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La «pittura metafisica» di Paolo Fossati Storia dell’arte Einaudi 1

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La «pittura metafisica»

di Paolo Fossati

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Paolo Fossati, La «pittura metafisica», Einaudi, Tori-no 1988

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

Premessa 4

1. La città piú moderna d’Europa 11Cronache del 1917 11La città pentagonale 17De Pisis e i ferraresi 22Ferrara-Firenze-Ferrara 29Una poetica dell’amicizia 31Villa Seminario 33Carrà pittore futurista 38Arte indipendente, arte d’avanguardia 42I valori plastici 49Vivere a tempo opportuno 58La stagione del nuovo 62

2. Autoritratti di artisti 65«Frammenti» di De Chirico 67Il canzoniere di Carrà 78Il romanzo di Savinio 88«Je suis un dieu détrônisé» 98

3. Il dio ortopedico 111Questioni di spazio 115Stanze, scene, quadri 125Fine di stagione 133Questioni di pittura 138Creatore è colui che fa creare 148Principî di un’estetica 161

4. Le grandi manovre 166Soffici Rosai Morandi 166Carrà Ojetti Sarfatti 176Firenze 1922 189Fine di stagione 201

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Premessa

C’è, prima di tutto, una considerazione di date. La«pittura metafisica» si colloca negli anni della primaguerra mondiale e negli immediati mesi successivi: èuna stagione cioè in cui le «avanguardie», futurismicubismi espressionismi ed astrattismi, non hanno cessa-to di esistere e di crescere, né sono in ripiegamento o ininvoluzione. La «metafisica» è a gomito con loro, e conle loro ipotesi, non importa in che direzione orientate,innovative ed eversive. Carrà, De Chirico, De Pisis eSavinio, perché è di loro che si tratta, ne sono coscien-ti, e sono coscienti del fatto che non gli basta questa tra-dizione del nuovo perché l’arte contemporanea abbia lapossibilità di iscriversi davvero nei ruoli di un effettivomoderno. Occorre una revisione, dei ruoli di un’artemoderna, del contegno, non solo esterno, degli artistimoderni – sostengono. La scintilla dell’incendio dei«metafisici» scocca qui, non da problemi linguistici mada questioni di atteggiamento verso la realtà, rispettoalla quale la pittura nuova per loro deve necessariamen-te porsi. I linguaggi – affermano – sono al servizio di chisappia e voglia vedere e conoscere e porsi in condizionedi raffigurare un diverso atteggiamento; l’artista avrà disuo un sentimento della condizione conoscitiva che vaoltre gli aspetti formali e sa affrontare intenzioni e pos-

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sibilità. È un’avventura che non si pone, aldilà delle«avanguardie», ma sul loro stesso terreno e con loroentra in contatto oppositivo, di revisione.

Non si può parlare di gruppo, di movimento o discuola: la «pittura metafisica» è il risultato di un incon-tro, non casuale nel gioco delle intenzioni e delle atte-se, e insieme, del tutto casuale, se è vero che i quattrorimescolano le loro convinzioni in un breve destinocomune per ragioni estrinseche, la guerra che li ha uniti.Ciascuno dei quattro farà caso a se, ma non senza incro-ciare modi e motivi con gli altri; il punto comune, qua-dri e scritti, sarà un modo o una maniera di trasforma-re aneliti e pensieri in precise esperienze.

Molti anni dopo quei mesi, trascorsi a Ferrara duran-te la guerra e poi a Milano e a Roma nel primissimodopoguerra, De Pisis, nel 1938, proverà a fare qualcheprecisazione che resta fondamentale. Scrive un articoloche intitola La cosí detta «arte metafisica»; precisa pun-tigliosamente che non si è trattato di pittura e poesiasemplicemente, cioè di iconografia o stile o retorica poe-tica, o di un progetto formale, ma di pittori e poeti chesi sono posti in un particolare atteggiamento, con altraintelligenza passione e sensibilità dagli altri. La presun-zione (chiamiamola cosi) di essere all’altezza dei tempi,il voler trarre profitto da uno spirito inquieto e vigile hasegnato la novità di quella esperienza. E l’avventura ècominciata in termini biografici: esser moderni prima difare arte moderna, e non viceversa, implica una revi-sione di statuto dell’artista, non solo pittore e non solopoeta, ma dotato di certi ingredienti di saggezza epazienza operativa e conoscitiva, spoglio di pressioniindividualistiche e cosciente che non è in gioco l’origi-nalità espressiva del singolo. L’avventura artistica èinsieme una educazione ed un’avventura, una presa di

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possesso di un abito ed un processo di affermazione. Seper buona parte degli artisti l’arte è un fine, scrive Savi-nio, per l’artista nuovo è un mezzo.

Spiega Carrà come impressionismo, cubismo e futu-rismo siano «ancora» alle prese con un problema diforme, e di forme intese come descrizione di oggetti esituazioni: col risultato di opere, pitture e sculture, cherestano oggetti naturalistici o materialistici, e di limitilinguistici entro i quali il pittore o lo scultore sonocostretti a dibattersi come in una gabbia. Si tratta dicambiare le regole del gioco e riprendere a giocare, e nonè cosa da poco: occorre ripartire da una premessa clas-sica, per cui cose ed avvenimenti visti dalla specola dellaproduzione pittorica e delle sue retoriche sono privi diquel significato che altrimenti hanno. Occorre uscire dauna specializzazione ed entrare nel mondo: non conocchi ingenui, perché il mondo, oggetti ed avvenimen-ti, deve esser interpretato ed attraversato, rovesciato edindagato. Il pittore sarà dotato di curiosità che, al mododi talpe, perforano e superano una crosta di ragioni con-venzionali. L’avventura dei «metafisici» consiste, cioè,nel dichiarare convenzionali le motivazioni conoscitivesu cui gli altri «artisti moderni» si basano per le loroeversioni. Si parlerà di ritorni, cioè di percorsi diversi,di altre logiche progressive: in cammino verso i fini del-l’arte, verso la realtà, verso l’intimità dell’esperienzadel pittore.

Si tratta di riaprire il discorso sulla classicità degliantichi, sulla totalità di sguardo del passato, di mesco-lare portati ed esperimenti, non per recuperare modellie formule, ma per indossare un certo abito e un certoatteggiamento. Il pittore «metafisico» legge un plani-sfero in cui si passa da immagini a idee, da motivi filo-sofici a intuizioni di poesia, a riflessioni di tecnica e di

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mestiere, e il cui paesaggio è un particolare rapporto connatura e storia, come l’arte italiana ha segnalato neltempo e come ha resa condizione necessaria a un dise-gno piú ampio. Il «metafisico» si prepara a dar rappre-sentazione classica alla contemporaneità. Questa «fata-lità» geografica e storica è la chiave di una realtà cheappare insieme magica e potente, a patto di scoprirlaoltre le apparenze, cioè a patto che l’artista si riappro-prii di una forza propositiva che nel tempo ha perso affi-dandosi al linguaggio invece di servirsene.

L’artista come avventuroso esploratore, viaggiatore,l’arte come viaggio, o come scoperta. Ed è scoperta unarinnovata fiducia nel sentimento accanto alla ragione, laindefessa interrogazione con armi adeguate, della forzadell’arte come esperienza. Il mondo rivisto in modo ade-guato è foriero di gioie (di scoperta, di novità, di chia-rezza) e di amarezze (la sua realtà è reale nel gioco deisentimenti e della ricerca, non lascia spazio a conquistao a appropriazione). Discendere all’originario per risali-re alle cose e agli eventi non è né un metodo ne unmondo, spiegano i «metafisici»: è un desiderio, un’at-tesa e una misteriosa qualità; volontà e sapienza resta-no nel novero delle favole e delle fabulazioni, ed è que-sto che il pittore dipinge e il poeta canta, possibilità difavole dipinte e fabulazioni poetate. Affermare tuttoquesto, rifluire fuori da un processo lineare e progressi-vo significa difendere un realismo e affermare un radi-camento: non collocare gli oggetti in rapporto all’occhiospecializzato dell’artista ma valutarli per la loro realtàpropria, come modi e motivi di una costellazione senzacentri prestabiliti. Il che significa esteriorizzare un mododi pensare e vedere, ma anche fornire una pittura cheimponga allo spettatore un processo di diversa logica eappropriazione; un processo intellettuale ed emotivo

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nuovo nella calibratura delle parti e nella regia dei modi.Difesa di un’attesa di realtà, e ribadimento di un mestie-re capace di farsi visione: è la contromossa «metafisica»allo snodo fra anni dieci e primi anni venti.

I mesi di guerra, a Ferrara, rimescolano i casi perso-nali, scambiano le informazioni e le situazioni formali,convincono ognuno di una piattaforma operativa.

Nessuno stupore che un progetto poetico si ponga(a guerra finita e col rientro in una situazione ricca disviluppi) in qualità di progetto di volontà artistica.Saranno alcune mostre e poi il lavoro condotto su unarivista come «Valori Plastici» a testimoniare questafase ulteriore: quel nuovo modo di essere artisti perun’arte nuova viene sentito non piú come raggiuntaesperienza che ha dato risultati di notevole qualità, maprogetto collettivo, impegno e lavoro. Con un con-traccolpo importante, perché i pittori metafisici, DeChirico e Carrà, sentiranno come primaria l’esigenzadi uscire dal particolarismo dell’esperienza in un pic-colo numero e assorbiranno esigenze piú larghe e piúdiffuse. Se in un primo momento è il rigore intellet-tuale, l’assertività dei costrutti, l’allusività degli ogget-ti a contare, ora la sensazione di vastità, il colore dellasolitudine, il senso del tempo, invadono interni e pae-saggi stemperando sentimentalmente (è il sentimentodel tempo, l’emozione della scoperta, il ripiegamentodel non senso) le scenografie monumentali, le aguzzetensioni mentali ed un certo ermetismo costruttivo.Scriverà programmaticamente Carrà «sono le coseordinarie che rivelano quelle forme, di semplicità, checi dicono uno stato superiore dell’essere, il quale costi-tuisce tutto il segreto fasto dell’arte... e poiché non c’èdato che parlare per segni, ci rivolgiamo con la mentea cotesto senso del pacato poetico e abbandoniamo

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alle nature volgari e contadine il falso sognare sul mera-viglioso».

Di fronte alla scoperta dell’originario, le vie di DeChirico e di Carrà, che mai si sono congiunte, si diva-ricano con decisione estrema. Il turbamento di fronte aduno spazio desiderato e frustrato di totalità spinge DeChirico e diviene materia intellettuale di critica dellarappresentazione, di percorso dei limiti della pittura chesconfina con l’immaginario e il non senso: prende le viedell’ironia e del paradosso. Ed è ciò che Carrà giudicadissolvimento e caduta, uscita dalla forza dell’arte, dallapassione costruttiva, dalla sensibilità di fissare una figu-razione. Gli preferisce quel tanto di appassionato e sen-sibile che nella ricerca, nei ritorni, nello scandaglio con-tinua a dare messaggi di magia e di energia: scopre unaforza plastica, una volontà di fare che recupera all’ar-chitettura del quadro, alla forza della costruzione, alsenso ieratico della composizione una vitalità tutta poe-tica, artistica, carica di energia. Trovare un’unica unitàfra queste posizioni diverse, dare un unico significatoall’esperienza dei metafisici è, storicamente, un nonsenso. Il capitolo «pittura metafisica» è tanto piú note-vole quanto è frastagliato, sinuoso, controverso: isolar-ne in capitoli separati i ruoli risulta negativo; è un mododi non capirne la portata.

Ho riassunto alcuni dei motivi di cui questo libro èintessuto. Devo aggiungere, in sede di premessa, che lavia scelta per leggere ancora una volta la «pittura meta-fisica» è quella del racconto. Ho cercato di narrareintenzioni attese e volontà in un contesto, precisandoscambi e rapporti con altri artisti e situazioni, incollan-do via via lettere e documenti, scritti di poetica edopere. La ragione è seguire le vie complesse di una vicen-da di cui giustamente si valuta sempre piú l’importanza

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nel panorama artistico contemporaneo in quanto espe-rienza non isolata e solitaria, ma contestuale e lucida-mente connessa ad altri avvenimenti. Se è lecito spen-dere un termine come dialettica, mi interessava questoaspetto, di dialettica, presente tanto all’interno dellavicenda dei «metafisici» quanto nei collegamenti al difuori dei loro territori piú immediati. Per non appesan-tire questo racconto ho rinunciato a note e ai rimandipuntuali; la bibliografia che segue dà conto, parzial-mente almeno, dei materiali di cui mi sono servito e deltaglio di questi materiali in sede di elaborazione dellibro, durante la sua lunga gestazione.

Il libro è dedicato, e non poteva non esserlo, a Mimita.

paolo fossati

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Capitolo primo

La città più moderna d’Europa

Cronache del 1917

«Le campagne son deserte | Le città piene di demo-ni | Le divinità tutte cittadine», canta Alberto Saviniosoldato a Ferrara. E in tre versi concentra un clima eduna situazione: il clima della città che ospita un gruppodi artisti destinati a segnare l’arte degli anni del primodopoguerra, e la situazione psicologica e culturale diquesti protagonisti: Savinio è uno di loro, gli altri sonoDe Chirico e Carrà, con De Pisis (non ospite, quest’ul-timo, ma giovanissimo cittadino ferrarese). Dicono i treversi di una concentrazione di attenzione e di sensibi-lità tutta trasposta all’interno del luogo urbano, e dico-no come questo sia saturo di rivelazioni e prodigi, di«demoni», di misteriose sostanze: le divinità sono, aloro volta, cittadine, forse sono gli stessi poeti pittori eletterati che abbiamo appena citati. Una situazione ecce-zionale ed una congiuntura quasi occasionale: è la guer-ra a mettere assieme quegli ospiti e a mescolarli con arti-sti ferraresi, e il tutto, occasione sensibilità esperienzeculturali, esiti pittorici o poetici, sembra cristallizzarsiin una mitologia.

Il dato concreto è che nelle prime settimane del gen-naio 1917 a Ferrara sono Savinio De Chirico e Carrà,stanno per incontrarsi e per dar vita ad un complicato e

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irto sodalizio. Il racconto comincia con Ferrara, e Fer-rara intriga subito il neosoldato De Chirico. Non sologli pare bella, ma in quella bellezza sente albergare qual-cosa che lo turba e lo stimola al tempo stesso. Certiinterni, cortili, androni, certi angoli di vie, le piazze egli edifici, le stesse stanze in cui è ospitato destano un’e-mozione che è istintiva e colta, piena di segnali poeticie di spunti di riflessione. C’è intanto un disegno fisico,una forma urbana che sembra fatta apposta per invita-re a induzioni mitiche o a formulazioni astrologiche; epoi quello spazio condensato dentro il profilo delle murafa pensare a una sede di dei o di filosofi, un luogo di ele-zione per certi loro estri particolari. Quindi cifratureintellettuali, ma sempre sul filo di una tensione, di sen-timenti e attese. Una miscela che è della città e dei suoiospiti, che l’una impresta agli altri e viceversa.

Quando scrivono di Ferrara e ne fanno una cifra cosífitta, De Chirico, Savinio, De Pisis avvertono che lamiscela è esplosiva, che dentro Ferrara si gioca una par-tita difficile. Lo dice De Pisis, che riassume il tutto inuna citazione: in apertura al suo libro ferrarese piúemblematico, intitolato alla città dalle cento meravigliee dei mille misteri naturali, riporta una frase di Gautier.Stiano accorte le madri di famiglia, vi si legge, quantoDe Pisis ha raccolto nel suo libro non è per ragazzine alleprese con il pane in tartine: i suoi sono pensieri di ungiovane uomo.

Nel gennaio del ’17 Carlo Carrà è inviato a Ferraradal distretto di Milano. E a Ferrara da un buon nume-ro di mesi sono in divisa i fratelli De Chirico (Andreaha già assunto il nome d’arte di Alberto Savinio). Nonsi conoscono di persona, ma sono al corrente delle rispet-tive attività. I De Chirico hanno visto opere futuristedi Carrà, ne hanno letto gli scritti, sanno di un suoripensamento che lo ha allontanato di recente da Mari-

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netti e dagli altri compagni di ricerche futuriste: duesaggi comparsi su «La Voce», in cui Carrà parla di Giot-to e di Paolo Uccello, hanno spiegato le preoccupazionidel pittore, il timore di restare impaniato in una poeti-ca troppo attenta a reagire alla realtà minuta e vistosa-mente dinamica e l’esigenza di ricerche pittoriche piúcircostanziate nelle proprie ragioni e piú approfondite.A sua volta Carrà ha visto dei lavori di De Chirico, glie-li ha mostrati, durante un soggiorno parigino, un amicocomune, Guillaume Apollinaire, che stima De Chiricoe lo protegge. Carrà è rimasto piú perplesso che impres-sionato; ne ha scritto a Soffici, gli pare un modo moltointellettuale di porsi problemi nuovi, fuori tono per luiche è emotivamente preso dalla tensione della pittura.Certo non è rimasto indifferente. E sa di Savinio, delsuo lavoro di musicista: dei due italiani che vivono fati-cosamente a Parigi ha parlato su «Lacerba» proprio Sof-fici, e con un interesse vivace.

Soffici è al corrente di come Carrà stia tribolando trariflessioni nuove e difficoltà con i vecchi amici e comela reazione ai quadri di De Chirico sia il risultato di quel-le difficili meditazioni. Dal momento che, fortunata-mente, il caso ha riunito i tre, è bene si frequentino, sicapiscano, lavorino a contatto: non può che sortirne delbene, pensa. E, d’accordo con Papini, favorisce l’in-contro, sollecita a che si cerchino e si trovino. L’asse-gnazione a caserme diverse, fra città e dintorni, chiedeun passo di ognuno verso gli altri: De Chirico scrive unbiglietto; con fatica l’incontro si fa. De Chirico ha spie-gato in quali difficoltà si dibatte, «se oggi vi sonopochissimi che vedono chiaro nelle faccende e con disgu-sto si allontanano dalle cialtronerie della pittura moder-na per ostinarsi alla realizzazione di un loro grandesogno interno, essi devono faticare cento volte di piú diquello che avrebbero faticato in tempi meno degeneri,

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per fare udire la loro voce». E, sia pure con ragionidiverse, Carrà non può che dargli ragione.

Savinio e De Chirico sono a Ferrara dall’estate del1915 («in un afoso pomeriggio salii su un treno in par-tenza per Bologna. A Bologna cambiai treno e partii allavolta di Ferrara», scrive De Chirico nell’autobiografia).Erano a Parigi allo scoppio della guerra, nella città incui vivono da qualche anno cercando di definire i rispet-tivi mondi e di affermarli in un ambiente difficile. Sonoandati ad arruolarsi a Firenze (rammenta Bino Binaz-zi: avevano sentito il bisogno di vedere in quel primotrambusto enosigeo la loro patria d’origine, e se nemostravano «fort touchés»); poi sono stati assegnati allacittà estense. Lí la vita di caserma, l’estraneità del-l’ambiente e la novità della vita militare s’è prestoaddolcita ad opera di Corrado Govoni, un ferrarese diintensa attività letteraria, buon poeta ed intelligente let-tore di quanto accade in giro. Govoni ha aperto al pit-tore la sua casa, gli ha permesso di riprendere a dipin-gere, cosa di estrema importanza per De Chirico, alleprese con un lavoro che a Parigi è cresciuto e gli si è viavia sempre piú precisato: proprio ora ne raccoglierà ifrutti maturi. Savinio è in una situazione personale piúcomplicata rispetto al fratello che ha definito il propriomondo e il proprio modo di lavorare. Ha abbandonatola musica, «per non cedere totalmente alla musica, –dice, – perché la musica stupisce e istupidisce». Nel1914 ha esordito come scrittore (ha già redatto alcunepagine di riflessione musicale e di teoria dell’arte): com-pone Chants de la mi-mort, tiene un concerto cui sonopresenti Picasso, Picabia, Archipenko e Soffici. È incer-to sul proprio lavoro, si interroga sul futuro, preparaalcuni scritti che raccoglierà in volume nel 1918 col tito-lo Hermaphrodito, pubblica qualche pagina su «LaVoce» grazie alla mediazione di Papini. Sono note che

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stanno fra l’appunto di costume e la ragione critica,riflessioni sull’arte la guerra le idee correnti e i movi-menti che ritiene devano far da protagonisti sulla scenaintellettuale: pagine che piacciono in una cerchia limi-tata ma non sciolgono l’ambiguità di un uomo che sisente chiuso nei panni del commentatore e aspira aduna sua creatività e resta in attesa di un modo piú adat-to di esprimersi. Scrive a Papini che è stufo di fare il«sublime disinteressato», e che «a me cuoce di trovarefinalmente una via aperta». Per il fratello questi pro-blemi non ci sono: ha trovato la sua via, la precisa el’approfondisce, mette in conto l’orgoglio di esser fuoridalle consuetudini pittoriche in voga nella capitale fran-cese, non ama la rappresentazione emotiva e l’impres-sione coloristica, e non è interessato a certe questioniformali fini a se stesse, è preso da una pittura che siaricerca di tensioni conoscitive, che si basi su pensieri eidee, che evochi una suggestione intellettuale e ne fac-cia scaturire emozioni e sentimenti. Ha stima di Papi-ni, è amico di Soffici, capisce l’importanza di un con-tatto con giovani valorosi come Carrà: se tra questiuomini si creasse un legame di lavoro, scrive all’onni-presente Papini, ne verrebbe consapevolezza [...] e pub-blica autorità.

Carrà ha continuato a lavorare a Milano, si è mossotra manifestazioni politiche, discussioni e scontripatriottici, preso com’è da un interesse pieno per quan-to accade e per la passione che lo anima verso la realtà.La sua preoccupazione è di trovare un equilibrio fraquesta partecipazione e il raccoglimento che la pitturachiede in termini di fermezza plastica, di profondità diemozione e di costruzione poetica. Per questo vede nelfuturismo un rischio, una condanna ad una superficia-lità che costringe a sempre nuove invenzioni, senzascavo e senza momenti di meditata riflessività. Scrive di

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questi e similari problemi, vuole un ordine della pittu-ra solo attento all’energia messa in moto dall’arte e chedeve investire ogni aspetto della realtà, condizionando-ne la visione. Per questo ha reagito negativamente allavista dei quadri di De Chirico e s’è detto scettico difronte alle tele di Picasso, che opera, a suo modo di in-tendere, in modo troppo calcolato e voluto, incapace diaffrontare il blocco emozionale della pittura; ambeduei pittori gli fanno pensare a una ginnastica raffinata chefunziona solo in termini polemici, di opposizione alleidee correnti. E Soffici, che raccoglie reazioni e umoridell’amico, vede in queste come in altre prese di posi-zione di Carrà troppa rigidezza e prevenzione sistema-tica, si preoccupa. È venuta l’ora che con De Chirico sivedano, parlino, si scontrino, gli farà solo bene, scopriràcome in De Chirico ci sia qualcosa d’altro, la maestàdegli antichi calata nel moderno con un respiro pacatoche è lontano dalle polemiche.

Si comincia con uno scambio di biglietti. «Amicocarissimo», debutta De Chirico, e ringrazia di una car-tolina «cosí italianamente nostalgica e solida nella suanostalgia». Aggiunge un tratto gentile: ha incontrato unsoldato che è commilitone di Carrà e gli ha chiesto noti-zie, «nel rozzo idioma mi descrisse la tua figura e men-tre mi parlava pensavo ai racconti omerici di quei navi-ganti che descrivevano l’eroe errante ai compagni chenon lo avevano ancora visto». Il clima è subito preciso,ed anche le attese: «sta sano. E aspettami; e conservanel cuore le speranze piú forti, che il giorno del grandespettacolo è prossimo, ne ho la prescienza... tuo fedeleGiorgio Giuseppe De Chirico».

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La città pentagonale

Ferrara è città da identificare nei suoi ospiti, ed ècittà che permette ai suoi ospiti di identificare esigen-ze, gusti, fatti culturali, inclinazioni liriche. Ma non sipuò tralasciare l’altro aspetto del momento, la guerra.Che cosa rappresentasse per tutti gli artisti in grigio-verde la stagione della guerra lo dirà poi Soffici, anno-tando una serie di ragioni diverse: «il tesoro di scoper-te improvvise, la copia di pensieri e sentimenti nati alcontatto di una realtà sconosciuta, sublime o terribile,specialmente gli effetti di un lungo allontanamento for-zato da un mondo di consuetudini sociali e mentali, peruna lenta incubazione dell’anima resa alla sua unica evergine forza originaria». E nel referto c’è pressochétutto, compresa l’eccezionalità della congiuntura.

Il momento è diverso, caso per caso. Per Carrà tuttosuccede nei termini di una carriera ormai ufficialmentedefinita, con le sue occasioni pubbliche ed i suoi appun-tamenti di mostre e polemiche, ma cade (mentre è inatto) un processo di identificazione artistica, dopo ilripensamento delle ragioni futuriste; per De Chirico sicolloca al punto di maturazione di un percorso che nonha ancora avuto la sua consacrazione ufficiale, malgra-do qualche riconoscimento importante, e cosí via. Pertutti siamo ad una maturità da investire col massimodelle forze e della lucidità, e la cronaca ferrarese la segnadi esaltazione e di tedio, di iperboli di volontà e dicadute di tono, di timori, interrogazioni, lavoro inten-sissimo quanto sfasato in termini di operatività, di pas-sione intellettuale ed estreme torsioni di sensibilità.

Ha i caratteri di una vacanza, dice qualcuno; ma,annota De Chirico, delle vacanze c’è da diffidare, comedella giovinezza o di certe stagioni stregate e rischiose,la primavera, per esempio. Tutti momenti in cui è per-fin troppo facile lasciarsi prendere ed abbandonarsi ad

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un’aura, che è solo atmosfera: mentre è indispensabilestare all’erta, operare con giudizio, essere accorti, nonlasciarsi catturare. E poi, come abbiamo appena letto,prepararsi ad alzare lo spettacolo grande.

Identificata nei suoi ospiti, la città non può che esse-re trasognata, attenta al fantastico e all’immaginarioquanto sprofondata nel quotidiano. Non può che esse-re adeguata al clima in cui i pittori identificano l’oriz-zonte del loro lavoro, oppure «lussuriosa», della piúaccesa e devastata fisicità. Un mondo gremito di perso-ne, di oggetti, di segni, le realtà edilizie, gli amici e i lorocomuni interessi (o le delusioni sulle mancate comu-nanze di interessi ultimi), i corrispondenti lontani, certescoperte, come i quartieri ebraici e la cultura che vi sivive. Cose e messaggi assieme, oggetti e ragioni, pen-sieri, emozioni, sentimenti, con un trapasso ovvio diconcretezza da realtà a fantasma culturale, a mitologie,a meraviglia. E non a caso Ferrara riserva cento mera-viglie: merito, insieme, di questa città e di questi suoiparticolari ospiti, l’identificazione fantastica ed espres-siva che travalica in poesie, prose, pitture di cui ci inte-resseremo.

Scrive De Chirico: «quella meravigliosa via Giovec-ca che a levante termina nel montagnone ove una costru-zione semicircolare, simile alla poppa di una nave, stra-piomba sul pelago della campagna romagnola e conferi-sce a quel punto della città un che di marittimo e di por-tuale, mentre a ponente, per le rette di viale Cavour edel viale Cesare Battisti, il senso metafisico della viaGiovecca va a morire nella nostalgia della stazione fer-roviaria, tra il groviglio dei binari ed il frastuono deiconvogli».

Secondo De Chirico è la città moderna, anzi, conl’autorità che gli viene da una citazione di Burckhardt,la piú moderna d’Europa. Coglie in tal modo tre imma-gini con una sola definizione. Il moderno identificato

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nell’urbano, la città vista in Ferrara, e ancora il moder-no identificato nella massima dimensione possibile, l’Eu-ropa: i termini sono chiarissimi, e ancor piú lo diventa-no con l’altra equazione, Ferrara uguale moderno inquanto è mescolanza di elementi diversi, antichi e nuovi,morti e vivi, pensati e vissuti, che non si annullano inunitaria e surrettizia atmosfera o scenografia. Ferraramoderna come nessuna in Europa perché vi stannosospesi, nella regolarità dell’ordito di vie e piazze, lembidi antichità e momenti andati con brandelli di quoti-dianità, come a costituire un’isola sospesa nel tempo enella logica che il tempo dipana. Ferrara è simile ad unlaboratorio di alchimista in cui pipistrelli imbalsamatipendono dal soffitto. Oppure è un interno esterno con-temporaneamente, una stanza, l’atelier dell’artista, e lospazio aperto, in un gioco di rimandi in cui ognuno ècome sdoppiato, è attore e spettatore, si muove e sivede muoversi, usa oggetti e luoghi e dagli oggetti e dailuoghi è osservato e usato. Città come luogo di unacerta vita personale è luogo in cui si è cosa fra le cose,comparsa in un copione dato. Con uno spaesamentocontinuo e una estrema mobilità.

Savinio stratifica Ferrara su piú piani e li rimescola.È la città mitica, ed è la città «in pan di zucchero» diCampanella, gli ricorda il paese dei balocchi di Pinoc-chio, e vi vede lo stesso ambiente bellissimo e strano delracconto dei Nani burloni; poi ci sono i misteri natura-li, l’osceno, la libidine («ci sono giorni, specialmente nel-l’alta primavera, in cui la libidine, che incombe su Fer-rara, diventa una forza tale che se ne sente quasi ilrumore, come di acqua scrosciante o di fuoco divam-pante», conferma De Chirico). Del resto, secondo Savi-nio Ferrara è nata da un amplesso divino con la vaccacolorata di Zaratustra, a conferma di una carnalità di cuiin Hermaphrodito non mancano le debite annotazioni:

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«Notte del 13 febbraio 1916: ... grandi saturnalia di libi-dine sotto la notte propizialmente placida, al cospettodell’indecente connubio di Zeus con Aphrodite affian-cati», «Notte del 14 febbraio 1916: ... proseguimentodei saturnalia. Zampilli di lascivia dalla terra verso lestelle, pioggia di lussuria dalle stelle sulla terra».

E nel piú minuto repertorio urbano non mancanocelebrazioni similari. Come quella del rito dei macellaiche a sera sbarrano le botteghe, sfrontatamente illumi-nate, con salde inferriate da serraglio, e allora all’inter-no si vedrà troneggiare un immenso bue squartato, rittocome un crocefisso, le quattro zampe aperte, il ventresquarciato, visibili «l’inverecondi dettagli muccoidali».Il passante si ferma dinnanzi all’inferriata e adora silen-ziosamente in quell’animale piú che nudo e martoriatola raffigurazione dell’oscenità sessuale. Il passante, com-menta Savinio, grave e raccolto recita la sua breve pre-ghiera alla dea della lubricità, per poi allontanarsi cau-tamente verso la sua casa triste.

È vero che è una città cubista, come afferma Savinio,e come tale già impaginata ed allestita ad arte, è vero cheè città moderna ed europea, ma non ha nulla a che vede-re con Parigi, con la metropoli in cui è possibile ricava-re, nel movimento e nella tumultuosa vita d’ogni gior-no, un proprio mondo ed una diversa realtà. Dice Savi-nio nel primo articolo che pubblica in Italia:

sebbene appartato dalla società – come gli antichi pontefi-ci – pure io voglio vivere nella città rombante di motovivente e meccanico, dove l’atmosfera è carica di Stim-mung, fra la gente educata, per tradizione o per pigrizia,alla dolce indifferenza. Voglio passeggiare nelle vie e nellepiazze ove non mi strozzi l’asfissia di una architettura loca-le; dove non mi soffochi ad ogni passo l’abbellimento diun’arte nazionale, dove non inciampi nell’opprimente tra-

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dizionalismo o nei paralitici ed irrigiditi canoni di un’este-tica buffona... Io voglio vivere a Parigi!

C’è una città nella città, che affascina De Chiricoquanto Savinio, ed è il quartiere ebraico: non solo le bot-teghe, le strade, la gente attirano, ma una certa culturaed una precisa intelligenza, quel sistema libero e sparsoper il mondo che non può non esser stimolo – dice Savi-nio – per intelligenze indocili e ribelli al morbido dellemelensaggini cristiane. Un sistema di pensiero insiemedi rigida struttura e dalla anatomia elettrica, come quel-lo degli ebrei, attira Savinio come «fonte di ruscella-menti poetici da sbalordire». Tutto questo ha un lega-me preciso con alcune delle manifestazioni piú recentidella poesia e dell’arte, dal momento che il pensieroebraico gli sembra emergere «nell’amore prevalente perle linee austere, nel parco intervento dei sollazzi colori-stici, e, specie, nell’influsso della metafisica secca e natu-rale che vi traluce, in opposto a quell’altre soi-disantmetafisiche, prevalse nelle arti dall’avvento del lutera-nesimo fin giú alle recenti epoche di decadenze pedera-stiche e di sensualismi morfinomani».

Non è questione di visione religiosa, ma un «gustorisentito» per un costume, pensiero e comportamentoallo stesso tempo, e la metafisica di cui parla (e che sca-turisce dal modo di comprendere le cose) andrà intesain un senso preciso, non mistico: «non vi sono che gliignari, le donne (fuori le dattilografe) e i rinfanciullitiche considerino il problema semitico dal solo lato reli-gioso».

Il quartiere ebraico riserva altre suggestioni, visivequeste, come nel caso delle vetrine dei pasticceri ricol-me di dolci in immense piramidi, i «dolci neri bizzar-rissimi che nessun vivente mai mangio o mangerà».Quei dolci tagliati «presentano la complicata anatomiamineralogica delle loro interiora. Sono spezzati di schi-

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sti, sono coproliti, sono forse le feci fossilizzate di que-gli uccelli disgraziati che morivano passando a volo sulmortifero lagoscuro». La suggestione è quella di un balzonel tempo, gli oggetti esposti sono la concrezione di unarco smisurato di anni, «colui che assapora quei dolcifatalissimi, assapora l’eternità», non sono destinati aimortali, accompagnano qualche libazione offerta a divi-nità infernali in un rito mortuario. E, appunto, quelloche Savinio scopre è il valore rituale di un accostamen-to ed il gioco mentale dei suoi significati.

De Pisis e i ferraresi

A Ferrara c’è, com’è ovvio, una vita culturale, delleriviste, dei pittori e dei poeti, un’importante casa edi-trice, i fratelli Taddei, che pubblica libri in prosa e inverso di notevole interesse nel quadro della letteraturapiú recente. Ma i rapporti con gli ospiti in grigioverdesono inesistenti, se non ostili. La ragione la dirà De Chi-rico, non esiste alcuna sintonia possibile, i piani su cuilavorano gli uni e gli altri sono del tutto sfasati tra loro.De Chirico pone la questione a proposito di Govoni, inuna prosa lirica di notevole interesse. In Il signor Govo-ni dorme descrive la sua amicizia e la simpatia per ilpoeta, l’accoglienza nella sua casa e il proprio lavoro dipittore che lí si svolge. Eppure quella pittura, gli incon-tri e le discussioni tra amici, trascinati dal clima nuovoche s’è creato e che conduce a nuove scoperte, nontoglie Govoni da una sua assorta contemplazione, nongli dà il senso di un salto di qualità, di un passaggio adun diverso modo di agire. Per quanto le occasioni si mol-tiplichino, il «signor» Govoni non si desta da un suo tor-pore letterario: «dorme, dorme, dorme». Gli altri, gliscrittori e i letterati, «la coorte dei poetonzoli, scrittu-ronzoli, pitturonzoli», costituiscono per De Chirico «un

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insieme di bipedi di ostinata e gesuitica mente» tesa acomunicare «i belanti sussulti e le vaghe nostalgie del-l’animuzza bambina e bacata».

Le reazioni locali ricambiano dello stesso tenore lecritiche. Su un paio di riviste che si redigono a Ferrara,«Poesia e Arte» o «Arte nostra», gli attacchi suonanoviolenti: i De Chirico e i Carrà praticano un’arte privadi umanità, optano per soluzioni stravaganti, involute enutrite di cattiva filosofia. Vogliono fare della «avan-guardia», cioè qualcosa di inutilmente ricercato ed irra-gionevole, proprio quando sarebbe necessaria un’azionedi normalizzazione e di espressività piana e comprensi-bile. Il piú strapazzato è Savinio, per il suo pluristilismoe per le mescidazioni linguistiche, sintomi, dicono i suoidetrattori, di confusione caotica priva di centro propul-sore e di una vera ragione poetica.

L’incontro destinato a dare i frutti piú interessanti ècon un giovanissimo, Filippo Tibertelli, che assume ilnome di De Pisis. Nato nel 1896 (Carrà è dell’81, DeChirico dell’88, Savinio del ’91), attivissimo e deciso adaffermarsi al di là dei limiti locali, De Pisis stampa nel1916 il suo primo libretto, I canti della Croara (la Croa-ra è una villa nei pressi di Bologna dove i Tibertelli pas-sano l’estate 1915), cui farà seguire una fitta serie di pla-quettes e di pubblicazioni. Nello stesso 1916 ha avutoi primi contatti con De Chirico e Savinio, poi incontreràCarrà. I rapporti con gli artisti piú anziani non sono faci-li: De Chirico è urtato dalla sua presenza continua edalla invadenza, lo dice compromettente in arte e rom-piscatole nella vita; Savinio, che si mostra il piú com-prensivo nei suoi riguardi, lo tratta da femminetta, e da«petit tata». Si comporta come un allievo ficcanaso econ un senso di dipendenza al limite del servile, conumori che lo fanno giudicare, via via, gesuita, un infie-lito, un animale pernicioso.

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Al di la di schermaglie ed irritazioni, si dà il caso chela rapida crescita intellettuale e culturale di De Pisisponga una questione precisa che poco interessa i nostri:per quanto graviti sul fronte pittorico degli amici, DePisis si muove essenzialmente sul piano letterario, e pre-sto dirà la sua. Non solo, la sua posizione di ricerca coin-cide fino ad un certo punto, come vedremo, con quelladegli altri, a dimostrazione di un istinto sicuro e perso-nale. Carrà e De Chirico sono attenti ai fatti ed ai mec-canismi letterari, ma una letteratura parallela alla loropittura non la prevedono neppure quando scrivono epubblicano loro stessi. Non stupirà che Carrà ricordi DePisis come un giovane provinciale di buona cultura, cheparteggia inquietudini e problemi quali vanno propo-nendo in giro gli scrittori nuovi, ma il cui valore finiscenello svago e nel diletto. Nulla a che vedere con imomenti decisivi di officine artistiche come quelle diCarrà e De Chirico, per non parlare di Savinio.

De Pisis è personaggio di molteplici interessi e dialtrettanto complesse inquietudini, che rapidamentedefinisce un suo ruolo. Che è poi proprio quello del per-sonaggio, cioè di una personalità che vuole affermareemozioni ed intuizioni senza rinchiuderli definitiva-mente in oggetti letterari o, con un interesse destinatoa crescere piú avanti, nella pittura: cerca uno stile ed unaemotività, sa che letteratura ed arte ne costituisconomotivi privilegiati ma a patto di lasciar fluire libera-mente morbosità ed intelligenza, sensibilità ed esteti-smo. Intanto legge molto, scrive moltissimo, si interes-sa di erudizione locale e di arte attuale, di cultura figu-rativa e di personaggi settecenteschi, ha una stagione, asuo modo liberatoria, di interessi occultistici e spiritua-listici, e il tutto invece di fare resistenza in singole atti-tudini od occasioni lo matura, e in modo felicementerapido, ad una progressiva lievità di visione, trasversa-le, per dir cosí, piú che concentrata in un punto.

