sia planctofaga, non sembra in competizione alimentare con l’agone, clupeide endemico della nostra penisola, particolarmente interessante dal punto di vista naturalistico. Alla fine degli anni ‘40, per rispondere alle richieste dei pescatori professionisti, venne introdotto un altro coregone, di minori dimensioni, la Bondella (Coregonus macrophthalmus). Questa, nel lago Maggiore, entrò in competizione con il lavarello, determinandone una diminuzione. Attualmente le popolazioni di coregoni nei laghi prealpini sono costituite prevalentemente dalla bondella, il cui incremento sembra legato ad un maggior successo riproduttivo e ad una pressione di

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pesca spostata maggiormente sul lavarello. Le due specie sono molto simili e distinguibili, in fase giovanile, solo con un attento esame delle branchiospine. Il lavarello ha comunque una crescita nettamente superiore.

Trota Iridea (Oncorhynchus mykiss). Originaria dell’America Nord - occidentale, fu introdotta in Italia nel 1900; nelle nostre acque la riproduzione, seppure documentata, è un fenomeno raro. Sfrutta una nicchia ecologica coincidente in parte con quella della trota fario, rispetto alla quale possiede però una minore adattabilità. Le immissioni di trota iridea hanno comunque condizionato le popolazioni autoctone di salmonidi originariamente presenti nei corsi d’acqua, in quanto le disponibilità alimentari degli ambienti oligotrofici di montagna sono insufficienti per la coesistenza di specie con caratteristiche ed esigenze simili.

Trota fario (Salmo [trutta] trutta). È il salmonide attualmente più diffuso; colonizza gli ambienti iposorgentizi ad alta quota, le risorgive di fondovalle e gli ambienti lacustri, a condizione che temperatura dell’acqua ed ossigeno disciolto si mantengano su valori compatibili con la sua sopravvivenza. La sua ubiquitarietà è dovuta al suo amoio utilizzo nei ripopolamenti a fini alieutici. Recenti studi morfometrici e genetici hanno messo in luce l’esistenza di due ceppi distinti di trota fario, uno autoctono dei corsi d’acqua mediterranei europei, l’altro di derivazione atlantica (fig. 14.10). I due ceppi, distinguibili per alcune differenze morfologiche, quali numero e dimensioni delle macchie nere e rosse, presenza o assenza delle macchie “parr” in fase adulta, danno origine ad ibridi (o, più propriamente, ad incroci) che stanno sostituendo le popolazioni locali di trota fario nelle zone originarie. In Italia l’autoctonia della forma “mediterranea” è oggi messa in discussione; è considerata da molti Autori l’alloctonia di Salmo [trutta] trutta, di qualunque ceppo, nei torrenti alpini. Alcune pubbliche amministrazioni hanno intrapreso programmi di tutela e recupero delle presunte residue popolazioni locali di trota fario, impedendo o limitando l’immissione di trote di ripopolamento ed incrementando la produzione annua di avannotti in ambienti controllati (incubatoi di valle o simili). Alla luce delle nuove perplessità espresse circa l’autoctonia della trota fario è divenuto indispensabile chiarire definitivamente lo status della specie, per evitare programmi di recupero tanto impegnativi quanto inutili o dannosi dal punto di vista naturalistico.

Silurus glanis (siluro). Acquarello

Salmerino alpino (Salvelinus alpinus). Specie ad ampia distribuzione oloartica, presente in origine nelle acque italiane in alcuni laghi dell’arco alpino centro - orientale, anche se oggi diversi Autori mettono in dubbio la sua reale autoctonia. Nella parte più settentrionale del suo areale di distribuzione il salmerino si comporta come specie migratrice anadroma. Per la sua facile adattabilità ai freddi e poveri laghi alpini d’alta quota è stato introdotto con successo in alcuni laghetti della porzione Nord - occidentale della penisola, dove si riproduce. In alcuni ambienti ologotrofi è nota la differenziazione di forme planctofaghe, spesso affette da nanismo, e di forme ittiofaghe. Livrea è grigio - verde con piccole macchie più chiare e complessivamente piuttosto tenue, specie se confrontata con quella del salmerino di fonte, appartenente allo stesso genere.