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Una irrequietezza che, unita a una difficile gio-ventú, piace poco, come si è visto, ai De Chirico e aiCarrà, i quali solo ad un certo punto si accorgerannodella sua presenza piú vera. Tutte le volte che De Pisisrivendicherà un suo ruolo accanto agli altri, e ricorderàla Ferrara 1917 o 1918 come un’officina in cui De Chi-rico, Savinio e lui stesso si «somministrano» a vicen-da idee e suggestioni, non dirà nulla di inesatto, e lasua letteratura degli anni in questione e di quelli imme-diatamente successivi ne è una conferma, con queltono tra lo stupito e l’angosciato, fra il disponibile el’immaginoso, sempre al punto di valicare limiti e con-fini, dotata di un solido realismo è pronta alle avven-ture piú sottili.

Di famiglia di qualche nobiltà, nella casa avita DePisis apre le stanze che ha allestito per sé agli amici arti-sti: sono stanze che chiama «metafisiche», atteggiatecon un minimo di messa in scena, tra bric à brac dioggetti e un’atmosfera estetizzante. C’è una cameramelodrammatica ed un salotto metafisico, ricorda il fra-tello Pietro: la prima caratterizzata da una tappezzeriaa righe bianche e celesti, che creano una suggestionevagamente crepuscolare; l’altro fitto di oggetti, dallepalle di vetro lucido, verdi azzurre e dorate, che pen-dono dal soffitto, a un paio di testine di bisquit conocchi dipinti e capigliature bionde, a bambole sventra-te, poi una gabbia in vimine verde e una zucca da pel-legrino. Lí De Chirico appenderà tele appena ultimate,come Ettore e Andromaca, due manichini ed un arma-mentario da atelier di pittura, il piano di appoggio simi-le ad un piano di palcoscenico sospeso ed inclinato, duequinte che serrano la rappresentazione dandole una pro-spettiva fortemente accentuata; oppure come Il ritor-nante, un quadro chiave per De Chirico e per i suoiamici: un interno su cui si schiude una porta a raffigu-rare l’attesa sospesa, un manichino ed una sorta di sta-

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tua vivente, ad occhi chiusi e braccia conserte, in atteg-giamento di pensatore poeta. E mostrerà Le muse inquie-tanti (che hanno inizialmente un titolo piú dimesso ediretto, Le vergini inquietanti): la consueta piazza palco-scenico con alcuni riferimenti ferraresi ed il profilo deifumaioli di un’officina, una statua, il manichino monu-mento, un piú adiposo manichino seduto, entrambi prividi testa, alcuni oggetti geometrici e la testa di un fan-toccio. (A De Chirico non è certo ignoto un passo diEcce Homo come questo in tema di suggestione e dipotenza di immagine: «si vede, non si cerca... la invo-lontarietà dell’immagine, del simbolo, è il fatto piú stra-no... il concetto di rivelazione nel senso di qualcosa che,subitamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza, si favisibile, o udibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge nelpiú profondo, è una semplice descrizione dell’evidenzadi un dato di fatto»). Sono i quadri che De Chirico hadipinto dopo l’arrivo a Ferrara, in cui il tratto piú impor-tante è la suggestione della scena cosí come è montata eraffigurata, senza lenocinii pittorici ed intrisa di unsenso di distanza, di sospensione temporale per unariapparizione di figure ed oggetti di una remota sugge-stività intellettuale.

È interessante, a questo punto, una lettera di Savi-nio a Soffici che ha visitato Ferrara verso l’estate del1917. Savinio ringrazia l’amico della giornata trascorsaassieme narrando le sue emozioni e la nostalgia per lapartenza di Soffici in termini che non sono lontani dal-l’atmosfera delle tele dechirichiane:

Non mi è ancora sparito una sorta di fascino che mi è rima-sto del nostro recente incontro. È strano: mi ha lasciatoanche un che di dolcezza frammista a tristezza, e rammen-to l’impressione che mi lasciarono, da ragazzo, alcuneimpressioni teatrali: sentimenti indefinibili, ove, tra moltanostalgia di poterci incontrare di nuovo fra breve, domina

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l’idea entusiasmante che ormai siamo insieme nelle cose chedirigeranno i nostri destini e poi anche nell’affetto chetanto riscalda e feconda lo spirito degli uomini piú grandiche per necessità di intelligenza lunga si trovano in certesfere diacce dove la vita isolata diviene.

De Pisis invocherà piú tardi il proprio apporto peraver fatto conoscere una certa Ferrara poi trasposta neiquadri dechirichiani, il rosso magnetico del castello o loscorcio della piazza Ariostea, oppure di aver tratto dalbuio per un uomo cosí cerebrale e scontento certe sug-gestioni, come quella di uno scenario di teatro deiburattini: c’è da crederci quanto meno in termini diemotività e di fascino sentimentale impresso nei lega-mi d’amicizia e cosí presente nel lavoro di Savinio e DeChirico.

Ferrara-Firenze-Ferrara

A Milano, nel 1916, Carrà ha dipinto un quadro, chegli pare un buon risultato. (Ha scritto a Papini: «stofacendo un quadro che ricorda nella plastica il buondoganiere Rousseau. Tu non puoi immaginare quanto mifaccia piacere questo fatto. Altro che manie dinamiche.Ecco perché nell’ultima mia ti dicevo che mi sentivoGiotto»). È alle prese con una questione di espressioneplastica: la dissoluzione del volume e la dispersione cro-matica che il futurismo sembra aver accentuato hannoavuto come conseguenza la perdita di conoscibilità deldipinto, la scarsezza di realtà fisica che esso rivela allospettatore: il quale non vi intravvede piú una aperturain profondità rispetto all’esperienza quotidiana. La car-rozzella raffigura una scena appena accennata, con pochioggetti plastici volutamente isolati ed esasperati: unacasa a dado di gusto primitivistico, il cavallo e la car-

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rozza a mantice dalle tinte spesse e dal chiaroscurodenso, una silhouette di personaggio a cassetta, su unosfondo continuo ed opaco come di muro affrescato.Secondo Carrà, La carrozzella risolve ciò che gli sta piúa cuore, e non solo in termini formali: una figurazioneall’essenziale concentra l’attenzione e raccorda emozio-ne visiva ed austerità plastica, con pochissimi elementinarrativi, riducendo la vivacità della scena ad un fattopressoché mentale, la pittura è tutta sostanza ed ener-gia. Ne è cosí convinto che fotografa il quadro e spedi-sce a Soffici la riproduzione.

Per l’interlocutore le riserve sono parecchie, o meglio,è l’intero atteggiamento di lavoro con cui Carrà staaffrontando i suoi problemi a non convincerlo. Capiscele ambasce dell’amico, la sua ossessione per il fatto pla-stico, la ricerca di un’armonia di pesi pittorici; ma glipare sbagliata la posizione polemica con cui il pittore simette al lavoro, la negazione radicale delle esperienze dalui stesso traversate, il travaso nell’opera di un’astiositàche nasce dalle teorie, da premesse e legittimazioni con-cettuali. Solo una visione serena, chiarita, libera di sé edel proprio mondo può dare come esito una pitturamoderna, suggerisce Soffici; per questo è bene badareagli antichi, non per riprenderli e copiarli, ma per muo-versi con la stessa serenità operativa con cui quelli simuovevano e lavoravano.

Nel migliore dei casi, è l’obiezione di Soffici, il risul-tato cui perviene Carrà è un volontaristico frammentodi un dibattito in corso che non tocca piú sostanzialiquestioni d’arte e d’espressione. E Soffici sa come deli-cato sia questo momento: un artista come Carrà ha allespalle un’esperienza in cui non si ritrova piú, o che esigealtri traguardi; si tratta di non lasciarsi ingabbiare dallacomplessità di questo passaggio, di svelenirlo per guar-dare a ragioni d’arte che vanno al di là della congiuntu-ra biografica o culturale, e al di là della situazione in cui

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vegeta l’arte attuale. Che è poi un problema di Carràquanto di Soffici.

Carrà, De Chirico e Savinio si sono incontrati, hannofatto amicizia, si vedono spesso in casa di De Pisis onelle vie di Ferrara: discutono, si scambiano idee, par-lano di lavoro. Una felice congiuntura unisce ancora dipiú i due pittori: verso la metà del 1917 si ritrovano aVilla Seminario, alle porte di Ferrara, ricoverati in unaclinica militare per curarsi dall’esaurimento e dalle fati-che sostenute in caserma. Lí avranno a lungo a disposi-zione spazi per lavorare e tempo per stare assieme, inun clima sereno. Le discussioni, gli scambi accesi nonmancano: specie per Carrà la discussione è un bisognoquasi fisico, il confronto una necessità; ha bisogno didire, precisare, ripetere per chiarirsi convinzioni gene-rali e questioni che solo cosí divengono via via unmondo suo e quindi si incarnano in pittura, magaridopo esser state fissate sulla carta, in poesie, appunti opagine di riflessione.

Da Firenze si seguono le vicende: De Chirico scriveche tutto va bene, che il lavoro è assiduo, che l’amici-zia è forte; Carrà postilla «viviamo bene insieme. Siamoi numeri piú interessanti dell’ospedale». Ma le cose nonsono facili: Savinio, che fa da segretario e cronista, adun certo punto sbotta, se Carrà non la smette con le sueirruenze da oratore da comizio popolare non si faràniente di buono. Poi, però, sembra convinto del con-trario, l’uomo gli è simpatico, anche se il volgere ognicosa al tragico ne fa un personaggio lamentoso. Giragira, ora che lo conosce meglio lo trova non solo un gran-de artista, ma un grande uomo.

Papini e Soffici sono presenze continue, per bigliet-ti lettere incitamenti, ma anche per riflessioni culturaliletture discussioni. Ha ragione chi ha affermato che tra

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il 1914 ed il 1920 per quasi tutti i giovani, ed i menogiovani, che cominciavano ad imbrattare carte e a scri-vere, Papini fu un amore necessario. Ungaretti gli hascritto: «nessuno piú di te, con piú intensità e preci-sione, ha espresso liricamente la nostra epoca; perchései la nostra misura piú vera se vogliamo cantare conlibertà». Nello stesso biglietto il giovane poeta parla diSoffici, il solo che abbia saputo lavorare efficacemen-te per un rinnovamento del gusto: «te e Soffici – con-clude – cosí contemporanei, cosí impastati della stessasostanza fantastica che ogni momento ci balena nellacittà cosmopolita e nelle strade della provincia indo-lente». Soffici con opere come i Chimismi lirici, Papi-ni con Opera prima, scrive ancora Ungaretti, costitui-scono un chiarimento, aiutano a «raccattare i frantu-mi dell’orologio per provare d’intenderne il conge-gno».

Per i soldati di stanza a Ferrara Papini e Soffici rap-presentano qualcosa di non dissimile: sono i fari lette-rari o artistici, gli indicatori di un gusto che da Ferraranon si può non approvare, delle guide per giovani desi-derosi di aprirsi una via. Carrà, De Chirico, Savinio leg-gono gli articoli dei fiorentini, apprezzano in Papini ladecisione polemica con cui non solo afferma idee o prin-cipî, ma contrappone le une e gli altri ad un costume dif-fuso, ad un tono generale di ripiegamento sentimentalegiustificato dalla guerra.

Papini li eccita spiegando come la poesia, l’arte nonpossano attendere né sonnecchiare in attesa di tempiragionevoli, affermando un impegno su cui si devonopuntare tutte le energie.

Guardare ai fiorentini è quasi un obbligo, e l’attesaè cosí forte che i lettori ferraresi sembrano non accor-gersi che un cambiamento, per Papini in ispecie, è incorso, che la tensione si va stemperando. È piaciuto ilnuovo libro di versi papiniano, Opera prima, in cui lo

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scrittore conclude un ciclo, da Un uomo finito del 1912,ad ora, un ciclo che ha nella celebrazione dell’io che con-cilia intellettualismo e voglia d’azione il suo centro.Opera prima piace fin dal titolo, che annuncia un ope-rare che risale alle radici prime, originarie e quotidiane,della vita; ed è, in realtà, un deciso ripiegamento in cuil’intellettualismo recupera ed usa immediatezza e sem-plicità, con molta retorica. Pure, non vi mancano pas-saggi che toccano da vicino i nostri eroi, e Carrà nonavrà mancato di soffermarsi su versi come questi: «io eme nati ad un medesimo istante | consegnati ad una sorte| ... in un ritmo andante». Lo sdoppiamento della primapersona e l’incalzare del ritmo vitale sembrano essermessi lí apposta per lui, fotografano un suo problemati-co modo d’essere.

Quando si parla di futuro, di intenzioni, di possibi-lità, si guarda a Firenze: sarà lí che si compiranno idestini. Ungaretti sospira: «vorrei venire a Firenze,come Carrà e Savinio. Si potrebbe fare di Vallecchi ilcentro librario ed artistico non solo d’Italia ma delmondo». E De Chirico insiste perché Papini organizzimostre e presenti i nuovi campioni.

Una poetica dell’amicizia

Interesse culturale, comuni suggestioni poetiche,similitudini di posizioni e attese per un domani prossi-mo creano tra Ferrara e Firenze una sintonia che giocanon poco nelle idee e nelle espressioni di De Chirico eCarrà, di Savinio e di De Pisis. L’idea di un ripensa-mento dell’arte moderna che li anima, come anima Sof-fici, e, all’apparenza, Papini, investe prima di tutto lavita e i pensieri privati di ognuno, ma in un modo piúdisteso e convinto, dal momento che le stesse preoccu-pazioni ed i medesimi bisogni sono dei loro interlocu-

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tori. Si crea qualcosa di piú complesso di un gruppo, DeChirico lo chiama una «società per azioni», e una cir-colazione nella quale si disegna un pubblico i cui con-notati sono l’amicizia, cioè l’intelligenza culturale, loslancio poetico, la correzione vicendevole. È «senti-mento indefinibile», come scrive Savinio a Soffici, nondiverso dal misterioso senso che si ricava dalle sugge-stioni urbane o dalle letture e dalle meditazioni poeti-che. La stessa solidarietà nutre i segnali che giungonoagli occhi degli ospiti di Ferrara e le ragioni che tra-smettono lettere e biglietti: ci si scambiano lettere maanche poesie e prose liriche, e le allusioni, i vezzi, le cifreretoriche non sono dissimili nei due casi. In comune c’èqualcosa di piú della semplice vicinanza tra intellettua-li: la sensazione di un destino comune consumato nel-l’arte, che abbisogna di partecipazione e di tensionevitale.

Il momento, spiega Soffici, è quello del riposo dellestoppie allorché si accumulano «forze e sugo»; ma forzee sugo vanno voluti, incoraggiati. L’amicizia sdramma-tizza le difficoltà quotidiane, dà un senso diverso aglieventi, fa sí che non ci si senta soli a fronteggiare unmondo diverso e banale. Grazie a questa certezza vienmeno quella conflittualità continua su cui troppi siappoggiano per rivendicare la propria presenza e il pro-prio mondo, perdendo di vista ragioni piú rigorose: l’ar-te nuova cui ciascuno pensa comincia proprio dalla finedi un individualismo pago di sé e preoccupato di rive-larsi, prosegue con lo scavo in se stessi e con l’attenzio-ne alle regole della grande arte, guardata in sé fuori daltempo e dalle contingenze.

È Savinio che spiega a Papini questa poetica dell’a-micizia, il suo slancio emotivo e la differenza tra ami-cizia e realtà culturale. Un patto di stima, e dunque diragioni prime, di scelte intellettuali e di colorituraemotiva. Anche Nietzsche è un amico, precisa, ma

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come affidare ad un morto quello che è un fatto vita-le, che contempera sulla tensione a procedere saggez-za e ricerca? Sarebbe un incontro frustrato dalla malin-conia e dalla nostalgia per l’assenza dell’interlocutore,chiuso nella luce opaca di una vita la cui portata si èdefinitivamente bloccata. L’amicizia per Nietzscheavrebbe il disegno di un destino concluso. Mentre ingioco c’è ben altro:

è ben piú dolce di pensare a te, saperti a Firenze in una casachiara, non vicino a morire, ma tutto alla corsa sempre piúveloce della tua anima disancorata, colla vettura libera e lavettura da corsa che ti aspettano davanti alla porta di casa,e il colonnello che accende il sigaro prima di rimuovere alpasso.

Papini chiama «argonauti» i De Chirico, e il pittorene è entusiasta: non solo la definizione lo mette al ripa-ro da malintesi o meschinità e da invidie, ma gli dà unruolo ed un carisma. È la possibilità di fare quadrato innome di una riconosciuta qualità, di mostrare i denti difronte a uomini dal cervello morto, ridotti alla logica del-l’umanità spicciola e dell’imbecillità. E poi c’è qualcosadi mitico, di eccezionale: non ti pare, chiede Savinio aCarrà, che abbiamo un che di familiare con la divinità?

Villa Seminario

Carrà ha trentasette anni, una carriera alle spalle chegli ha dato un nome ed un ruolo; De Chirico ne ha ven-tinove, ha lavorato appartato, ha esposto pochissimo,conta sull’amichevole interesse di qualche critico, comeApollinaire. Ha una buona cultura, e questo ne fa unpersonaggio anomalo fra i pittori, sa usarne, e fuori dacorrenti o movimenti, i suoi interessi sono altri da quel-

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li che si affermano sulla scena artistica, a Parigi ed in Ita-lia. A Parigi ha trascorso anni che definisce fecondi esottili. Su «Lacerba» Soffici ha scritto che la sua pittu-ra non è pittura nel senso che si dà oggi a questa paro-la: «per mezzo di fughe quasi infinite di archi e di fac-ciate, di grandi linee dirette, di masse immani, di colo-ri semplici, di chiari e scuri quasi funerei, egli arriva adesprimere quel senso di vastità, di solitudine, di immo-bilità, di stasi, che producono talvolta alcuni spettacoliriflessi allo stato di ricordo nella nostra anima quasiaddormentata».

Ha idee chiare: vuole una capacità pittorica che sap-pia restituire allo spettatore il senso di un avvenimen-to tanto importante quanto inatteso, perché il quadrodeve essere l’immagine di una sensazione profonda,cioè strana, insolita. E proprio su questo punto sonosorte le prime incomprensioni: quello che De Chiricointende non è una rappresentazione scenografica o unevento teatralizzato, e per questo ha protestato su ungiornale parigino: «vorrei che questi signori sapesseroche i miei quadri non hanno nulla a che fare con la sce-nografia, il che è sufficientemente provato per di piúdai loro titoli». Si riferisce a tele come L’enigma del-l’oracolo o L’enigma dell’ora o Fischio di locomotiva.Apollinaire ha cercato di collocarlo fra i pittori delmomento, ma con difficoltà: gli rammenta il doganiereRousseau, per la religiosità che De Chirico mette neldipingere i cieli, ma deve ammettere che il paragone èazzardato, perché «De Chirico è profondamentecosciente di quello che fa». Avanza piuttosto un appun-to: la materia è densa e scura come acqua stagnantecoperta da foglie morte; gli preferirebbe colori piúridenti, dimenticando che non di una resa descrittiva sipreoccupa De Chirico ma di una intensità di percezio-ne intellettuale, perfino cupa, seriosa.

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De Chirico parla di rivelazione, nella vita vi sonomomenti in cui cose e fatti acquistano qualità partico-lari e svelano caratteri inattesi, in uno strano quantopreciso clima intellettuale. La pittura deve produrre, asua volta e con forze proprie, qualcosa del genere, cat-turando la stessa attenzione stranita dello spettatore, lastessa vita intensificata. Bisogna «afferrare l’io palpabileche sta fuori della pittura», e che non saranno certo latecnica o le innovazioni stilistiche a catturare, perché èun frutto dello spirito, o dell’immaginazione.

Questioni complesse, cui De Chirico giunge a poco apoco e per le quali gli anni parigini sono stati preziosi:dipinge e scrive, nutre il suo lavoro di letture e di rifles-sioni sui pittori che gli interessano, Tiziano, Van Gogh,Böcklin, Raffaello, Poussin, Claude Lorrain. Scrive versiche rivelano la difficoltà di certe messe a punto, uncerto armamentario romantico da sgombrare, un com-plesso rapporto con gli oggetti: «lourde d’amour et dechagrin | mon âme se traîne | comme une chatte | bles-sée. Beauté des longues cheminées rouges. | Fumée soli-de. | Un train siffle. Le mur. | Deux artichauts de fer meregardent». La solidità delle apparizioni, il rapporto congli oggetti, e la difficile percezione di sentimenti e sen-sazioni da catturare ma non bloccare, con una arbitra-rietà di intrecci e tessiture che devono portare oltre l’o-pera, al di là della raffigurazione.

Carrà e De Chirico, a Villa Seminario, lavorano insie-me. Piú avanti De Chirico accuserà l’amico di un veroe proprio plagio: è lui ad aver suggerito con le sue telespunti e soluzioni che Carrà ha tradotto in quadri. Ametter vicini i lavori dei due la cosa risulta vera, ma finoa un certo punto, e non nei termini del plagio, in ognicaso. Dalle composizioni dechirichiane transitano ogget-ti e formule di interno, carte geografiche e termometri,pesci di rame, giocattoli e manichini, ma la suggestioneè francamente un’altra, come finisce per dire lo stesso

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De Chirico quando osserva come il plagio carraiano sia«copia» senza intelligenza, cioè al di fuori del mondodechirichiano. Nell’incrociarsi dei giochi ognuno restasulla propria posizione.

Carrà ha poca curiosità pittorica per un catalogo dioggetti di cui teme il piacere intellettuale della scoper-ta e dell’impiego: usa i vari elementi come sintomi osegnali di una situazione piú complessa, come se fosse-ro apparizioni o annunci di questioni piú serie. Dice: «iosoggettivizzo l’idea madre delle cose e, ad ogni cosaesteriore, distribuisco un valore che non è relativo». Inuna simile idea di padre di famiglia e di demiurgo atten-to a ricostruire parentele strette e sequenze di valori, lacuriosità per legami complessi e misteriosi non ha posto.

Si spiega cosí il particolare uso che fa di oggetti e cosenei quadri, un uso minore, prosastico, umile, non in esal-tazione della loro qualità o particolare virtú, ma comeesempi di un mondo che esprime liricità ed intensità piúin profondo che nelle apparenze. Prese una per una que-ste «cose» non sono diverse da quelle usate da De Chi-rico, con la loro sorprendente freschezza e attenzione dioggetti scelti, voluti e goduti per qualche ragione che ilracconto del quadro si incaricherà di dire. Poste in posarisultano perfino castigate, propongono una austerità euna attenzione che ne diminuiscono il valore di presen-za. Lo spettacolo del mondo, che già De Chirico filtrae regola e ricompone, qui è tenuto lontano, quasi se netemesse il vitalismo e l’esuberanza, la sensualità ed ildinamismo (l’abiura dell’antico futurista si fa sentire):va bloccato su alcuni perni e snodi, che non rimandanoa questo o a quel significato ma si esaltano nella forzafigurativa plastica, nel volume, nel colore. Carrà ha qual-che incertezza figurativa, a volte è compiaciuto, ma lasua idea è definita: l’oggetto è un’occasione che devesottomettersi ad una struttura compositiva.

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La camera incantata di Carrà è del 1917, dello stessoanno è Natura morta evangelica di De Chirico. Un raf-fronto aiuta a capire le differenze. Nel lavoro dechiri-chiano, un grande interno con quadri, forme geometri-che e strumenti di lavoro apre sull’esterno, o forse con-tiene una tela che, a sua volta, finge una proiezione inprofondità; o, ancora, si tratta di una scatola con dipin-to un paesaggio metropolitano di grattacieli visto attra-verso una finestra, ed una scultura/personaggio/monu-mento fa da raccordo fra pregnanza di spazio interno eillusionismo oltre quello spazio: è una figura atteggiatain posa di pensatore o di filosofo. I temi si incrociano,l’illusionismo prospettico spaziale, il quadro nel qua-dro, la suggestività di oggetti (i biscotti sulla tela) cor-posi e densi fino al piú minuto realismo. «È la stessatranquillità insensata della materia che mi appare meta-fisica», ha scritto De Chirico, ed aggiunge che queglioggetti gli appaiono tanto piú metafisici per chiarezza dicolore ed esattezza di misure. La camera di Carrà raffi-gura, come vuole il titolo, un interno, con prospettivecomplesse, lo sdrucciolo accentuato del pavimento e lapresenza monumentale di due manichini, il moltiplicar-si di oggetti eterogenei e sorprendenti. Qui la caratteri-stica del dipinto va avvertita nel contrasto tra fughedella scenografia complicata e ricca e una certa monu-mentalità dell’insieme degli oggetti e dei manichini:come se una interna tensione a serrare le fila e struttu-rare in evidente peso di presenza giocasse a confrontocon la misteriosità delle geometrie e delle prospettive.

De Chirico lo ha aiutato a dare maggiore sottigliez-za e precisione alle figurazioni, gli ha mostrato neglioggetti un significato di presenza e di attenzione nonsolo fisica, un investire di energia spazi e ragioni piú ric-che. Ma che forme e figure debbano, per dir cosí, ruo-tare su se stesse aprendo uno spazio ulteriore e non tan-gibile, lo lascia freddo, non lo interessa, gli pare lette-

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ratura ed illustrazione, l’illusione che si possa far pittu-ra uscendone. Mettere in azione oggetti e parvenze perscoprire lontananze e vuoti rappresenta un modo didisumanizzare, di perdere di vista controllo e qualità. Ilrischio è, a suo avviso, che la pittura cessi di essere unmondo.

Carrà pittore futurista

Nell’estate 1917 Carrà è in licenza a Milano: vi com-bina una mostra, presso la galleria Chini, che dovràaprirsi a fine anno. L’episodio ha contorni incerti: sap-piamo che alla mostra devono prender parte Carrà e DeChirico, cosí da mostrare assieme i risultati raggiunti daciascuno, ma anche una produzione a ranghi ravvicina-ti, se non unitaria. De Pisis è avvertito della cosa equando la mostra si inaugura pubblica un articolo in cuiloda i due, ne traccia i profili e descrive il senso delleopere esposte. Invece la mostra è del solo Carrà, che alle-stisce un’ampia personale con opere dal 1911 (in unasaletta laterale sono quadri di Tullio Garbari): e Carràsi presenta, in un lungo testo in catalogo, come «pitto-re futurista».

La motivazione che tien fuori gioco De Chirico è lamancanza di opere: solo se potesse far ricorso al suomercante parigino (ma siamo in piena guerra) De Chiri-co potrebbe esser alla pari con Carrà: i pezzi prontisono cosí pochi da non consentire un’uscita a due. Restada spiegare quel titolo squillante «personale del pittorefuturista Carlo Carrà» che si legge sul catalogo. Il futu-rista non allude certo ad una continuità di legami col«movimento» marinettiano, da cui, di fatto e di poeti-ca, Carrà s’è slegato da tempo. Vuole ribadire, proba-bilmente, una individualità. Si deduce anche dal testoin catalogo, oltre che dalla scelta delle opere, che Carrà

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mostra ora i risultati di una lunga carriera dai tratti ori-ginali e dalle soluzioni personali: e futurista perché guar-da avanti ad un’arte giustificata in termini di veramodernità, non si confonde con quanto resta della strut-tura organizzativa marinettiana, sa sfruttare al meglio ilproprio lavoro del passato per un’oggi piú impegnativoed importante. Dicendo di appartenere solo a se stessoe dicendosi futurista, Carrà prende le distanze da Mari-netti, ma anche da De Chirico.

E in catalogo non mancano, in merito, le precisazio-ni. Oggi gli artisti sono coscienti dell’esigenza di un’ar-te nuova che si ponga al di là delle contrapposizioni ditendenza o di scuola. Il passato prossimo non va vistocome momento di una polemica modernista, la letturadella questione deve essere un’altra: futurismo e din-torni come esperienza preparatoria, o come gioventúdell’attuale maturità. E, nello scritto, non mancano leprese di distanza dalle idee di De Chirico, perché siachiara la motivazione del lavoro da compiere oggi: esi-genza di un’opera liricamente, totalmente pittorica, con-tatto con la realtà senza sudditanze, totale autonomia daletteratura e poesia, negazione di ogni artificio.

Sulle pareti della galleria Chini c’è il Ritratto di Mari-netti, 1911, e Simultaneità: donna al balcone, 1912, e poisi prosegue, fittamente, sino al Cavaliere dello spiritooccidentale (il titolo diverrà poi Il cavaliere occidentale),1917, e a Il dio ermafrodito (che sarà poi l’Idolo erma-frodito: c’è in questo successivo limare i titoli qualcosadi significativo, un riportarli all’attenzione del raccon-to pittorico e alla sua evidenza, piuttosto che segnalar-ne l’estensione allusiva, colta). Il Cavaliere è una dellevarianti del tema cavallo-cavaliere-ambiente, di marcafuturista (si pensi a Boccioni), su cui Carrà si esercita piúdi una volta. Il cavallo simbolo di baldanza e potenza,l’innesto in solida omogeneità plastica del cavaliere,sono ora giocati staticamente, a far da perno a uno sche-

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matico ambiente urbano, con un preciso gioco di rap-porti tra totalità della scena e quel nucleo centrale ed iso-lato che si carica di tutta l’attesa di un evento probabi-le ed imminente. Il manichino cavaliere sta serrato inun’armatura col triangolo in luogo della celata, come perieratica e misteriosa compattezza; il cavallo, anche quimontaggio di elementi, è inchiavardato in una costru-zione serrata. L’intento è di sdrammatizzare la scenasfrondandola di ogni componente psicologica, di sotto-lineare la misteriosità di una presenza tanto forte e deci-sa quanto al centro di un dosatissimo calcolo di colori edi volumi.

Altra opera in tema di incombenza di un momentofatale è L’idolo: il colore è tenue e diffuso, quasi tene-ro, la figurazione del manichino in positura da gestorituale è assorta in una interrogazione sospesa. L’ordi-ne della scena è calcolatissimo, e in questa giustezza pla-stica sta il fascino che la scena vuole definire, cosí sere-na pittoricamente e cosí tesa nell’immobilità assoluta.(Piú tardi, Ragghianti parlerà di un’opera raffaellesca, esottolineerà la «purità è placata e fonda intensità delcontorno e della stesura, in quel profilo raccolto, tuttointeriore»: il quadro è per Ragghianti «sensitivo», fattodi una «estasi sospesa degli spazi e delle forme»).

Se ci fosse bisogno di dare ragione a Carrà nel suosforzo di dirsi «diverso» da ciò che ha visto fare a DeChirico nelle stanze di Villa Seminario, quadri comequesti aiuterebbero. Almeno per due motivi, uno legatoal colore, sensitivo per l’appunto, di una tensione edemotività piú interiore che intellettuale, perfino prezio-so nel sottolineare la funzione volumetrica e quindi disuggestione plastica; l’altro motivo è connesso alla soli-dità espressiva delle figure, che entro la scena acquista-no un peso sempre piú definito di aspettazione, di sospe-sa ieraticità, di incombenza di un esito a lungo atteso.

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Non è solo in occasione della mostra che Carrà uti-lizza l’aggettivo «futurista». Scrive per la rivista bolo-gnese di Giuseppe Raimondi due testi, prosa lirica rac-conto e ragionamento critico insieme, che hanno unprotagonista comune, dai tratti evidentemente carraia-ni, Tobia: nel primo scritto questo «artista mistico»,uomo di idee e scopritore di forme prime, quanto capa-ce di grandi emozioni di fronte alla natura, è ritrattocome futurista; nell’altro si narra il suo «ritorno» allacasa del padre, maturato dalle esperienze vissute e cari-co di attese a venire. C’è un curioso parallelismo fra L’i-dolo ermafrodito e Tobia: l’ermafrodito è compensazio-ne di energie, equilibrio e unità di forma pensata e rea-lizzata, Tobia si muove nella stessa direzione ed il suoè il racconto di quali avventure sia necessario correre percreare quel silenzio significativo in cui collocare unapresenza attenta. In ambedue la cifra è identica, unaforma unica e placata, maestosa ed intensa, incorrotta esensibile, annunciatrice del fatto che la saggezza rag-giunta è pronuba di nuovi ordini e di altre esperienze.

Carrà capisce come il momento sia, per lui come pergli altri, buono per uscire dal chiuso delle ricerche pri-vate. La mostra di Milano gli ha dato un altro modo dicomunicare, gli ha permesso di sentirsi dentro una pro-pria figura di lavoro; ora cerca riviste, occasioni,momenti. C’è a Bologna «La Brigata», una rivista divaria letteratura e di cultura diretta da Binazzi e Meria-no che gli ha chiesto collaborazione: non solo Carràmanda brani letterari, ma vi pubblica cinque disegni (eil poeta Paolo Buzzi commenta in versi due opere); DeChirico stampa un disegno e Savinio tre brani lirici.

A Carrà sembra una buona soluzione, anche se Papi-ni lo richiama alla realtà: in un momento tanto delica-to, non sono certo le solite rivistine di buona volontà edi confuso programma la soluzione ottimale, e proprio

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per la loro mancanza di un carattere. Se mai la questio-ne è altrove, nella creazione di un’apposita pubblica-zione impostata in modo adeguato. In attesa, pubblica-re in qualche modo, far sentire la propria voce, muoversibasta a Carrà: su un’altra rassegna bolognese, «La Rac-colta», diretta da Giuseppe Raimondi, stampa i duescritti su Tobia, una enfatica Dedicatoria ai giovani e lariproduzione de L’idolo ermafrodito. Il tutto, fra «Bri-gata», «Raccolta» e lavoro pittorico, è di grande coe-renza. Tobia rappresenta la ricerca di ragioni profondeall’interno di una realtà di esperienze mature, si misuracol proprio passato e se ne libera senza i traumi delrifiuto di una stagione importante; la pienezza che oggiha bisogno di sentire, la concentrazione di forze chevuole dalla sua risulterebbero anchilosate e deluse,negandogli quella totalità cui mira. Nessuna rottura,perciò, se mai un «ritorno», e un ritorno cosciente. Aigiovani non può che predicare l’idea di un passaggio distagione (non un incondito salto in avanti, o un’avven-tura) che non sarà né pacifico né senza lotte, e proprioper questo pretende volontà e saggezza: «da lungotempo abbiamo abbandonato il tema facile della reden-zione», ammonisce. (Sui fogli de «La Raccolta», DeChirico riproduce Natura morta evangelica, e De Pisiscommenta il disegno di Ettore e Andromaca; Savinio haun brano lirico, Giardino, Soffici illustra una sua «este-tica futurista» e riproduce una Natura morta; debuttaMorandi, con riproduzioni di opere, mentre di lui siparla in un paio di note critiche).

Arte indipendente, arte d’avanguardia

Nella primavera 1918 una mostra romana mobilitaenergie ed attenzioni. Si tiene a Roma sotto l’egida dellaCroce Rossa, la cura un critico di qualche valore, Mario

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Recchi, che raduna opere di Soffici, Carrà e De Chiri-co con tele di Prampolini, Ferrazzi, Mancuso e Riccar-di. È il maggio 1918: la mostra ha un titolo che si vuoleprogrammatico, Arte indipendente. Ed è proprio unavolontà di indipendenza che vi viene sottolineata: da uncanto, da tradizionalismi piú o meno rassettati alle esi-genze dell’attualità, e per questo doppiamente inerti sulpiano creativo; da un altro, indipendenza da moderni-smi che le esigenze espressive secondo Recchi piú signi-ficative rendono marginali per il loro ricorso a speri-mentalismi coloristici ed a sussidi letterari. Né accade-mia, né «avanguardia», è la formula di Recchi. Il qualeha poi qualche difficoltà a definire, negli artisti che hascelto, i caratteri positivi di un’arte indipendente: diSoffici, ad esempio, gli interessa la forte unità di con-centrazione del quadro, e la capacità di inserire parti-colari importanti senza venir meno ad una tensione uni-taria; riconosce in Carrà e De Chirico una superiore«visione» intellettuale che investe la loro pittura, giocatasu un mondo invisibile e distante: ne viene di conse-guenza un uso del colore e del segno non in terminidecorativi, ma impiegato in modo inquietante e capacedi sconfinare dalla materialità della stesura. Ha deidubbi su De Chirico, perché è vero che il pittore accen-tua caratteri di intelligenza al suo mondo figurativo, malo fa piú sul versante del disegno che della pittura, dimodo che il colore sembra puramente «commentativo edintegrativo».

De Chirico ha esposto opere di indubbio interesse edi forte novità, come Il trovatore, in cui i motivi simbo-lici della composizione sembrano allearsi con una scenada opera lirica, da acuto del tenore solo in palcoscenicoalle prese con una densità sonora di colore e di compo-sizione; poi Ettore e Andromaca, o Il grande metafisico,un altro assolo su una piazza dai confini ribassati cosí dafar troneggiare un manichino coperto di oggetti da stu-

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dio di pittore, righe squadre e triangoli, che associanella sua versione monumentale il personaggio filosofocontinuamente presente nelle tele dechirichiane con ilmestiere del pittore; o, ancora, il già citato Ritornante,pezzo forte della produzione recente, cui De Chiricoaffida il compito di fissare uno degli aspetti per lui piúimportanti della rappresentazione pittorica, la nozionedi una temporalità mitica e lontana che ritorna a visita-re oggi l’artista e a suggerirgli un difficile groviglio ditempi e di suggestioni. (Dirà Breton a proposito di pre-senze come queste, di manichini, oggetti costruiti eritornati: «il meraviglioso non è uguale in tutte le epo-che; partecipa oscuramente di una specie di rivelazionegenerale di cui cogliamo solamente il particolare: le rovi-ne romantiche, il manichino moderno o qualsiasi altrosimbolo atto a mobilitare per un certo tempo la sensi-bilità umana»).

Carrà espone Il cavaliere occidentale e Solitudine, L’o-vale delle apparizioni e La musa metafisica, in cui il temanon è la rappresentazione di una rivelazione o di unasuggestione, ma la tensione e la sorpresa di una presen-za che riassume il lavoro pittorico, volumi forme plasti-cità in attesa di avvenimenti. Ma soprattutto espone ilpendant al femminile de L’idolo ermafrodito, non menoemblematico di quello, Penelope: la stanza serrata è lastessa, la figura chiusa da triangoli e squadre si avvici-na ad una soluzione da statuaria gotica, tagliente e svet-tante. Il dialogo fra queste opere e quelle di De Chiri-co è evidente, ed è evidente la differenza che corre frai due mondi: analoghe parole, in tema di ascendenzagoticheggiante, si potrebbero impiegare per la figuracentrale de Il grande metafisico e questa Penelope, oppo-ste sono le situazioni poetiche. Ne manca un quadro sin-tomatico dei mesi di lavoro comune: in Solitudine lafigura isolata e pensosa è impersonata da un manichinoche pare tratto da un trattato anatomico o da figure

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didattiche di cera, come se Carrà alludesse all’ambien-te d’ospedale in cui ha lavorato, e la lavagna con dise-gnato un teorema misterioso sembra riferirsi ai modi dilavoro del compagno d’avventure, tanto dechirichianoè l’inserto. Se ne trae un’impressione di ancoraggio quasirealistico, se non di cifrata cronaca, che Carrà tende adare ai suoi racconti.

È un’uscita importante, come si vede, da cui ci siaspetta esiti importanti. Tanto piú che Papini ha pro-messo di intervenire con un apposito articolo su «IlTempo»: occasione non da poco, se si tien conto chePapini è sceso in campo in modo deciso per fissare ipunti di una nuova arte e di un nuovo lirismo. Ha scrit-to su «Ars Nova», la rivista di Alfredo Casella, un arti-colo che ha sollevato polemiche; lo ha intitolato Postoanche all’arte!, ha detto che tocca all’arte non ripiegar-si sui luoghi comuni ma schiudere mondi nuovi, pro-porre ordini solari, dettati dalla necessità dell’ordine edalla volontà di perfezione. Ha spiegato che solo cosí ilsentimento non sarà piú compresso dalla schiavitú deldover reagire all’immediato presente e acquisterà unamagica ampiezza, lo spessore di una passione immagi-nata e possibile. Ha toccato la corda della nazionalità,perché sono i valori nazionali, nazionali perché costrut-tivi, che ora entrano in gioco costruendo un nuovo modopoetico, che riscattano l’artista, non piú piegato, mise-rabile, finito, ma colui che sa contemplare con distaccole proprie limitazioni e traduce in intelligenza ognidramma spirituale. Papini ha acceso gli animi: nell’arti-colo non ha fatto nomi, se ora scriverà dei quadri degliamici il cerchio si salderà felicemente. Carrà e De Chi-rico attendono invano: non solo Papini non parlerà diloro, ma pubblicherà un articolo di elogio di un pittoresu tutt’altre posizioni, Armando Spadini.

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De Chirico si sente tradito, che c’è da aspettarsi daglialtri, dagli imbecilli e dai reazionari se gli intelligenti sicomportano cosí? Scrive a Carrà, gli chiede amicizia,solidarietà, bisogna far quadrato, perché sono loro,Carrà De Chirico Soffici, i nuovi Colombo e i nuoviVespucci, «portiamo in noi le tristezze e le speranzedelle spedizioni lontane».

Il silenzio, l’elzeviro su Spadini suonano sconfessio-ne e attizzano polemiche. Melli si chiede che cosa val-gano certe affermazioni se non si basano sul lavoro cheeffettivamente è in corso; altri ironizzano sulla pretesadi un valore nazionale del nuovo: o i nuovi fanno dav-vero qualcosa di inedito, e allora spezzano il filo di unatradizione italiana, o si ripetono delle formule moder-niste per puro gusto di polemica. Nella schermaglia, piúche Papini, affaccendato da interessi tutti suoi (è alleprime battute della sua non certo innovativa Storia diCristo), sono i pittori a trarre svantaggi. (E Carrà nonmanca di farlo rilevare, sulla medesima rivista di Casel-la, offrendo, a sua volta un Contributo ad una nuova cri-tica).

Allorché a Roma la mostra «pro Croce Rossa» chiu-de, buona parte dei pezzi viene trasferita a Viareggio,per interessamento di Enrico Prampolini. È probabil-mente idea sua quella di correggerne il titolo, che da«arte indipendente» diviene «arte d’avanguardia». Nel-l’occasione De Pisis è chiamato a tenere una conferen-za, in cui illustra le vie dell’arte attuale e come si deb-bano intendere quadri e disegni esposti. De Pisis fa ilpunto della situazione (pubblica subito dopo in fascico-letto la conferenza, dedicandola a Casella, col titolomeno impegnativo, rispetto alla mostra, ma piú signifi-cativo, di Pittura moderna), riepiloga quelli che sono itermini della vera modernità, si sofferma su Carrà e DeChirico come i due artisti che rappresentano l’atteggia-

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mento piú significativo dopo il futurismo. Sono estranei,dice, al meccanismo figurativo tradizionale, e apporta-no decise innovazioni di contenuto come di linguaggio.Insiste sull’atteggiamento, perché moderno non è unostile o una pratica formale quanto il modo di porsi, lospirito con cui si guarda e si vede, con cui si scopre e sicomprende. Per mostrare che cosa intenda per novità inDe Chirico e Carrà, di quale natura sia il loro tono poe-tico, ricorre a una esemplificazione letteraria, impadro-nendosi dei temi e dei protagonisti dei loro lavori in ter-mini di significato poetico:

I parallelepipedi delle camere si animano di fantasmi eritornanti, le fessure luminose assumono il loro alto sensodel mistero, e le gambe tornite dei tavoli nonagenari e latorre rossa finestrata che si specchia sul lago immobile everde. Una tendina bianca calata nel nero vano di un’altrafinestra al di sopra della via rombante può una sera sper-duta incantarci piú che il tramonto nuvoloso sulla marina.Il nostro spirito teso aspetta la comparsa di un’incorporeavisione? L’abito pendente a pieghe (con le ombre esatte)dall’attaccapanni a ghirigori lucidi neri nella cameretta del-l’Hotel di secondo ordine ci può narrare la semplice realtàdelle cose e drammatizzarsi nel simbolo.

Finalmente la gran parola è pronunciata: De Pisisricorda che «pittura metafisica» è un termine messo inuso da Carrà e De Chirico per designare il proprio lavo-ro, e si riferisce a due articoli recentissimi, redatti inoccasione dell’esposizione romana. De Pisis cita l’uso,per conto suo non l’adotta.

Nell’articolo di De Chirico è descritta un’arte seve-ra, cerebrale, ascetica, profondamente lirica: o, ancorpiú precisamente, un’ arte che dia a chi la contemplaragioni di severità, ascetismo, e soprattutto lirismo.Parla di un linguaggio connesso ad una esperienza. Insi-

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ste sulla natura metafisica delle rivelazioni che la pittu-ra è chiamata a dare, e che una nuova sapienza dell’ar-tista deve saper dare. Parla di «arte metafisica» e nonsolo di pittura. Spiega quanto sta facendo Soffici, ilrigore delle sue composizioni e la scheletricità dellestrutture, un ridurre all’essenziale che si satura di lucee fa brillare un colore denso e sapiente, «una buona terracotta alla luce del solleone restauratore». Di Carràsegnala quanto di incantato vi sia nei quadri, il senti-mento di nostalgia che ne emana e che malinconica-mente le prospettive sanno rilevare: come se la sua pit-tura fosse presa da una forza astrale che ha saputo trar-re tutta la sostanza dagli esseri e dalle cose gravide didemoni.

Per Carrà non è questione di linguaggio e di espe-rienze particolari, quanto di una volontà di lavoraresenza distrazioni, scavando e capendo: per lui «metafi-sica» è un aggettivo che, per ora, è utile accompagni iltermine arte in attesa di far propria una pittura che diaggettivi non avrà piú bisogno. In altri termini pitturametafisica è pittura di un certo momento, in cui è benesapere dove indirizzare attenzione, accortezza, metodo,in attesa di altro che verrà di conseguenza. E si fa inten-dere benissimo: quando replicherà questo testo e riba-dirà le sue idee in un libro che avrà per titolo proprioPittura metafisica, nel 1919, un critico potrà dire chel’aggettivo è solo un’intensificazione del piú pertinentetermine «pittura», un tentativo di concretizzare la pit-tura «negli spazi dialettici della mente». In altri termi-ni: «metafisica» quasi autobiograficamente significa «ilfrutto lento e pesante di una lunga stagione mentale, convicende mutevoli di soli venti e piogge, con alternativecosmiche di rintoccanti crepuscoli serali e mattutini».

La mostra non ha avuto successo critico, anzi s’èimpaniata negli equivoci sollevati dal silenzio di Papini;

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nè ha avuto esiti pratici. Unica eccezione un episodiogentile, del quale è stato protagonista proprio Spadini(il piú scadente e sciocco fra i pittori che ancora fannodell’impressionismo, secondo De Chirico). Spadini hascritto un biglietto a Carrà; sebbene trovi ancora giu-stificato il motivo per cui dipinge detesta i propri risul-tati, gli dice; per la prima volta, di fronte ai lavori diCarrà, vede scossa l’indifferenza che ha sempre nutritoper la pittura contemporanea; «ho mille lire da darti perun quadro», conclude, e acquista La musa metafisica.

(De Chirico rivedrà spesso il quadro di Carrà, che fabella mostra di sé nell’abitazione di Spadini. Un luogoche De Chirico frequenta, dove incontra amici e criti-ci, artisti e letterati. Il quadro lo irrita, gli sembra unacattiva imitazione, il titolo è ripreso da un suo lavoro,gli oggetti ed il modo di assemblarli sono i suoi e Carràlo copia senza capire che cosa stia facendo: perché unabambola gommosa che al posto della testa ha unamaschera da schermidore e in mano una racchetta datennis? Un pasticcio, insomma, accostamenti senzasenso e assenza di motivazioni logiche, secondo DeChirico).

I valori plastici

Fra quanti ha incontrato in occasione della mostraromana, De Chirico è interessato a Prampolini. Evi-dentemente per certe plasticità che ritrova nei quadri delgiovane amico dei futuristi, e poi per il suo darsi da fare.Per esempio con la rivista che dirige, e che apre agliamici di De Chirico: De Chirico vi collabora con untesto lirico, La notte misteriosa, mentre Savinio dà unframmento poetico, Carrà parla del Contributo ad unanuova arte metafisica e De Pisis spiega quali rapporticorrano tra Il futurismo e l’arte contemporanea (il futuri-

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smo ha liberato l’arte da questioni formali pur nonrinunciando a valersi di una concreta piattaforma poe-tica e linguistica: è su questa via, al di là della forma, cheoccorre sapersi muovere).

Le riviste sono la gran questione sul tappeto: perfarsi conoscere, per dire, affermare e far sapere; ma ilproblema è piú complesso, è di un organo non dispersi-vo, coerente e attento, capace di dare immagini e rife-rimenti sicuri. Le delusioni si moltiplicano; e una delu-sione è l’apertura su Tzara, cui dall’Italia tutti manda-no, e che sceglie, differenzia e cestina con criteri che ainostri risultano oscuri. Per quanto si enfatizzi questocanale aperto verso il dadaismo, in sede di bilancio iconti sono magri. In un articolo del 1919, Dadaismo,Savinio spiega come siano andati i rapporti fra gli ita-liani e l’avanguardismo svizzero parigino che fa capo adun matto di ingenio, Tzara; la distanza colora di azzur-ro ogni cosa e anche i piú diversi fra loro sono accolticome fratelli senza andare per il sottile con indagini escelte. E, a sua volta, stufo di essere immischiato confuturisti ed avanguardisti, De Pisis sbotta: le sue sonoquestioni di dolore, di sangue e di nervi. Tutti si sen-tono pronti ad una piú solida avventura.

L’approdo è forse in vista. Nei primi mesi del 1918si comincia a parlare di una rivista tutta e solo dedica-ta all’arte attuale, selettiva, seria, rigorosa. L’iniziativa,in ambito romano, è di un pittore e critico, Mario Bro-glio, che si è segnalato per qualche collaborazione intel-ligente a giornali e periodici, e che si dimostrerà buonorganizzatore, attento editore e direttore capace. Prestocircolerà il titolo della rivista, «Valori Plastici», che nonspiace a De Chirico, perché inserisce quella nozione divalore in un discorso figurativo restringendo il campodel moderno e inserendovi interessi non solo di docu-mentazione quanto di programmaticità e di intenzione.De Chirico chiede a Carrà di collaborare, è certo che

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sarà una cosa seria. Intanto con Savinio elabora il branod’apertura per il primo numero, in preparazione perl’autunno 1918.

L’editoriale parla di rigoroso tirocinio intellettualedella nuova pittura, di selezione di artisti che si incon-trino non su una poetica quanto su un progetto di lavo-ro comune, che li faccia uscire dal generico e imposti alivello di autocoscienza professionale il compito che liaspetta. La rivista non sarà palestra di attese, quantoverifica, sprone, asseverazione, vi sarà dato il bando aicritici, vi scriveranno unicamente coloro che nelle operesanno vedere un progetto non solo contingente di buonapittura.

Broglio la pensa in modo diverso: la situazione nonè matura per partire da una sorta di risultato dato rispet-to al quale misurare le forze; occorre procedere pertappe, confrontare le posizioni, far sentire al pubblicocome la drammatizzazione delle varie tesi nasca da ragio-ni profonde e faccia scaturire serietà di impegno. Eterrà l’editoriale di De Chirico e Savinio nel cassetto.

Broglio non è il solo a pensare ad una rivista impe-gnata. Sul fronte letterario sta nascendo qualcosa diassai simile a ciò che Broglio vuole in campo figurativo;sarà «La Ronda» (uscirà poco dopo «Valori Plastici»)diretta da Cardarelli. I problemi di Broglio non sonodiversi da quelli del poeta: anche Cardarelli giudica inu-tile un’ennesima «rivista giovanile», che altro non è senon uno scarico in cui buono meno buono e futile simescolano alla rinfusa senza altro criterio che il docu-mentare ciò che capita e con un’astratta fiducia in ciòche capita. Non vuole neppure una rivista di tipo anto-logico, e qui le cose si complicano. Perché puntare almeglio, senza che gli scritti ospitati rappresentino posi-zioni diverse e variamente motivate, e dunque senzarisultare antologici, risulta esser l’impresa piú difficile,

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dal momento che la tendenza generale è «a fare dellecose originali». Cardarelli ipotizza l’esigenza «di essertutt’altro che dei solitari e degli originali», pensa cioèad una rivista «spersonalizzata» in cui oggettivo (per dircosí) sia un clima ed una ragione di cultura artistica, rap-presentativa al meglio dei migliori artisti e dei miglioriscrittori. Il risultato dovrebbe essere quello di un pattod’azione (o partito) di artisti e di uomini di ingegno chefacciano quadrato (in nome del «meglio») di fronte alletteratume vecchio e giovane che la guerra ha messo inmovimento.

Broglio punta su De Chirico, e punta altrettanto suCarrà, ma non ha in mente una rivista di corrente o dimovimento né crede ad una priorità dell’uno o dell’al-tro come riferimenti in assoluto. L’idea di una rivistaquale confronto e motivazione di punti diversi all’in-terno di un momento comune matura, in ogni caso, len-tamente: i primi numeri risultano di rodaggio e di defi-nizione di uno spazio operativo. Alcuni punti sono subi-to fermi: una pubblicazione tutta volta al moderno, nelsenso che (convoglia) sul presente e sulle urgenze delpresente tutte le energie e le forze, di riflessione e diattività. Una selezione decisa, cosí da delimitare, perchiarezza indispensabile, il campo di applicazione; eduna ricchezza di illustrazioni di buona leggibilità, inmodo da portare entro il gioco dei risultati l’attenzio-ne del lettore.

Il primo fascicolo compare nell’autunno 1918: «esceil giorno della vittoria», ricorderà Edita Broglio, una pit-trice raffinata ed intelligente che all’impresa del maritodedica non poche energie, pubblicandovi, oltre ad alcu-ni quadri di innegabile interesse, delle note sulla con-temporanea cultura figurativa russa, da cui proviene. Siparla subito di nodi importanti, di mercato confuso econtraddittorio e di critica incapace di far luce e forni-

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re ragioni, della superiorità della pittura sulla plasticascultorea, accusata di meccanicità e materialità quandotraduce in oggetti idee e ricerche, della esigenza del pla-sticismo contro le dispersioni impressionistiche del colo-re, e cosí via. Savinio stampa un testo che aveva invia-to senza esito a Tzara, Arte = idee moderne, in cui deli-nea una sua rivoluzione copernicana dell’arte: se si vuoledar vita ad un’arte davvero moderna bisogna parlare dipensieri, idee, spirito nuovi, bisogna che simili «idee»si pongano nella prospettiva di una dimensione origina-ria, nella considerazione di una vocazione totale ed asso-luta, che sole possono dare all’arte quel tono e quell’at-tenzione che le restituiscono un significato ed un valo-re; l’originalità, lo spremer dallo stile o dai fatti forma-li un’evidenza personale è solo una incomposta reazio-ne all’immediato.

L’editoriale di De Chirico - Savinio non c’è; il som-mario pone al primo posto un testo, lirico-meditativo diCarrà, Il quadrante dello spirito (e a fronte sta la ripro-duzione de L’ovale delle apparizioni, di cui lo scritto ècommento ed illustrazione): l’invisibile penetra ognicosa, lo spirito governa l’arte, ispirazione e creazionenon sono un contatto materiale con la realtà, la sensibi-lità è solo il punto di partenza, sostiene il pittore. Lapreoccupazione di Carrà, se leggiamo il suo testo in rap-porto a ciò che sta facendo, è di arginare vitalismi e sen-sualità, ma senza fare uso di intellettualismi o di risor-se extraartistiche; per questo parla di astrazione, di unincanto di fronte al reale da permutare in rigore pitto-rico dolcemente stemperato in lirismo: il quadro deveintanto esprimere il primato della volontà, ma in termi-ni plastici, di volontà di pittura, di appassionata crea-zione. La pittura trasforma tutto in segni, e questi devo-no disporsi «come su un unico piano».

De Chirico ha una prosa lirica, Zeusi l’esploratore: nelmitico Zeusi si identifica il pittore inteso come cercatore

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ed esploratore. È il nuovo filosofo, il lirismo è il suomodo d’essere, cioè curiosità, continua sollecitazioneall’esterno, capacita di sorpresa, perché il mondo non èproiezione o volontà, ma, al contrario, ogni cosa ha ilsuo demone ed apre l’occhio sull’uomo come su unarealtà che appartiene ad un diverso ordine. Non si trat-ta di trar partito dalla intuizione, meno che mai daglistrumenti del filosofo; la curiosità e il lirismo chiedonoun atteggiamento e un senso del lavoro del tutto parti-colari. È ora di attrezzarsi alla partenza, «Signori in car-rozza ...» Ed è facile intuire che la partenza non siaverso l’arte, ma attraverso l’arte ad approdi piú com-plessi, come spiega poche pagine piú avanti Savinio.

Le differenze di posizione non potrebbero essere piúdecise, anche Carrà parla di una conoscenza pittoricache è un dolce sognare che scioglie ogni limite e misu-ra, ma sogno ed apertura vengono dopo, sono il risulta-to di un’apparizione plastica, tanto piú stupefacente inquanto ha dominato e realizzato plasticamente. Savinioaccenna all’arte come ad una magia, moderna magia, cheguarda oltre la crosta delle apparenze e per questo pensain modo nuovo. Ma non manca di precisare che unasimile magia non è implicita nello sguardo o nel risulta-to poetico, è uno sforzo di volontà drammaticamenteimposto, in una situazione che non consente abbando-ni o contemplazioni. E il viaggiatore o l’esploratore sarà,ogni volta, sereno e malinconico, lieto e triste.

La novità maggiore di «Valori Plastici» resta la suaforza informativa data dal materiale visivo che arric-chisce ogni numero. Lo scritto si misura con opere dipin-te o con disegni, un cerchio produttivo si definisce; altempo stesso quelle grandi tavole in fototipia, che Bro-glio segue con cura attenta, forniscono un viatico dellavoro in corso per chi vada direttamente alle opere. Ele tavole saranno viste, studiate, imitate anche fuori

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d’Italia, basti pensare ai casi di un Grosz o di MaxErnst, che di quei materiali sono debitori e lo ricono-scono apertamente.

Per un altro ordine di motivi le tavole di «Valori Pla-stici» sono di estremo interesse: il confronto fra questefotografie e la stesura dei dipinti come la conosciamooggi, specie nel caso di Carrà, ci immette in una offici-na in movimento, documenta correzioni e modifichenon di poco conto. Come a dire che Carrà cresce entroil proprio lavoro, non dà per scontato il già fatto, loriprende e lo porta ad altri traguardi e convincimenti.Non è da escludere, in questo gioco di varianti che indu-cono a spostare nel tempo il risultato finale, un intentopratico, di maggiore differenziazione dai momenti in cuiil rapporto con De Chirico è piú stretto; ma il datoimportante sembra essere la convinzione di Carrà chequei mesi di lavoro rappresentano un momento di rifles-sione e maturazione e non una condizione fissata persempre: una sorta di interno sperimentalismo per un’o-pera che vuole essere in sviluppo ed in crescita. Possia-mo fare qualche esempio.

Ecco, sul primo numero della rivista, L’ovale delleapparizioni. Il senso del dipinto è illustrato nel testo chelo accompagna: fissa un momento plastico fermato sul«quadrante dello spirito», impagina una forte dramma-tizzazione luminosa, con accentuazioni d’ombra e dipanneggi, presenta un «enorme spettrale» pesce di lattaappoggiato su «due primitive spranghe di ferro (che siaevaso dal museo?)», mostra un manichino fortementepencolante sullo spettatore cosí da creare un forte rac-cordo di proscenio. «Questa è la poesia di quest’oragrande e matematica, – canta Carrà, – il vasto cieloappiattito nel tono intenso di lavagna... l’uomo elettri-co sbocca verso l’alto... ha il busto a clessidra e giocon-dità di piani circolari, mobili di latta policroma, che cifanno considerare il reale come visto attraverso a spec-

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chi concavi e convessi... Sullo stesso piano, ma piú indie-tro, sorge la statua arcaica della mia infanzia... la casametafisica dei proletari milanesi si racchiude un silenzioenorme».

Il quadro oggi noto, probabilmente ripreso pocodopo, presenta uno schiarimento di toni come per lucecontinua e frontale, una illuminazione totale che hacaratteri piú sdrammatizzati, il corpo in primo piano èprofilato e quasi smagrito per contenerlo nella scena,senza eccedere, allontanandolo, l’edificio di fondo è cor-retto in modo da raccordarsi con il manichino quasi adincastro, in unità di scala. Ma soprattutto scompaiono ipeduncoli del pesce, non piú oggetto narrato nella suascatola, ma poggiato a terra, perdendo il senso di cita-zione da una tela 1917 di De Chirico, Le rêve de Tobie,e valendo come oggetto strano e senza particolari accen-tuazioni.

Il gioco delle modifiche è ancora piú evidente nelleopere riprodotte nel fascicolo della primavera 1919: Ilfiglio del costruttore, 1918, e La figlia dell’Ovest, 1919 (èinteressante il riferimento di Carrà ad una sorta di fami-glia pittorica: ci saranno le figlie, del pescatore e poi diLoth, un Mio figlio senza rimandi ad alcuna paternitàbiografica dell’autore, come se la paternità, pittorica,entrasse nella dimensione della sorpresa e dell’appari-zione; non dimenticando, in un microcatalogo di aspet-ti familiari, L’amante dell’ingegnere).

La prima tela, oggi datata 1917-21 con riferimentoalla data di ideazione e di stesura ultima, raffigura, in«Valori Plastici», una stanza ad illusoria, doppia profon-dità, una tela-oggetto, con una bambola in un interno,il profilo di un’altra tela-ingombro, un doppio cubo, unbastone colorato, e, su una quinta sgusciante, la proie-zione di una piramide. È la consueta fittezza di presen-ze, in cui colpisce la figuretta infantile che troneggia afar da perno compositivo: vestita alla marinara con ber-

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retto e racchetta ha un realismo pronunciato pur nellaambigua rispondenza di figura di bambino o di rigidobambolotto. È evidente un dialogo «infantile» fra pro-tagonista e bambola dipinta sulla tela, rarefatto e lon-tano, quasi onirica conversazione sospesa. La scena mutatotalmente nel dipinto oggi leggibile: semplificata la ste-sura, i particolari e i giochi volumetrici, l’infante è fis-sato in un bianco stupore, l’ambiente è una cella nudae schematica, accorpati gli oggetti onde evitarne l’inva-denza. Il colore prende il sopravvento per interpretarecome un’onda la pienezza di presenza di una scena volu-tamente portata all’essenziale. Ma soprattutto, comemostra il rifacimento de La figlia dell’Ovest, il dialogo fraambiente e cose e delle cose fra di loro perde il senso ditessitura compositiva, viene diradato e vanificato; larispondenza è di tono, fino a una coloritura sentimen-tale molto accentuata dell’intera superficie dipinta.

Ancora un esempio di questa concezione del dipintocome un work in progress che si fissa tardi nei suoi risul-tati conclusi: Solitudine, una tela del 1917. Si tratta diun interno con un manichino, o di un modello anato-mico a mezzo busto, fortemente insediato su un cubo,con la lavagna del pensatore scienziato. Lo accompa-gnano un birillo gigante (o una mazza), un tronco dipiramide, il solito bastone (o altro aggeggio) colorato, edun quadro di biscotti, inequivoco omaggio a De Chiri-co è segnale di contiguità con certi presupposti del lavo-ro di quest’ultimo. Restano, nel dipinto oggi disponibi-le, il manichino sul cubo, il birillo assai ridotto e non incontrasto di scala col mezzobusto centrale, un violentoridimensionamento dell’intera scena, da cui gli altri ele-menti sono cancellati e con essi le ombreggiature.

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Vivere a tempo opportuno

Nelle Memorie della mia vita, che De Chirico redigenei primi anni ’40, diverse pagine sono dedicate ai mesidi guerra; una colpisce in modo particolare, in cui sinarra e commenta l’entrata in guerra dei fratelli De Chi-rico e di altri intellettuali, Apollinaire ad esempio. Siamoa Parigi tra ospiti stranieri e personaggi di complicatoprofilo per quanto attiene a una definizione di origine:Apollinaire è di madre polacca e padre italiano, è vissu-to in varie città europee, lavora da anni a Parigi. Loscoppio del conflitto, spiega De Chirico, rappresenta perognuno un modo di decidere qualcosa, perché arruolar-si non vuol dire il generico amor di patria o un doveredel momento, quanto una decisione che comporta unavolontà di radicamento: sentirsi con delle radici in unastoria e in una geografia precise. Apollinaire, esemplifi-ca ancora De Chirico, scrittore senza patria, riconosceuna patria al proprio lavoro arruolandosi e rivendica aciò che va facendo una piattaforma concreta.

Qualcosa del genere (radicarsi-riconoscersi) è pre-sente in Ungaretti: in Il porto sepolto, che il poeta pub-blica in zona di guerra nel 1916, la lirica che apre il volu-metto ribadisce questa idea. È dedicata ad un compagnodi studi, un arabo, Mohamed Scheab, «suicida | perchénon aveva piú | patria»: «amò la Francia | e mutò nomein Marcel | ma non era francese | e non sapeva piú vive-re nella tenda dei suoi | [...] | non sapeva sciogliere | ilcanto del suo abbandono».

Ancora De Chirico: l’arte nuova non è un andazzodei tempi, bisogna saper vivere a tempo opportuno.L’occasione da cogliere significa ridefinire le proprieradici, essere in armonia con un mondo che si sentenecessario, e decidere come agire in esso e per lui. E inRenato Serra si legge che «questo momento che ci è toc-

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cato non tornerà piú: c’era un momento per noi e nonl’avremo voluto». Serra precisa anche che questomomento non è propriamente la guerra, anche se l’e-vento bellico e le sue vicende hanno un loro peso nonindifferente; la guerra, dice Serra, è «un fatto», un fattoenorme ma uno accanto ad altri, e, di per sé, liquidaqualcosa, non crea nulla di nuovo. Che è poi quantosostiene De Chirico, che mette guerra e movimentofuturista sullo stesso piano: l’una non ha fatto scoprirel’esigenza di contenuti e comportamenti diversi in artecome l’altro non ha spazzato via nulla di particolarenella vita delle arti: se del nuovo oggi si vede, è qualco-sa da sempre presente alla responsabilità dell’artista,era, al di lá del momento, qualcosa già fatalmente pre-sente nella fatalità dell’arte e che, di conseguenza, appar-tiene ai fini stessi dell’arte.

Annotiamo la parola fatalità, che tanto ricorre inscritti ed affermazioni. È uno spazio o una cellula chedeterminano l’arte prima ancora della personalità del-l’artista o di uno stile dell’epoca, un riflesso non condi-zionato e non condizionabile di razza e nazione, un pro-cesso ed una volontà propria. Carrà parla di una «unitàstorica che trascende i fatti» e che ha meccanismi omo-loghi alla volontà d’arte, evoca una armonia di elemen-ti, «coordinazione di valori tipici della stirpe» che raf-figurerebbe «la necessaria potenzialità e consapevolez-za del destino». Per De Chirico e per Savinio è l’origi-nario, un punto di avvio e una totalità in cui è immer-sa la ragione odierna della pittura come il suo futuro. Valla pena notare che una simile fatalità poetica chiedaora, in questi mesi precisi, un legame con la nazione, ladove questa identifica modi e costumi con la continuitàdi razza e civiltà, una armonia di referenti non in lottafra loro. Carrà la identifica nel popolo, come del restoSoffici, come una realtà che spoglia l’artista della sua

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condizione separata, di intellettuale isolato e contrap-posto alla società: e il popolo, di una società, è la coscien-za e la dimensione quotidiana. È venuta l’ora di consi-derare l’artista, osserva Savinio, come qualcosa di diver-so da ciò che finora s’era inteso, a cui si bada «come siguarda a un vecchio frac conservato nella naftalina,come si guarda – ma guai a tentare di leggere – una col-lezione di vecchi giornali, come si guarda un oggettoamabile ma fuori uso: fuori del poetico uso».

Autunno 1918. Con la conclusione della guerra sitorna al lavoro «normale», con le esperienze acquisite ele preoccupazioni a venire. L’occasione va colta, l’op-portunità portata in luce, il lavoro sarà difficile. Soffici(per il quale la guerra non è ancora finita e che sarà smo-bilitato parecchi mesi piú tardi) conferma questo qua-dro: «sono agli inizi di una nuova attività spirituale»,scrive, ed è preoccupato di doversi muovere in una Ita-lia in cui manca un’arte moderna, cioè ne mancanoragioni e condizioni. Nei mesi di guerra è venuto spie-gando che cosa intenda per nuova spiritualità e per arteconseguente, ha pubblicato vari capitoli sul tema cheraccoglierà in un opuscolo dal sapore di fondazione findal titolo, Primi principî di un’estetica futurista, in libre-ria nel ’20. Sono dei principî, e dei principî assoluta-mente prioritari, sono la base di un’estetica (il terminenon gli piace, ma è l’unico a portata di mano per rife-rirsi all’arte come intenzione totale e non alla realizza-zione di opere), e di una visione futurista, cioè di un’e-sperienza che implica il futuro.

Soffici parla di una possibilità di mondo artisticonon condizionato da utilità pratica della produzionepoetica o pittorica e del suo consumo; inalbera per que-sto la bandiera dell’inutile e dell’artificio, di atteggia-menti, libertà di iniziativa e di progetto che diano luogoa visioni diffuse, insistenti, radicali e proprio per que-sto capaci di incidere. È il manifesto di una maturità, e

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Cardarelli ha appena scritto che la maturità si segnalafacendo ricorso a tutte le astuzie, alle tecniche e agliinganni dell’ironia come dei sentimenti. Tempeste eventi di gioventú sono caduti, scrive Cardarelli nel fasci-colo inaugurale de «La Ronda», ora si lavora e si costrui-sce. È l’autunno, la stagione meno impregnata di pre-sente e di attualità, quella che piú coglie lo sfuggente el’imprendibile; lo stesso classicismo e autunnale, perchéquella stagione ha modi chiari (è De Chirico a ricordar-lo), atmosfere dorate e mature, i corpi vi somigliano astatue antiche, ogni oggetto ha rilievo e purezza; l’ariaè nitida, purgata, senza vapori, la trasparenza permettedi guardare lontano.

Dobbiamo a Savinio la decifrazione dell’autunnocome maturità, stagione e condizione, sensibilità e sim-bolismo. In una sua Ottobrata si legge:

Occupa l’autunno fra le stagioni un posto simile a quellodel tramonto nel viaggio solare: come il tramonto l’autun-no, crepuscolo delle stagioni è denso di avventure e diavvenire. Lunghe sono le ombre autunnali, obliqua la luce,essa pure coricata cosí da prendere di fianco gli oggetti, afine di meglio penetrarli e saturarli di sé. In che lasciaavvertire un commovente proposito, sia nelle creature sianelle cose, di premunirsi bene e di colmarsi di luce primadi affrontare lo spento, il muto inverno. È l’autunno la piúpoetica delle stagioni perché protrae all’avvenire... perchél’autunno, sebbene a noi sembra che sparisca e per interosi spenga nel chiuso raccoglimento dell’inverno, virtual-mente continua o in oscuro prepara le nuove rinascite...L’autunno è la stagione delle riconciliazioni. Ognuno di noiche non sia bruto o un inguaribile cretino, sente rifiorirein sé, col ritornare in esso, l’anima resipiscente del figliolprodigo.

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La stagione del nuovo

Quello che ci vuole, annota Bontempelli, è uno stilnuovo; ma è necessario che ne parli chi accettò quelleromantiche, magari funamboliche esperienze che appar-tengono all’immediato passato: non c’è salvezza per chinon ha attraversato la zona del fuoco. Insomma, vabene il «nuovo», ma il nuovo non è cosa o conversionedell’ultimo momento. Anche se chiede un vigore ed unavolontà decise: De Chirico è telegrafico e preciso, «nonè una cosa inventata ieri. Cionondimeno è il caso di farlocoscientemente e di data recente, recentissima».

Intanto si presenta un’occasione storica: questo dopo-guerra è l’avvio di un ciclo. E poiché un ciclo in sede sto-rica comporta motivazioni genetiche, eccoci a discuteredel fatto che un’epoca o un’età (o un secolo) non sonoinvenzioni o arbitrii, ma corrispondono ad un caratte-re, se non addirittura ad un movimento. Ma quali, oggi?

Non a caso in Hermaphrodito Savinio scrive un capi-tolo, Epoca-Risorgimento, in cui tenta di rispondere allaquestione. L’Italia oggi chiamata ad un sostanziale rin-novamento è quella che un secolo prima ha avuto il suomomento di rivelazione: allora scoprí la non azione,l’assenza di volontà pratica dando sfogo a un pensiero,ad una filosofia e ad una pratica delle arti che contene-vano caratteri specifici pur non avendo preoccupazionidi orientamento pratico, di risposta immediata a idee obisogni. Un’età felice in cui la filosofia non mostra diaver debiti con la morale, e chi fa politica la fa «senzabuffoneria».

Savinio non ha alcuna simpatia per i virtuosi delladeduzione, come per i fondatori di morali o per chigioca con le nozioni di causa ed effetto: per lui, comeper tutti coloro che non poltriscono nella propria inco-scienza ma sanno spingersi avanti con il solo aiuto dellapropria chiaroveggenza ed iniziativa, quell’età è la sta-

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gione vera, l’Italia il luogo ideale e Mazzini l’eroe. Filo-sofo antifilosofo, che sa affidarsi alla «profonda oscuritàdella luce», appassionato, drammatico, privo di talento,attivissimo, assillato dall’utopia, assorto in un suomondo, Mazzini è testimone e segnale di un modo d’es-sere, di una inclinazione, che per vuoto di sostanzaappaiono foriere di ogni felice cominciamento. È sinto-mo di un clima, non materialmente soddisfatto e noncondizionato dalle apparenze, ricco di virtú metafisiche.

Mazzini eroe di un ritorno, perché quel clima e queisegni hanno lunga storia. Apparvero in Grecia, trova-rono ricetto nella Germania dell’Ottocento, tornanonella loro patria di elezione: solo dove non c’è stato posi-tivismo, dove non hanno attecchito conseguenze esteti-che come il naturalismo o il realismo, la metafisicitàtrova ricetto.

Il senso del ragionamento di Savinio è evidente: l’e-poca è in grado di promuovere un recupero di razioci-nio, al di là di rettoriche d’uso o di pretesi formalismi,che in nulla cede al dato di realtà o al misticismo dellaforma: un raziocinio in condizione di dissociare il segnodal significato e per questo superare la barriera dell’im-mediatamente giustificato. In questa dissociazione cheripristina un originario spazio di sentimenti e pensierista l’esser metafisici, e nella fatalità del momento stori-co l’attualità dell’arte fatta da metafisici. Un compitoche non va identificato nella restaurazione di valori reli-giosi o nella predicazione di una religione: al contrario,è una finzione che eroicamente contrappone un durocompito di ricerca e di esplorazione alle facili fedi del-l’ultima ora. L’Italia è la sede piú vera per una opera-zione del genere: è vero che le è mancata quella grandesvolta del moderno che nella Francia ottocentesca e inCezanne ha trovato i protagonisti maggiori: ma in Ita-lia non è accaduto, come oltre le Alpi, che un corretti-vo cosí generoso alla decadenza si impaniasse in un

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materialismo misticheggiante che confonde i fatti for-mali con i contenuti piú profondi, la ricerca con la dedu-zione piú banale.

Se è vero che la metafisicità torna a bussare alle portedegli studi degli artisti, e che l’epoca di Mazzini, ilRisorgimento, permette di guardare al nuovo non comea una invenzione del giorno, è anche vero che molte cosetra Mazzini e i futuristi, sono accadute: la ribellione deifuturisti ha bruciato scorie ed equivoci, si è mossa insenso antipositivista; si tratta ora di lavorare senza refe-renti polemici, in positivo. E non mancano gli esempi,dice Savinio: Soffici e i suoi «chimismi lirici» rappre-sentano la nuova Cassa di Risparmio e il nuovo palazzodei telegrafi, da cui partono, su fili di sensibilità, idispacci dell’ultima ora. Che annunciano i nuovi italia-ni e il nuovo italiano.

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Capitolo secondo

Autoritratti di artisti

tu dirai che è una grande perdita di tempoquesto pensare su me stesso. Ma come possoessere un logico se non so prima che uomosono?

wittgenstein a Russell.

debbo imparare a scrivere lasciando il dubbioche le cose ch’io dico siano simboli: bisognasaper oscillare tra il mito e l’affermazione sem-plice.

bontempelli.

Si scrive molto nei mesi ferraresi, e non solo, comec’è da attendersi, riflessioni di lavoro, testi di poetica,appunti sul da fare. Poesie, poemetti in prosa, brani liri-ci contengono anche questo, ma propongono un similepunto di vista tecnico operativo in chiave, per allusio-ni e riferimenti, spostando quel materiale primario contrasferimenti culturali o mitologici, raffigurazioni let-terarie ed allusioni poetiche, soprattutto collocandoloentro un vero e proprio racconto. Sono riflessioni obilanci «in prospettiva», progetti a venire messi a cul-tura in uno spazio che ha i toni e la scenografia di unmito: ciò che accade (e le singole paginette per fram-menti lo ricordano) assurge a un mito contemporaneoin cui si giocano sorti progressive e necessarie. Un mitoal cui centro propulsore non sta l’attesa di risultati poe-tici, ma la figura ed il ruolo dell’artista, la sua capacitàdi saper essere maturo in modo motivato, cosí da risul-tare adeguato al destino che lo attende, rappresentare

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il senso di un’esperienza. Perché arte è esperienza edarte moderna (o nuova o futura) è capacita di dareconto del senso di quell’esperienza, la sua motivazione.E poiché legge del momento è essere preparati al nuovo,il senso del racconto che taccuini, foglietti o poesierivelano è il come ciascuno, autobiograficamente, siponga ad esser nuovo.