Salmerino di fonte (Salvelinus fontinalis). Originario dell’America settentrionale, fu introdotto nel lago di Idro nel 1891, con esito negativo. Il Consorzio Pesca della Regione Valle D’Aosta lo introdusse successivamente in alcuni laghi d’alta quota, dove riuscì ad acclimatarsi. Questa specie non convive facilmente con gli altri salmonidi dai quali viene sopraffatto per minore capacità di adattamento. Ha una

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colorazione molto accesa, con vermicolature verdastre sul dorso e piccole macchie gialle e rosse, contornate da un alone bluastro sui fianchi.

Pesce gatto (Ictalurus melas). Originario degli Stati Uniti centrali ed orientali, fu introdotto in Italia nel 1906 in alcuni allevamenti da cui giunse in acque libere, diffondendosi e diventando un flagello per le specie residenti, data la notevole voracità, prolificità e resistenza. È ben acclimatato in tutte le acque stagnanti ed a lento decorso. Forma tozza, capo depresso ed appiattito ed apparato boccale munito di quattro paia di barbigli. Colorazione di fondo scura, con sfumature dorate sui fianchi. Addome biancastro. Dietro la pinna dorsale è presente una piccola pinna adiposa. La pinna dorsale e le pettorali hanno il primo raggio robusto ed acuminato. Ha cure parentali che si protraggono per molti giorni dopo la nascita degli avannotti. Questa strategia riproduttiva, unita all’assenza di predatori naturali in fase adulta ed alla sua notevole adattabilità, costituisce la chiave del successo di questa specie nelle nostre acque. Altri ictaluridi introdotti sono l’Ictalurus punctatus ed l’I. nebulosus.

Siluro (Silurus glanis). Specie diffusa originariamente nei bacini dell’Europa centrale e di quella settentrionale ed orientale. La prima notizia di una sua cattura in Italia risale al 1956, nel fiume Adda presso Lecco. Benché la sua prima introduzione sia stata, probabilmente, accidentale, è stato in seguito immesso in canali di bonifica ed in laghetti privati a fini alieutici. Di qui la specie si è diffusa ampiamente nel bacino del Po. L’attuale limite occidentale della sua area di diffusione sembra essere il tratto di Po a valle della presa del canale Cavour, a Chivasso. Forma allungata, con capo depresso ed appiattito, bocca grande munita di un paio di barbigli sulle mascelle e due paia sulle mandibole. Pinna dorsale ridottissima, l’anale molto allungata. Colorazione di fondo scura, con macchie bruno giallastre sui fianchi. Onnivoro in fase giovanile, è prevalentemente ittiofago in fase adulta; raggiunge taglie considerevoli. L’acclimatazione del siluro nelle acque interne padane è pericolosa per le specie autoctone; sembra che ciò valga in modo particolare per lo storione, peraltro già in regresso, del quale occupa, almeno in parte, la nicchia ecologica.

14.6 - Organismi di importazione: problemi generali Da sempre l’uomo, nelle sue migrazioni e colonizzazioni, ha favorito il trasporto di vegetali e di animali in tutto il mondo, per sentirsi in un ambito familiare anche lontano dalle terre d’origine o per “potenziare” ed “arricchire” le regioni dove si stabiliva. Talora, invece, gli organismi si sono diffusi in modo involontario e non pianificato. Qualunque o vivente riveste, nel luogo d’origine, un ruolo ben preciso ed occupa una definita nicchia ecologica, in equilibrio con gli altri elementi dell’ambiente; soprattutto è limitato dai rapporti di competizione e di predazione con organismi di specie diverse. L’introduzione di una nuova specie in un ambiente può abortire se l’organismo non trova le giuste condizioni per nutrirsi e riprodursi o può riuscire se mancano i fattori limitanti alla sua espansione analoghi a quelli che, nel territorio di origine, ne limitavano la proliferazione, quali ad esempio i predatori. Raramente le specie introdotte si inseriscono armonicamente nell’ambiente; quasi sempre concorrono ad accelerare i processi di degrado ambientale determinando, in qualche caso, l’estinzione di specie indigene. Gli esempi sono innumerevoli.

Il giacinto d’acqua (Eichhornia crassipes), una pianta acquatica originaria dell’America tropicale, fu introdotta in piccoli bacini, alla fine dell’800, in molte regioni calde del mondo, come pianta ornamentale. In pochi anni invase gli Stati Uniti meridionali, ostacolando la navigazione sul Mississippi. Problemi analoghi si verificarono in quasi tutte le zone paleotropicali grazie soprattutto alla notevole vitalità della pianta; si è calcolato che dieci piante madri possono dare oltre un milione di nuove piante in un anno. Questo vegetale è stato responsabile della rottura degli equilibri di molti ambienti d’acqua dolce, limitando lo sviluppo di vegetali autoctoni, intralciando la pesca e modificando negativamente le aree adatte per la frega di molte specie ittiche. Ciò, a partire dal 1955, ha comportato l’impiego di notevoli risorse per una campagna di distruzione che, oltre ad aver aggiunto danni agli ambienti naturali (per l’uso di erbicidi), non impedisce una eventuale nuova invasione a partire da qualche nucleo scampato alla distruzione.