Non siamo di fronte a testi inattesi, da un punto divista letterario: a parte ogni considerazione di qualità,è evidente ciò che in essi si mescola. Il moralismo, cioèil biografismo operativo, degli scrittori che si ricono-scono attraverso le pagine de «La Voce»; temi operati-vi futuristi, come il muoversi su piú piani artistici perporsi al di là dei singoli linguaggi; la diffusione degliscritti di Rimbaud e di Baudelaire (e, intanto, si affac-cia la «questione» Leopardi scrittore cara agli uomini de«La Ronda»). Non si tratta di fonti, o non solo di que-sto: è interessante il progetto che ne vien tratto, tradeformazioni e rimescolamenti. Muoversi a cercare oltregeneri codificati e logiche definite o oltre strutture ossi-ficate, cioè non puntare all’esprimere, e quindi allo stareentro codici di espressività linguistica, ma a vedere ecapire, oltre quello che Boine chiama il «lavoro di appa-rente sistemazione».

Il che significa ridisegnare il profilo di chi è al cen-tro di una simile esperienza, insieme artistica ed oltre learti, che ha, ancora una volta, il nome di liricità (né«poesia» né letteratura, cioè), come spiazzamento edinamismo di ricerca.

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«Frammenti» di De Chirico

Gli accenni all’incapacità della lingua e i con-fronti tra limitatezza della parola e infinitavarietà del sentimento sono del tutto errati. Ilsentimento infinito rimane altrettanto infini-to. Non bisogna mai stare in pensiero per lalingua, ma spesso, alla vista delle parole, perse stessi.

kafka a Felice.

Nel luglio del 1916 Papini riceve da De Chirico unbiglietto e due poesie; desidera vederle stampate sullastessa «Voce» su cui pubblica Savinio, e si serve dellostesso tramite, l’onnipresente Papini (né sembrava esser-ci, in Italia, allora altra via, per pubblicare, se non bus-sare alla porta del fiorentino). Avverte l’amico che itesti che gli invia sono cose assai importanti, rappre-sentano i momenti lirici di una stagione che per De Chi-rico è tutta chiara nella sua matura evidenza e rispettoalla quale ha strumenti concettuali e poetici debitamen-te affilati. Aggiunge un tocco gigionesco, magari per iro-nia, o forse come una sorta di allusione letteraria, fragente del mestiere: «stramoggiano nella mia mente leimmaginazioni nuove come la ricolta matura ora neicampi di Romagna».

Queste immaginazioni di nuovo conio si presentanosotto forma di «frammenti» (cosí De Chirico chiama isuoi due componimenti, di cui non ci è dato saperenulla, dal momento che non risultano pubblicati e fin quise n’è persa la traccia): scritture connesse ad «un insie-me di sentimenti, chiamiamoli cosí, nei quali vivo qui aFerrara, e che materializzo in pittura». L’importanzache De Chirico annette ai due testi è collocata nella qua-lità dei frammenti in quanto letteratura, ma anche nelgioco di rapporti poesia-pittura entro «un insieme di

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sentimenti»: l’avvertenza a Papini sembra chiara. Se ai«chiamiamoli cosí» sentimenti, ai contenuti, si attri-buisce il segno delle novità artistiche maturate dopoParigi, il rapporto, in seno a questi, tra scrittura e pit-tura è subito affermato.

Un salto in avanti di un ventennio, siamo al 1942,quando lo stesso De Chirico redige uno dei suoi scrittipiú importanti, il Discorso sul meccanismo del pensiero.Il ragionamento che vi viene svolto è, a grandi linee,questo. L’uomo è un pensare continuo, tanto in istatocosciente durante la veglia, quanto nel sonno; ed il pen-sare non cessa mai perché l’uomo tutto ha visto e tuttoha provato, e dunque il pensiero restituisce, in qualchemodo, magari deformandola, l’esperienza. Ha tuttovisto e provato in forma di immagini, ha immagazzina-to immagini, pensa per immagini. In questo flusso con-tinuo ed automatico la parola interviene con un ruolo diestrema importanza, perché rallenta il moto indiscrimi-nato e costringe l’andamento immaginativo a una pre-cisione di gran lunga superiore a quella delle immaginistesse e ad una incisività altrettanto nuova. La parolaobbliga le immagini ad assumere una presenza ed unruolo che prima non avevano. Se applichiamo questointendimento generale allo specifico pittorico esso ciriserverà qualche sorpresa: saremmo portati a pensareche in quella sede la parola, che vi ha meno sostanza epeso piú relativo, abbia un ruolo indeterminato; accadeinvece che il gioco sia piú complesso. La parola, cioè,viene a cose fatte, viene dopo che l’avvenimento si èfatto immagine, accade dopo la creazione (di un ogget-to, per esempio) o dopo la riflessione su un avvenimen-to o la scoperta del suo significato rispetto agli oggettiin campo. La parola aiuta a capire perché permette didefinire, approfondire, percepire e distanziare. (Con ilrisultato, vien fatto di commentare, che siamo di fron-

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te a una dimensione nuova, immagine piú parola, e quin-di ad un’altra funzionalità del pensiero).

De Chirico non nega né rifiuta il flusso immaginati-vo, lo pone sotto controllo; e cosí agendo lo riqualificaa livello di un’unita che si è perduta col tempo e che nonè piú presente nell’esperienza e nella realtà quotidiana.La pittura, come pensiero, compie un atto di riparazio-ne, esige un’iniziativa, sposta i termini consueti dellavoro artistico. Mentre afferma, fa, agisce, rivela unospazio perduto, e al tempo stesso fa fronte a una piúgenerale dissipazione. La critica alla dispersione eall’impoverimento dell’arte moderna, almeno dall’im-pressionismo in poi, di cui De Chirico dissemina i suoiscritti è un richiamo a questo principio, ed è un richia-mo alle finalità (eterne e per questo nuove, al punto incui si trova l’arte contemporanea) dell’arte.

Ci sono, in questo scritto del 1942, alcune annota-zioni in tema di immagine. Le immagini appartengonoa classi diverse: per alcune il referente, quello cheabbiamo definito l’avvenimento, è di ordine senti-mentale o ideale, e per questo appariranno cariche ditensione, perché il loro colorito appartiene al vissuto,all’emozione o ai sentimenti. Non sono immagini lega-te alla fantasia o alle invenzioni poetiche e neppureimmagini che sorgono per diretta corrispondenza conrealtà immediatamente percepite. Per De Chirico pit-tore le immagini piú interessanti, le piú ricche di pos-sibilità di pensiero pittorico, o di pensiero tout court,sono quelle che nascono da un incontro tra impressio-ne e idea, tra suggestione visiva e accostamento intel-lettivo. Piú generiche saranno quelle sorte da eventioccasionali; piú intense e qualitativamente significati-ve quelle in cui la fonte è data da figure già ordinate,le illustrazioni di un libro, le tavole di un testo. Rap-presentano quella scoperta del momento, quella fortis-sima soglia di cui lo stesso De Chirico aveva sottoli-

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neato l’importanza in uno degli appunti stesi in fran-cese a Parigi nei primi anni ’10:

et soudain un moment, une pensée, une combinaison quise révèle à nous avec la rapidité de un éclair nous ébranle,nous jette devant nous-mêmes comme devant la statue d’undieu inconnu... Nous jetons alors sur les choses des regardsetonnés. C’est le moment.

Dove val la pena osservare due elementi, almeno: lasuggestione temporale, il momento, la rapidità, cometempo rivelativo che apre uno squarcio particolare nel-l’esperienza consueta; e il riferimento a se stesso primache alle cose: il tempo particolare suggerisce una respon-sabilità a superare la soglia, introduce ad un’altradimensione.

Gli scritti inviati a Papini aprono una serie di com-posizioni poetiche ferraresi. Le due dedicate a Carràsono il frutto di un dialogo fra artisti di notevole livel-lo: Viaggio e Villeggiatura sono composizioni a pro-gramma, intrecciano dati affettivi del momento a pro-getti piú vasti, mescolano riconoscimenti ed ammoni-zioni. Il Carrà della dedica di Villeggiatura è definito «ilpittore dai sette piani»: è una dichiarazione di eccel-lenza, il marchio di un livello conseguito (nel corso deltesto sappiamo che De Chirico stesso ha raggiunto la«piattaforma laccata del mio settimo soffitto», epotremmo parlare di una iniziazione all’eccellenza edalla operatività). Ma quello che a De Chirico premedire, vuole sia scritto, è che si tratta di un’eccellenzacome punto di avvio, soglia: non è il caso di riposaresugli allori.

Viaggio, come annuncia il titolo, racconta come si èarrivati a quel settimo cielo, segue un itinerario diavventura, di scoperta, di accumulo di esperienza: non

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un esito di per sé, faccia attenzione Carrà, ma ancora unviaggio. Si parte dall’infanzia, una stagione ambiguache richiede una forte capacità di comprensione perchéin essa si scopre (si deve saper scoprire) come la realtànon si dissolva negli oggetti e negli eventi, ma siano glioggetti a segnarla, misteriosamente. È un tema questo,dell’uso lucido delle stagioni della vita, per non abban-donarvisi passivamente ma per trarne ragioni, che ritro-veremo piú volte sottolineato con forza. L’infanzia, nelcaso del Viaggio, è una bandierina sulla casa paterna,quasi un giocattolo strano, un luogo ed un momentoatmosferico, tra il marciapiede bianco di polvere e difreddo e «l’aere nivale». L’evocazione è saldamente inmano all’io che oggi si esprime («penso a una città»,«penso a un paccobotto» ed ecco la nave, il postale,simbolo o strumento del viaggio), un io che si collocageograficamente e storicamente ad un buon livello diresponsabilità odierna: un io in Italia, promontorio dacui badare a orizzonti inediti, è solida piattaforma diogni partenza. Intorno i testimoni, il padre e la madre,questa viva e partecipe, l’altro morto e perciò mesto difronte ad uno svolgersi di fatti cui non può, fatalmen-te, esser chiamato. (Ma l’assenza di padre, nel contestodi un’avventura che sta per prender forma, ha forse unsenso non solo autobiografico, per De Chirico). Questoio responsabile navigatore è chiamato a un compito pre-ciso: sapere ciò che viene scoperto, non ingannarsi difronte agli avvenimenti. L’identificazione è con il navi-gatore Balboa, colui che seppe vedere come la terra sco-perta da Colombo non fosse l’America, ma uno specifi-co, definito luogo.

Quella che s’è qui definita la responsabilità oltre lasoglia, o piú direttamente il viaggio, è una preoccupa-zione precisa per De Chirico, e proprio in sede di rap-porti con gli amici intellettuali, con la stessa cultura che

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in qualche modo gli è piú vicina attraverso rapportiumani non indifferenti. Non a caso come una composi-zione dechirichiana ha per protagonista Govoni, l’uomoche ha permesso al pittore di riprendere a lavorare a Fer-rara e con cui gli scambi letterari e le suggestioni d’am-biente sono stati stretti. In Il signor Govoni dorme le pre-cisazioni iniziano dal titolo, che non ha ironia nel defi-nire borghesemente «signore» il poeta Govoni, ma vuoledefinire una differenza. Govoni ha molto meditato, hariflettuto, ha vegliato su Ferrara e ne ha sentito i signi-ficati riposti: quando giungono gli amici, e il lavoro el’avventura devono avere inizio, Govoni non c’è, dormeirrimediabilmente, perché è fisiologicamente soddisfat-to delle sensazioni accumulate. Non va oltre.

«Sono il superstite e il nascituro», scrive De Chiricoin Villeggiatura, e l’atmosfera è quella dell’ospedale diVilla Seminario e di un’ora fatale che s’annuncia a tuttelettere. L’ambientazione del brano è doppia, prima in uninterno, a porte sbarrate, a finestre serrate, come perun’interiorizzazione rigorosa; poi all’esterno, dove conDe Chirico apparirà il dedicatario Carrà. Di nuovo l’in-fanzia, ancora un merito che il protagonista si riconosce,perché all’infanzia non si è abbandonato, ma ne è scam-pato traendone una lezione: l’arcadia della sua prima etànon è cosa diversa dai rischi, e dalla retorica, della matu-rità, lo ieri non è diverso dall’oggi quando è indispen-sabile vincere la tentazione di identificarsi con ilmomento e il conseguente ristagno.

Un fatto che viene ribadito in Promontorio, scritto acelebrazione dei propri ventinove anni: la «scoperta»della metafisica negli anni fiorentini, vi si apprende (edè bene tenerlo presente), quando era agli inizi del suolavoro piú vero, avrebbe potuto risolversi per lui in unasorta di religiosità psicologica, in una «indeterminatez-za cretina di infiniti siderali». La sua non era una sco-

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perta da pensatore, ma da pittore, e per questo ha capi-to che scoprire vuol dire impulso a lavorare, vuol direindicazione di direzione, non soluzione definitiva, spin-ta, non luogo. Ciò che accadde allora richiese moltaattenzione, «si stette molto tempo senza muovere undado. Il gioco era impossibile»: la possibilità andavaguardata e cercata.

La progressione logica di Villeggiatura incalza: DeChirico e Carrà, un «metafisico in maglia rosa» esconoall’aperto, passeggiano, in un’ora che è prossima a dive-nire serale; l’ora topica del meriggio, tramonto e puntodi passaggio, nella rettorica di questi scritti (e dei dipin-ti). Il pensiero di De Chirico, ora che si è staccato dallacasa serrata, va alle cose lasciate nelle stanze, alla lorosolitudine e alla loro oggettività che non ha bisognodella presenza del pittore: «quelle cose lucide e vario-pinte abbandonate sole nella spaventevole solitudinedell’immobile ipotecato» (in un altro Frammento parla disé come di un «immobile ipotecato»). Segni e non sim-boli, cose e non proiezioni personali o eventi casuali,quegli oggetti raffigurati aprono una prospettiva nuova.C’è il poeta, l’io e la sua responsabilità operativa, e cisono le cose: il pulsare del cervello si spacca in tante bol-licine là dove De Chirico è arrivato «sulla piattaformalaccata del settimo piano». In Promontorio (una poesiada leggere ad incastro con Villeggiatura) tutto questo ètradotto in figura: non si tratta piú di pensieri ma di«sentimenti» (e detto a tutte lettere), in presenza di dueopere cui il pittore ha posto mano, La frutta del poeta,dove si realizza qualcosa cui mai De Chirico avrebbepensato di arrivare, ponendo sull’impiantito della stan-za dipinta due grandi oggetti di cartapesta, e Le rêve deTobie, in cui alcuni riferimenti all’infanzia non sono piúevocati ma collocati pittoricamente in modo voluto eordinato. E il risultato, la materializzazione pittorica vadi pari passo con una emozione inedita: una tristezza

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murata da un desiderio irrisolto ed insieme la sempreviva e variopinta gioia di cui quello stesso desiderio è ilrisvolto.

In Promontorio ricompare Carrà: i due argonauti sonorappresentati in un preciso paesaggio, che non è quellodelle scenografie romantiche con ghiacci, nebbie, edoceani insondabili, ma un porto in cui essi nuotano inuno specchio d’acqua ai cui bordi stanno terre riarse ededifici industriali, un paesaggio di cascatelle sulfureeche sfogano in modo soave bile tellurica. Il richiamo èad un paesaggio concreto, non metaforico, ma un pae-saggio-pittura che fonde porto e luogo industriale benpreciso con una definizione di natura ab antiquo in faci-tura ed in un’era d’origine come di solidificazione. Pas-sato remoto e futuro su un unico registro in cui fannopresenza i due amici artisti. Segni misteriosi si accam-pano alle pareti, i segni personali del destino di ognunosi fondono con ricordi mitici, di una miticità da memo-ria scolastica: le legioni romane sono pronte «per le lon-tane conquiste fatali». Tutto è già scritto sulla carta geo-grafica fissata al muro con una puntina da disegno: nonè un caso se essa disegna il profilo dolcissimo del Lau-rio, la Grecia della giovinezza del pittore.

Val la pena sottolineare un punto: qui non è il casodi rintracciare solo il programma iconografico, e le moti-vazioni, della pittura che De Chirico va facendo, e chenon tralascia di citare. Va indicato un salto di qualità,dal pensare a qualcosa al processo di «materializzazio-ne» di questo qualcosa, cioè la possibilità di costruirlo,di farlo, di comporlo con oggettività e con mestierenuovi. Non è solo una scoperta di oggetti e di riferimentiche nel suo «viaggio» De Chirico indica poeticamente,cioè servendosi del mezzo poetico: stanno nascendo,contestualmente alla coscienza della stagione nuova del-l’io De Chirico, una geografia, un alfabeto ed un voca-bolario. Cosí ecco i segni, misteriosi perché non risolvi-

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bili in se stessi, condensazione di avvertimenti, antici-pazioni, stratificazioni: «ora traccio sullo scialbo deimuri asciutti | i segni delle menti calculiformi», si leggein Canzone (ed è un pittore, ben conscio del suo mestie-re di affrescatore, che parla); e in Frammento lo scolarodi gesso, un manichino o un oggetto da pittore, forse uncalco, impara «l’algebra delle mie nostalgie»: il pittoreimpara dall’artista, la pittura impara da lui.

Nel 1918 la parabola letteraria di De Chirico sembrachiudersi. Scrive L’arcangelo affaticato, invia a Broglio,per la rivista che questi sta per avviare, L’ora inquietantee Zeusi l’esploratore.

In L’arcangelo il pittore è al lavoro, è primavera, ma«i mandorli cretini non sono i soli a gittare i fiori dellepromesse»: in anticamera i ritornanti, i morti che tor-nano, gli evocati, stanno immobili nei loro atteggia-menti consueti come delle nature morte. «È la terribilenaturalezza, la logica inesorabile che ogni oggetto desti-nato a stare per inesorabili leggi di gravità sulla crostadel globo si porta stampato nel centro». Un realismo concui fare i conti ma da non subire, da non considerare investe di legge di necessità. Ciò che conta è la spettralitàdello scacchista, l’identità del manichino e dell’uomodella città futuribile e industriale: figure che premonosull’artista sfinito dopo il parto appena concluso e fan-tasmi che inesorabili puntano la mano di gesso. Ancorauna volta una concezione dinamica, l’andare oltre, nontrascurando di guardare al vero figure e persone dellascena attuale, del moderno e del futuribile: al vero vuoldire andando oltre le apparenze, riconoscendo in esse ele figure e i fantasmi, e gli uomini e la loro trasparenzaal tempo. Per ora sono pesi ed ossessioni, poi verrà lafame nei secoli dei secoli, quando, in una età di trinemeccaniche, la nostalgia strana e tremenda che oggi bru-cia il cuore e il cervello ad artisti come De Chirico saràstampata negli occhi di tutti. C’è un sentore di stupro

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nello spazio affaticato che si mostra oggi e che squarcia,al di là della natura e oltre ogni arte che della natura siaimitazione e le faccia concorrenza, il velo e le finzionidel tempo e delle convenzioni. È quanto l’esploratoretestardo si ripromette nel suo viaggio avventuroso, e lofa inalberando lo stendardo di una «società anonima» difresco fondata, di cui lo stesso De Chirico è il principa-le azionista. Una metafora per indicare il «nuovo liri-smo» o l’arte dei metafisici, che conoscono «il teporevitale sulla | sommità del cranio», il «palpito | supersti-te nel cuore che non tace» come segno di immortalità,il «pegno sacro di un’eterna giovinezza».

L’ora inquietante fa da controcanto: lo spazio è quel-lo urbano, la città è quella della solitudine, vuota alpunto da non mostrare neppure presenza di monumen-ti, ed invece costellata da cartelli con l’avvertimento del«non andare piú oltre». È la città dell’arte come rischio,del rifiuto moderno di prender atto di qualcosa cheabita il luogo ma in esso scompare. Proprio in questacittà, ed in un’epoca in cui l’immortalità è spenta e ognicosa è priva «di nome sui quadranti | del tempoumano», come è possibile temere la morte? Solo se tor-nerà ad aleggiare il senso antico della felicità comemodo di vita la chiaroveggenza e l’amore potranno darecorpo ad un moderno classicismo: ma chiaroveggenza edamore non sono questioni estetiche ed attingono aduna fonte lontana.

È probabile che per il primo numero di una rivistacome «Valori Plastici» una simile lirica fosse troppoimpegnativa, condizionando ad una visione pittorica epoetica troppo definita e personale. Broglio la lascia nelcassetto e le preferisce, per il debutto della sua rassegnad’arte moderna, Zeusi l’esploratore, in cui De Chirico s’èvestito dei panni del saggio greco ed ha assunto le fun-zioni dell’esploratore. L’idea centrale, il realismo dellaposizione d’avvio da cui muove l’esplorazione, riporta

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entro i confini del mondo, e si sposa con le curiosità, ches’annidano come talpe su tutta la crosta del globo. Sonole curiosità che renderanno giustizia di una distanza chegli uomini del secolo non vogliono accettare, la distanzadell’uomo dalle cose, e l’autonomia delle cose dall’uomo:scoperto questo, appariranno in ogni cosa un demone edun occhio propri a ciascuna realtà e tali da guardare l’uo-mo come una dimensione diversa. Solo in questa affer-mazione di sostanziale antiumanesimo e antistoricismo,di totale impossibilità ad identificazioni, l’arte divienepiú completa e piú complicata. Di qui l’esplorazione noncome avventura pura e semplice (c’è anche questo, c’èanche il viaggio), ma come azione che comporta il sensodella nostalgia e della solitudine. Che non sono attribu-ti sentimentali o risultati di reazioni emotive, cioè psi-cologia dell’umano, troppo umano: sono valori e situa-zioni. Il viaggiatore farà viaggi minimi e scoperte ric-chissime, percorrerà la città ed i suoi simboli, decifrerànel quotidiano le insegne ed i manichini come infinitisegni che emergono da un tempo remoto e che colpisco-no cuore e cervello. Saprà mutare proporzioni e pro-spettive, vedere i soffitti come zodiaci, le porte soc-chiuse come «solennità sepolcrali della pietra smossasulla tomba vuota del risuscitato». Che è poi ciò che lostesso De Chirico ha fatto, solo e controcorrente in unosquallido atelier parigino, quando ha rifiutato la pitturache andava per la maggiore ed ha intravvisto una moti-vazione diversa nel fare dell’arte nuova. «È l’ora...Signori in vettura». La pittura verrà, ma «non ci si deveimpinguare nella felicità delle nostre creazioni»: la lezio-ne che la curiosità detta è che «i quadranti sono toccatidal segno del distacco». Il tutto all’ombra di un senti-mento totalitario e di una certezza estrema, «ciò che hoperduto, non lo avrò mai piú». (Il riconoscersi in Zeusinon è soltanto indossare una maschera: è l’indicazione dinon immediata appartenenza all’attualità, il collocarsi in

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uno spazio antico, un gioco di distanze che è un rove-sciamento di ottica, non da vicino a lontano, non dal-l’umano alla cosa, ma viceversa. Una nuova saggezza, unavettura su cui muoversi).

Il canzoniere di Carrà

il senso del mio operare è che io immagi-ni come un poeta e ricomponga in uno ciòche è frammento... Cosí fu – cosí si chia-ma il digrignare dei denti della volontà.

nietzsche, Zarathustra.

Carrà a Ferrara ha scritto molto, anche lui in versi ein prosa. È venuto concependo l’idea della parola e dellapagina in termini quasi fisici: scrivere e dare corpo a unarealtà in cui pensieri ed oggetti si compenetrano, aduna materialità che non è l’astratta tensione dei pensie-ri e neppure la foga immediata degli eventi. Una unitao una sintesi che è quella poesia, quella volontà d’artecapace di far risuonare il foglio come un dato antece-dente ogni altra esperienza e realtà. È come se la com-posizione fermasse qualcosa che è fragrante ed al tempostesso piú nuovo di ogni sviluppo vitale, al punto di con-dizionarlo e di precederlo. Ma anche un fantasma da cat-turare e trasformare in unita plastica che ha bruciatoogni accidente, fatuità, relativismo, sensualità. I chiari-menti che vengono dalla pagina saranno poi fatti pitto-rici, le invarianze registrate saranno elementi plastici,creeranno intensità, disporranno architetture, sarannostrutture.

Grandissima parte di quanto Carrà scrive fra il 1917ed il 1918 reca il marchio di un assillo: «nella cono-scenza piú non sento la gioia | di un valore», dice, e sem-bra replicare a De Chirico ed alle sue proposte, «non

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perdersi nel pensiero di un pensiero», se l’unita, l’in-canto antico cui pensa De Chirico gli paiono un che dirotto, di frantumato, lo interessa il concentrarsi sul farecome forza pittorica «definire-determinare-procedere |per sintesi-sottoporre le ipotesi | al controllo | e teoria epratica in simultaneità | di approcci». Replica cosí all’a-mico, e al tempo stesso è alle prese con questioni sue,con quanto non ha accettato del futurismo, con la ricer-ca di una realtà sostanziale. Né gli bastano risposte cheappartengono, a suo modo d’intendere, al mondo intel-lettuale, al gioco delle poetiche, ad una intenzionalitàche gli appare astratta. La grande matrice della volontàplastica, i modi della forma gli sembrano traditi da presedi posizione teorica o da intuizioni di pensiero: agiresulla creatività dal di fuori gli appare inorganico, un fat-tore di decomposizione.

De Chirico indubbiamente lo attira, ma il suo nonpensare per forme lo turba: gli interessa una coscienteintelligenza dell’arte, ma lo inquieta l’idea che questosignifichi lasciar da parte corposità e tattilità. L’arteresta per lui scontro tra forza plasmante e materiale chevuol essere plasmato; l’intelligenza dell’arte gli deveadditare modelli che lo aiutino nello scontro, non deveintrodurre varianti e distrazioni. Scrive di una «media-zione dialettica» cui è chiamato a presiedere «il mista-gogico Dio della metafisica».

Messi tutti assieme, poesie, prose liriche e brani pro-sastici redatti da Carrà formano un vero e proprio can-zoniere che ha dell’officina, dei lavori in corso, di unsordo, ostinato senso di ricerca di un punto d’equilibrioin cui scocchi il risultato ultimo, fatto di calma, di luci-dità, di seria potenza. Carrà propone, addita, censura,decanta.

Ormai so che il mio dovere e la mia azione sono quellidi cantare; cantare tragicamente cantare finché mi si spez-

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zerà il cuore. Questo mio dovere di artista è quello che miossessiona ora e sempre. So che è il piú grande degli impe-rativi. Il destino mi ha detto: tu devi!

Sono poesiole brevi, frammenti, spunti, notazioni,schegge, aforismi, partono da annotazioni d’atmosferae cercano un ordine; misurano la sorpresa che lo coglienella quotidianità come un’ombra costruttiva che ingor-ga le idee e chiede sviluppi, assume spazi ed interioriz-zazioni. Le poesie svelano cascami poetici del tempo,crepuscolarismi e patetismi pascoliani, campane e vome-ri, benedizioni e stelle, pianeti notti e contemplazioni,solitudine, melanconia, anima, languori di canzoni popo-lari, anime fanciulle e risorse primitivistiche. Non è sol-tanto una ovvia caduta culturale in schemi, facile daparte di chi poeta lo è fino ad un certo punto: c’è inve-ce il bisogno di appoggiarsi su un materiale poetico dato,su una massa fisica di indicazioni già di per sé poeticheper muoversi con intensità adeguata, entro un volumericonoscibile liricamente. Per Carrà è decisivo poterpronunciare quanto ha da dire con adeguata certezzafisica, e nel canzoniere un dato preminente è proprio ilpronunziare ciò che dice, il suono, l’onda materica, iritorni d’eco, l’emotività conseguente.

Con l’ovvia considerazione, mai liberata, della sen-sualità, del fare i conti con il corpo di ciò che cerca (ecerca corposamente), delle idee che non vuole evocatema toccate e trasferite in solidità, del turgore delleapparizioni, dell’ingombro di oggetti, dell’architetturae cosí via. Con tutti i disagi, i ripensamenti ed i rifiutiche una vicinanza ed una preminenza come quella dellavoro dechirichiano mettono in chi ha la sensazione distar cercando mezzi propri per cantare. Che cosa inten-da Carrà per metafisicità è presto detto: l’attesa che sirealizzi una tale tenuta degli elementi, un tale inca-strarsi di eventi da far sprigionare il massimo di ten-

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sione, la soglia oltre la quale si determinano gli avveni-menti ulteriori. È un «tema» già avvertibile nell’ultimacomparsa di Carrà «futurista», nelle Divagazioni media-niche raccolte nel 1915 in Guerrapittura. Oltre il coin-volgimento totale, il collage di simultaneità, le allusio-ni multiple, qui si avvertiva uno stato di irresolutezza,un clima non riducibile alla pagina, l’elogio intellettua-le della virtualità, di una polpa ricca, misteriosa e sfug-gente. Alla sua poesia Carrà chiede ora che questa sen-sibilità materializzi ogni cosa, la riconduca a unità,ponga elementi strutturali. E questo è già nelle colla-borazioni a riviste e rivistine come «La Voce», «LaBrigata», «Avanscoperta», l’«Antologia della Diana»cui da poesie e composizioni fin dal 1915.

Il procedimento di Carrà è quello della elencazione edelle somme di particolari, come se la pagina dovessereggere al peso e alla mole di una realtà che via via simoltiplica, si ripete e si fissa. È la «mania di differen-ziazione di cui è afflitto l’universo», di cui parla Gadda,quella contro cui tenzona Carrà. Questo «materiale» èsoggetto ad una sorta di tenzone fra cuore e sentimentida un lato (che raffigurano l’entusiasmo e l’attesa) e ilcorpo e le impressioni fisiche da un altro punto di vista(e questi stanno per i condizionamenti che il relativo edil momentaneo mondanamente impongono). Ma nonsono i soli protagonisti dello sforzo di sublimazione e disintesi di Carrà: la sensibilità denuncia i limiti di un’ac-censione incapace d’esperienza, la logica e l’intelletto sidimostrano troppo diffidenti e negatori, i sensi sonodispotici e invadenti, fino a condizionare ogni cosa. Inquesta pantomima di energie, nulla deve però andarperduto: ciascun elemento è segno di una attesa di asso-luto, la contiguità di tensioni definisce uno spazio con-tinuo: ciò che piú si chiede è l’«essere in situazione» ditutte queste valenze frammentarie con la passione poe-tica, con la volontà d’arte. E si intravvede una strategia

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di Carrà poeta: la pagina rappresenta la vena appassio-nata ed intensa in cui si affollano e decantano emozio-ni, impressioni o sensazioni. La stessa pagina poetica haun secondo, decisivo compito: è la camera di decanta-zione in cui si raggiunge uno stato poetico, la cui caricasarà poi quella operante nei quadri, con una precisasequenza di passaggi.

Carrà si prova anche a giocare una sua iconografiapoetica. È il caso di una serie di immagini in cui la pas-sione formale si colora di elementi della tradizione cri-stiana. Carrà parla di «presenza cristiana», cioè del sen-tirsi partecipe di un flusso nel tempo che ha caratteridella romanità e momenti cristiani, un principio di veritàche polarizza pensieri e moti dell’animo entro una sce-nografia da città modernista, con caffè carichi di luce eframmenti di città in movimento. La continuità testi-moniata nel moderno, insomma, e la rivincita di volontàche sa aspirare a potenza poetica: è il motivo di unbrano come La rosa della volontà (è la rosa dei venti conuna apertura a trecentosessanta gradi nel tempo e nellospazio) cosí come de La notte cristiana, due frammentidi autodefinizione ed esaltazione. La notte cristiana èquella della Pasqua, in cui si celebra nell’io artista ilsacro pellegrino che, crocifisso ai propri limiti, illuminae trasforma il mondo in esperienza.

Il clima del canzoniere è omologo dei toni e dei modidelle opere dipinte; è l’attesa, l’incombenza di una realtàunitaria superiore, di un divino che sovrasta eventi eoggetti con animo sgombero da prevenzioni, e con libe-ro slancio appassionato. Ma è anche un clima di piúattenta attesa: Carrà sa che il momento liberato dellacreazione non è ancora venuto, che sta lavorando a scio-gliersi da pastoie ed a calcolare con discernimento lepotenzialità: «povero palombaro tra vapori opachi disogni | a quando il volo | a quando il volo». In attesa del

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volo, occorrerà utilizzare correttamente il tempo, unaddensare e chiarire: l’epoca ferrarese resterà per lui neilimiti di un’officina, un lavoro grandioso ed incalzanterisolto poi in altre conquiste dai mezzi allora elaborati.Uno sforzo di fronte al quale non disperdersi e nonconfondere le carte in tavola: «l’istinto è la forza posi-tiva creativa | e la ragione una funzione correggitrice. |In molti artisti, invece, l’istinto si rivela critico | e laragione creatrice».

La conseguenza di questo difficile gioco di fondazio-ne e di crescita ordinata è l’attenzione a Giotto comeartista capace di lasciarsi alle spalle ogni criterio di imi-tazione per affermare un diverso modo di intenderel’arte, la immedesimazione. Giotto diviene per Carrà lafigura stessa dell’artista «nuovo»: non lascia spazio adastrazione e ad informalità, non cede alle passioni, nonsi concede alle intuizioni disorganiche, non dà spazioall’impulsività. Immedesimarsi, in pittura, vuol dire ade-rire con tutta la propria energia ad una «immagine dellaforma» riconosciuta nella realtà come nella fantasia eche ha la capacità di «lumi sí fieri da arrestare la realtà».L’apporto che intanto Carrà può trarre da questa con-siderazione è l’idea di un andamento verbale la cui con-tinuità di tensione crea una prima oggettività plasticaunitaria. È il caso di Orientalismo, commento ad un’im-portante tela carraiana, Il gentiluomo briaco, 1916, carat-terizzata dalla inserzione di un frammento scultoreo neltessuto pittorico: «nelle magie delle agre porosità labianca sembianza umana s’incide la bottiglia appesanti-to nella forma conica include sfumature sinuose e auste-rità insolcata nelle linee definitive della deformazionelirica».

Accanto a questa risorsa che rimanda direttamentealla copertura continua della superficie pittorica, eccol’evocazione di uno spazio dentro la rappresentazione:

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in Marcia dell’aurora l’occasione sembra la semplice regi-strazione di un movimento di soldati all’alba in un gene-rale silenzio; la poesia saggia invece l’elemento compo-sitivo, scopre «il secondo spazio», quella forma internache ha nome di austerità della visione. Resta il proble-ma del rapporto io-eventi e quindi io-rappresentazione:«egli sente di essere microcosmo plastico a contattomediato col tutto», si legge in Il quadrante dello spirito,il brano con cui si apre il primo fascicolo di «Valori Pla-stici» (ancora un commento ad una tela). Ma sono soloattese, queste indicazioni: a Savinio, cui dedica Arco-baleno di latta smaltata, confessa che la conclusione deisuoi affanni deve esser rimandata al futuro, «con unnuovo batter d’elica, o Savinio, noi alimenteremo lenostre esplosioni logiche. | E le nostre pienezze appari-ranno presto in vetrina coi pesci falsi e con gli uccelli dizinco e caucciú».

Arcobaleno dialoga con De Chirico, e non solo persuggestioni compositive: è un dialogo di posizioni e dun-que un rimandarsi di avvisi e di anatemi. Stia attento chicerca la pluralità e la varietà: la sua non è semplicecuriosità ma tendenza a decomporre ed a spezzare, e«decomporre non è creare»; le esplosioni logiche devo-no assumere un valore, costituirsi come correlati fisicipersonali, e attraverso l’appartenenza esser «nostre» equindi esser «pienezze». Anche Carrà usa il consuetoinventario della poesia di De Chirico, vetrine, pesci euccelli, caucciú e zinchi, latta e smalti. Ma non costi-tuiscono varietà quanto variopinta famiglia. E non è ilsolo elemento di discrepanza a parità d’uso di elementicompositivi.

Il dialogo, o confronto di posizioni che sia, non siaffida solo a situazioni indirette: nel caso del Frammen-to di Carrà è evidente il gioco ad incastro con una com-posizione di cui abbiamo già discorso, Villeggiatura di DeChirico. Là si parlava di un metafisico in maglia rosa,

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qui compare un manichino in maglia color limone: l’in-dicazione di un personaggio-segnale comune come que-sto è segnalazione di un territorio che vede insieme i dueautori, le conseguenze saranno le piú diverse.

Segnaliamo intanto un elemento di decifrazioneimportante: in ambedue i casi si tratta del clown, delsaltimbanco; il manichino carraiano è l’acrobata, il gin-nasta, spicca il volo grazie ad una bicicletta che defi-nirà «metafisica», opera in condizioni di agilità e tra-sparenza. Come scrive Carrà, ha agilizzato il corpoermetico. Siamo cioè di fronte ad un personaggio topi-co della tradizione europea, simbolista e fumista, daBaudelaire a Laforgue, che ha le sue brave continuitàitaliane, da Soffici a Palazzeschi. Ed è proprio in que-sto ultimo segmento della vicenda che i due testi diCarrà e De Chirico vanno riportati. Il clown o saltim-banco nella tradizione otto-novecentesca rappresenta lafigura della trasgressione e dell’eversione dai ruoli tra-dizionali dell’artista: rappresenta l’artista moderno chesi identifica in un personaggio che, tra lievità e spre-giudicatezza, sfida le leggi consuete per porsi in unaverità non codificata e diversa. In ogni caso oltre lasolita immagine di artista. Proprio Soffici dedica alclown alcuni versi nella raccolta delle Simultaneità editenel 1915, parlandone come di un «ultimo dio inmaschera sur un filo | teso fra il principio e la fine | suquesto nero gorgo di umanità che domanderebbe ilbis». E in una prosa ben nota a De Chirico e Carràcome i frammenti poi raccolti nei Primi principî di un’e-stetica futurista, contestuali anche per tempi alle com-posizioni dei due «metafisici», ribadisce l’importanzadi una simile investitura figurativa. Il clown vi è pro-posto come «una rivelazione di libertà, uno scopritoredi novità», una sorta di demonio capace di creare perproprio conto un mondo, fatto di meraviglia, che dovràsostituire quello attuale e presente. È fantasmagorico,

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multicolore e leggero, ed ha «per verbo animatore unafreddura e un calembour»: soprattutto è caratteriz-zante che il significato occulto delle buffonate con cuis’esprime «sarà il sostrato stesso metafisico, scettico(scetticismo attivo) e ironico dell’opera futurista» (e quil’aggettivo vale nella sua forma piú semplice, si riferi-sce all’opera del futuro e che impegna al futuro l’arte).Con un avvertimento ulteriore, una volta identificatoil piano metafisico che sgorga dal lavoro e dall’esseredel clown: acrobata, manichino o ciclista, altro non èse non «un operatore simbolico le cui parole ed atti pos-sono rappresentare un’attitudine dello spirito, tradur-re visibilmente un principio metafisico», e come tale sadestare l’ammirazione o magari l’invidia di un veropensatore.

Riconosciamo il personaggio di Villeggiatura e quin-di l’invito ad agire che De Chirico ha messo in eviden-za. Per Carrà ci sono altri attributi, e, intanto, il clownnon associa integralmente l’io dell’artista; «sono asse delcentro», «sono palla di granito», «sono verticalità»,proclama Carrà cui la solitudine del saltimbanco sullascena della conoscenza pone qualche problema: ed ecco,a fargli compagnia, il cuculo sull’albero. Non un ogget-to, oggettivamente autonomo, ma una creatura che dia-loga con il poeta, a suo modo.

Nella composizione di De Chirico il metafisico inmaglia rosa, cioè Carrà, è in positura passiva, si com-piace della situazione e della scena; lui, De Chirico, èall’erta, è in veglia, ed è ben pronto a muoversi e adagire. La contrapposizione è netta: la fatalità dell’oracome occasione, la solitudine come definizione di auto-nomia degli oggetti e dialettica delle conoscenze e degliesseri, cioè la visione metafisica, generano azione, inVilleggiatura: la tensione dell’ora e la rivelazione dellecose si incentrano solidamente sul nucleo figura dell’io,e determinano una potente attesa di armonia, sintesi ed

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unità, in Frammento. Per Carrà metafisicità è tensionee sospensione, «le forme precise dell’armoniosa pro-porzione fanno grata unione con le cose e con i desti-ni», come altrove il pittore teorizza in nome di unamore universale che attrae ogni particolare e lo dispo-ne in rivelazione. È il punto in cui è possibile strappa-re la materia alla sua bruta pesantezza quanto «incar-narla»; ed è il momento in cui «le crisi di ascensione delnostro spirito» fatalmente, misteriosamente (metafisi-camente), trovano un ordine: «oscuro è il principio chepresiede ad un atto di spirituale volontà, ma noi sap-piamo che bisogna tener conto di tutte le immersioni,anche quelle fugaci». L’oscurità del principio, è datointendere, detta legge, ma l’affidarsi ad essa in totalitàchiarirà per forza di plastica realizzazione la realtà chele è propria. Dunque non un piano conoscitivo, è un’a-zione conoscitiva, ma l’affermazione di una concretez-za di realizzazione. L’invisibile, l’interiorità dei corpie delle cose, il rovello astratto di pensieri hanno ugua-le densità e forza, immateriale, della materialità delmondo. Non dunque una intuizione del mondo ester-no «soprattutto intellettiva», o meglio «cerebrale»come proponeva Savinio.

Nessuna alogicità, soprattutto: «io sento di essertutto legge e non semplice rendez-vous degli elementi».Ma Carrà deve anche confessare che «di noi due non siè ancora diventati uno – quel uno che non è piú io e nonè piú natura». Non siamo ancora al punto che Carràauspica nel Quadrante dello spirito: l’arte allarga la miaindividualità, vi si legge, «non sono io nel tempo, è iltempo che è in me». Allora, e in nome dell’arte, l’oriz-zonte sarà un universo di segni: tutti «alla stessa distan-za come su di un unico piano regolatore».

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Il romanzo di Savinio

E intanto continuiamo ad intenderci come

due colombi (io, per me, preferirei comedue falchetti affamati e rabbiosi, perchécredo che al mondo quanto meno ci siaccarezza e quanto piú l’un l’altro ci sidifferenzia altrettanto piú si opera sodo evigoroso).

boine a Papini, 1908.

Sulla «Voce», che ora dirige De Robertis, Savinio hacominciato a pubblicare poco dopo l’approdo in Italia.Inizia con un brano per piú versi sintomatico, La realtàdorata, che piace subito a Cardarelli, «è un ottimo tem-peramento», scrive a Papini, anche se gli dà fastidio uncerto tono alla Nietzsche della Gaia scienza. Il branoparla di arte e di storia moderna, della guerra in corsoe delle conseguenze sull’arte come sulla stessa vicendacontemporanea. La chiave è quella del non abbandonoai fatti dell’ora, del riserbo di fronte ad una realtà chericava il suo esser dorata da toni ed opinioni piú lonta-ne e piú larghe, della consapevolezza che ciò cui si par-tecipa per esser ragione d’intelligenza chiede altri para-metri. Savinio disegna una sorta di palcoscenico da cuil’uomo del futuro è chiamato a lanciarsi come in unadanza. Il tema, se si vuole, è che il presente non è taleche nel gioco di profondità del passato che spinge alfuturo. La «realtà dorata» impone un programma:

la sola vera nostalgia pel dolce dolore nostro e la nostraardente felicità, ci deve dare in preda ai fantasmi. Ai fan-tasmi consolatori, ai fantasmi che passeggiano al sole e neiluoghi chiari, ai fantasmi che sanno toccare i prediletti congesto cosí dolce che pare benedizione.

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C’è una scena, un ambiente per tutto questo, che, aprima vista, evocando meccanicità e metallicità, sembrainverar situazioni futuriste: ma il parallelo con i modi deimarinettiani è illusorio (pur con tutta l’attenzione diSavinio per i futuristi: perché è ironica la frase per cui«è fatale che ogni uomo che non sia sciocco sia un futu-rista» – futurista è l’uomo dedito al futuro e ad essoattento). Alle prese con la distruzione di ciò che è trop-po umano, Savinio usa meccanicità e metallicità comesostituzione oggettiva della soggettività psicologica edella emotività: l’oggetto da rivelare è altro, è quella chevien chiamata la (o una) «spiritualità». Spirituale è l’in-clinare ai gusti della profondità ed ai sapori sotterranei,una intenzione verticale e non orizzontale: ed è ancheun modo per entrare in confidenza col mondo, peraggraziarselo e per aggirarvisi con la dimestichezza di chivi è buon ospite, cosí da avvalersi di quella profittevo-le intimità. La distanza che la metallicità introduce e lospaesamento che ne consegue sono ottimi viatici: ilnuovo, il futuro, è raffigurato da un oggetto che è per-sonaggio e simbolo, una figura totemica, la strillante effi-gie del dio della guerra elaborata dagli artisti del Daho-mey: un «uomo di ferro» che sembra il diretto antefat-to del manichino dei quadri metafisici di De Chirico, siaper la logica estranea di un oggetto-personaggio, sia peril modo di sintetizzare una situazione in figura. Vale lapena ricordarlo questo «uomo à la coulisse, l’uomo reli-gioso che si dilania il petto d’onde schizza la folgore el’ombra, ed il cuore fiammeggiante», perché raffiguraquella complessa realtà percettiva e conoscitiva, quellaricca e contrapposta logica con cui alla realtà baderà ilprotagonista degli scritti successivi che Savinio racco-glierà in volume nel 1918 sotto il titolo (non ambiguo,a questo punto) di Hermaphrodito.

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L’uomo di ferro, smisuratamente grande, sarà foggiatoda tutto ciò che il mondo che vive (e tutto vive!) potrà for-nirgli di piú tagliente nella sua passione e nel suo mistero;e verranno gli ortopedici e verranno gli ottici, e verrà la cal-lifuga vaporiera di Stephenson e di laggiú l’America ci man-derà delle macchine strane che cammineranno sull’Atlanti-co con antenne d’acciaio; e, viventi e leggiadre, verrannoda sé sole, le rotelle e i gomiti articolati; ed i pettorali dilatta e di zinco, e gli oggetti di metallo dal canto stridulo,e gli spettri di statue, e i fantasmi di cera, e poi gli intesti-ni simili a motori complicati; i polmoni, i cuori rossi, comefiamme di raso; e i frammenti di cielo duro e risuonante alcozzare delle palle di vetro pieno; e il sangue [...] Tale saràl’uomo di ferro nella sua esistenza muta ché gli mancheràil dolore, la passione, la fede.

Questa topografia di condizioni conoscitive ed ope-rative (per ora l’uomo di ferro che guarda agli avveni-menti con cuore e mente collocati su un’altra riva e conl’intento di destrutturare la realtà per rivoltarla su altredimensioni di pensiero e sentimenti) prefigura la condi-zione di un ermafroditismo della pagina in cui sensidiversi, e sensibilità disgiunte, permettono una com-plessità di visione nuova, inedita, degna di una capacitàdi porsi al futuro, anzi di realizzarlo. E come l’uomo diferro agisce e procede, cosí il protagonismo registrato inHermaphrodito sarà dato da una serie di azioni – stili-stiche, linguistiche, di scrittura – che non chiudono lapagina in uno sperimentalismo tecnico o formale o lin-guistico, ma, per quella via, la riempiono di ragioni, disentimenti e contenuti. In questo senso, intanto, il librodel 1918 è un romanzo, cioè un libro articolato e dispo-sto lungo una certa curva interna, in rapporto, destabi-lizzante, con la cronaca, con una certa intenzionalità nonsolo di pensiero.

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Perché Hermaphrodito non è la raccolta di una seriedi pagine sparse variamente composte fra il 1916 ed il1918, e che corrispondono a momenti successivi di vita«di guerra» di Savinio, dai mesi di Ferrara alla succes-siva fase di trasferimento, lontano dagli amici, a Salo-nicco, dove il soldato Savinio va in qualità di interpre-te. O, a voler essere piú esatti, le pagine varie che il libroraccoglie non sono state via via scritte con l’occasiona-lità che stringe ogni scritto in un frammento chiuso insé e di per sé significativo.

È vero che il libro pare rifiutare una delimitazione digenere. Papini, che lo recensisce subito, spiega come siaimpensabile per il libro ogni spalliera di rettorica o diestetica: ma questo non gli fa sfuggire calcoli ed inten-zioni che nel testo non mancano. Il punto è nella con-cezione mistilingue e mististilistica del lavoro, che nonha nulla dell’avventura sperimentale, se per sperimen-talismo si deve intendere un processo di ricerca e diapprossimazione, di cercare per trovare. In Savinio,come mostrano gli scritti su «La Voce» fin dall’inizio,c’è un mondo definito, i fantasmi cui si affida sono per-sonaggi certi di un mondo certo, per quanto esso appaiaaltro dal mondo ricevuto e dai personaggi che la logicad’ogni giorno mette in campo. Se mai si tratterà di unparticolare sperimentalismo, per il quale il linguaggionon è un dato strumentale a disposizione della volontàdi chi l’adopera: il linguaggio, qui, nel suo assieme dimolte lingue e situazioni, è un «curioso fenomeno» essostesso che si presenta «come una flora misteriosa chebutta le sue ramificazioni tutt’intorno sopra gli invisi-bili paesaggi dell’aria». È un’illusione, scriverà poi Savi-nio, pensare che la sorte delle parole appartenga a chi leusa e per i fini che gli interessano: il pensare cosí le paro-le, è un modo di guastare e sconvolgere inconsiderata-mente ogni ordine ed è un indizio di buio fitto. Perchéogni parola è un enigma, va usata con intenzione e posta

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con intendimenti sagaci, cosí da riflettere una lungaconnessione di significati, e da divenire astuta e spiri-tosa:

perché noi opiniamo che non ci si deve fermare esatta-mente alla figura espressa dall’aggettivo profondo; perchéla parola profonda, sia che abbia soltanto i proprii e preci-si significati, cioè grammaticali e di vocabolario, sia nellemolte e varie significazioni che eventualmente e per impo-sta volontà dello scrittore fanno cumulo in essa, scende nonsolo nei giacimenti fissi del passato, ma penetra ancoranegli spazi tuttavia incomposti del futuro.

Sono affermazioni che Savinio affida, poco dopo l’u-scita del libro, ai fogli de «Il primato artistico italiano»e in cui non sembra estranea la preoccupazione di defi-nire meglio ciò che del libro non è stato inteso. Parla,ad esempio, di un Ritorno ai simboli; dove il simbolo èinteso come segno e presagio insieme, cioè come «modimediante i quali le singole parti si appalesano a noi, rive-lando e presagendo l’esistenza della totalità medesima»,e la totalità altro non è se non il cumulo dei fondamen-ti che stanno a reggimento dell’universo e della vita intutte le conseguenze empiriche e trascendentali. Artesignifica, a questo punto, qualcosa che trae la sua ragio-ne prima da quei fondamenti, e in questo senso sovra-sta la filosofia, perché tocca all’arte indicare le immen-se zone aperte dall’intuizione in un punto lontanissimo,e tocca alla filosofia colmarle: si tratta, in ogni caso, dipunti che si collocano al di là di ogni ragionamentocostituito e preesistente. Dunque, arte come espressio-ne metafisica universale, e stile come strumento diespressione di un particolare «stato»:

e perciò con quanta piú perspicacia il carattere di questostato sarà penetrato dalla mente dello scrittore, e, quindi,

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quanto piú, per lui, tale stato, da carattere ineffabile si ras-soderà in sostanza precisamente manifesta, tanto piú fortegli si imporrà il bisogno di conferirlo mediante la forma arti-stica, e tanto piú assidua gli si imporrà la ricerca dei mezzipiú acconci a determinarlo e ad esprimerlo.

L’insistenza su un momento in cui intuizione e statosiano prima di tutto condizione personale dell’artista,aiuta a comprendere un carattere primario di Herma-phrodito come romanzo di esperienza. O, se si preferi-sce usare il linguaggio dello stesso Savinio, come unlibro di prosa per eccellenza: come Alcools di Apollinaireè un libro di poesia e nient’altro, un libro in cui la poe-sia rivela se stessa e la propria funzione, in cui sono rac-cordate tra loro tutte le virtú moderne. Non si affatichiil lettore a cercarvi verità logica o psicologia, perché quellibro implica, maturato e frusciante, tutto il sensoriodella sublime imperfezione della vita, nel suo intimo piúepico, poetico, drammatico. L’avvertimento di Savinioper Apollinaire va girato su Hermaphrodito: «la fatalità,decapitata dall’idealismo cristiano, ridecapitata dal pseu-doeroico ritorno pagano, ha ritrovato finalmente la suapiú gioconda rinascita in codesta scempiaggine univer-sale che ha la nudezza della santità e il rigoglio di cen-tomila sensi».

Hermaphrodito ha un sottotitolo ed una frase d’aper-tura che converrà ricordare: il primo suona «Microsco-pio-Telescopio-Concerto» (i due strumenti indicano dueviste o sguardi corretti, in piccolo o nel vasto, rispettoallo sguardo consueto; ovvero un dentro ed in profon-do, ed un vasto ed in ampiezza; il concerto si riferirà allacomplessità linguista con cui il libro è eseguito). L’altradice: «Quello che chiamiamo la modernizzazione dellavita, non è che una continua e sempre piú grande com-plicazione demoniaca» (ed è una autocitazione dai Cantidella mezza-morte con cui il libretto si apre). I capitoli si

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susseguono secondo una cronologia di apparizione inrivista, ed, evidentemente, di stesura. Al dramma dellacittà meridiana (con la annotazione Por la gracia de losfantasmas: e compaiono i temi dell’urbanesimo della sor-presa e della sconosciuta voluttà delle apparizioni, conal centro un Journal des voyages quotidiens ritmato dallaconstatazione «Ah! l’insupportable malédiction de la viebourgeoise!...») seguono due note politico-liriche, unasul Risorgimento come epoca anteriore al presente cuiattingere una diversa nozione della dimensione italiana(«Italiani miei fratelli, all’erta! Una tragedia si compie.Dormite l’innocente sonno, ma i consanguinei nostrimalefici passano rampanti su di voi e vi contaminano,come delle testuggini dall’orina velenosa»), l’altra uncommento al libro di Missiroli, Il Papa in guerra («Nellaplacida uniformità della mia vita raccolta tutta entrocerte mie sfere particolari, dimenticavo persino l’esi-stenza d’un Pontefice, d’una religione militante, contutt’i susseguenti problemi pratici, sociali e morali»). Poiun omaggio a Ferrara, aperto da Il signor Govoni dormedi De Chirico («Piacemi – annota Savinio – preludiareal mio canto cittadino su Ferrara, con questi versi d’unpittore che il destino porrà fra i maggiori dell’epocanostra»), ed un commento al tema della guerra («Laguerra, fatta, compiuta, ordinata, stilizzata, il diverti-mento finí, tutto si rinfoderò nella primitiva guaina; ela folla si raggomitolò nella sua rinocerontica apatia. |Che cosa potrebbe risvegliarla? – l’opposizione alla guer-ra: – la pace... La guerra moderna è come la pittura deipreraffaellisti inglesi; come la letteratura di André Gide;come la musica di Schönberg... null’altro che santa e tre-menda fatalità»). Segue Dio-ruotalibera («ora che le cam-pagne son deserte | le città piene di demoni | le divinitàtutte cittadine ... lancio la piroga vogando via alla diste-sa a gran forza di pagaje, siccome un crik ebbro di acqua-foco»), Il rocchetto di Venere, Un bagno russo («L’adul-

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to dormente piglia un aspetto fra il tragico e l’affatica-to», protagonista è Soffici «imagine di Mercurio onei-ropompo»), Atlas, un omaggio all’Italia, Ferrara-Parten-za, La festa muratoria (andare oltre l’immagine dell’uo-mo, costruire «anatomie altissime»), un gruppetto dipoesie («E dolce mormoravano | Le memorie s’abbrac-ciavano | Ché solo t’ho vegliata | mia dolce eternità!»),e il racconto fantasia, che chiude il ciclo ferrarese, Isa-bella Hasson.

La seconda parte è dedicata alla partenza dell’argo-nauta in lento viaggio verso Salonicco, ad un Epilogo ead una orazione sulla casa costruita e che Savinio nonabiterà («Sul mondo mutante e medesimo, la mia casanon rimarrà, fra le case degli uomini»).

La mente dell’uomo, sotto la spremuta dell’inquietudi-ne, si pone in movimento rotatorio e lavora velocemente.Cosí fa la mente mia, in quel momento, ma, poiché essa èuna mente letteraria, lavora a fucinare immagini – secondogli usi della bestia intellettuale: mi vedo Pietro Micca nellapolveriera, mi vedo brigante sardo accerchiato in un covodi núraghe, mi vedo amante adultero rimpiattato nel sot-toscala... Fregolinata ideale che si svolge nel battito d’unsecondo – poiché lo spirito, in simili circostanze, percorrevelocità fantastiche in ispazii incalcolabilmente brevi – asimiglianza di quanto può fare nello stato di sogno ove, nel-l’infinitesimo attimo, è capace di compiere un triplice cir-cuito di questo e di altri mondi – stando alle teorie svilup-pate in due volumi che trattano severamente di fenomenionirici: voglio citare Los Fantasmas (spagnolo) e Phantoms

of the living (inglese).Quello però che segna la superiorità dell’uomo sulla

restante fauna terrestre, è la sacrosanta curiosità – quelmagnifico prurito del perché? che aiutò cosí l’uomo dell’etàdel ferro come pure seguita ad aiutare il batteriologo chinosulla spera del microscopio.

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«Libro di prosa e basta», Hermaphrodito è il roman-zo, anche, o soprattutto, di chi sa gestire la prosa enella prosa giungere ai fondamenti. Quindi romanzodella scempiaggine, perché rivelerà che il mondo ha tuttii significati, tranne quelli che gli uomini dànno alla paro-la significato. Ma anche romanzo di una stagione, diquella che De Chirico ha chiamato una villeggiatura. Edermafrodita è la stagione dell’attesa, in sé conclusa, ma,per le sue caratteristiche, ricca di poesia. Lo stesso Savi-nio scrive, a proposito di Mozart fanciullo, che l’infan-zia, la stagione delle attese, brucia e si perde quando l’e-ros si definisce come specifica funzione, ma trae dal suocarattere ambiguo e indeciso una vita bianca ricca dipoesia.

La guerra, la villeggiatura, come momenti di scoper-te indecise e quindi capaci di riflessività e sdoppiamen-to, la guerra come equivoco che porta altrove i nostrieroi, la quotidianità come assieme di equivoci, e cosí via,la città che si sdoppia fra mito e irrefrenabile natura-lezza, le suggestioni poetiche miste a barbarie, l’erosconnesso agli errori di linguaggio. Fino al finale in cuil’eroe del racconto si trova a fare i conti con una casache non abiterà, una casa costruita secondo quanto dipiú intelligente e antiborghese la grazia personale possainvocare, l’ordine quadro (è invece borghese l’ordinefondato sulla banalità di curve circoli e rotondità, di evi-dente estrazione naturalistica). A quel punto ogni cosaricade su se stessa, si mostra senza sviluppo (il destinodel metafisico non è certo abitare la casa o ritrovare inessa il padre, come quello di Savinio soldato non è certotrar materia dalla realtà bellica). Come affermava DeChirico, nel suo accumulo di frammenti, non solo sitratta di superare una soglia, ma di portarsi oltre: nonesclusa una soluzione radicale in quanto figura d’artista.E Savinio si muove in armonia:

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negligo la bestialità d’esser forte e salgo sul trapezio per l’e-sercizio finale: che si chiuderà in dramma... il giocoliere-equilibrista, stretto nel rosacarne della maglia aderente, sistaccherà dal firmamento fulgido del circo e, con un prillotragico, piomberà nella segatura della pista...

Se si tien conto che per Savinio altro dramma non sidà se non quello della potenza delle parole e del loroscontrarsi, la figura finale sarà un addio alla ricerca let-teraria come tentativo risolutivo attraverso la parola. Igiochi sono altrove, come altrove si collocano i fonda-menti e con loro la «realtà dorata». Fare, agire, oppor-si ai luoghi comuni e indicare vie o soluzioni utilizzan-do la parola porta al naturalismo, al bisogno orizzonta-le di espansione, al pompierismo artistico. Ció che urgeè ben altro, bisogna «poggiare i piedi» e ritrovare la piat-taforma che sorregge l’uomo e le sue esperienze: saran-no episodi centrali del libro la scoperta della comunitàebraica di Ferrara col suo rigore di spirito e la terribilearidità che lo informa, lo stimolo che viene da uominidal cammino impossibile e dalle enormi tristezze; ed illungo viaggio verso Salonicco, fra pigrizia del corpo esfrenamento della mente. In ambedue i casi la tristezzae la noia, con i loro risvolti rivelatori: lo scontro con l’e-nigma, perché enigma è ciò che ora non ha senso e nonha possibilità di essere, la morte, la lontananza e l’atte-sa. Solo gli sciocchi prendono ascensori che portano allefonti dello spazio e del tempo: la «metafisica» degliartisti non ha ragioni religiose e non è una mistica:l’«eppur si muove» non appartiene a Galileo, se mai valeil contrario, è Galileo ad appartenere all’«eppur simuove». Di fronte ad un simile stato di cose ci sonodoveri che trascendono didattica e convenienze verso ipropri contemporanei: le esigenze dell’età sono gravis-sime, occorre muoversi verso la città inquietante. Per-ché chiamarla cosí?

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Perché effettivamente... No, forse non per altra ragio-ne che perché quella frase mi nasce naturale e, nata, mipiace e l’adotto, ché parmi possa far bene come titolo di unlibro... che probabilmente non scriverò mai.

«Je suis un dieu détrônisé»

I canzonieri di De Chirico e Carrà appaiono parzial-mente in rivista, ma per la piú parte restano fra le cartedei loro autori; Savinio approda ad un suo libro; De Pisisè il piú prolifico nello scrivere e il piú sistematico nelpubblicare. Sono, le sue, plaquettes, opuscoli e libretti,e rappresentano esperienze diverse, asistematiche, diun giovanissimo che ha presto un modo suo e attese pre-cise. Accanto ad omaggi alla poesia locale, sull’esempiodi Govoni, ci sono in queste pagine letture voraci, i post-simbolisti francesi ed i classici d’oltralpe, le traduzionida Wilde e da Nietzsche, le letture di Papini e Soffici,l’attrazione non solo di scrittura per Pascoli (su cui a fineanni ’10 si laureerà a Bologna). Sappiamo anche di sti-moli dall’ambiente dei teosofi e di misticismi di variaprovenienza, probabilmente su suggestioni che gli ven-gono dalla sorella, una straordinaria figura di cultrice dilettere ed arti e di sofisticate aperture culturali (è lei cheabbandona il nome familiare dei Tibertelli per firmarsicol nom de plume di De Pisis assunto dalla genealogia dicasa: il fratello le terrà dietro, o vi si mescolerà se tuttolascia pensare che l’opuscolo teosofico comparso nel1919 sotto lo pseudonimo di Maurice Barthelou, ed iltitolo de Il verbo di Bodhisattva, sia redatto a quattromani). Appena ragazzo ha stampato nel 1916 I cantidella Croara, che l’han fatto conoscere in un ristrettoambiente intellettuale e a Ferrara gli han procurato l’a-micizia di Savinio e di De Chirico; poi Emporio, l’im-portante Mercoledí 17 novembre 1917, l’autobiografia

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appena mascherata Il signor Luigi B., le Prose del 1920,e, infine, per quel che ci riguarda, La città dalle centomeraviglie, che gli stampa, nel 1923, Anton Giulio Bra-gaglia a Roma. Opere preziose, dirà poi amareggiato lostesso De Pisis, destinate, per fato immutabile, a rima-nere del tutto incomprese ed a passare sotto silenzionella cultura del primo dopoguerra: ed opere cui non atorto il loro autore attribuisce un’importanza particola-re, dal momento che rappresentano la creazione di unasituazione nuova, «metafisica», sul fronte letterario.

La caratteristica di queste raccolte di pagine sparse,di appunti, di composizioni varie, è l’apparente occa-sionalità e casualità: c’è invece un andamento che fa pro-pri occasioni e momenti, situazioni, punti d’osservazio-ne ed emozioni per sistemarli in modo adeguato, oltre ilimiti momentanei, che ne sono però anche l’accensio-ne e il particolare splendore nel paesaggio quotidiano. Cisaranno perciò vari fili di continuità, e il maggiore e ilpiú attentamente vagliato è quello personale, biografi-co, tutto iniziative, attenzioni, cadute e atmosfere. Tral’eroicità di chi affronta la realtà e con essa si misura el’antieroismo di chi di fronte al reale assottiglia la presaper transitarvi oltre e lasciare indenne un personaleapporto, si celebra un io estetizzante e raffinato che haun gusto evidente per il bel gesto, per l’attrazione mini-male e per il trasognato e il surreale, per l’apparizioneed il fantasmatico. A tutto questo fa da risonanza e dacontrocanto Ferrara, lo spleen della vita di provincia inletargo e dell’incomprensione alla diversità e alla ricer-ca di cose altre o di sentimenti non scontati, e l’avven-tura in un luogo che si svela ideale per solidarietà d’am-biente, ricchezza di spazi e ampiezza di conquiste intel-lettuali, in una viscosità di meschina vita quotidianafatta per tarpar le ali a iniziative ed attese. Fra l’ioacuto e teso e l’ambito pronto ad assorbire e mortifica-re, ecco nella Ferrara della formazione depisisiana l’ir-

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rompere degli amici artisti, il loro lavoro in sintonia conle attese del giovane, gli scambi di esperienze e la pos-sibilità, che De Pisis sente di avere rapidamente con-quistata, ad una presenza sua autonoma che dà i suoiapporti al gioco di relazioni. Esteta e moralista a suomodo, fin dagli inizi De Pisis ha chiara la novità dellastagione in cui si trova ad operare: emozioni situazionirivelazioni non sono piú, come per le generazioni pre-cedenti, temi o soggetti letterari, lenocini rettorici, for-mule o atteggiamenti. La sequenza degli opuscoli e deilibri che pubblica è percorsa da una volontà di disso-ciazione, empiti lirici, riflessioni, sguardi sono (odovrebbero essere) altra cosa da abitudini, comporta-menti o cifre retoriche, devono disegnare un ordine eduna figura impregiudicata rispetto a queste maschere edaprire un modo d’esperienza che non può non ricaderesull’autore, ma come personaggio nuovo e sperimental-mente vitale. È quell’orizzonte sfuggente ma obiettivoin cui De Pisis intende iscriversi senza racchiudersi nellaforma dell’opera, nel confine della pagina, nella perfe-zione dell’aforisma: è una situazione, a cui mira, tantoillimitata quanto globalmente assorbente. La città, luogodi simpatia emotiva e intellettuale piú che radice ourgenza di continuità, è divaricazione e spaesamento,riconoscimento e punto di partenza, ma è anche la pre-cisa materia di vita e di lavoro da offrire al lettore, agliamici artisti e a chi sappia intendere per segnare conforza la concretezza del lavoro. È il Leit-Motiv dellibretto delle Prose, una sequenza di pagine redatte frail maggio del 1917 ed il settembre di due anni dopo, checomparira nel 1920.

È il libro della definizione di un mondo e della matu-razione dello scrittore: compaiono gli amici artisti (ed iltema dell’amicizia come sostanza di comunicazione vivatra addetti ai lavori è decisivo), la città come mondo chesi prolunga nella natura adiacente e se ne fa risonanza,

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la delusione della vita d’ogni giorno e lo sforzo per cor-reggerne il portato, uno sforzo che trasforma il giovaneesteta in un letterato di respiro nuovo, l’indifferenza deicoetanei che spengono cosí ogni arditezza di ricerca deimigliori, il pragmatismo di De Pisis che richiama a daticoncreti operazioni e sintonie perché non prendano lavia di un argomento poetico o di un contegno puramenteestetizzante.

C’è un risvolto di qualche interesse di cui la letturadelle Prose deve tener conto. Il libretto dialoga con unacondizione culturale cittadina irrimediabilmente votataa chiusura e a ristagno. Lo stesso Govoni, che ha avutoun ruolo decisivo per le convinzioni depisisiane, è sullavia di un drastico ritorno all’ordine. Ha raccolto in unaantologia di Poesie scelte la piú parte del suo lavoro dipoeta compiendo un preciso lavoro di ripulitura dallepunte piú acute e sperimentali e dalle ricerche piú aper-te. Un gesto di adeguamento alle predilezioni afferma-te e a certi temi, non solo locali, di buon gusto artisti-co che ovunque si vanno definendo, ed un gesto che saràpremiato da due edizioni del libro e da una discreta riso-nanza: ma non solo un atto di opportunità, se rispondead un’intenzione piú profonda dello stesso Govoni,come scrive a Papini convinto di aver risolte cosí le que-stioni piú delicate della sua attività di poeta. ProprioPapini aveva scritto che i versi di Govoni erano ric-chissimi di immagini belle ed anche nuove: ma non cen’è una, aveva sostenuto, che fermi per sempre la cosae la incateni, nel tempo, con una forza tanto maiuscolada non riuscire a disgiungere cosa e figura.

Non sappiamo direttamente che cosa ne pensi DePisis; sappiamo che reagisce al clima generale che si vaaffermando, che ribadisce certi esiti di poesia nuova daifuturisti in poi con l’affermare quanto di indetermina-to e vitale («carne e sangue», polemizza con Croce) si

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sta affermando e rischia di venire bloccato per sempre,rettoricamente. Per quanto riguarda Papini, giudice etutela del nuovo, ed i suoi drizzoni verso la fermezzadella poesia, non sarà di parere diverso da quello del gio-vane Montale, che, lette le note papiniane in tema dinovità della lirica, commenta: con tante arie di avveni-rismo e di innovazione Papini ha solo nostalgia delGrande, del Sublime, dell’Unità; vuole la Grande Artee si riempie la bocca di termini tanto radicali quanto tra-dizionali.

E non solo Papini o Croce preoccupano De Pisis, nonsolo gli intellettuali locali come Ravegnani, autore di un«appello neoclassicista» in cui se la prende con futuri-smi ed avanguardie, rei di dilettantismo estetizzante edi «gramaglie barocche di illogica modernità» e di«affetto cieco della forma esterna». Di lí a poco De Pisisdovrà avvertire i suoi stessi amici del rischio di un trop-po consentaneo serrar le fila di fronte ad un vero e pro-prio ritorno all’ordine quando ancora il fiore della nuovaarte non s’è schiuso e non ha superato la soglia delleintenzioni.

In una delle «prose», La mia città (che reca la data1919), l’ambivalenza del tema urbano, investito disimili questioni piú generali, si dichiara in tutta la suaportata:

la città dove sono nato, e fino ad ora, salvo brevi interval-li, ho passati i miei giorni, come si dice, è per me letale...È un fondo di palude che emette esalazioni mefitiche. Iosono come il povero cane che il custode spinge nella grottadi Pozzuoli per avere la mancia dai forastieri che lo osser-vano con lo sguardo vano, quasi pietoso... S’io resterò piúa lungo nella grotta non avrò neppure la forza di fuggirne.

Il volume seguente, La città dalle cento meraviglie, rac-coglierà un De Pisis che ha allargato il suo orizzonte, che

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da Ferrara è uscito per un’esperienza meno condiziona-ta ma che, al tempo stesso, non tradisce «i misteri dellacittà pentagonale» perché li inserisce in uno spazio d’at-tività piú libero.

Perché De Pisis va definendo un motivo che gli appa-re piú importante e decisivo. L’arte, afferma, ha molteanalogie con la vita; l’una come l’altra è indefinibile,sfugge ad ogni tentativo di determinazione e di conclu-sione formale; in ambedue regna sovrana la frammen-tarietà, di tempo e di situazione, l’attimo resta il termi-ne di riferimento piú vero, nell’attimo la vita come l’ar-te si affacciano con forza, l’acuminarsi dei sensi e la ten-sione del pensiero si rendono preziosi, l’occasione sicolorirà della luce della psiche e della misteriosità del-l’evento. In ambedue i casi la miscela decisiva sarà datadai sensi, dal pensiero, dalla accensione psichica e dalsenso di mistero che incombe. La vita e l’arte nonvanno, insomma, riferite ad una attività dello spirito,fatta di volontà estetica, cioè di invadenza di registripoetici e rettorici, e di astratti furori: la sottile presen-za di una latente realtà che sfugge e di una intimità fisi-ca che va oltre la condizione fisica va raggiunta ed iden-tificata con altri mezzi. E intanto non lasciata all’inde-terminatezza dell’indefinibile ma fronteggiata con mezziprecisi, di cui si conoscono i limiti, ma di cui si sa anchecome i limiti siano un modo responsabile per non abdi-care al proprio ruolo, particolare, di artista impegnatonella ricerca:

sento, quanto mai si può sentire, la relatività del tuttodavanti al mistero primo delle cose e so bene che uno squar-cio meraviglioso di lirica può valere meno, sotto un deter-minato aspetto, della testa di un fantoccio, ma è pur neces-sario, scrivendo o parlando come vivendo, tenere i piediaderenti alla terra e inclinando il collo al giogo dei valori

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relativi; aspetti diversi della materia e degli atteggiamentidella psiche umana davanti alla realtà.

Il testo poeticamente piú complesso in cui De Pisisriesce a definire il mondo lirico che viene realizzando èMercoledì 17 novembre 1917, un componimento che lostesso autore metterà alla pari con gli esiti piú sicuri diCarrà e De Chirico e Savinio quando farà il suo bilan-cio della stagione «metafisica». Può divinizzarsi un esse-re che è stato detronizzato della sua qualità divina?Può, «metafisicamente», approdare a totalità chi dellapiú radicale realtà conosce appena frammenti, bagliori,tensioni? Questo il motivo conduttore di Mercoledí, untesto ipnotico, insieme di abbandoni lirici e di apertureenergiche, di spasmi creativi e di ricercatezze letterarie,che tende a ribaltare la nostalgia per la totalità perdutain vitalismo decongestionato ed in totale adesione allapotenzialità piú effusa.

Se ad una lettura superficiale i cascami simbolisticisono le prime cose che appaiono in evidenza, ci si accor-ge presto come il loro utilizzo non sia casuale, l’uso dialcuni stereotipi sia in funzione di un riutilizzo diverso,in una energia nuova. È possibile cosí, secondo l’auto-re, ipotizzare un mondo in cui azione e sogno, volontàe sensibilità faccian tutt’uno e in cui parole e forme nonoppongano resistenza, si pieghino all’onda portante del-l’urto di un mondo ridisegnato. Se è con le parole cheil poeta lavora, è non meno vero che «le parole canzo-nano chi vorrebbe divinizzarsi», perché non sono leparole del divino ma semplici balbettati monosillabi, e«i monosillabi si rifiutano di metterlo in comunicazio-ne con i suoi simili».

Una condizione di solitudine e di miseria, entro laquale l’artista è chiamato ad un ruolo da negromante,come accade a De Chirico, direttamente evocato come

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«araldo dei sogni insognati delle fatidiche età minoiche,fulgidi porti insolcati della ricchezza preistorica di gioiesenza limite, di ebbrezze senza gradi di là dal misterio-so tempo dell’Est». Un De Chirico che fa da perno allavisione a trecentosessanta gradi e senza limiti di tempo,in un orizzonte senza limiti.

Nel brano non può mancare Carrà, accanto al DeChirico che De Pisis ha celebrato in uno dei suoi arti-coli come il realizzatore dell’attimo, colui che sa profit-tare del momentaneo, dell’apparizione, per costruirecon essa un caleidoscopio di immagini in cui si sovrap-pongono associazioni di figure e diversi sentimenti, eche porta avanti lo studio analitico della psicologia dellecose in modo da dare ad ogni oggetto il brivido della vitamoderna intensamente vissuta. Carrà è chiamato incausa con un non taciuto rimprovero: lui che conosce la«grande gioia dei corpi ultrasensori» comprenda infinecome le «camere metafisiche» siano in procinto di ani-marsi e in esse

De Chirico (l’amico comune) trasfigurato in fantomas bian-co, statua romanica, pieghe accannellate, testa ogivale-liscia,retina del tennis, palla quadrata, assisteva alla mirabiliadelle mirabilie.

Nella prosa ormai parossistica di De Pisis sembre-rebbe che il personaggio dell’Ovale delle apparizioni diCarrà sia lo stesso De Chirico, che situazioni quotidia-ne di vita ferrarese, «camere metafisiche» e tensionipoetiche mulinino assieme: una totalità senza distinzio-ni fra vita, opere, intenzioni, o meglio al di là, ormai,delle une e delle altre.

Né manca Savinio. Nello scritto su «Frara» città delWorbas quest’ultimo aveva evocato i poeti astratti suuna colonna altissima, annoiati dal peso dei secoli, inca-paci di capire che non di peso si tratta ma di una dila-

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tazione al passato che impone decisioni per il futuro. Èquesto Savinio quello che entra nella pagina depisisianacome artista che sa scrutare «con una effervescenzanascitura, sintomi dolcissimi pungenti di un amoreinspiegabile perché mai vissuto», proprio quell’amoreinedito che risale ora la «crosta stillante al buon calore»dello stesso De Pisis preso dalla volontà di una diversapresenza, totale ed indivisa, tutta da determinare.

La vigliaccheria troppo mi ha domato! Io ora insorgo,mi divinizzo... La piazza quadrata con la colonna alta nelmezzo! Noi l’abbiamo girata intorno precipitosamente e poici siamo fermati sotto la colonna a guardare in sú. Leimpronte delle nostre orme non restarono sul terreno, l’a-ria non solidificò le nostre forme e in tanti stampi, nulla simutò, ma noi eravamo dei potentissimi dominatori, dellamateria che passava che stava.

De Pisis è il piú radicale nel porre un’esperienzaattraverso l’arte e la vita ed oltre di queste: la partico-larità anche fisica dell’occasione, lo sfruttamento delmomento non porta ad un esercizio di conoscenza o auna volontà formativa, decompone corpi e pensieri e liripropone altrimenti rafforzati:

ecco il piano (piazza) quadro forse incomincia lentamentea girare come la roulette che sta per fermarsi. Bisogna domi-nare i propri sensi per non ricadere nel letargo del non esse-re (nel sonno). Veramente io non sento niente! Certo qual-cosa sta per spegnersi, per spezzarsi entro il mio cervello!La sfera che segna i normali atti della vita borghese, si stac-ca dal quadrante. Io mi smonto.