L’Achatina fulica è un mollusco originario dell’Africa orientale, simile alle chioccioline, ma con un guscio appuntito. Fu introdotto, dall’inizio del ‘900, in diverse zone tropicali e subtropicali del mondo. Nel 1938 fu importato in Giappone e nel 1947 in California, da cui invase tutte le aree calde dell’America. Questo mollusco, per le sue straordinarie capacità riproduttive, prolifera a tal punto da provocare gravi danni. In certe isole del Pacifico le strade sono talvolta ricoperte dai molluschi provocando seri incidenti automobilistici. In certe zone l’Achatina, acquisendo abitudini arboricole e nutrendosi dei germogli delle piante, ha provocato danni a piantagioni da frutto che, localmente, hanno assunto proporzioni catastrofiche.

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Tutti i continenti hanno dovuto lamentare gravi perdite economiche per l’importazione di specie esotiche. L’esempio più eclatante, che ha privato l’uomo di preziose risorse alimentari e il suo bestiame dei pascoli aperti, è l’introduzione del coniglio europeo in Australia e nella Nuova Zelanda. Gli australiani, tre anni dopo l’introduzione del coniglio nel 1859, lo consideravano una catastrofe nazionale. Durante un secolo cercarono di combatterlo con tutti i mezzi, anche introducendo altri animali che cacciano il coniglio. Tutto fu inutile, anzi i predatori che avrebbero dovuto limitare i conigli minacciarono le specie indigene, in quanto prive di difese di fronte ad animali che, nel corso dell’evoluzione, non avevano mai conosciuto.

Esox lucius (luccio). Acquarello.

Quelli sopra riportati sono una piccola parte dei casi di alterazione degli equilibri ambientali dovuti all’introduzione di organismi esotici (altri esempi in figg. 13.25 e 13.26) a partire dal periodo delle grandi esplorazioni e delle colonizzazioni. È necessario comprendere gli enormi rischi biologici ed economici conseguenti all’insediamento di organismi estranei in un paese o in un continente. L’introduzione di specie esotiche è una pratica estranea ai principi di una corretta gestione delle risorse ambientali e della difesa della natura, quale patrimonio di elevato valore culturale.

Anche in Italia vi sono numerosi esempi di introduzioni di animali esotici, soprattutto nel comparto ittiofaunistico. Al fine di comprendere meglio il problema dell’introduzione di esotici in Italia, conviene precisare che il nostro territorio è isolato geograficamente dalla catena delle Alpi, rispetto al continente europeo, e dal mare. Ciò ha impedito, da tempi geologici, il contatto della nostra fauna ittica con quelle dei bacini idrografici continentali, favorendo la formazione di diverse entità endemiche. Anche a livello peninsulare, gli Appennini hanno isolato una parte settentionale da una parte italico peninsulare, consentendo la possibilità che forme endemiche si evolvessero separatamente a nord ed a centro-sud. In Italia vi sono almeno 15 specie ittiche uniche, tra le quali trota marmorata, il carpione, la savetta, il cobite mascherato, meritevoli di particolari forme di tutela, facendo esse parte del nostro prezioso ed unico patrimonio naturale.

Nonostante la presenza di preziosi endemismi, nel mondo dei pesci sono state tentate, quasi sempre con successo, introduzioni di esotici. Allo stato attuale se ne contano oltre una ventina, alcune molto antiche. La più famosa è quella della carpa, introdotta dagli antichi romani. Oggi appare accertato che i pesci esotici provocano danni agli ambienti naturali ed interferiscono negativamente con la fauna ittica indigena; in taluni casi, queste considerazioni si basano più su gravi sospetti che su indagini scientifiche specifiche, che sarebbero quanto mai auspicabili per chiarire questioni molto importanti ai fini di una migliore gestione del patrimonio ittico. Ciò non deve indurci a credere che possano essere effettuate od incoraggiate nuove

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Salmo [trutta] trutta (trota fario). Acquarello.