La fisicità, la corporeità che De Pisis richiama sonoalla base di una pagina assai notevole delle stesse Prose,dedicata a Carrà, in cui è rivendicato un guizzo di crea-

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tività che si pone nonostante le suggestioni della pittu-ra. Carrà su un «verde Paolo Veronese» ha dipinto unpesce di latta, un pesciolino d’argento sul verdecrudo«un pò barocco per certi opercoli decorativi e le squa-me largo embricate». Carrà vuole dipingere un pesce cheha perso la sua essenza di pesce, la sua personalità, ed èper questo qualcosa d’altro, un segno o una forma. DePisis commenta: «eppure chi lo vede dice: un pesce!...perché l’occhio sbarrato di questo pesciolino (anche piúdel verdeazzurro che mi è davanti) rincrudisce di den-tro il senso di vuoto, di eterno, di essere di nulla, di infi-nito?» Di qui la critica conseguente:

il pesciolino piccolo congegno della macchina eterna diacciaio per alzarsi alle stelle e distruggere l’universo; pergodere l’attimo di gioia di vederlo rovinare ad un tratto ...Ma cosí si distruggerebbe il mistero che è in noi?

(attimo primo in cui tu concepisci l’esser tuo e del tuttorispetto a te). Forse no... certo no... graverebbe su noi lostesso... Che ne dici, Carrà? tu diresti, «non esiste la mate-ria». Subsanna pure furbescamente, o predestinato o domi-natore Carrà; io vado a dormire.

La città dalle cento meraviglie è dedicata allo humor diHeine e allo spirito aristofanesco, e come diretto inter-locutore ha Savinio (se non lo stesso Hermaphrodito): visi evoca la sterilità della vita di provincia, salotto egalanterie, una topografia del tedio di colpo doppiata damomenti di intrinseca sensualità e da un clima favolosoed incantato. Una villa dai connotati quasi moderni sioffre in toni definiti medianici, nell’incanto di visionitesissime:

la villa sotto un cielo plumbeo restava inesorabilmente chiu-sa, per me, per tutti nella città pentagona. E io perché non

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mi trasformo in un mostro e non danzo nel vuoto ineffabi-le una danza graziosa? Le statue senza base lungo le vie del-l’irreale (una grande e deliziosa necropoli d’irreale certo èanche qui accanto alla città che i bipedi mortali vedono!)si rizzerebbero in piedi a guardarmi.

Dio detronizzato dalla sua possibilità divina, De Pisisconserva tensioni ed intenti da personaggio totale che inun diverso orizzonte di totalità è chiamato a collocarsiper le ragioni stesse (i fondamenti del reale) che deter-minano vita e sentimenti. Su questa scala di tensioni DePisis muove una serie variata di possibilità. Anche luicede alla malinconia (che non è mestizia o negatività, masentimento della vastità del mondo e della astoricitàdello svolgersi del tempo che obbliga ad utilizzare ilpensiero e a investigare le particolari connessioni cheuna simile condizione comporta), anche se preferisceaffidarsi ad una emozione che impropriamente chiame-remo fisica: è una simpatia per la bellezza, corpo e sen-sitività, che trascina, ed una realizzazione, sia puremomentanea, che attinge spazi assoluti. Ciò che apparedecisivo in queste pagine è l’invito a non confondere traesperienza sensuale o «divinizzante» che sia ed espe-rienza estetica, insomma tra vita ed arte:

noi... siamo costretti a scegliere una fede dinnanzi al miste-ro terribile o blando della vita, per sfuggire dallo squilibrio(= dolore) cosí a fissare certi punti fissi per una scala di valo-ri estetici, pur avendo chiara coscienza che la scala (sia inalto, sia in basso) è infinita.

Non fissando gradi e modelli estetici, investendo diassoluta relatività la pratica poetica, si schiuderà unanuova scena: tutto cospira alla ricerca di un’altra vita,quella che ad un certo punto De Pisis definirà la «nonvita», per opposizione all’inganno relativizzante e sen-

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timentale, ma alla luce di una responsabilità dell’arti-sta a non mentire sui limiti obiettivi di una similepotenzialità. «Vorrei che i miei occhi non conoscesse-ro che il buio perfetto! chi mi aiuterà a trovare il nonessere? Non mi sono ancora conciliato con le cose.Troppo le loro forme stimolano la mia sete di sapere:troppo il loro fatale aspetto rincrudisce il mio dolore»,scrive in un brano de La città; ma altrove segna confi-ni netti: «conosco anch’io non dubitate le estasi ine-brianti del sereno lirismo». Gli interni tenebrosi degliandroni cittadini, un venditore di scarpe femminili, iltono «oppiaceo» di certe atmosfere, l’arcadia provin-ciale costituiscono una sorta di labirinto «dalle centomeraviglie», un confine tra esistenza condannata adignavia e riscatto fantastico.

Ma il libro non è un trattatello di spleen provincialeo di urbanesimo rivelatore: è anche questa volta un’av-ventura biograficamente definita. L’accordo con gliintenti di Savinio è dichiarato fin dalla prefazione alvolumetto, sotto forma di Parole quasi patetiche all’ami-co lontano. Invece di cacciar farfalle, vi si legge, saràbene dare la caccia al proprio talento. Non siamo anco-ra al traguardo, l’avventura è in corso, ma il tragitto èormai disegnato, «beato me se avessi vinto la grigiamelma del facilonismo e delle miseriole e potessi ancheridermi giovialmente di tutto e di tutti», e cita un versodi Gautier, mes vers sont des vers de jeune homme. Lamaturità come punto di arrivo di una serie di eventi chesistemano le cose e come punto di partenza di una sta-gione nuova; al tempo stesso, la rivendicazione di «saperessere maturi». Era stato il messaggio contenuto in unalettera di Savinio da Salonicco, ed era il messaggio delviaggio dell’argonauta in Hermaphrodito. Ora, De Pisispuò chiosare: certo, maturità e certamente talento, mala questione resta di occasioni e di istanti, e di prepara-zione alle occasioni e di riconoscimento di istanti:

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se lo trovo sta sicuro, lo afferrerò nel retino verde di garza(me lo feci venire da Parigi quando tu ci vivevi amo pen-sare beato, e non mi conoscevi ... allora io chiosavo anchei trecentisti e pescavo codici negli archivi) da Les fils d’É-

mile Deyrolles, 46 rue du Bac, Paris (conosci questa strada?)e se lo trovo, lo inchioderò (il mio talento) con uno spillolungo e d’argento sul mio zibaldone.

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Capitolo terzo

Il dio ortopedico

Tutto appare fermo nell’atto, tutto questo andare ha una parvenza di immobilità.

È l’ora grande.saba.

«Era il 1918... in quel tempo cominciavo a preoccu-parmi dei problemi tecnici della pittura... mi resi contoche l’interesse di alcuni fra questi quadri moderni con-siste nel loro contenuto spirituale e non nel loro valorepittorico», annota il musicista Casella (e ci ricorda cosíche la presenza di una pittura moderna influenza inmodo determinante pensieri ed azioni di altri protago-nisti della scena artistica: i quadri di cui Casella parlasono quelli di Carrà, di De Chirico e dei loro amici). Èuna segnalazione importante, di cui tener conto.

Savinio è a Salonicco, dove trascorrerà i mesi fino allafine della guerra come interprete. Ha cercato appoggipresso gli amici per esser trasferito, ha interpellato Prez-zolini facendogli presenti le sue conoscenze, greco, fran-cese, tedesco, e pregandolo di intervenire. Ora, nellanuova sede, sente la lontananza di un ambiente che siafamiliare ai suoi interessi e alle sue esperienze, scrivelunghe lettere, per contenuti e per stile non diversedalle pagine che va ultimando di Hermaphrodito, parladi un comune ambiente di lavoro, della mancanza dioccasioni per chiarirsi. È il senso di sospensione di unciclo che volge al termine che si trova nel capitolo sul-l’argonauta in viaggio verso la Grecia che chiuderà il suolibretto. (Questo dell’argonauta, non piú esploratore

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senza limiti ma essere in sospensione entro gli avveni-menti ed in transito, è un tema che deve interessarlomolto se fa da filo conduttore a ciò che ora scrive e, altempo stesso lo induce a progettare un successivo librodi cui parla nelle lettere).

E dopo? Questo il rovello di Savinio, da un canto allavoro accanitamente («io lavoro moltissimo», scrive aDe Pisis), da un altro preoccupato per ciò che l’aspetta.«Il faut se démerder, perché il tempo nostro è preziosoe convien farsi una vita sugli avvenimenti», scrive aCarrà, e invoca amicizia ed aiuto, «datti un po’ daffareper me», «se ti mando uno scritto vorresti incaricarti dipubblicarlo?» Cerca anche identità, programmi di lavo-ro; «vedo in te (pittore e poeta) l’uomo che sa, che havisto, e che produce secondo questa percezione», dice aCarrà dopo aver ricevuto il catalogo della mostra del pit-tore a Milano a fine 1917 ed un opuscoletto che a Carràstesso ha dedicato Raimondi.

Il tempo e il sentirsi insicuro di fronte al lavoro ètema di molte lettere. Ancora a Carrà:

l’epoca delle grandi costruzioni di cui assieme si ragionavaè incominciata. Ne avevamo assai di piccoli periodi transi-tori, delle piccole ricerche affannose, dei turbamenti sen-suali; ora è tempo di produrre, di buttar giú, di innalzare ipiani e cimentare le pietre. È il tempo eroico che principia.Ora piú nessuno ci potrà dare del ladro ché abbiamo rac-colto materiali nostri e ci fabbrichiamo case nostre.

Le due sottolineature nella lettera sono di Savinio, esuonano con particolare forza. Quel noi, termine di pos-sesso di un’esperienza e termine di pienezza operativa,lo ritroviamo in testa ad uno scritto di De Chirico dipoco successivo. È il 1909, in febbraio il pittore cogliela sua grande occasione: può mostrare nelle sale di viadegli Avignonesi, in cui Bragaglia lo ospita, la sua pro-

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duzione. Non c’è un catalogo, ma De Chirico può direla sua, ed autopresentarsi, sulla rivista che Bragagliaredige, «Cronache di attualità». Il testo dechirichianoenuncia una personalizzazione fin dal titolo Noi metafi-sici (forse esemplato su un titolo analogo, Noi futuristi,che appare in testa ad un opuscolo di quei mesi): il sensodello scritto è nella priorità che vi viene affermata del-l’esser pittori, pittori che vedono ed agiscono in uncerto modo, rispetto ai discorsi sulla pittura. Il «meta-fisico» è chi sa che il mondo, la realtà immediata, il quo-tidiano non spiegano di per sé nulla, non danno unsenso, rappresentano dei segni che bisogna interpretareandando al di là della loro parvenza. Per dirla alla Papi-ni, il pittore è certo un pilota, ma un pilota cieco, chemanovra con una vista sua speciale. Solo un io cosícostituito, che ha raccolto materiali che appartengonoalla sua realtà e sa costruire le sue case, può agire in pit-tura, o, meglio, attraverso la pittura. Non che questosignifichi disprezzo per la realtà, gli oggetti e le perso-ne, precisa De Chirico: al contrario, «noi abbiamo san-tificata la realtà». E il senso dell’affermazione è evi-dente: sottraendo i segni del reale alle associazioni disenso piú ovvie e immediate, e facendo brillare la soli-tudine del reale, i «metafisici» possono guardare esplo-rare e cercare, possono rappresentare e raffigurare, conuna logica che non appartiene piú al dar senso alle emo-zioni o alle ragioni immediate: si tratta di mettere inscena la vita intellettuale e fisica con cui dietro le par-venze è dato valorizzare i segni e gli oggetti della vita.Il «noi metafisici» non poteva non avere, nel testodechirichiano, una esemplificazione in concreto, e DeChirico parla di sé. Narra come sia stato un poeta, Apol-linaire, ad intuire quanto di diverso ci sia nel lavoro delgiovane artista, e come lo definisca «sorprendente»;spiega come a Parigi abbia lavorato fuori corrente,rispetto a quanto si va facendo in campo figurativo.

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Perché gli altri guardano alla pittura come ad una realtàspecifica, mentre De Chirico si immerge nella vita, viscopre una spettralità, si interroga sui modi di figurarequella spettralità. Ha ripensato le piazze italiane comescena architettonica vissuta e come modo architettoni-co ordinato in modo da suggerire pensieri ed associazionifra pensieri ed immagini. E se insiste sulle piazze e sullacostruzione architettonica lo fa per segnalare la novitàdei suoi lavori: non vuole suggerire un’atmosfera rare-fatta ed immota, potrebbero bastargli per questo le natu-re morte e la loro vita silenziosa; vuole investire in modototale tutta la realtà, e per questo, classicamente, habisogno di un luogo pittorico vasto, spazialmentecostruito con un metro, anche monumentale, di largorespiro, ed ampi rimandi e intersezioni. Ci sono anchegli oggetti, ma la novità che in quei mesi ha visto pro-filarsi è di collocarli ed integrarli in un testo pittoricovasto, organico, e a partitura complessa.

Non solo le ragioni di De Chirico non sono compre-se (il solo De Pisis dimostra di aver capito quella ricer-ca di isolamenti plastici in un ordito figurativo organi-co), ma la mostra romana raccoglie stroncature radicali.La piú decisa è quella di Longhi, che si legge sotto untitolo sarcastico, Il dio ortopedico (il dio è De Chirico,evidentemente, ma è un dio di poco prestigio se si fermaall’ortopedia). Ed è uno scritto imbarazzante, per DeChirico e la sua mostra, perché l’articolo appare su «IlTempo» nelle pagine di cui è responsabile Papini.

Il referto di Longhi è che De Chirico non è un pit-tore, e che considerare la sua come pittura costituisce unerrore che rimette in discussione un corretto modo diintendere quest’ultima e la sua evoluzione. I quadridechirichiani sono illustrazioni bizzarre di una lettera-tura bizzarra, secondo Longhi rappresentano dei prete-sti sulle invenzioni che Savinio ha profuso in Herma-phrodito. Da parte sua De Chirico mette solo passività

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di invenzione e introduce qualcosa che tende a negarela pittura. Longhi capisce bene che cosa De Chiricovuol fare, sciogliere le complicazioni formali che i futu-risti hanno esasperato ed introdurre uno spaesamento diimmagini che porti oltre un mondo formale. E questonon gli piace, le raffigurazioni di articoli sanitari, car-rozzoni da traslochi, manichini da accademia o sartoriagli sembrano un farsi beffa delle questioni plastiche,delle evidenze stilistiche e delle motivazioni formali. Èletteratura, non pittura, e il classicismo di cui parla il pit-tore è termine fuori luogo: De Chirico non è classico cosícome non è moderno, è un decadente alle prese con certisuoi indigeriti problemi di matrice romantica. Conta-mina situazioni pittoriche con riferimenti poetici, agitasituazioni fra loro non omogenee: intona su una liraparnassiana la piú straziante romanticheria. Perché, è laconclusione, De Chirico pretende di rispolverare que-stioni del tutto archiviate, e qui sta la sua bizzarria:come può pretendere di convitarsi al tavolo della classi-cità se non ha neppure smaltito l’antipasto dell’agaperomantica?

Questioni di spazio

De Chirico spiega che tutto, in pittura, viene da uncerto modo di inquadrare ed isolare oggetti, forme, cose:l’architettura definisce gli spazi, e il ritmo e la logicadelle dimensioni orchestrano un modo di guardare cheè anche riflessione, intelligenza, sentimento. Cecchi inuna sua poesia canta l’amore come spazio, dice che «l’a-more è questione di spazi / Essere occupati, occupare»,e, in una pagina dei Pesci rossi, che escono nel ’20, sispinge oltre, «per noi – scrive – la fantasia e il sognohanno da essere soprattutto credibili, organici, pene-trabili, abitabili». Non solo dunque oggetti persone figu-

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re e pensieri sono nello spazio, ma lo spazio è dentro lecose: è figura e persona, o, se si preferisce, strategia arti-stica. Il che vorrà dire formale, costruttiva, regolativa,e assieme psicologica, o, con qualche cautela nel con-cetto, simbolica.

Proviamo a richiamare alla memoria qualche opera,usando un discrimine temporale assai schematico, laguerra come prima e dopo. Allineiamo per esempio Lastazione di Milano, Funerali dell’anarchico Galli, 1911, oManifestazione interventista, 1914, di Carrà, con La risa-ta, 1911, Elasticità, 1912, o la Natura morta con coco-mero, 1913-14, di Boccioni, e con le Bagnanti, 1915 ocon un paesaggio iniziale di Morandi, con qualche Scom-posizione di Soffici, 1912 o 1914. L’assenza di spaziinterni, di pause in profondo, di vuoti è evidente intutte queste opere. Figure ed oggetti, ambienti o situa-zioni figurative sono disposti su una superficie continua,di colore materia segni, non si dànno né isolamenti némesse a punto particolari; si può dire che tutto accadaper schiacciamento di piani e per bidimensionalità dipercorsi. La superficie può rompersi o impuntarsi, ma ilsenso di blocco, di totalità di definizione una volta pertutte in tutti i punti, scorre quasi su un nastro continuoe fortemente compresso, e per questo fortemente per-cepibile ed emotivamente deciso fino al coinvolgimen-to di chi guardi.

Proviamo ad allineare quadri di una stagione vicinaa quanto stiamo esaminando, dai mesi di guerra in avan-ti. Il cavaliere occidentale o La figlia dell’Ovest (che giàabbiamo incontrato) possono rappresentare Carrà conaltre tele, fino al Pino sul mare, del 1921 (una tela for-temente stilizzata in senso primitivistico, con una indi-cazione di edificio, il vasto spazio di un albero solitario,un cavalletto con biancheria e la mole di una collina-grotta); De Chirico sia presente con Il grande metafisico

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(con gli spazi duplicati delle ombre e degli edifici a con-torno della figurazione, la piazza col personaggio-monu-mento che assembla il manichino ed oggetti d’atelier inuna presenza a falsa scala prospettica che lascia ammi-rare il modellato delle parti e il chiaroscuro dei colora-tissimi aggeggi e squadre), I pesci sacri, o qualche natu-ra morta, con salame, con zucche o con un dolce siciliano(ambienti chiusi, spazi serrati in cui oggetti analitica-mente realistici per minuziosa verità visiva giacciono inuna inquietante luce artificiale). Aggiungiamo qualchenatura morta di Morandi (bottiglie, sfere, scatole supiani di tavoli inclinati o sospesi nel vuoto, mele, unabottiglia, un foglio ripiegato, tronchi di oggetti geome-trici, una scatola, una testa di manichino, tovaglie, piat-ti colmi di pani), oggetti di Soffici (bicchiere, pera etovagliolo; mandolino, bicchiere, bottiglia, scatola epugnale), tele di Casorati (scodelle, una tovaglia a deco-razioni, un tavolo inclinatissimo; le travature e l’inca-stellatura di un tiro al bersaglio, uova, pipe di gesso,sagome appiattite). Vuoti, pause, silenzi, le distanze fragli oggetti, limiti formali, contorni, chiusure sono all’or-dine del giorno. Attori privilegiati sono scansioni, anda-menti prospettici; serrature o dilatazioni segnalano undisporsi che affonda in profondo o si dilata ai margini.La luce non rade la superficie e la increspa, ma scendesui bordi e fruga in spessore, cita forme e singoli colo-ri, pausati e quasi sempre non impastati, l’impianto èfortemente disegnato e definito, è fatto risuonare con lepresenze, gli aggetti e i vuoti. In qualunque modo sivoglia definire questa strategia, o economia plastica,essa costituisce una diversa attenzione, un’azione muta-ta dell’occhio. Nel caso delle opere precedenti la guer-ra, il compito della messinscena è stato quello di immer-gere nell’azione pittorica lo spettatore, perché si impos-sessi di una realtà che costituirà per lui una vera e pro-pria agnizione. Ora il gioco si modifica, l’impatto non è

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diretto ma filtrato ed agito per lenta ed ordinata distil-lazione, per percorsi, viaggi, approfondimenti. Lo sche-ma della messinscena distribuisce modi, tempi, attese esignificati secondo un ordine di semplicità e di eviden-za, ma in nome di una realtà figurativa complessa. Ognicosa implica l’aldilà della cosa, avverte Savinio, come ilcorpo continua nella sua ombra, e corpo e destino fannocosí tutt’uno, come il ricordo fa parte integrante deglioggetti. E poiché il ricordo è ricordo di una situazionediversa, perduta, lontana, il corpo porta con sé una dila-tazione temporale, il segno di un’altra disposizione delleforme, una perduta armonia. Ciò che l’ordine spaziale,e quindi l’opera, deve provare, ad avviso di De Chiri-co, è la prevalenza in forza occulta della metafisica dellecose, dell’equilibrio, della chiarezza e della tranquillitàdell’arte sulla confusione del mondo, sull’annebbia-mento dei corpi, sulla farraginosità delle forme.

E sarà utile aggiungere un’altra chiave di lettura, piúcosciente e voluta, in questo gioco di semplificazioni edi complicazioni operative. Ce la offre Cardarelli in unodei Prologhi:

tra gli uomini e tra le cose il rapporto non è razionale. Chigiurerebbe di avere ben inteso?... Il linguaggio degli uomi-ni piú comprensivi è sempre stato quanto di piú allusivo efavoloso si possa immaginare. Ma ci si può decidere per unpatto d’azione. E queste sono le vere comunioni. Chi all’at-to pratico mantiene il pudore e la vanità delle sue distin-zioni ha voglia di mancare al suo fine.

La novità di simili proposte è una disciplina dei limi-ti, ma anche un sentimento (o una malinconia, per usareil linguaggio del tempo) dei limiti, un senso di confinee di soglia: Savinio cita Eraclito, l’uomo deve stare entroi limiti, non deve inventare il proprio stato. Cardarelli

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ribadisce: la poesia è salute ed impassibilità, come la tra-gedia è arte del mascherarsi. Bisogna, dunque, santifi-care la realtà. Altrimenti la pittura è solo superficiedipinta, decorazione o allusione, idea e non mondo.,Non a caso i verbi piú frequenti negli scritti del temposono costruire, edificare, fare: e bisognerà aggiungeresolidificare, come vuole il citatissimo Nietzsche, solidi-ficare e mineralizzare l’universo. Che sono verbi divolontà, ma carichi di emotività e sentimenti. Atten-zione all’aura e alle idee astratte. De Chirico prendeposizione su questo fronte, scrive un articolo finissimosu Arte metafisica e scienze occulte. Altro che misticismio surrealtà o ermetismi spiritualistici. Usare le realtàsenza vederle, scrive, interpretarle senza averne la cono-scenza e l’esperienza, eliminarne soprese e senso deldiverso è una presunzione psicologica e una volontà diastrazione. Significa esagerare la sovranita dell’uomo ecome se tutto andasse riportato a lui e solo a lui. (Perquesto occorre mineralizzare il mondo, per sottrarloall’umanizzazione, per non farne il regno dell’«umano,troppo umano»). L’animale uomo, prosegue De Chiri-co, è una maschera, una cappa, un paravento fatto appo-sta per nascondere, inesorabilmente e terribilmente:appesantisce i sensi, e li priva delle loro qualità, di quel-la tentacolarità da serpente che permette di spolpare lamateria e di cavarne il demone che alberga in tutte lecose. Centralizzare l’umano, riportare ad esso fatti eavvenimenti, vuol dire rendere ottuso il senso dei feno-meni, negare il brivido della curiosità, togliere la stranafelicità che accompagna sempre la scoperta di terrenuove.

Che è poi ciò che De Chirico chiama la «pitturametafisica», non come suggestione del diverso o del-l’altro, ma come lavoro per ottenere l’altro e il diversoin termini di curiosità, agilità, apertura, e di ottenerlonell’arte per lo spettatore. Una pittura-lavoro cosí inte-

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sa sarà centrata sul disegno e non sul colore: è al dise-gno che si affida la scatola prospettica, il limite deicorpi, il ritmo di impaginazione, è il disegno a portareombre e dimensioni, a segnare il limite e l’aldilà di ciòche recinge. Un disegno è una prospettiva spaziale con-nessa, le cui regole non sono matematiche o di geome-tria deduttiva, ma logiche per suggestione, senso dellaricerca e definizione dell’occasione.

Come era giusto aspettarsi, fra gli scritti che «Valo-ri Plastici» ospita c’è una Introduzione ad un trattato diprospettiva, scritta da Mario Bacchelli «per non caderenel piatto decorativismo o nel giottismo di maniera».Scopo di un linguaggio prospettico, vi si dice, è supera-re le contingenze statiche, eliminare il blocco prodottodalla presenza di oggetti che, erti di fronte allo spetta-tore, occludono la vista di ciò che vi è dietro ed oltre.Si tratta di trasparenze e di adiacenze, di giungere ad eli-minare chiaroscuro ed impasti di colore, sfumature etoni locali. Anche la luce deve circolare, esser presenteovunque, senza inciampi o travestimenti. Savinio osser-va che il meglio che i cubisti abbiano saputo fare è otte-nere una luce da laboratorio fotografico. Ora ci si aspet-ta un lume che sia quello che doveva esserci prima dellacreazione del mondo, quando le ombre non erano annul-late ma avevano discrezione e sincerità, e si appoggia-vano leggerissime sui corpi solo dove questi «girano».Allora, luce ed ombra avevano una loro parte senza checiò desse esca ad alcunché di retorico o di piacevol-mente scenografico, senza che questo aduggiasse dallaparte del gusto plebeo per un gigionesco addensarsi di«ombre portate».

Il disegno come procedura, lavoro di riduzione all’es-senziale, allo spettrale, cioè all’ultimativo, a ciò cheoffre permanenza percettiva e sorpresa alla riflessione,una congiuntura, permanenza e sorpresa, specificamen-

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te pittorica e dunque rivelazione dell’autentico e del-l’originario. L’incisività del segno, la prospettiva comemeccanismo di attenzione e di costruzione, la fluidità delracconto, cioè dello svolgersi delle parti, trasformanouna serie di dati sensibili in significati, senza soluzionedi continuità.

Luoghi, ambienti, scene, scatole plastiche. Toni daalba o tramonto, inizio di vita nuova ed estenuazione delpassato, un presente sospeso verso orizzonti prossimi. Eun gran scrivere di navi, di tolde, di sale-comando otimone: i luoghi sono deputati, stanze dei bottoni miti-che, atelier di alchimisti, spazi di pensiero-azione. È DeChirico a far coincidere lo studio del pittore con l’os-servatorio astronomico, con l’ufficio di una intendenzadi finanza, con la cabina dove sono conservati e con-sultati i portolani. Sedi di avventure senza sviluppimotori, senza la concretezza del viaggio, in cui anten-ne, cannocchiali o punti di osservazione, e quindi caval-letti, squadre e righe e altri ferri del mestiere, rappre-sentano il guardare e l’ordinare i pensieri, lo scoprire eil riflettere: riorganizzare modi e maniere, logiche eragioni, questa la vera avventura, il viaggio, le parten-ze. Ciò che conta, e conta moltissimo, è che cosí sonodel tutto rovesciate le regole del gioco. Ancora una voltaforma e contenuto viaggiano assieme in questa rove-sciata prospettiva. Perché la forma, la definizione spa-ziale, la chiarezza statica dell’impianto come evidenza dicose ed oggetti, e di lettura, è sempre stata intesa comepunto di arrivo, risultato finalmente razionale e razio-nalizzata concretezza. Il viaggio era partito da un noc-ciolo oscuro, da contenuti segreti che l’opera ha chiari-ti, esposti, raffigurati. Qui l’avventura è all’opposto: ilquadro non conclude, ma inaugura un percorso, la formadata, esplicita, chiarita (finché è possibile, per appros-simazioni) è il punto di partenza, la logica prospettica

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corre verso il fondo, verso i margini laterali; la disposi-zione degli oggetti implica una lenta lettura, uno scor-rimento, un avvio. Di qui si parte e qui si ritorna, per-ché in realtà il viaggio non è solo nel tempo o nello spa-zio, consci o meno, nascosti o meno, ma lungo un con-tinuo tramite da evidenza visiva, le immagini, le ragio-ni mentali, i pensieri, con un gioco di spiazzamenti,delle idee sulle immagini, delle figure sui pensieri, cheinaugura una piú complessa geografia. Cui bisogna esse-re pronti, ed allora occorrerà determinare via via unnuovo statuto personale, essere artisti (ma artisti-poeti-filosofi, i nuovi Colombo, i nuovi Vespucci, «noi meta-fisici»), e avere un itinerario di viaggio, lontani da anti-che armonie edeniche e da troppo frettolose immersio-ni nell’immediato.

Il gran tema è il viaggio, o, meglio, la prospezione delviaggio e la sua intima moralità, con gli annessi diimmobilità delle partenze, della dilatazione dello spazio(le geografie del viaggiare) cosí come del tempo (la tem-poralità dei viaggi). È, in gran parte, la «migrazioneestetica» come era stata vista dal simbolismo, e Baude-laire e Rimbaud entrano in ballo, ma con ripiegamentie riflessioni, di un solido realismo di cui darà i terminiCarlo Emilio Gadda in uno scritto dal titolo I viaggi, lamorte. Viaggiatori e poeti simbolisti, spiega, «amanoadibire l’esperienza a catalogo per la serie indefinitadelle differenziazioni spaziali: e poi che, cosí pratican-do, la loro aisthesis si rivolge con preferenza a questaserie spaziale, essi ne accentuano intensamente il moti-vo lirico piú alto, cioè la sua sognata infinità». È la ricer-ca di una sorta di immortalità spaziale, un aldilà topo-grafico ove abbia corso l’esperienza ulteriore, infinita.Viaggiatori d’età simbolista, dice Gadda, sognano viven-do, e cosí non vivono; mentre «sognano sognando, mavivendo vivono», quelli che Gadda chiama i «sedenti»(«sono sedenti coloro che non fanno del viaggio un fine

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a sé»), in cui prevale una chiarezza filosofica, la medi-tazione dei problemi etici ed una cura prammatica.«Essi, con fresco animo, vogliono riabbracciare gli amiciche tornano dai paesi lontani – che tanto piú sanno econoscono! Ma una delusione li attende: i reduci hannosperimentato la desolata vanità del mondo spaziale:deserto orrendo è la terra a chi non possiede il secretointeriore dell’essere: un fine “morale”».

Parliamo, dunque, di luoghi, cioè di stanze e di scenein esse contenute; di oggetti e di segni di cui sono colme;di avvertimenti di partenze e di sedentarietà degli abi-tanti, di ricchezze di bagagli e di strumentazioni. Aguardarli con attenzione, i quadri di De Chirico e Carràe di Soffici Morandi o Casorati (attori, protagonisti,vicini o prossimi), il catalogo, anche il piú approssima-tivo, delle presenze in scena è fittissimo, ma per nullaeterogeneo: tavole, cubi, carte geografiche, giocattoli,calchi, pani, triangoli, pesci di zinco, frammenti di geo-metriche figure solide, lavagne, pavesi, monumenti,torri, scatole, pipe di gesso, uova, fischietti, metronomi,oggetti di zinco, guanti, palle, racchette, ecc. ecc. Si sfio-ra il repertorio crepuscolare, a considerare questi elen-chi di cose che risultano essere realtà quotidiane, stra-ne non in sé ma per eterogenia di provenienza e di alli-neamento, senza eroismi particolari e senza particolarisublimità. Non oggetti da pittori (o da poeti) «laureati»,come le «piante | dai nomi poco usati» di cui parla Mon-tale: eliminate rarefazione ed aulicità, si gioca su quelsilenzio «in cui le cose | s’abbandonano e restano vici-ne | a tradire il loro intimo segreto». De Chirico parladi spettralità e di particolarità delle cose, ognuna col suodemone ed il suo occhio, e non afferma idee poi troppodiverse. Sono cose normali, comuni, oggetti di espe-rienza e d’abitudine, punti di riferimento, segni di vita.

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Sono, in tutta evidenza, oggetti «privi di significatiideali», e, in termini stretti, neppure simboli. Letti neisingoli quadri svelano, autobiograficamente, predilezio-ni e volontà: l’osservazione di Baudelaire, «è stato spes-so ripetuto che lo stile è l’uomo; ma non si potrebbe direaltrettanto giustamente, che la scelta degli oggetti èl’uomo?», calza bene. Ma dall’abitudine quotidiana ilpittore li trae fuori: ed allora la natura degli oggettiimpegna ad uno sguardo cosí lungo ed approfondito darivelare aspetti nuovi o elusi; oggetti che appaiono sem-plici o al limite del luogo comune divengono modi perfigurare uno stupore inatteso o una relazione segreta.

Allorché De Pisis può leggere in volume Hermaphro-dito dell’amico Savinio, prepara una lunga recensionebasata su questa idea: che è un libro difficile che chie-de letture adeguate, attente ad allusioni, trucchi, squi-sitezze ed ironie che l’arte nuova, per sua stessa ragiond’essere, mette in campo. Bisogna essere a contatto conle occasioni particolari che hanno determinato pagine epassi e con l’ambiente che le ha determinate. Non bastaun impatto generale o una visione, c’è uno stato d’ani-mo che il testo conserva in se stesso e che va decifrato.Perché, aggiunge di suo Morandi, creazione ed inven-zione consistono, in pittura, nel far cadere convenzionie stereotipi che si sono determinati fra artista e realtà.Galilei, ricorda Morandi, affermava che il gran librodella natura è scritto in caratteri del tutto diversi daisegni dell’alfabeto, ed i caratteri della pittura sono diver-si da quelli dell’esperienza,quotidiana, senza, un rap-porto determinato e prestabilito con affetti ed interes-si. È un linguaggio che sa unificare immagini e senti-menti.

Il destino di fatalità che governa l’opera, ce lo ram-menta Savinio, usa proprio quegli oggetti che la scem-piaggine umana relega fra le inutilità. E De Chirico èpronto alla chiosa ulteriore: ogni cosa ha una sostanzia-

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le presenza sul pianeta, un cerchio di avventura che laavvolge di tutte le idee («metafisicamente parlando»)che la legano al passato come al futuro, e sono le soprav-vivenze ed i ricordi, i presentimenti e le combinazioni.Un frutto un bicchiere, un biscotto o una scatola difiammiferi giocano la loro parte, in pittura come per chiguarda, spettatore-amico, lettore scaltrito ed attentofino alla partecipazione. Con sorpresa e con emozione.

Stanze, scene, quadri

Il miglior quadro di natura morta, aveva scritto Papi-ni, è una stanza mobiliata. De Chirico riprende il tema:

entro in una stanza, vedo un uomo seduto su una seggiola,dal soffitto vedo pendere una gabbia con dentro un cana-rino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri;tutto ciò non mi colpisce non mi stupisce perché la collanadei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logicadi ciò che vedo; ma ammettiamo che, per un momento, eper cause inspiegabili ed indipendenti dalla mia volontà, sispezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomoseduto, la gabbia, i libri, i quadri; chissà allora quale stu-pore e forse anche quale dolcezza e quali consolazioni pro-verei io mirando quella scena.

Anche Tobia, eroe autobiografico di Carrà, è alleprese con delle stanze nel corso delle cerimonie del risve-glio a nuova, diversa vita. Per lui la sorpresa della stan-za è data dalla quantità di oggetti che gli si rivelano,diversi, estranei e aberranti,

una gravità silenziosa che dava agli oggetti (mappamondidi cartapesta, termometri, magnetometri, lavagne, tre fan-tocci elettrici) un senso spettrale, fantomatico, aberrante.

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Tobia sentí che le vecchie cose lo guardavano lo guarda-vano.

De Chirico evoca i raggi x: ci sono corpi occultati dauna materia che la luce solare non supera e che i raggix attraversano; il percorso è sempre dentro le cose, oltrela crosta la fantomaticità è consolazione. L’esempio piúrilevante? Raffaello: quadri che coincidono con le stan-ze che rappresentano, luoghi dalle impalcature perfette,finestre rettangolari tagliate in alto, cosí da eliminarealla vista natura e costruzioni umane, e da cui, solo,compare il cielo sodo e disteso. Da quelle finestre giun-gono rumori lontani e confusi. Oppure, in un caso nonpiú raffaellesco: giungono dalle finestre e cadono sul-l’impiantito, sfiniti dai lunghi voli sul mare, uccelli sco-nosciuti di lontanissime regioni. Il cielo evoca albe ome-riche (il passato) e tramonti incinti di domani. Se unframmento urbano aprono alla vista le finestre ad affac-ciarsi è lo spettacolo, incoraggiante dice De Chirico,dei quartieri geometrici di alcune avancittà, e quellavisione fa pensare prossimo il mare. Restiamo a De Chi-rico, non a caso il piú pronto a fornire spiegazioni este-se e minute:

il poeta primitivo, Omero per esempio, che canta lo spazioinfinito, il mare altisonante e gli abissi del cielo fecondo dinumi, le foreste e le grandi terre libere non ancora geome-trizzate dai costruttori, quel poeta, dico, è meno avanti,come profondità lirica, del tragico che sopra un palco limi-tato e chiuso, muove le poche persone di una tragedia,intorno alle quali, serrate dalle linee delle costruzioni, quel-le stesse immagini che cantò il poeta primitivo, sorgono conmaggiore profondità e con piú sorprendente lirismo.

Si potrebbe pensare ad una immobilità di temi e dimotivi, Omero come il tragico successivo cantano le

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stesse immagini, e ad un incremento di pensiero, laprofondità. C’è, invece, altro. L’infinito non è piú indi-spensabile, può attendere: una sdrammatizzazione, inquesto senso, è intervenuta, è sparito il dramma: trage-dia vuol dire solo spettacolo serio, raccolto, meditabon-do. Savinio (piú avanti, in Nuova Enciclopedia) ricordache la caduta del dramma è foriera di aperture al futu-ro, è segno di un prossimo risorgimento. È, la nostra,un’età dello spettacolo, della favola recitata, dellavarietà di situazioni e della molteplicità di presenze:un’epoca in cui trionfa l’incolore, l’insipido, perché tuttii colori e tutti i sapori vi compaiono, indiscriminata-mente. Ciò che chiamiamo dramma è solo «drammati-smo»: desiderio di un agire che scorra ed investa lasuperficie, sciolto dal dovere risolversi in continue catar-si limitate ed improvvise, esperienza di una energia chenon conosce ostacoli, meno che mai morali, ed ha abo-lito la credenza in Dio. E che Dio sia assente, concludeSavinio (Nietzsche è discretamente alle spalle), «è ragio-ne per noi di profondo compiacimento».

Questioni ancora di spazio. Se il dramma ha finito diesistere per noi è anche un problema di architettura;nelle stanze a forma cubica e fornite di piccole apertu-re all’esterno, il senso drammatico si ferma e nidifica;scivola via quando le pareti si fanno curve ed i soffittiarrotondati, fugge attraverso le grandi finestre, le portea vetri che smagano il mistero.

Nel numero che porta la data dell’estate 1919, «Valo-ri Plastici» annuncia una monografia dedicata a De Chi-rico: dodici riproduzioni di opere in fototipia, un testodi Carrà («pittore-scrittore-poeta») e una biografia fir-mata da Savinio («scrittore-poeta-musico»). Il fascicolonon uscirà, forse perché è Carrà a non preparare il suotesto o per altre ragioni che non conosciamo; restano,negli archivi, una biografia di mano di De Chirico (ma

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potrebbe essere una semplice trascrizione da un testo delfratello) e una paginetta di pubblicità editoriale da stam-pare sulla rivista annunciando l’evento:

viviamo in un’epoca – vi si legge – in cui è nostro dovereparlare con chiarezza dei pittori italiani. Una monografiacon numerose e buone riproduzioni, scelte fra le opere piúcaratteristiche dell’artista presentato, un testo scritto daintelligenze acute e disinteressate, ecco ciò che ci vuole perdistricare un po’ l’intricata matassa, allineare con un po’ diordine le pitture classificandole secondo il loro peso,profondità, portata, calibro spirituale etc., pulire e rasset-tare le caselle della nostra moderna pittura.

Aggiunge lo scritto che Savinio e Carrà sono i soli,per ora, in grado di parlare di un pittore come De Chi-rico senza il pericolo «di confessarci delle enormi fesse-rie». Piú interessante la biografia, almeno in un punto.Il pittore ha intelligenza e capacità tali da tralasciare lesue esperienze lirico-metafisiche e porsi, a volte, a dipin-gere ritratti e nature morte: è pronto a sfruttare chiun-que e qualunque cosa senza compiere plagio né di auto-re né di opere. Sappiamo che De Chirico ama distin-guere originale da originario (Ungaretti preferisce usarei termini «innocenza», per originario, e «memoria», peroriginale): evidentemente l’originario va al di là di tec-niche e formule plastiche, cosí come è vero l’inverso,riprese e adozioni non contaminano l’arrivo all’origina-rio. Invece dell’annunciata monografia compare unfascicoletto, sempre nel tardo 1919, il cui titolo dà contodella novità che è intervenuta nell’allestimento: non piúdei testi critico-biografici ad hoc ma una scelta di frasida scritti sull’artista, Giorgio De Chirico - Dodici tavolein fototipia con vari giudizi critici. È evidentemente altracosa: l’affondo critico che ci si attendeva si riduce apareri sforbiciati da fonti eterogenee, francesi, come ad

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esempio Apollinaire o Roger Marx, Vauxcelles o Salmon(e non stupisce che su tutti, nelle Memorie, De Chiricoscarichi fendenti durissimi, segno di una occasionalità dirapporto culturale) o italiani, Carrà, Soffici, Papini.

Ciò che a De Chirico preme di piú, questi giudizi nonlo sfiorano neppure. Savinio aveva scritto che le ricer-che formali non interessano e che «il nostro compito èpiú alto». L’arte si giova di volumi stabili per integrareun complesso di ragioni tra cui prevalgono quelle dellabellezza, del pensiero e dell’intelligenza; mezzi forme omateria perdono ogni importanza. Questo conduce alclassicismo, cioè al raggiungimento di una particolareforma che risulta la piú adatta a realizzare pensiero evolontà, e che non esclude novità di visione, anzi la chie-de. C’è da pensare che le opere riprodotte nel fascico-lo, tutte di data recentissima, fossero anche il nucleodella mostra da Bragaglia, o ne fossero gli immediatis-simi dintorni: Interno metafisico, Ettore e Andromaca,Malinconia Hermetica, I pesci sacri, Il trovatore, Internometafisico, Le muse inquietanti, Ritratto, Autoritratto, edue disegni Il ritornante e Solitudine. Siamo all’inizio diuna vera mitologia moderna ancora in formazione, euna simile mitologia ha trovato la solidità di un ricordoimperituro: questo il parere di Breton, appena ricevutol’opuscolo, su «Littérature»: De Chirico, aggiunge, nonpuò pensare che un ritornante possa entrare se non dallaporta. Dunque un solido senso della realtà. Soffici parladi una pittura che non è pittura, nel senso che si dà disolito al termine: è piuttosto una scrittura di sogni.

Broglio, facendo uscire il fascicolo su De Chirico, habruciato sul tempo altre iniziative in tema di editoria suicontemporanei.

Vallecchi ha messo in moto Soffici perché prepari unapiccola serie dedicata a pittori di punta, e Soffici pensaa Carrà, De Chirico e Braque. Vuole qualcosa che risul-

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ti incisivo, non mette in conto se stesso perché si senteappena agli inizi, pittoricamente, e ciò che gli preme nonè porsi in gara con teorie, formule piú o meno aggior-nate e poetiche, ma ritrovare se stesso e la tranquillitàe misurarsi con la natura. Pensa ai volumetti richiesti-gli dall’editore come ad un momento in una fase piú arti-colata, fatta di lavoro al cavalletto, mostre scelte concura, presenza oculata in giornali, uscita di riviste: uncomplesso mondo operativo che farà fronte, con pochiartisti attentamente selezionati e forze giovani, alla con-fusa ed ambigua situazione generale.

La decisione con cui Broglio si muove, i tentenna-menti di Carrà e De Chirico che si mostrano incerti trale sue proposte ed altri allettamenti, che non credonopiú di tanto alla possibilità che Firenze si imponga nelquadro degli avvenimenti artistici, turbano e deludonoSoffici: si fanno miscugli e confusioni, scrive a Carrà intono amareggiato, per un profitto transitorio e discuti-bile, col risultato di disgregare un’azione che volevaessere artisticamente pura e grande, e che non avrebbecerto mancato di dare i suoi frutti. Se le cose stanno cosí(e ci si è messo anche Prezzolini che vuol fare, pure lui,una collana di «nuovi»), tanto vale faccia parte a sé,certo com’è che la sua pittura poco o nulla ha a che spar-tire con gli altri.

Da Vallecchi alla fine del ’19 è uscito il libro di CarràPittura metafisica (il titolo, scrive un recensore, non è cheun’affermazione del primo termine; è un discorso sullapittura tout court, quella di Carrà, l’aggettivo «metafi-sica» non fa che intensificarne e concretarne l’idea tra-sportandola negli spazi dialettici della mente. Metafisi-ca, aggiunge il recensore, sta sulla copertina a confermache l’arte ha un carattere generalmente filosofico, è ilfrutto lento e pesante di una lunga stagione mentale, convicende mutevoli di soli, venti e piogge e con alternati-

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ve cosmiche di rintoccanti crepuscoli serali e mattutini).È stato Papini a suggerirgli di raccogliere quanto è venu-to scrivendo dal 1915, a partire dalla Parlata su Giotto;gli propone di mettere assieme testi critici e lirici, prosepoetiche e di militanza, ma Carrà crede sia piú chiarifi-catore per lui procedere a due tempi: intanto pubblicale sue idee sulla pittura alla svolta di decennio, poi ver-ranno le pagine liriche.

Savinio, affettuoso cronista epistolare, mostra unCarrà tutto preso a tagliare, riscrivere, preparare; giun-to alle bozze lo scrittore chiede un aiuto a Soffici, piúesperto di pagine stampate, per emendare errori e refu-si: in realtà vuole quel parere che non gli ha chiestoprima sapendone le discrepanze di idee e posizioni. Sof-fici ha dubbi puntuali, che neppure la conclusione dellalettura («è un libro bellissimo») cancellerà: solo sul pianoteorico fra i due c’è concordanza di vedute, quando siviene a discutere di pittura in concreto le cose vanno intutt’altro modo. E in sede di recensione si ferma prin-cipalmente sul gioco delle idee: il libro tocca questionisostanziali per tutti, e certo Carrà è oggi tra i miglioriin quanto sa portarsi subito su un punto che è decisivo– la pittura non può che essere rivelazione dell’essen-ziale, del profondo e del permanente –, sa fare i conticon quanto vi è di astratto e di metafisico, con la gra-vità pensosa che una simile rivelazione comporta per lacoscienza dell’artista. Ma non manca, nello scritto diSoffici, una franca dichiarazione sulla concretezza dellavoro che Carrà sta facendo come pittore: «vien vogliadi dire: attento! Che per reagire all’impressionismo edal futurismo, tu non approdi all’arcaismo e all’accade-mia, Carrà!»

L’idea di Soffici è la stessa che ha continuato a ribat-tere nelle lettere all’amico, che la pittura non deve esse-re una volontà condizionata da teorie e ideologie checomportano prese di posizione inorganiche e inariden-

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ti. Ed è lo stesso rimprovero che De Chirico muove aCarrà recensendone il libro. È una pittura insufficienteche genera ideologie errate: si crea cosí un che di apo-dittico in cui è difficile muoversi in modo libero e ade-guato. Come ha ragione Carrà a dire che certi errori nonsono suoi ma appartengono all’epoca, fa notare De Chi-rico; ma, allora, la questione va posta altrimenti: Carràdeve convincersi che è la cattiva pittura a spingerlo afare secondo modi quattrocenteschi, e che questi nonsono liberatori per lui. Quando non ci si sente sicuri delproprio mestiere ci si rifugia all’ombra dell’albero degliantichi per averne tranquillità e sicurezza.

De Chirico si riserva una stoccata finale di grandeacutezza, che colpisce il bersaglio. Carrà mostra di igno-rare queste semplici verità per una sorta di istinto diconservazione del tutto inconscio, è sincero quando scri-ve sulla sua necessità di ricorso alla tradizione, ma la suasincerità innegabile va a scapito di ogni forma di criti-cità. È il punto piú delicato ed ambiguo di un libro incui Carrà ha riversate grandi aspettative. Vuole essereun libro di esperienza, un viaggio di approfondimentoin cui il pittore mostra di aver chiarito a se stesso ideee ragioni in un seguito costante e coerente di dimostra-zioni, invettive ed affermazioni che rappresentano ilsuo modo di affrontare la pittura, la sua risoluzionedrammatica. Se non che questo risulta autogiustificato-rio, e come tale nasconde questioni ed altera chiari-menti ben piú necessari. (Anche con una perdita di ori-ginalità, come fa rilevare un’altra recensione, di Somaré:«le parole si atteggiano a similianza di altre, d’altrui,senza toccare quella autonomia che l’espressione perso-nale raggiunge e conquista; di modo che piú che suonioriginali, sembrano echi di voci non troppo nascoste»).

Il libro non vuole essere storia o cronaca di una sta-gione o profilo di una ricerca in corso e con piú attori;De Chirico è neppure nominato, come se il suo lavoro

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in quell’ambito neppure esistesse. È una presa di posi-zione troppo deliberata perché De Chirico non la regi-stri, e non prenda a sua volta posizione. Nasce cosí unoscritto recensorio che è fatto di delusione e di rabbia,non solo perché è stato tagliato via un fatto decisivocome la pittura dechirichiana, ma perché si è spezzata,a senso unico, una collaborazione che il momento richie-deva e che poteva essere importante per tutti.

Il libro non illumina su ciò che il titolo annuncia, scri-ve De Chirico; Carrà non parla di opere, né delle sue nédi quelle altrui, e si nega cosí l’unica possibilità diapprofondire il discorso. Il momento, l’allagante imbe-cillità del tempo presente impongono soluzioni di tipodiplomatico, passare sopra a difetti e deficienze di chicombatte battaglie che l’accostano ad altri come DeChirico; ma la stessa logica distorta del proprio tempoimpone di parlare chiaro: sappia dunque l’autore di Pit-tura metafisica che dovere di un autore che si rispetta èdi sacrificare la piú parte della propria anima lirica peronorare la propria pittura e salvarla. Occorre chiacchie-rare meno e lavorare di piú; l’esaltata ammirazione e lostudio deviato per Giotto, Masolino, Masaccio, PaoloUccello non serve, è molto piú produttivo copiare conintelligenza le tavole anatomiche badando ai tratti achiaroscuro ed alla linea continua. Il resto è questionedi diplomazia e di delicatezza.

Fine di stagione

Dai primi mesi del 1919 escono i pochi fascicoli de«La Vraie Italie», redatta in francese dal duo Papini-Soffici. Come annuncia il titolo, dovrebbe trattarsi di unmessaggio europeo, diretto prima di tutto agli amici-nemici francesi, su ciò che l’Italia è e può in un momen-to come quello dell’immediato dopoguerra, di quali idee

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e forze disponga per affermare un proprio primato civi-le di cui sono portatori pittori ed artisti in prima linea.Non è una gran rivista, e subito si mostra disposta piúalla rissa con i cugini d’oltralpe che a una rassegna intel-lettuale. Le preoccupazioni di Papini nell’affidare a Sof-fici la redazione erano state precise, i rischi paventati sisono mostrati fin troppo puntuali. Vorrebbe una rivista«italiana», non «nazionalista, chauvinista, dannunzianae mussoliniana». Vorrebbe che affermasse il vero e l’e-terno, perché il resto è sentimento di avidità maschera-ta di passione e poesia, o semplice pagliacciata. Chiedeche se Soffici deve toccare fatti politici o culturali recen-ti lo faccia da storico e non da apologista, in modo dafar capire come si sia potuti arrivare a questo particola-re momento, «ma senza affermazioni tranchantes in unsenso o nell’altro». Le cose andranno altrimenti, rive-lando un autarchismo meschino ed una caduta di tonocritico irritante. L’unico punto positivo che resta inpiedi rispetto al progetto iniziale di Papini è l’assenza ditemi politici diretti (aveva raccomandato Papini: nien-te vittoria mutilata o Fiume).

Papini scrive su De Chirico, questi parla della pittu-ra di Carrà. È un tratto amichevole, il suo, neppure ungesto di convenienza; l’articolo rientra certo in quellache chiama la diplomazia dell’ora, il bisogno di far fron-te comune, ma è anche una lettura intelligente chedovrebbe proporre allo stesso Carrà qualche tema diriflessione. De Chirico è stato a Milano nello studio delcollega, ne ha derivato una impressione profonda e con-solante: per lui che si trova a vivere in un ambiente comequello romano, nel vuoto piú totale in cui incontra soloostilità, è consolante il lavoro di Carrà ed una certacomunanza di intenti.

Nello scritto per «La Vraie Italie», De Chirico lodala malinconia profondamente italiana, l’atmosfera tantointimamente pertinente alla nostra razza, con una luce

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ed orizzonti di città chiari e profilati, come il sensoamoroso e canoro che Carrà ha in comune con il popo-lo. Non è un richiamo nazionalistico, o non è solo que-sto: De Chirico sottolinea il legame tra figurazione, equindi atmosfera che si produce visivamente, e piú con-creta esattezza di cose ed ambienti, la sonorità deglispazi e del clima plastico, che interpreta come una sortadi stanchezza animale che si stempera ovunque nelle teledi Carrà: la stessa stanchezza che si avverte, dice DeChirico, nelle nostre donne feconde. La lettura cosíimpostata si chiude sull’elogio di una pittura che cono-sce le gioie del sole fecondatore e non ha, dunque, alcun-ché di nordico o di straniero.

Lo scritto, come l’incontro milanese dei due artisti,cade nei mesi in cui Broglio ha deciso di dedicare a DeChirico una monografia: De Chirico chiede a Carrà iltesto introduttivo al volumetto. Lo fa nella logica di uncomportamento comune e delle stesse ragioni criticheche ha esposte nell’editoriale, non edito, a «Valori Pla-stici»: siano gli artisti a parlare d’arte e di lavoro pitto-rico, per la capacità che hanno di coglierne gli aspettiprofondi. Carrà tace, l’assenza del suo testo muterà ilprogetto di Broglio in un fascicolo di diversa formula,come sappiamo. Del resto, Carrà è alle prese con la ste-sura del suo Pittura metafisica, in cui, come si è detto,di De Chirico non vi è cenno alcuno. Siamo agli sgoc-cioli di una vicenda comune del tutto frantumata. Quan-do Carrà legge la recensione che De Chirico ha dedica-to al suo libro, va su tutte le furie: lo giudica semplice-mente un attacco, ed un attacco idiota. La verità è, scri-ve in un biglietto, che si sono cresciuti in seno un ser-pente; quella di De Chirico la valuta una pura e sem-plice, e nauseante, forma di invidia.

A Parigi Ungaretti e Severini seguono con atten-zione gli sviluppi culturali italiani, ricevono le riviste

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e i libri, sono informati di questi e di simili episodi divita di artisti. Sono perplessi e preoccupati; s’è gua-stato un clima, constatano, c’è un aspetto degenerati-vo che ha infettato quanto vi era di piú decisivo, e cioèil rapporto costruttivo fra artisti, il livello di informa-zione e dibattito è calato. La ragione la trovano in unacultura abborracciata ed approssimativa ed in unaassenza di reali motivi di lavoro e ragioni di approfon-dimento.

Col dopoguerra Ungaretti si era illuso che quei pochi,che davvero si mostrano interessati e capaci di ricerchee ragioni seriamente innovative, si sarebbero dati unamano per un’attività comune. Sarebbero stati al massi-mo quattordici, aveva argomentato, e proprio loro sismarriscono fra pettegolezzi, rancori ed arrivismo, colrisultato di uccidere la stessa arte d’avanguardia chedovrebbe star loro a cuore. È convinto che, a sua volta,un simile comportamento non sia che un effetto, sia laconseguenza di un piú radicale ristagno e di una vera epropria restaurazione, alla cui cappa neppure i pochi sisottraggono. Una cappa fatta di sostituzioni di grandimomenti con intenzioni meschine, di passioni vitali concontingenze estetiche. Eppure, su basi cosí miserevoli ebolse si fa un gran parlare di classicismo, e lo si propo-ne tra fanatismi e semplificazioni sentimentali.

Continua a pensare come correggere la situazione: civorrebbero intraprese in cui far convergere le iniziativedi punta, una casa editrice, una rivista, delle mostreorganiche: ci sono i pochi capaci di tener le fila, ci sonomolte forze giovani, c’è un movimento spirituale che glisembra quello delle prime ore del romanticismo; «nonso se in Europa si producano cose altrettanto espressi-ve», scrive a Raimondi.

A Soffici, non a caso proprio a lui, fa un esame dellasituazione estremamente duro, e rapidamente giunge alnodo della questione:

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credo, fermamente credo, che se togli all’arte la possibilitàdi crearti una specie di leggenda imprevedibile, se tu togliall’arte la possibilità di determinare una nuova atmosfera,di suscitare gli attori, di modificare, o addirittura di rin-novare lo stato d’animo del lettore; se tu togli queste cir-costanze all’arte è meglio mettersi a fare i buffoni!

Appena ha ricevuto da Soffici il primo fascicolo di«Rete Mediterranea» insiste:

riprendiamo il libero canto: la regola e l’arte sono due coseche si producono contemporaneamente; non ho mai sapu-to che si dovesse avere prima una dottrina; si ha una intel-ligenza piú o meno raffinata e profonda; il mestiere non èuna questione di approfondimento di questa intelligenza edi questa sensibilità nell’esprimersi.

Anche Severini ha cercato di dare una mano, in unasituazione confusa che si invischia sempre piú tra nazio-nalismo e provincialismo ha creduto utile tenere apertoun discorso sui fatti della pittura che avesse la forza difar riflettere. Su richiesta di Broglio ha preparato ilmateriale per un fascicolo di «Valori Plastici» dedicatoalla Francia. Non tanto una scelta di cose postcubiste,quanto degli esempi di come lo svolgersi di una posi-zione di punta abbia conservato caratteri di pensiero emodelli formali lucidamente problematici: questo vuoledocumentare. E un materiale del genere, nel decorsodella rivista romana, dovrebbe ai suoi occhi rappresen-tare un punto di raffronto e di riscontro, un’aperturaragionata. Invece si accorge che il fascicolo che ha con-tribuito a mettere assieme è una sorta di tiro al bersa-glio per chiusure e contrapposizioni. Ne è amareggiatoe deluso, spiega che ormai i nodi peggiori si sono stret-ti per complicare ogni risorsa intelligente, che la via

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imboccata dagli amici di Broglio è delle piú ambigue: sidà priorità ai soggetti pittorici, si discute di forme e ditecniche, dice, e ci si dimentica di porsi il problema del-l’arte di per sé. È la pittura che deve consentire unacerta luce che si irradia ed una certa metafisicità, non isoggetti o le forme.

Richiami, preoccupazioni ed avvisi che restano letteramorta. Soffici taglia corto e propone a Carrà un’altramorale. Ti sarai accorto, gli scrive, che l’importante èlavorare; che siamo in tre o quattro a farlo con onestà;«il tempo delle delicatezze è finito, per quel che riguar-da l’esteriorità». Una stagione è finita, anche se nontutti i suoi effetti si sono esauriti.

Questioni di pittura

È ancora il 1919. De Pisis, ventitreenne, appena lau-reato, una tesi su Pascoli, s’è trasferito a Roma. Lavo-ra, vede moltissima gente, dipinge; farà l’anno dopouna mostra da Bragaglia, vero collettore di esperienzegiovani e meno giovani, con una ampiezza di orizzontied un fiuto preciso che rendono le sue sale un punto diriferimento obbligato. Non sappiamo che cosa espongaesattamente, né si conoscono le reazioni critiche, ma lamostra ha avuto, per il giovane artista, una sua impor-tanza.

Negli ultimi tempi qualche apprezzamento dagliamici gli è venuto; non è solo un giovane in un giro chelo tollera con supponenza. Dopo aver letto Mercoledí 17novembre 1917, De Chirico ha scritto a Carrà: «stima-lo anche tu perchè merita la nostra stima piú di quelloche avrei creduto». Diventa sempre piú intelligente,sempre secondo De Chirico, anzi c’è da credere che ungiorno potrà giovare piú di chiunque altro. Soffici, chenon sa piú come intendere le diverse reazioni di fronte

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a De Pisis – un giorno un fesso, un altro un essere stra-no e sensibile, poi ardente e oscuro –, si vede racco-mandare di amarlo e stimarlo, perché è intelligente edha scritto una cosa buona. Su De Chirico De Pisis hascritto un brano, pubblicato su «La Raccolta» di Rai-mondi, in cui ha accentuato certi elementi che gli stan-no a cuore; parla del senso dell’antico come di uno spa-zio senza limiti, da cui è impossibile trarre un senti-mento di pateticità perché l’imbarazzo del vivere che èdella realtà attuale lo vieta. È quanto sembrerebbe avervoluto esprimere nelle sue tele esposte a Roma. In unaconferenza di poco successiva alla sua mostra spiega chel’opera pittorica è la cenere di una grande fiamma, cadu-ca e relativa, che è pronta a sparire riassorbita dallarealtà. Ciò che non deve perire è un certo carattere, labi-le come un suono, non trasmissibile in quanto tale maintriso di eternità: una sorta di «telefono senza fili»offerto a pochi capaci di sensibilità.

A proposito dei suoi dipinti dice che si sente pocoportato a realizzarsi come pittore, preferisce una certaartisticità vissuta come un contegno; aggiunge che difronte alla relatività e all’indifferenza implicite nei valo-ri preferisce esprimersi a tratti, a strappi, e quindi que-ste sue «pitture che pure intuisco e fingo» le definiscepiuttosto dei saggi.

Prove, schegge, saggi che hanno

un senso sviluppatissimo del colore che io possiedo come undono naturale e che sono andato educando con voluttuose,penose, lunghe ricerche e prove e riprove quotidiane, e unsenso estetico vario e raffinato fino allo strazio, fino almorboso.

Deve aver esposte delle nature morte, di cui parlacome quadri in cui è presente una tragicità quasi media-nica, e dei paesaggi che intende come raffigurazioni di

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una intensissima forza di raccoglimento. Opere natequasi controvoglia in un bisogno di temperamento colo-ristico, «episodi, aneddoti delle mie facoltà creative» daporre oltre la pittura. «Il mio stato d’animo d’elezioneè inadatto alla pittura, sconfina da essa», afferma, e spie-ga come sia troppo estatico e semplificatore, come siallontani dalle «care cose coi vari e bei colori», uno spi-rito che sale alla sfera dell’incolore e si fa quasi incor-poreo. Sono insomma «schizzi e pitture nate quasi d’im-provviso con una loro decisa vitalità, quasi nella subco-scienza».

Sembra essere la grande giostra dei valori ultrasensoridi cui parla in una prosa lirica che ha Carrà e De Chiri-co come protagonisti. Ma non sappiamo di che opere sitratti. Nella monografia che Waldemar George gli dedi-ca nel 1928, l’unica opera riprodotta anteriore al 1923(quando, secondo il critico, De Pisis entra in una fasematura) è una Natura morta 1915 (una data evidente-mente simbolica cui De Pisis tiene molto, se piú tardidirà che risalgono al 1915 i suoi primi lavori «metafisi-ci»). Ma la data è da posticipare alla mostra di Braga-glia. Resta come unica traccia, ma poco fidabile, ladescrizione di George, che parla di «panoplies, échan-tillonnages d’objets hétérogènes, fixés sur une feuille depapier», e dunque di oggetti insoliti, una lampadina, unbiscotto, un fiore ed un’arancia, riuniti non per un giocodel caso ma per volontà di una immaginazione che sco-pre fra loro relazioni nascoste, dotate di una vita che hadel meraviglioso.

Se queste opere hanno permesso a De Pisis di chia-rirsi ulteriormente la via della esperienza «metafisica»,i risultati iniziali devono esser stati modesti. Forse haragione Longhi, per quel primo momento o per situa-zioni subito successive, «né la collusione con la flori-dezza scipita dell’illustre Spadini, né la strada dellerecenti invenzioni metafisiche o strapaesane eran coseper lui».

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Mentre De Pisis espone a Roma, De Chirico tiene aMilano la sua prima personale, ventisei tele ed una qua-rantina di disegni. È allestita in quella che De Chiricostima l’unica galleria milanese che offra esposizionidegne di una città moderna, europea, la sola che dia alpubblico segnali dell’esistenza di un movimento moder-no in pittura, la galleria Arte. È una mostra calibratis-sima su cui il pittore gioca con attenzione per sottrarreil suo lavoro ad equivoci critici e ad etichette frettolo-se; composta di due segmenti, un gruppo di opere 1908-15, che rappresentano l’intuizione di un modo pittori-co e l’avvio di un lavoro di scavo e precisione sempre piúintenso, ed una serie di tele e disegni recentissimi, data-ti 1919-20. Al centro, vistosa, una lacuna, corrispon-dente al momento ferrarese. Partizione delle opere edassenze vogliono intanto suggerire come ciò che vienemostrato non rappresenti un percorso automaticamentein sviluppo, per crescita stilistica o affinamento icono-grafico: scelte, approfondimenti e rivelazioni sono viavia piú importanti e decisivi. La pittura, rapidamentedefinita agli inizi della carriera di De Chirico, e su basinon di attualità figurativa, trova col tempo suggestionie fermezze attraverso un dominio tecnico che deve esserguidato e governato dalle idee e dai pensieri, dalla dispo-nibilità a guardare e dal saper vedere, ha scritto da poconel suo articolo piú sintomatico, Il ritorno al mestiere.Sapere per potere, e la frase di Courbet che ha posto incapo al suo testo.

Perché il silenzio sui mesi di Ferrara? La «metafisi-ca» si sta rivelando un equivoco, nella divulgazione cri-tica e nelle affermazioni giornalistiche, una sorta di for-mula in cui ingabbiare gli artisti infiocchettando di solu-zioni letterarie letture e critiche, come se si trattasse diqualcosa di diverso o di alieno rispetto a ricerche formalie a proposte figurative in corso. De Chirico preferisce

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mostrare come non di una formula da filosofia per figu-re si tratti, ma di un lavoro in sviluppo, e, soprattutto,di un mondo pittorico. Sottolineare Ferrara e le con-quiste là ottenute era come bloccare a uno stadio defi-nitivo un lavoro ed una ricerca. Se i critici solo orahanno capito che cosa De Chirico ha compiuto tra il1916 ed il 1918, è bene che non ci si fissi su quel foto-gramma per giudicare tutto un percorso, e soprattuttonon si confonda un percorso che parte dal 1909 con unasituazione parziale dell’autore.

La selezione dei lavori incoraggia questa lettura, delresto detta a tutto fiato nel testo introduttivo al catalo-go. De Chirico espone un paio di doppie redazioni diopere, ci sono due quadri «non finiti», segno evidentedi una realizzazione che è tale anche nel non completa-mento dell’opera; sono offerte copie, da Dosso e daMichelangelo, rapporto intelligente con l’antico intesonon come modello ma come esercizio critico di inter-pretazione e di messa a punto di strumenti adeguati; sisottolinea l’importanza del disegno, a sua volta operacon procedura autonoma e ben definita resa, da vederenei suoi risultati effettivi di «opera a sé emozionante edemozionata». Perché la questione, continua a battere ilpittore, è di vivere in una dimensione di alta concen-trazione e di profondità, e, ancora, di riproporre inquanto pittura quella concentrazione e profondità comeemozione dello spettatore. Linee, forme, impasti chiaried asciutti che l’intelligenza della pittura mette a dispo-sizione del pittore servono cosí a creare un mondo, un’e-mozione, un sentimento moderni, nuovi. Sarà per que-sto una pittura «piú completa, piú profonda, piú com-plicata». È il classicismo moderno di cui parla ora DeChirico e a cui Savinio ha dedicato alcuni scritti su«Valori Plastici»: un classicismo della pittura sottesodall’esser «metafisico» del pittore. In ogni caso, un clas-

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sicismo da non limitare ai risultati ferraresi e da consi-derare oltre quelli.

I quadri che stanno piú a cuore a De Chirico sono telecome Mercurio e i metafisici o come l’altra, anche questarecentissima, La partenza degli argonauti. In tutte e duele novità sono già evidenti nella messinscena: non piúmontaggio di oggetti, attenzione alla potenzialità sceni-ca degli ambienti ed alle suggestioni sottili delle situa-zioni, ma un racconto di luoghi e personaggi che tra-spone gli stessi ingredienti mentali ed allusivi su figuree situazioni dalle connotazioni mitologiche e dalla rico-noscibilità culturale molto definite. Le figure si presen-tano come dei veri e propri significati da leggere in chia-ve di moderna interpretazione simbolica, e conservanouna suggestione di statue-figure tanto remote nellamemoria quanto suggestivamente fragranti. La scena èintesa come fosse la figurazione di una tragedia, nontanto per disposizione illustrativa quanto per suggeri-mento di evento ad alto tenore di intellettuale dram-maticità. Figure e scena, al tempo stesso, assumono unandamento di biografia dechirichiana, di emozioni oripiegamenti personali. Pochi personaggi immoti in ungesto o in un riferimento, il carattere piú atemporale,cioè di lunga durata, che antico in senso archeologico odi messinscena in costume, una tensione di spazi apertie frescamente alitati: come scriverà anni dopo un intel-ligente commentatore, Raffaele Carrieri, restituisconoun clima insieme familiare e ricco di incastri colti, «èstata una partenza tranquilla, una vacanza. Sono gliargonauti di un’antica domenica italiana, una domenicapiena di angoli sensibili e di prospettive. Il silenzio ètirato a squadra e lo spazio è un’idea». Mercurio e imetafisici ha un altro titolo, al limite della didascalia, cheaiuta a comprendere come il valore di rappresentazionesia posto al limite della sensibilità: Statua di Mercurio cherivela ai metafisici i misteri degli dei, e già nello sviluppo

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quietamente narrativo è suggerita la lentezza mentaledella vicenda attraverso indicazioni e spazi successiviche lentamente si arricchisce di identità, allusioni, spazi,atmosfera. «Una rappresentazione per pochi e di gran-de destino», commenta lo stesso pittore.

I riferimenti, le connessioni, i trapassi logici della pit-tura e dei suoi contenuti entrano in una concretezza pla-stica ed atmosferica assolutamente nuova, piú affabile,se non piú accessibile; parlare di simboli è improprio,ma la sensibilità del trattamento colto apre la via pro-prio ad un simbolismo, con caratteri nuovi, che giungefino alle radici tecniche della pittura. All’uso, per esem-pio, dell’emulsione ad acqua dei colori preferita allesoluzioni ad olio:

la pittura delle grandi epoche non è mai stata la pitturaad olio, in quanto che la bella pittura non è mai stato delcolore macinato e diluito con olio e poi lasciato asciugaresopra una superficie, ma invece è una polpa di bellissimaqualità tinta con del colore; ora in ogni polpa che si rispet-ti, sia quella di una pera o di una mela, o quella dei paneo del corpo umano, vi è sempre una forte percentualed’acqua; senza l’acqua non esiste bellezza e buona qualitàdi materia.

Gli scritti del pittore aiutano a comprendere inten-zioni e modi operativi. Di Raffaello loda l’energia par-ticolare delle figure, ottenuta pel tramite di una pitturadi estrema nitidezza e di colori precisi; per energia inten-de una pregnanza della figurazione che fa apparire ogget-ti e persone come se esistessero già prima di esser tra-sposti sulla tela, col risultato di un turbamento nellospettatore «come quando, nella vita, assistiamo ad unfatto o vediamo delle persone che ci erano apparse insogno». Questo senso di ricomparsa, cioè qualcosa in piú

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dell’evocazione di un aspetto antico, costituisce la«novità» dell’arte d’oggi, perché spinge sulla via di unparadiso perduto «ove potremo cogliere altri frutti, chenon quelli già colti dai nostri fratelli antichi». Che è unribadimento: rispetto ai secoli alti classici della grandetradizione italiana c’è una sorta di rottura, occorronoconvinzioni diverse. Ciò che l’artista odierno sa di quelparadiso perduto è che, oltre ad esser tale, è cinto da unamuraglia, chiede un eroismo di conquista, con la consa-pevolezza che al di là della muraglia non vi è speranza,né salvezza. L’emozione indotta dalla pittura nello spet-tatore non è un risultato che acquieti o risolva in subli-mazione; può restituire serenità di visione, ma l’esitoresta sospeso in termini di drammaticità.

Il tema della muraglia, della linea d’ombra, è al cen-tro di uno scritto sull’artista che con Böcklin attira mag-giormente De Chirico, Klinger. Gli piace in lui – spie-ga – il senso di favola che compone registri antichi emoderni in una scenografia che non rinuncia ad evoca-re i miti ma li colloca in atmosfere di fragrante presen-za. In questa favola la tensione narrativa è data dal-l’implicito simbolismo delle figure e dei luoghi cheannunciano un che di chiuso e di irresolvibile (e il murone è un segno vistoso) che non permette la bella con-clusione o il lieto fine, che non scioglie le tensioni e man-tiene un’atmosfera interrogativa e problematica. L’o-rizzonte è vuoto, il muro segna i limiti del mondo, comese dietro di esso ci fosse il nulla. Ne conseguono due sen-timenti di pungente sensibilità figurativa, un senso dinoia ed un infinito sgomento; la linea d’orizzonte diven-ta una interrogazione e luce terra ed ombre ne risulta-no impregnate.

Non piú manichini artificiali o statue, ecco compari-re dei corpi; e il corpo, per De Chirico, è insieme segnoe simbolo, perché riassume i misteriosi tormenti dell’a-

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nimo, quando è lasciato solo con se stesso e solo neglienigmi universali, nella rappresentazione. De Chirico(che del corpo e del nudo scrive in un necrologio per Pre-viati) pensa alla Grecia, dove il segno-simbolo dell’uo-mo nudo e solo è identificato in Apollo sagittario, indi-cazione luminosa del giorno. E con il richiamo al nudoè richiamato il valore della luce: evocazione di epochepreistoriche, come del meriggio delle epoche classiche.

A riscontro di queste indicazioni ecco il solitario tor-reggiare del San Giorgio, una tela del ’20, in cui il corpoin primissimo piano si lega a una effusione luminosa;ecco il Saluto degli Argonauti partenti, dello stesso anno,in cui «l’uomo è una macchina di architettura, una ana-tomia di equilibri tranquilli» (Carrieri); o, del 1921,Mercurio e i metafisici (noto anche come La statua s’èmossa), con una triplice scansione di nudi che segnano itempi logici del racconto, un lontano Hermes assorto, lastatua ad occhi chiusi, il protagonista in movimento inprimo piano, ad occhi aperti, simbolo di un’azionecosciente, con una sequenza quasi da carrellata cinema-tografica, di raffinata incisività.

Carrà insiste sull’armonia, la presenzialità, la com-pleta risoluzione del dramma plastico irrisolto. Il tempo,l’antico, il primitivismo delle forme sono innestati nelleansie dell’oggi senza soluzioni di continuità, la tensionenarrativa si risolve in un patos che prende spettatori edopera in quella che il pittore chiama la «misticità», unmiscuglio di armonia e di autenticità che trascina emo-tivamente. Lasciatosi alle spalle un quadro come Le figliedi Lot, del ’19, una raffigurazione stilizzatissima am-bientata come una scena di annunciazione, in Il pino sulmare gioca piuttosto per immersione negli oggetti messiin scena, una casa, il tronco d’albero, il mare, la collina-grotta, il trespolo con la biancheria, carichi di una estre-ma tensione fisica: si va componendo una scena che

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tende a coincidere con i termini stessi, naturali, del pae-saggio, con una saldatura senza infrazioni. Sembrereb-be che la lezione plastica che gli veniva da Rousseautrovi sbocco ora: in Il mulino di Sant’Anna lo stessocielo sfrangiato che dilata e precisa l’imbocco della scenarecupera il particolare naturalismo del francese.

De Chirico mette in primo piano un’altra tragicità,ed evoca la solitudine. Un muro si frappone fra passatoe presente, dei e filosofi in solitudine si presentano e nelsilenzio indicano pensieri e movimenti, le partenze sonogià avvenute, le cortine di case nascondono porti eapprodi. Gli stessi oggetti sono solitari, i pensieri miste-riosi, ambedue di un ordine che ha segni metafisici. C’èuna solitudine nelle cose, ma c’è una solitudine della pit-tura: la solitudine plastica è di ordine evocativo o raffi-gurativo, quella metafisica è nei segni. Una costruzionegeniale, una giusta composizione di oggetti rivela laprima, annuncia una «vita seconda» appostata dietrol’apparenza. È il caso delle nature morte (a De Chiricopiace di piú una formula come «vita silente» per defi-nire questo modo di composizione), che non sono esem-plari di un genere, non sono raffigurazioni di un sog-getto, sia pure illustre: la spettralità di quelle «cose»poste assieme è la stessa che può emanare una personaviva, e l’artista ha il compito di realizzarla per compo-sizione. C’è poi la solitudine dei segni, metafisica pereccellenza: ciascuno indica una presenza lontana, per-duta, affondata al di là del tempo. I segni impongonouna visione intellettuale, l’amarezza del perduto e lagioia di una presenza enigmatica, non dànno luogo alsenso di vertigine enunciato dai romantici, che è il sen-timento di chi si sente schiacciato dalle differenze eguarda ai segni come da enormi, vertiginose distanze. Lavertigine è ancora ebbrezza fisica, un piacere a suo modocompensatorio. Nel fondo della solitudine c’è una sen-sibilità frustrata, una ferita non chiusa, il senso di uno

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scacco. Enigmatici non perché rivelino enigmi, i segni,in realtà, chiudono in sé un vuoto.