introduzioni; anzi, il non conoscere i possibili effetti sull’ambiente, limitati o rilevanti, positivi o negativi che siano, sconsiglia, a maggior ragione, l’immissione di pesci esotici; ciò in coerenza anche con il giudizio negativo esteso in generale verso le pratiche di introduzione di organismi esotici, retaggio di un passato storico che vedeva l’uomo arrogarsi il diritto di modificare a proprio piacimento ciò che la Natura è riuscita a produrre in centinaia di milioni di anni di evoluzione. Conservare gli ambienti con le loro peculiari caratteristiche naturali originarie costituisce, oggi, un obiettivo culturale di estrema importanza.

14.7 - Il valore del patrimonio ittico La corretta gestione del patrimonio ittico deve essere fondata su precise risposte ai seguenti quesiti: “è possibile definire il valore naturalistico di un ecosistema acquatico ed in particolare della componente ittiofauna? A chi appartiene questo bene ambientale e chi lo deve gestire?”

Nel corso della storia della Terra, il Quaternario, l’ultima era geologica iniziata oltre un milione di anni fa, è stato caratterizzato dall’avvento dell’uomo. Negli ultimi millenni (un milionesimo della storia della Terra) si è affermata l’evoluzione culturale, che ha fornito alla specie umana immense capacità di trasformazione dell’ambiente. L’evoluzione, prima biologica e successivamente culturale, ha portato l’uomo alla capacità di profonde modificazioni ambientali, spesso in contrasto con ciò che la Natura ha modellato ed ha lasciato in eredità dopo centinaia di milioni di anni.

Se è vero che le trasformazioni operate dall’uomo vanno accettate come parte integrante della Natura, è altrettanto vero che gli interventi antropici sono a livelli di intensità tali da non permettere all’ambiente di adeguarsi con efficacia. I meccanismi fisici e biologici che consentono all’ambiente di rispondere adeguatamente alle trasformazioni sono più lenti rispetto alla velocità ed intensità delle perturbazioni indotte

dalle attività umane. Tra tutte le specie viventi, soltanto l’uomo, grazie all’evoluzione culturale, è in grado di impor-re trasformazioni a ritmi su-periori a quelli compatibili con l’equilibrio ambientale. Da ciò deriva il concetto fon-damentale per cui anche se le modificazioni indotte dalle attività antropiche possono essere ritenute accettabili e momenti integranti dell’evo-luzione fisica e biologica del pianeta, è necessario porre li-miti ben precisi all’opera dell’uomo, al fine di evitare il collasso globale degli equili-bri ambientali.

Uno dei limiti da porre allo sviluppo delle attività umane è determinato dalla necessità del mantenimento del più elevato grado di biodiversità. Questo tema riguarda la gestione della fauna in generale e quindi anche l’ittiofauna. L’insieme delle azioni dell’uomo tende in generale ad abbassare il livello di biodiversità, non soltanto portando all’estinzione di specie direttamente con il prelievo (attività di caccia e pesca indiscriminata o mal regolamentata), ma anche indirettamente, con la compromissione degli ambienti (inquinamento, eutrofizzazione delle acque) e con le transfaunazioni.

Rispetto agli spostamenti di fauna ittica è emblematico il caso della trota marmorata. In tutte le zone originariamente popolate da Salmo [trutta] marmoratus, risulta massiccia la presenza di incroci naturali con la trota fario (Salmo [trutta] trutta); tali incroci sono il risultato di continue ed indiscriminate immissioni di trote fario, con grave minaccia per la sopravvivenza della trota marmorata, salmonide endemico del settore geografico padanoveneto. Le trote costituiscono popolazioni che, per il parziale isolamento geografico dovuto alla barriera fisica delle Alpi, hanno sviluppato, nel corso del Quaternario recente e quindi senza aver avuto il tempo di raggiungere una vera e propria speciazione, forme differenziabili anche morfologicamente,

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come risposte adattative alle diverse condizioni ambientali caratteristiche di porzioni di territorio più o meno estese. Nel bacino del Po, diversamente a quanto si è verificato nel resto d’Italia e dell’Europa, nelle porzioni montane e pedemontane dei corsi d’acqua si è evoluta e differenziata, come salmonide tipico, la trota marmorata. Un tempo ogni vallata alpina ospitava popolazioni di trote marmorate con caratteristiche leggermente diverse da quelle di vallate adiacenti; oggi questo è ancora parzialmente evidenziabile analizzando il patrimonio genetico di trote provenienti da aree alpine diverse; ciò non stupisce, se si pensa che ogni bacino presenta caratteristiche naturali proprie e ben distinguibili ed è un fenomeno tipico della biodiversità. Lo spostamento di gruppi di individui da una zona all’altra e l’immissione di materiale ittico di allevamento di origine molto varia, ha determinato, nel migliore dei casi, un mescolamento dei caratteri delle diverse popolazioni, provocando un appiattimento della variabilità di forme, nel peggiore dei casi l’estinzione delle forme “pure” e la loro sostituzione con forme intermedie. Il rischio di tali interventi è quello di giungere ad una sola forma indistinta di trota marmorata in tutto il bacino del Po o, peggio ancora, di vedere presto la sua scomparsa in tutta l’area padana di origine.

Ogni specie ha quindi un intrinseco valore naturalistico storico, in quanto rappresenta in qualche modo la storia di una porzione del territorio e della sua evoluzione nel tempo. Questo valore può essere quantificato, come proposto in tab. 14.6. Esso non tiene conto di criteri economici o di utilità di tipo antropico ed è tanto più elevato quanto maggiore è il grado di conservazione della popolazione secondo i seguenti criteri:

1. relazione con gli altri elementi ambientali; 2. consistenza numerica degli individui costituenti il gruppo; 3. autoctonia/status endemico (valore storico-culturale); 4. distribuzione geografica.

Il valore naturalistico della trota marmorata è elevato, in quanto è un pesce adatto ai torrenti alpini, le attuali popolazioni sono meno rappresentate nei fiumi rispetto al passato, è un animale autoctono ed è un endemismo della pianura padano - veneta, quindi con distribuzione limitata. Al contrario, il valore del persico sole è nullo, in quanto non è in equilibrio con l’ambiente, è infestante e tende all’espansione ai danni di altre specie, è un animale esotico ed è distribuito (artificialmente) su un ampio territorio.

Tab. 14.6 - Proposta di determinazione del valore naturalistico intrinseco “V” delle specie ittiche autoctone delle acque interne italiane (quelle indicate blu nella tabella generale 14.1) con indicazioni riguardanti i fattori AD (estensione dell’areale originario di distribuzione), ST (stato della specie nell’areale originario di distribuzione). Il valore naturalistico si ottiene dal prodotto V = AD⋅ST. Per le specie fuori dall’areale di distribuzione originario sono da considerare alloctone (V = -1).

AD = 1 Ampia distribuzione in tutta o gran parte dell’Europa.

AD = 2 Porzione ristretta dell’Europa e/o fascia mediterranea e/o tutta o buona parte della penisola italiana.

Fattore AD (Areale di

Distribuzione) AD = 3 Fascia mediterranea e/o tutta o buona parte della penisola italiana, ma con

popolazioni frammentate ed incerte e/o tributari dell’alto Adriatico (bacino del Po

ST = 1 Buona consistenza delle popolazioni. Non si segnalano decrementi significativi. Non sono necessarie particolari misure di cautela. Rischio nullo o basso.

ST = 2 Buona consistenza delle popolazioni in alcune porzioni degli areali di distribuzione originari. Si segnalano decrementi. Necessaria una certa attenzione per la tutela.

Fattore ST (STato nell’areale

originario) ST = 3 Forte decremento delle popolazioni in tutti o quasi gli areali di distribuzione

originari. Presenze sporadiche e/o occasionali. Necessità di misure di tutela Il valore naturalistico è arricchito dal valore culturale di una determinata specie vegetale o animale, di un minerale o di un ambiente. Una qualunque specie, come la trota marmorata o il ghiozzo padano, è il risultato di una evoluzione durata almeno alcune decine di migliaia di anni, ma che ha, alle sue radici, una storia di milioni ed anche di centinaia di milioni di anni, se pensiamo che le forme attuali derivano tutte da quelle più primitive del Precambriano (fig. 14.1). È frutto di una storia incredibile ed affascinante, che ha coinvolto l’intero pianeta, in una successione di fasi anche catastrofiche e che ha visto, come protagonisti, non solo i viventi, ma anche il mondo fisico, con i cambiamenti climatici di vasta scala, la formazione dei continenti, ecc... Un qualunque essere vivente costituisce una meravigliosa macchina biologica perfezionata nel corso di una lunghissima storia di tentativi e di adattamenti ad una Natura in continua trasformazione. Quel

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Salmo [trutta] marmoratus (trota marmorata). China.

vivente rappresenta ciò che la Natura ci ha lasciato in eredità e quindi rappresenta un valore storico di estrema importanza. Ma quel valore ha significato solo se vengono conservati i caratteri che quell’essere ha acquisito durante l’evoluzione.

Nel caso di una popolazione di una determinata specie ittica, essa ha valore naturalistico soltanto sa ha conservato i caratteri primitivi, il cui insieme è stato determinato dalla Natura e non dall’uomo. Ogni essere vivente che ha conservato i caratteri originari rappresenta un monumento della storia naturale e, da un punto di vista culturale, la sua eliminazione o trasformazione è paragonabile alla distruzione di un monumento architettonico della storia umana.

Ciò non significa che l’uomo non possa intervenire sulle forme e caratteristiche di alcune specie per fini agricoli o zootecnici, ma questo aspetto riguarda fattori di tipo economico, che nulla hanno a che fare con la gestione e conservazione del patrimonio naturale. Una gestione improntata su criteri naturalistici, storicamente e culturalmente accettabili, non può prescindere dai criteri e dai principi fondamentali sopra enunciati. La Reggia Sabauda di Venaria Reale, in Provincia di Torino, è oggetto del più grande intervento di recupero funzionale d’Europa; allo scopo di ottenere migliori risultati si potrebbe verniciare tutta la struttura di un bel viola catarinfrangente; essa risulterebbe maggiormente visibile e quindi potrebbe attirare più turisti. La Mole Antonelliana di Torino è un monumento ormai vecchio; si potrebbe sostituirlo con una bella imitazione della Torre Eifel; il monumento parigino è sicuramente più famoso. Perché non distruggere il Duomo di Firenze per sostituirlo con una bella cattedrale gotica?

Queste idee sono talmente assurde che è già assurdo proporle come esempi di massima stupidità. Tali monumenti sono la memoria tangibile della storia umana; rappresentano le nostre radici; la loro conservazione è espressione culturale di una civiltà. E allora perché proporre di sostituire coscientemente una comunità vivente con un altra, solo per soddisfare le aspirazioni di una limitata categoria di persone appartenenti, ad esempio, al mondo della pesca? Una comunità ittica, come qualunque altra comunità vivente, non ha forse lo stesso valore storico-culturale di un monumento? Non rappresenta essa la memoria tangibile della storia di un territorio? Non ha diritto ad essere difesa e tutelata solo per il fatto che esiste e si è affermata in milioni di anni di evoluzione?

Come è incredibile che si possa distruggere o modi-ficare un monumento, do-vrebbe essere altrettanto incredibile che si possa distruggere o modificare la Natura alterandone gli aspetti più caratteristici che sono l’espressione della storia geobiologica della Terra. Sarebbe assurdo, per esempio, introdurre le giraffe, alte, snelle e colorate, nelle risaie vercellesi, allo scopo di migliora-re quel monotono paesaggio; altrettanto assurdo sarebbe, ai fini venatori, l’introduzione delle gazzelle nella pianura alessandrina. La gestione dei beni architettonici, ambientali e naturali dovrebbe privilegiare soprattutto gli elementi tipici del territorio, cioè quelli autoctoni. Ma è proprio così? In alcuni settori vi è una maggiore attenzione ai temi della tutela delle tipicità, spesso per questioni formali più che sostanziali.

Se veramente si introducessero alcune giraffe nelle risaie vercellesi, tutti se ne accorgerebbero e tutti esprimerebbero un giudizio negativo. Se invece si introducessero alcuni pesciolini rossi, provenienti da un acquario domestico, in uno stagno, l’evento sarebbe del tutto ignorato; eppure l’effetto sortito sarebbe non dissimile da quello derivante da un’introduzione di giraffe, probabilmente peggiore. L’introduzione di pesci esotici è un atto molto frequente, non solo da parte di chi vuole liberarsi di animali conservati in cattività, ma anche e soprattutto da chi si occupa della gestione dell’ittiofauna ai fini della pesca.

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Cotus gobio (scazzone). China.

14.8 - La gestione dell’ittiofauna Quintali di pesci vengono immessi quasi quotidianamente nei laghetti adibiti alla pesca “sportiva” a pagamento; tra il materiale immesso sono presenti animali alloctoni, spesso consapevolmente introdotti dai gestori, allo scopo di proporre novità ai pescatori, che quindi si divertono maggiormente e pagano più volentieri, come in una sorta di squallido mercato del pesce. Talora vengono immesse notevoli quantità di pesci in tratti di fiumi per gare di pesca. Anche gli Enti gestori effettuano i cosiddetti “ripopolamenti”, allo scopo di incrementare il patrimonio ittico a vantaggio dei cestini dei pescatori. Spostare pesci da un luogo ad un altro e ricorrere agli allevamenti per disporre di animali da immettere, insieme alle attività di controllo e regolamentazione dell’attività di pesca, fa parte della “gestione dell’ittiofauna”. I ripopolamenti costituiscono una parte importante delle attività gestionali, storicamente utilizzati, oltre che per rimpinguare i pesci presenti, anche con intenti politici. È bene precisare che ciò che nell’accezione comune delle pubbliche amministrazioni e dei pescatori preposti alla gestione delle popolazioni ittiche è definito “ripopolamento”; in realtà consiste in operazioni che hanno significati ed effetti molto diversi. È utile citare alcune definizioni proposte dall’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (I.U.C.N.) in materia di pianificazione e realizzazione di interventi di immissione faunistica:

• immissione; trasferimento intenzionale o accidentale di un’entità faunistica da un’area (o da condizioni di cattività) ad altra area senza alcuna considerazione circa la ricettività dell’ecosistema; quando l’immissione è intenzionale può essere indicata con il termine traslocazione o transfaunazione;

• introduzione; immissione di una specie ittica in un’area posta al di fuori del suo areale di documentata presenza naturale in tempi storici;

• reintroduzione; traslocazione finalizzata a ristabilire una popolazione di una determinata entità faunistica in un areale di documentata presenza naturale in tempi storici;

• ripopolamento; operazione svolta per incrementare il numero di esemplari di una popolazione, ovvero traslocazione di individui appartenenti ad una specie ittica ancora presente nell’area di rilascio.

Solo una minima parte delle immissioni di ittiofauna in acque pubbliche è però un ripopolamento secondo l’accezione corretta, essendo la maggior parte tran-sfaunazioni. Da un punto di vista metodologico le pratiche di ripopolamento, intese nel senso attuale e non corretto del termine, nacquero intorno al 1700, come conseguenza dell’iniziale declino di alcune popolazioni ittiche in Nord Europa. In quel periodo in Germania si intraprese con successo la tecnica di inseminazione artificiale, per quanto mal accettata a causa dell’ignoranza e delle scarse conoscenze scien-tifiche del tempo sui pesci. Un forte impulso allo svi-luppo delle pratiche di inseminazione artificiale venne dato da alcuni finanziamenti del governo Francese nel 1854 e dalla pubblicazione di alcuni testi specifici. Le

tecniche divennero a quel punto facilmente accessibili ad un vasto pubblico e presero rapidamente piede, soprattutto per quanto concerne l’allevamento dei salmonidi, sia nel vecchio continente, sia negli USA. Iniziò presto l’allevamento intensivo e l’avvento dei nuovi mezzi di trasporto favorì la commercia-lizzazione dei pesci da ripopolamento.

Le condizioni artificiali tipiche dell’allevamento intensivo e la filosofia stessa di conduzione degli impianti ittici comprimono l’insieme di caratteristiche proprie delle popolazioni naturali definibili con il termine di “rusticità”, intendendo con tale termine la capacità di superare i fattori limitanti tipici dell’ambiente naturale, di sopravvivere alla continua competizione, di crescere e riprodursi con successo (fitness), di essere essere in grado di “sopportare” la selezione naturale. Dovendo far fronte a logiche esigenze di profitto, l’allevatore minimizza le perdite contenendo ed annullando l’effetto della selezione naturale, sostituita dalla selezione zootecnica; essa privilegia particolari aspetti quali la dimensione, il rapido accrescimento, il colore della livrea, la selezione artificiale di alcuni caratteri attraverso l’incrocio tra consanguinei, aspetti che nulla hanno a che vedere con la rusticità. Avannotti, giovani ed adulti così prodotti ed immessi in acque libere vanno incontro ad elevata mortalità dovuta all’ambiente estremamente selettivo. In altri termini la selezione naturale si riprende, con gli interessi, ciò che l’allevatore le aveva sottratto.

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Barbus meridionalis (barbo canino). China.

Oltre all’aspetto, non trascurabile, del destino del materiale introdotto in acque libere, vi è quello, ancor più grave, della provenienza dello stesso. Oltre a non appartenere alle stesse popolazioni presenti nel luogo d’immissione, quasi sempre i pesci immessi non fanno neanche parte delle specie originariamente presenti. Ciò comporta inevitabilmente il rischio, molto elevato, di introduzione di nuove specie estranee al carteggio faunistico locale. Gli effetti delle pregresse campagne di ripopolamento sono ampiamente dimostrati dallo stato attuale dell’ittiofauna italiana.

Sulla base delle precedenti considerazioni, si può arrivare ad una prima importante indicazione: “evitare ogni forma di ripopolamento di specie ittiche in ambienti acquatici in cui tali specie non sono mai state presenti in epoche storiche e limitare gli stessi alle sole specie a basso potenziale biotico (salmonidi ed esocidi)”. Ciò significa rinunciare all’introduzione, nelle acque interne, di pesci esotici. I ripopolamenti vanno eseguiti in determinate condizioni e per conseguire precisi obiettivi: “minimizzare gli impatti sulla consistenza del patrimonio ittico in seguito ai fenomeni di degrado ambientale o ai prelievi alieutici”. I ripopolamenti dovrebbero servire “esclusivamente” per il ripristino delle condizioni naturali di un ambiente acquatico, dopo la rimozione delle cause di alterazione della qualità delle acque (inquinamenti, eccessivi prelievi idrici,...) oppure per annullare (o compensare), per quanto possibile, gli effetti negativi, se presenti, dovuti all’attività dei pescatori. Occorre tuttavia precisare che il “danno” al patrimonio ittico per causa dei pescatori sportivi è infinitamente inferiore a quello dovuto al degrado ambientale; tuttavia, in certe situazioni, esiste e pertanto va limitato o annullato con pratiche ittiogeniche scientificamente controllate. Diventa allora importante uno sforzo congiunto da parte di tutti (pescatori, associazioni, amministratori e tecnici) per sperimentare nuove tecniche di produzione di materiale ittico dotato delle suddette caratteristiche. Qualcosa già è stato fatto; a questo proposito si possono citare:

1. tentativi di realizzazione di allevamenti di tipo estensivo, adatti alla produzione di “pesci più rustici”; 2. studi volti a comprendere quali sono gli stadi di sviluppo e di crescita che meglio si prestano per

l’introduzione negli ambienti naturali in funzione dei cicli stagionali ed idrologici dei corsi d’acqua; 3. sperimentazioni delle tecniche di trasporto meno traumatizzanti.

In conclusione, la gestione della fauna ittica non deve quindi essere finalizzata esclusivamente al riempimento dei cestini dei pescatori, come è av-venuto in passato. Gli ambienti acquatici non so-no “proprietà esclusiva” di chi paga una tassa (la licenza) per praticare l’attività alieutica, ma costi-tuiscono un patrimonio naturale che appartiene a tutta la collettività. I pescatori, con le loro asso-ciazioni ed i vari Assessorati Caccia e Pesca Pro-vinciali e Regionali devono recitare un ruolo di-verso rispetto a quanto avvenuto nel recente pas-sato quando, con una dissennata politica di ripo-polamenti, si è contribuito allo stato di alterazione della fauna ittica italiana. Con tali principi risulta quindi chiaro che l’immissione di materiale ittico non può costituire una attività lasciata all’improv-visazione, ma deve essere considerata una operazione conclusiva rispetto ad una articolata fase di ricerca, avente come obiettivo fondamentale la conoscenza dello stato attuale di qualità globale degli ecosistemi acquatici. Questo processo può essere garantito da uno strumento fondamentale che viene comunemente indicato con l’espressione “carta ittica”. Essa rappresenta la sintesi di indagini territoriali su scala regionale, provinciale o di bacino; fornisce una serie di informazioni utili al miglior raggiungimento degli obiettivi che devono caratterizzare i ripopolamenti nei termini sopra espressi. Essendo tali obiettivi coerenti con i principi che raccomandano il recupero del valore naturalistico del patrimonio ittico così come sopra definito, risulta evidente che la carta ittica diventa uno strumento finalizzato non solo alla gestione dell’ittiofauna, ma anche alla tutela degli ambienti acquatici in generale. È quest’ultimo aspetto che va sottolineato; la stessa espressione “carta ittica” è da considerare improprio, perché limitato rispetto alle indicazioni che si possono ottenere rispetto al problema più generale della gestione delle risorse idriche.