Se la stagione ferrarese può rappresentare l’affina-mento della pittura in termini di solitudine plastica, ilsapere figurativo al servizio di una visione che deveessere riproposta poeticamente, al centro della classicitàmoderna è la solitudine dei segni. L’un momento è deci-sivo per l’altro, ma non in senso strettamente tecnico.La pittura, l’arte, secondo De Chirico, sono chiamate adun ruolo che le trascende: si deve fare uso dell’arte, oggi,per attizzare quella sensibilità alla dimensione metafisi-ca che si agita nel mondo e chiede udienza. Quando cisi sarà impadroniti di un metodo di accesso alla metafi-sica, l’arte non sarà piú necessaria, la pazzia, cioè la tra-sgressione alle regole quotidiane e alla psicologia piúconsueta e soddisfatta, varrà per tutti. Non sarà neppurepiú necessaria l’opera di un pittore pur grande come DeChirico. L’arte è pazzia, ma è una «piccola pazzia»; aldi là ecco la «grande pazzia» che non appare tale pertutti, che sempre esisterà, e sempre continuerà a gesti-colare e a tracciare segni dietro il paravento inesorabiledella materia.

Creatore è colui che fa creare

Nell’editoriale per il primo fascicolo di «Valori Pla-stici», che Broglio ha tenuto nel cassetto, Savinio e DeChirico segnalavano un punto importante: a scrivered’arte, a commentare il lavoro degli artisti doveva esse-re chi sa scendere in profondità e vedere i movimentiveri dell’arte. Cioè i pittori o gli artisti stessi, e se maiquei letterati che fossero capaci di guardare lontano e diinterpretare in modo non interessato, non di immedia-to consumo, segni, e moti. Niente critici, in ogni caso,

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che sono estranei al lavoro poetico (ammesso che unasimile famiglia di animali fosse presente in Italia, e i dueeran pronti a negarlo: non c’è neppure questo fra noi,per ulteriore desolazione).

Savinio, sulle pagine di «Ars Nova» dell’amico Casel-la, aveva ribadito contestualmente come fosse ora difinirla di intender la critica come benedizione o male-dizione di ciò che l’opera conclusa, che il prodotto poe-tico è. Ciò che conta, ciò che dovrebbe interessare il cri-tico è saper prevedere il senso dell’opera al di fuori delleforme e dei volumi che la realizzano. È una questionesentita e diffusa che possiamo riassumere assai mala-mente cosí: la riflessione critica deve cogliere i punti ditensione e di sviluppo che stanno prima e al di là delfatto compiuto che chiamiamo l’opera, il quadro, la scul-tura, il poema o il brano musicale. (Per trovare una solu-zione linguistica alla questione, Soffici distingueva fraestetica, sentimento o idea operativa, ed opera, e fissa-va la sua attenzione, anche lui, sull’estetica, un termineusato di malavoglia, ma almeno non soggetto a confu-sione artistica).

Lavorare su un brano, su un libro, di d’Annunzio peresempio, illudendosi di cavarne lo spirito del poeta,significa cadere in una patente contraddizione, affermaa sua volta Cardarelli: perché lo spirito dell’operazionedi cui l’opera è raffigurazione non lo si scoprirà nellastruttura formale che nella sua risolutezza caratterizzaquest’ultima. Spirito del poeta e spirito del brano con-cluso non coincidono, ed il secondo è solo un dato difatto. Dunque, attenzione al farsi: l’azione poetica sisposta al di là dell’opera.

La quale opera – è vero – è carica di stimoli vitali-stici e dinamici, ma li rivela soltanto a livello di sugge-stione simbolica, non di azione e di potenzialità: rap-presenta una soglia, può stimolare riflessioni e modi dicontemplazione, non può colmare il divario che corre tra

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realtà ed utopica intuizione di un mondo diverso, frarealtà scontata e bisogno di vedere attuate attese, biso-gni e desideri. Questa l’opinione di Papini, che avanzaun altro ordine di considerazioni. Le opere suggerisco-no sensibilità, diverso orientamento percettivo, unnuovo stimolo alla sensibilità; ma nel punto stesso in cuibisogni o desideri trovano la giusta azione che li soddi-sfa e l’adeguata sensibilità, le opere non contano piú,l’arte si rivela mezzo e non fine.

È un altro il punto di applicazione critica: il proces-so, non la continuità delle forme; i momenti di scelta eselezione, non la logica dei nessi; la tensione, non l’e-quilibrio armonico. L’energia, infine.

Del resto, che cosa chiede ai classici Cardarelli se nonuna sorta di diletto, cioè una percezione di sottintesi, unpatto di comune generosità, una visione che si sottraeal consumo pratico e al gusto comune? Soffici aggiungeche fare arte è anche un modo di controllare e delimi-tare lo spirito, il quale, per civetteria, ama vedersi raf-figurato e quindi riconoscersi e vezzeggiarsi come forma.Si tratta di mettere in crisi l’oggetto formato, di nonaccettare lo stile come cristallizzazione riconoscibile, equindi prestabilita, la forma come assoluto. Fissarsi suquesti dati, è ragionamento comune, significherà coglie-re uno stato di necessità: la forma è cosí perché cosí hacompensato i suoi opposti ed armonizzate le sue parti.La tecnica, il linguaggio, i modi sono momenti indi-spensabili, o meglio accidenti, per ora, necessari: controil puro visibilismo e i vari formalismi si fa però notareche la poesia sfugge a quei mezzi. Casorati, attentissi-mo alle questioni formali, spiega che la «poesia» si col-loca fuori della vita, alle origini, la dove sono le «fontisublimi». E non scivola certo nello spiritualismo o nelmisticismo, rivendicando una sorta di estrema essenzia-lità, una esperienza senza limiti espressivi o di comuni-cazione.

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Sarebbe utile e significativo, diceva Valéry, poterfare un’opera, poter organizzare un testo in cui, ad ognipunto nodale, sia evidente il gioco delle diverse soluzionie possibilità che si presentano allo spirito quando pre-dispone il suo lavoro ed entro cui sceglie l’unica stradache sarà data all’opera. La quale avrebbe un valore signi-ficativo, perché spiegherebbe al lettore come all’illusio-ne deterministica nell’elaborazione dei testi vada sosti-tuita quella del possibile ad ogni istante, cioè l’unica illu-sione che finirà per risultare veritiera per l’arte.

Valéry parla di illusione: il rifiuto di ogni formaliz-zazione scinde ancora piú nettamente il flusso creatore,inteso come ricerca individuale entro un modo «esteti-co», dai singoli momenti codificati, e spezza la stessapossibilità di illusione. Il risultato di una simile opera-zione sta nella trasformazione del lettore: deve diveni-re un ispirato, dice Valéry: piú semplicemente, l’idea dicreatività passa dal flusso regolato dell’artista alle presecon il suo mondo (l’opera è un escremento di lusso,asserisce il poeta francese) al lettore, ed il vero creato-re non è colui che conclude l’esperienza in una forma,ma colui che da modo al lettore di esser creativo a suavolta.

Il critico interrompe questo circuito: lo interrompe alivello di creatività, e lo devia a livello di linguaggio. Per-ché «traduce» la poesia in un’altra esperienza, ed inun’esperienza con caratteristiche opposte a quelle dellapittura o della poesia stessa. Ed è un’esperienza specia-lizzata, strumentale e tecnicizzata a fini di utilizzo deimateriali che presceglie, mentre la poesia non vuoleessere né forma immediata né realtà pratica. Ciò che, alcontrario, va ribadito, rinunciando ad ogni mediazioneo traduzione, e un rapporto diretto, «da genio a genio».

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Longhi ha ironicamente collocato De Chirico sotto leinsegne del «dio ortopedico», e ne ha stroncato lamostra con un vero e proprio intervento generale sul-l’arte attuale che ha tutti i caratteri di una resa deiconti. Che l’articolo possa apparire un aiuto dato aCarrà, sottolineando gli aspetti di «pazienza» operativanecessaria alla pittura d’oggi per ritrovare una sua fer-mezza formale, è assai limitativo: Longhi in realtà hatrovato la sua occasione per denunciare, in un modocome quello dechirichiano, l’aspetto romantico, l’idea-lismo senza basi storiche, la fiducia eccessiva in un lega-me letteratura-pittura. L’ortopedia di cui fa cenno ilsuo articolo colpisce indubitabilmente De Chirico, mala presa di posizione è piú larga. E che Carrà sia dallaparte di Longhi, in quel momento e nei termini dell’ar-ticolo in questione, è cosa quanto meno da verificare.

Proprio nel giro di tempo in cui Longhi redige il suoverdetto, Carrà scrive un bilancio molto amaro e delu-so intorno al tema de La critica delle arti figurative in Ita-lia, in cui taccia Longhi di traditore della causa di un’ar-te che vuol essere davvero necessaria e nuova. Il pitto-re piemontese sente che una vena di creatività si vasperdendo e confondendo, e ragiona sulla mancata col-laborazione degli storici alle ragioni che di quella venaeran specifiche. Longhi, Marangoni, Venturi, tra glialtri, sono stati vicini a certe ricerche, ne sono statitestimoni di intenti e sforzi; erano nelle condizioni dicapire: invece si sono mostrati interessati piú per astu-zia che per partecipazione. Ne hanno tratto indicazionie idee per il loro lavoro, dimentichi che un lavoro nonmeno importante era in corso ed aveva bisogno anchedel loro aiuto e chiarimento, dal momento che per artenuova bisogna intendere non un’arte che si autogiusti-fica via via in sede di innovazione, ma un dialogo dilargo respiro fra arte in generale, e storia dell’arte inampia gittata, con le proposte moderne. Il capo di accu-

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sa di Carrà è netto, c’è stata manomissione con destrez-za e uno stravolgimento totale. Le nuove condizioni diordine spirituale, su cui ci doveva essere intesa fra cri-tici ed artisti, non sono entrate in gioco; la critica nonsi affida a quell’ordine superiore per lavorare con inuovi, non sa che in ballo non è una certa ricerca e giu-stificazione storica, limitata nel tempo e negli effetti, mala realtà viva della pittura; né si dà storia dell’arte al pas-sato senza la serietà e vivacità della pittura che si vafacendo. Ogniqualvolta il critico esce da singole lettu-re, da univoche situazioni d’arte, si mostra incapace disituazioni generali, e se vuole allargare il suo orizzontedeve ricorrere a ragioni extrartistiche ed a motivi chenon trae dalla pulsante esperienza vitale dell’arte.

È interessante osservare che gli stessi nomi e le stes-se situazioni su cui Carrà compie un bilancio negativo,erano ricorsi in uno scritto di Croce che aveva suscita-to grandi polemiche e malumori. Piú o meno ancheCroce si riferiva all’esigenza di veder crescere e conso-lidarsi una situazione nazionale di buona cultura figu-rativa che permettesse destini futuri seri e ragionevoli.Si procede con mezzi concettuali inadeguati, secondoCroce, su questioni di principio errate, e si lavora suerrori e facilonerie con un guasto irreparabile a cuidanno una mano le velleità degli artisti scrittori incapa-ci di trasformare le loro singole esperienze, e le incom-petenze degli storici. Per Croce c’è una confusione dibase, responsabile di tutto: l’aver messo sullo stessopiano l’arte, come momento unico ed assoluto, e le sin-gole esperienze delle varie arti; accentuare gli specificidi ciascuna di queste, enfatizzare i linguaggi come sensoe significato, vuol dire non arrivare mai alla sostanza delgiudizio e della stessa conoscenza figurativa. Questo inquanto i singoli momenti espressivi sono di per sé insuf-ficienti a cogliere l’intuizione, che, espressioni, modi elinguaggi, trascende totalmente.

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Il pittore vede tradita un’officina pittorica in atto,assediata dall’esterno da critici, filosofi, letterati chenon vi apportano vantaggi operativi ed anzi ne sottrag-gono energie per altri momenti e sviluppi. Croce denun-cia i rischi di una mancanza di solidità di questi altrimomenti, di quello filosofico in ispecie, come ragioneportante di una moderna cultura. Carrà vede in perico-lo una «realtà spirituale» che sta entro il lavoro pittori-co e con quello si afferma; il resto è disorganicità rispet-to ad una possibile, seria esperienza. In arte può ancheesserci un principio filosofico, concede a Croce, ma que-sto deve venir poi superato, perché l’intelligenza chequel principio accende si è fatta pittura, e penetra la par-ticolare esperienza che l’artista porta avanti. È un aiuto,un aiuto importante, ma un mezzo, rispetto ad unaragion d’essere: se si invertisse questo ordine, ragionaCarrà, si introdurrebbero corpi estranei, dimensioniextrartistiche, che dissolvono il patos poetico entro ilquale l’artista è chiamato a muoversi fino ad identifi-carsi.

È evidente quanto il pensiero di Carrà, e le sue for-mule operative, debbano alle teorie della forma comepsicologia compositiva: le stesse contrapposizioni fraessere nel mondo e sentirne fisicamente la presenza eastrarsene per trovare una unità di misura risentono diformulazioni come quelle di empatia e di astrazione dif-fuse con dovizia nel modernismo e nelle avanguardie ini-zio secolo. Il pittore, in altri termini, appare piú dallaparte di una organicità e vitalità plastiche che di un pen-siero visivo, di una possibilità costruttiva che di unariflessione conoscitiva. Il «problema» che piú intrigaCarrà è quello della qualità dell’arte e del conseguentecomportamento di fronte al mondo e al cosmo, e quin-di l’esigenza di un moto circolare, unificante, che portia una precisa organicità. Non l’arte opposta al mondo o

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alla vita, ma un’arte che regoli e concepisca mondo evita. Questo pone in termini non storici ma psicologicie psichici (di psicologia delle forme artistiche) le forme,gli stili e le decisioni tecniche. Che non hanno, perCarrà, autonomia rispetto a un piú globale flussocostruttivo, e non possono essere decontestualizzate daun piú complesso spessore. Scegliere un’altra via perintendere l’arte, come, secondo Carrà, va tentando Lon-ghi, vuol dire tacere dell’esigenza di sintesi e di corpo-sa unità che tocca all’arte come realtà totale affermare.Di conseguenza Longhi gli appare un cabalista o undivinatore, perché intellettualizza la conoscenza del-l’arte per ricavare certi segni e dare loro, come fosseroisolabili, un significato specifico. Facendo cosí si astrae,secondo Carrà, dal tutto uno spezzone, di per sé nonsignificativo, che il critico deve caricare di sensi filoso-fici o storici, traducendolo in una lingua impropria. Conconseguenze arbitrarie ed irrazionali.

(Nei Diari di Klee, alla data 1915, si legge: «si abban-dona questa zona e in compenso si va in una al di là,dove ogni anelito può essere soddisfatto. | Astrazione. |Il freddo romanticismo di questo stile senza pathos èinaudito. | Quanto piú spaventoso è questo mondo,come oggi, tanto piú astratta è l’arte; mentre in unmondo felice produce un’arte dell’al di qua»).

Di fatto Croce è lontano, e basta a Carrà un cautoomaggio al filosofo ed una precisazione. Ben altra è lapolemica con i Marangoni, con i Venturi, e – soprattutto– con Longhi: se una crisi è dato avvertire nella cresci-ta di una pittura che faticatamente germoglia, è a loroche va imputata. Con qualche motivo in piú, rispetto aLonghi, e proprio in nome del riconoscimento che gliaveva tributato Croce – quello, innegabile, di essere ilpiú influente delle nuove leve, per conoscenza cultura-

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le e per doti di scrittura, che ne fanno «un vero tempe-ramento». Troppo vicino a lui, come agli altri artisti piúinteressanti, per accontentarsi di definirlo il migliore eil piú responsabile, Longhi rappresenta in sommo gradola critica stessa, e, dunque, ha per Carrà colpe radicali.

Longhi, è il ragionamento, ha capacità, sa leggere illavoro, segue un metodo acuto e rigoroso, matematico;ma le conclusioni non si legano ai dati portati in luce,sono di tipo divinatorio, e Longhi, alla fine, ha qualco-sa del funambolo o del cartomante. Se le sue conclusio-ni conoscono grandi acutezze è per via letteraria che viattinge, e allora gli sfuggono i rapporti puri fra le forme,anche se è stato in condizioni di smontare e rimontarel’opera e coglierne le architetture degli spazi, andandoben oltre la loro apparenza materiale. Il fatto si è, perCarrà, che Longhi lavora sulle sensazioni e le traduce inpreziosità di scrittura, e cosí coglie appena parvenzeparziali ed impure e si ferma ad uno stadio materialisti-co. Scambia l’indispensabile partecipazione al fatto poe-tico con la sua interpretazione, ecco il punto dolente, siserve dell’arte per ritradurla in una differente realtà,passa da esperienza ad esperienza illudendo che cosínon vada vanificato quanto vi è di precipuo. Se la paro-la, se la scrittura dovessero essere l’ultima possibilità diconoscenza, argomenta il pittore, e non andasse cosíperduta l’intima essenza del lavoro pittorico, varrebbel’avvertimento dato a suo tempo da Burckhardt, chel’arte pittorica sarebbe inutile e tanto varrebbe restassenon dipinta. La verità è che i critici sono ormai deltutto estranei ad una vera criticità, e sono estranei alsignificato di qualsiasi esperienza critica.

È uno dei piú ripetuti motivi di censura all’idealismoestetico. Ungaretti, per esempio, lamenta l’ostinazionecrociana nel considerare secondaria l’attenzione che ogniartista pone al mezzo espressivo, mezzo che valorizza,di fatto, la memoria e la fantasia. Non si può continua-

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re a ripetere che una forma metrica altro non è che unoschema che la fantasia dovrà poi riempire: quando nelpoeta operano soggettivamente, quelle forme non sonopiú schemi, «sono parole, parole diverse, che si sonodette da persone diverse e da persone di secoli diversi...è memoria».

La conclusione di Carrà volge in ulteriore denuncia:ai critici è impossibile la comprensione perché per sen-tire nella sua interezza l’opera di un genio occorre ungenio in potenza. Ora, i giovani critici non è che man-chino di genialità, ma del genio non sanno seguire la viacreativa. Guardano alle opere lontane senza vedere inesse l’intensità di una vita incisiva ed attuale, e sosti-tuiscono a quanto è vicino e presente rappresentazioniremote: fra raffreddamenti e distorsioni si perde il sensodi cosa significhi saper vedere criticamente.

(Non è il solo attacco che viene a Longhi in queglianni. Proprio da parte crociana, lo si era accusato di farenon della critica bensí della letteratura, di voler sosti-tuire l’una cosa all’altra. E Longhi si era difeso egregia-mente: il suo è certo un trasferimento verbale, ma ladinamica di quel trasferimento è chiamata a mantenerecerte equivalenze con la figurazione che poggiano sullaqualità formale, sulla convinzione che la forma è sommadelle ragioni poetiche dell’opera, ed appartiene per que-sto alla storia dell’arte: solo per via di qualità assume ilsuo singolo, particolare significato. Solo a partire daquesto è possibile una «trascrittura di opera», in unaattenzione genetica che ne conserva l’efficacia. E non èvero, si era difeso da un appunto ancora piú tipicamen-te crociano, che una siffatta analisi della forma annullila personalità dell’autore riducendolo a dato stilistico. Lapersonalità è qualità realizzata, e solo la qualità ed i raf-fronti tra qualità permettono di vedere la potenza crea-tiva, e la parentela qualitativa, che si manifesta nelleopere).

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La preoccupazione piú forte per Carrà è che si insi-nuino nel processo artistico elementi di disturbo e diconfusione. La polemica sollevata dal saggio di Croce,con la sua chiamata in causa di una ferma ragion filo-sofica, aveva messo in evidenza una distinzione profon-da ormai affermatasi; la stessa che dovrà constatareVenturi: la forbice tra chi d’arte ragiona per esperien-za empirica e chi lo fa su un piano di estetica filosoficaè aperta al massimo grado; la purovisibilità e le teoriedella forma hanno avuto censure tali, da parte dei cul-tori di estetica, da metterne in crisi le ragioni, mentresono realtà ben vive e non per volere di dilettanti o diincompetenti, ma da parte di chi l’arte ha preso a trat-tare sul serio. E Longhi conferma, Croce non ha sapu-to riconoscere il diverso campo intuitivo di ciascunaarte, la particolare «impressione lirica» che non puòesser resa comune. Pure, la questione resta aperta: seBontempelli taglia corto e scrive che sarebbe antipati-co e scorretto chieder lumi alla filosofia, l’aspirazionead una generalizzazione al di là delle opere resta un’in-cognita minacciosa, sia che si battano i sentieri filoso-fici o le vie di suggestioni letterarie. Occorre dunqueun’opera di chiarimento, per Carrà. Fin da Guerrapit-tura, pubblicata nel 1915, aveva prospettato la questio-ne della contemporaneità dell’arte come fattualità,aveva constatato come la forma formata, l’opera, di persé, non abbia storia e non faccia storia, nello spirito chela conduce: le opere, aveva detto, non sono schemi dellevicende spirituali, l’oggettività della loro presenzainganna, fermarsi su di esse non è guardarvi dentro maproiettarvi sopra l’impatto del lettore, e dunque parla-re di sé senza raggiungere, attraverso l’opera, la neces-saria trasparenza.

Ora la questione, aggiornata su una situazione che glipare andare guastandosi, gli detta una delle sue paginedi piú sicuro polso, Misticità e ironia nella pittura con-

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temporanea, secondo pannello di un dittico di cui l’in-tervento sul tradimento dei critici è l’altra parte. C’ètutta l’aria di una restaurazione a danno della passionepittorica, si tace scientemente sulle questioni vive delfare, le si traduce in divagazioni colpevoli; non si distin-gue a dovere tra intuizioni di ordine e grado diverso, traconoscenza intuitiva e conoscenze logiche, due modid’essere, connesso l’uno a fantasia, l’altro a intelligen-za, l’uno individuale l’altro universale, senza soluzionedi continuità fra creazione di immagini e produzioneconcettuale: il risultato di questa miscela, altamenteimpuro, è per Carrà dei peggiori. La passione d’arteviene raffreddata, l’ironia prende il posto dello slancio,si nega autonomia, non si cerca una superiore armonia,si manda in briciole ogni sintesi. È un principio perver-so, insiste il pittore, dalle conseguenze non calcolabiliche apre al dubbio e alla dissoluzione, dall’arte all’este-tica al comportamento e via evaporando la sostanza del-l’opera. Né gli basta la volontà, l’intenzione, la risorsaprivata di un Cardarelli che si trova a scrivere «la spe-ranza è nell’opera», ma non come solida affermazioneoggettiva, «io sono un cinico a cui rimane | per la suafede questo aldilà. | Io sono un cinico che ha fede inquello che fa». A Carrà la fede chiede di piú, e realtàobiettiva, è cosa, è pittura, infine.

E paventa una vera e propria crisi dell’arte, che sen-tiva superata con il lavoro compiuto distaccandosi daifuturisti. Col futurismo, pensa, l’attivismo fenomenicoe superficiale era dovuto ad un eccessivo abbandono aidee e programmi, a una «ideologia» che distrae dalleprofondità dell’arte; oggi, le figure letterarie, la retori-ca filosofica, l’insinuazione dell’ironia allontanano lapittura dal mondo che le è proprio e la espongono a unindefinibile negativo, a un vero e proprio «non senso».Proprio l’ironia è il veleno piú attivo, perché si offre

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come uno strumento apparentemente innovativo, chedissolve l’opera dell’artista a sua insaputa.

Per Bontempelli l’«ironia» è una realtà artistica, anziuna vera e propria forma, quella del pudore di fronte ainostri sentimenti; è un modo di allontanarsi dal contin-gente, di lasciar cadere un’adesione troppo stretta allasuperficie delle cose. Insomma un processo di non iden-tificazione, un modo per non drammatizzare il rappor-to fra identità e contingenza, che finisce per esaltare ilrelativo ed il momentaneo. Solo con un procedimentodel genere, secondo Bontempelli, si avvia il transito dal-l’opera come soggetto all’opera come oggetto, in cuicontano i movimenti e non gli stati d’animo.

L’unità ironia-pudore preme anche a Savinio. Lacoscienza dell’artista, a suo modo di vedere, tocca il mas-simo di chiarezza allorché percepisce la precisione ori-ginaria della natura; e a questo punto agisce il pudore,che sa come deformare, nel riprodurli, gli aspetti terri-bilmente chiari del reale: «Ne pas livrer l’âme nue, –propone Ungaretti, – la Science des ombres est la grâcedu soleil». E perfino Soffici è d’accordo: bisogna scen-dere dai trampoli dell’ideale, bisogna saper constatareche la verità la piú elevata è dentro i fenomeni e si ritro-va intatta nella varietà e nella molteplicità. Bisognasdrammatizzare, uscire dai guai della trascendentalità edelle degnità vichiane, occorre sapersi calare nello spet-tacolo della vita con grazia leggera, senza scopi e senzafede. L’ironia, per Soffici, è l’arte stessa, che sa far gio-care e scintillare il suo grande e puro prisma solo se èfuori da ogni dottrina.

Carrà è poco disponibile a simili ipotesi, anche setalune considerazioni, quelle di Soffici per esempio, lotrovano anche d’accordo. Riprende il discorso dallo spi-rito artistico, e avverte «ogni pressione che tende a vin-

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colare il sentimento della libera intuizione, non sarà uncoefficiente ma una menomazione». La misticità è il sen-timento estetico piú elevato, per il senso di primordioche lo alimenta e per la consolazione che porta agliuomini di fantasia. Ne sono intrisi Soffici, Derain,Carrà, Matisse e Spadini (ma gli ultimi tre confondonoil misticismo con la sensualità): artisti della razza di chiviene all’arte per puro amore della cosa, che è la supe-riore finalità dell’arte oggi contraddetta dall’ironia. E l’i-ronia non è neppure una soluzione, magari negativa, mauna malattia o un sale corroditore: un pessimismo chedissolve e che solo può essere superato «dall’ardore con-sapevole di una nuova dottrina di fede». E invita alladiscussione, vorrebbe che altri lo illuminasse di nuovilumi. Ma non avrà repliche.

Principî di un’estetica

Il libretto che Soffici pubblica nel 1920, Primi prin-cipî di un’estetica futurista, è il risultato di una serie diuscite in rivista lette con grande attenzione dal pubbli-co interessato. E non solo perché fra i personaggi di spic-co del dopoguerra è forse il piú seguito e ammirato,come poeta a partire dai Chimismi lirici del 1915, cherappresentano per molti un apice di sensibilità partico-larmente significativo, dal momento che non abbando-na, anzi affina, un suo piú lungo discorso poetico, senzacrisi particolari di fronte ai rifiuti cui il futurismo mari-nettiano va incontro: anzi ne rappresenta una varianteseriamente impregnata di lirismo e senza cedimenti arigidezze programmatiche. Lo seguono attenti Ungaret-ti e Carrà, Savinio e De Chirico. Gli scritti d’arte, e oralo scritto di «estetica futurista», attirano ancor piú l’in-teresse.

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Ungaretti lo recensisce subito, e lo fa sotto un titoloche mostra come con l’opuscolo abbia fatto i conti luistesso, Histoire de nôtre jeunesse; poi ristampa il branosulla rivista di Jeanneret (il futuro Le Corbusier) e Ozen-fant, lo stesso «Esprit Nouveau» per cui traduce infrancese lo scritto polemico di Carrà sulla crisi dei cri-tici italiani. Il titolo, questa volta, è La dottrina di Lacer-ba. Gli sono piaciute molte cose dell’opuscolo, in parti-colare l’insistenza sulla pittura «pura», priva di sugge-stioni esterne, siano sentimentali o etiche, letterarie odi pensiero, cioè una condizione senza finalità, espe-rienza a se stessa, e quindi gioco, artificio, gratuità. PerUngaretti puro e mistico si somigliano, ma in una acce-zione particolare, se mistico è per lui ciò che imprime alproprio sviluppo un andamento soprattutto attento aivalori spirituali e che, al contempo, non può trovarealtra via se non quella percorribile con l’arte. È un sensoinnato, una sorta di istinto da vivere per quello che è eche non può esser tradotto, trasferito o riproposto senzaperdere alcuni caratteri specifici, la fatalità e la solitu-dine. Ambedue parlano solo ad una cerchia moltoristretta, di iniziati, di artisti e di amateurs. (Ecco duemomenti cari a Carrà che si affacciano, la comunicazio-ne a circuito stretto, da genio a genio, e la misticità come«fatalità» cui non è dato sottrarsi).

Solitudine e fatalità parlano, non comunicano, isti-tuiscono dei cortocircuiti su motivi comuni ad autore elettore, usano una cifra, un argot. Soffici ha scritto cheormai all’arte basta un segno per essere intesa, ed Unga-retti precisa che l’arte è cifra, perché in essa i terminiespressivi si faranno sempre piú condensati, sintetici,essenziali, fino ad assumere l’andamento di una grafiaconvenzionale, che ha carattere occulto e astratto. L’ar-te è gergo e linguaggio furbesco, ha detto Soffici: per chinon vuole che esprimere la parte piú sottile, misteriosae vibrante di se stesso, è indispensabile un linguaggio

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occulto o una sorte di cifrario, qualcosa che non offraresistenza e lasci intendere.

«Per un’ulteriore educazione dei sensi e dello spiri-to, per creare una nuova coscienza della bellezza», è l’in-tento del non-trattatello di Soffici. L’arte, vi si dice, èla continuazione sintetica di una personale, ardente vitadei sensi; ha inizio con un fatto critico, nel senso che èun riflesso del giudizio che sull’espressione spontanea siformula. La realtà di un simile riflesso è un «misteroemotivo» affidato alla combinazione di colori piani lucivolumi e superfici o proporzioni. Ma, se le cose stannocosí, perché prendere sul serio l’arte, perché venerarlacome fatto sacrale, dal momento che in quanto arte nonva venerata (se mai serve per afferrare ciò di cui è rifles-so), né deve risultare comprensibile (perché è la suamobilità a permettere aperture e spiragli e aperture, etale mobilità deve essere estrema, la piú estrema possi-bile)?

L’arte è decisiva perché l’esperienza che comunica odetermina non coincide, non si identifica con l’arte stes-sa. E quell’esperienza non è una semplice congiunturaautobiografica. Il canzoniere di Ungaretti avrà per tito-lo Vita di un uomo, e lo stesso Ungaretti potrà scrivere:«je ne suis pas un poète, mais un homme», aggiungen-do che si tratta di una specie assai rara: un uomo che habruciato la propria vita in nome di qualcosa di piú gran-de dell’uomo, cioè in nome della poesia. Resta l’altroaspetto, il rapporto arte-pubblico, artista-lettore; uomopoeta - uomo lettore per usare i termini ungarettiani,non entrano in sintonia perché hanno in comune unarealtà da rappresentare, ma per l’affacciarsi entrambi adun originario, che ha la malinconia autunnale della matu-rità ottenuta e della solitudine e della lontananza del-l’originario stesso. L’esperienza artista-lettore è quella

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della comunanza di fronte a un archetipo smarrito, di cuirestano i segni e un istinto di ricerca.

Ma ciò che piú preme all’«estetica» di Soffici è affer-mare che l’arte non può che tendere al proprio annien-tamento, perché è solamente arte e non altro: la suamassima purezza è garanzia di accelerazione del pro-cesso di annullamento, simbolo della sua relativitàrispetto a dei fini. Non è sfiducia nell’arte quanto biso-gno di andare oltre a partire da quest’ultima, dalla suafinitezza; e al tempo stesso è essa stessa la condizionedel superamento.

Nell’unico scritto che De Pisis pubblica su «ValoriPlastici» è proposta una drastica distinzione tra Artefigurativa e arte plastica, come suona il titolo del brano.Figurativa è la contemplazione del mistero, della perdutadivinità e del piacere da realizzarsi, tra frustrazione diciò che è perduto ed esaltazione del piacere che neaccompagna, come un’eco o un’allusione, la scomparsa.È il regno dell’incommensurabile, del non essere, del-l’ineffabile. Figurativa è l’arte del non limite e dei noncondizionamenti; dello stato d’animo diverso, dell’a-normale e del patologico, estasi, suggestione, ardore,magnetismo, meraviglia e straordinario, delirio e visio-ne spettrale del dolore (dal momento che la coscienza sadi non poter recuperare i termini del mistero per appro-priarsene e conosce i limiti della volontà di divinizza-zione). Plastica, invece, è l’arte che è costretta a muo-versi nei limiti, in quelli particolari della pittura, dellesue risorse e delle sue invenzioni: arte sottile, perché èlegata al dramma di forme che assorbono e nascondonoed è connessa alle qualità del pittore cui tocca interpre-tare forme e figure per ciò che celano e la tecnica per ciòche sottrae. Due mondi, figurativo e plastico, l’arte e lapittura, che non possono essere contrapposti; ci si develimitare ad una sorta di progressione, dalla pittura all’ar-

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te, dalle forme plastiche alla figurazione, in una visionepragmatica delle possibilità concrete dell’artista.

Stiamo parlando di un’avanguardia, di un’avanguar-dia che fa della virtualità e potenzialità la sua ragiond’essere; un’avanguardia potenziale. Papini licenzia lafilosofia a favore dell’azione e segnala i limiti dell’arte;Soffici è pronto a dare l’addio all’arte in nome di un’e-stetica di una sensibilità generalizzata che l’arte tra-scende; De Chirico ci informa di un vero filosofo che saabbandonare la filosofia in nome di una superiore sag-gezza, ed è questo gaio scienziato, per lui, l’artista;Carrà si pone al servizio di una misticità anteriore all’o-pera e piú vasta di questa; De Chirico e Savinio sannoche l’arte non «spiega» il mondo e si pone al varco del«non senso» che sta in questa assenza di continuità; DePisis vuole approdare al non essere e Ungaretti affidaall’arte un ruolo di cifra, come un argot.

Ma la potenzialità non va intesa solo in questo senso,di sospensione e di rimando: ha anche un senso storico.De Pisis sa che siamo di fronte ad una grande occasio-ne, ma anche ad un’occasione che va perduta, perchéipotesi, certezze, convinzioni, esperienze si presentanoa brandelli, in una frammentarietà «per cui non si rie-sce (la colpa è anche della nostra miseria!) a ottenere lafusione di molte belle energie in un’opera organica». PerDe Pisis bisogna mettere in conto l’umana «miseria»,ma alla base dell’aleatorietà di un’avanguardia poten-ziale come questa c’è una questione di realismo. Lo spie-ga lo stesso De Pisis, quando auspica una poesia senzaforme: è un augurio, una tensione, un desiderio, che vaal di là delle possibilità del poeta. Il quale, per il fattodi essere artefice, è chiamato a «mettere in forma» atte-se e bisogni, e dunque a scontrarsi con la realtà delleforme almeno in quanto potenza del mondo poetico: euna sana diplomazia della realtà richiede che la que-

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stione non solo non sia taciuta, ma non si trasformi inutopia. Il che ancora una volta sposta l’attenzione sul-l’artista: «occorre rendersi padroni dei proprii mezzi»,commenta De Pisis.

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Capitolo quarto

Le grandi manovre

Soffici Rosai Morandi

Con i primi anni ’20 tutto il quadro della situazioneartistica è in movimento: le iniziative non mancano,l’attenzione per il lavoro in corso e l’interesse per inca-nalarlo e regolarlo o spronarlo è vivace. La critica risen-te di una condizione strumentale, non è intesa tanto acapire ed approfondire singole esperienze e a muoveredi lí per organizzare profili e panorami o per trarre visio-ni globali; oppone a un simile pragmatismo idee gene-rali e progetti che interpretano attese diffuse entro la cuigabbia riconduce personaggi e forme. Né la cosa stupi-sce, se è vero che le vicende dell’anteguerra e del pri-missimo dopoguerra hanno mostrato una vivacissimaesigenza di cogliere destini diffusi e ragioni comuni: ciòche va registrato è come l’attesa degli artisti, che istan-ze e modelli dovessero derivare dai risultati del lorolavoro e dai chiarimenti che portavano con sé, sia rapi-damente rientrata. Con qualche resistenza, ma senzaurti notevoli.

Carrà ha detto che la stagione dell’individualismoesasperato va considerata chiusa: se ne restasse tracciaandrebbe combattuta come un bacillo pericoloso. C’è unbilancio personale nella frase, e ci sono considerazionigenerali. Nonostante irritazioni, puntate polemiche edopposizioni, il lavoro con De Chirico è stato prezioso,

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gli ha chiarito le sue posizioni e gli ha confermato comeil profilo di un’arte matura passi per ragioni comuni, perconnessioni in cui l’empito individuale deve essereripensato in un quadro piú articolato e complesso. L’i-solamento, lo scontro personale, l’opposizione al pub-blico come forma eroica e singolare non hanno ragiond’essere. Resta il problema di non soccombere nel ritor-no all’ordine in corso e di non rinunciare a una propriaaffermazione convincente. Ed è anche questione di col-locazione e di alleanze, nelle grandi manovre di critici,organizzatori, esegeti e mercanti.

De Chirico è attento a quanto accade a Milano, è iso-lato e in difficoltà nell’ambiente romano, guarda a Firen-ze. In fondo, pur non condividendone posizioni e iso-lamento, non è distratto da quanto fa Soffici, e le azio-ni che questi nella città toscana va compiendo per con-sentire una vita culturale di qualche peso lo riguardano.Cosí dirà la sua sulla ampia retrospettiva che Soffici pre-para nel febbraio del 1920 e sarà attratto da un’altramostra fiorentina, di un giovane propiziato dallo stessoSoffici, la personale di Ottone Rosai. Scrive di tutte edue ed è un modo per dire alcune cose importanti, dipolitica artistica e di ragioni pittoriche. Non può nonapprezzare Soffici, ma lo mette in difficoltà quel suochiudersi in uno spazio troppo solitario ed in una posi-zione che gli pare foriera di contraccolpi e reazioni: ildiscanto rispetto a Carrà, la pochezza di pittura e l’in-capacità al disegno che De Chirico sente nel compagnodi avventura, da un lato gli fanno temere una solitudi-ne di posizione che lo riavvicina al toscano, da un altropunto di vista lo invitano a parlar chiaro e a dire quan-to non gli piace nel lavoro di Soffici. Non è il caso difare questioni di gruppi o schieramenti, ma i rischi pre-senti in una ricaduta di individualismo gli sembranotroppo gravi per non parlarne, dal momento che signi-

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ficano un modo inattuale ed inadeguato di intender lapittura, che intacca i risultati ottenuti. E allora ecco DeChirico scrivere che Soffici e un buon pittore, che saintendere cosa valgano trasparenze nette e colore benorganizzato, che riesce a portare avanti una sua idea dipittura senza tradire sforzo, ed è privo di ingenuità. Mai suoi innegabili pregi sono posti sotto il fuoco di unritardo storico; continua a pensare l’arte come contrap-posizione a ciò che oggi non va, come polemica e teo-ria, non come convinzione in sé stessa. Soffici si spen-de là dove non dovrebbe e si distrae da un centro piúvero di ricerca. Cosí mette insieme una salutare esigen-za come quella di un classicismo moderno con rivendi-cazioni di rinascimenti quali quelli predicati da Ojetti,cadendo in uno scolasticismo degno dell’accademia, innome di convinzioni e non di fatti pittorici. Si vuoletener fede a una tradizione? E allora non se ne discutama la si faccia, si ragioni su che cosa è, come sia fatti-bile, e non si parli di natura morta o di paesaggio o dicomposizione con figure: ciò che conta è la responsabi-lità a fronte del quadro, la sua costruzione, il non impor-re alla figura, proposta attraverso il disegno, ragioniespressive, cromatismi ed esigenze di luce o movimen-to. Che sono distrazioni rispetto al modello mentale ealle motivazioni sostanziali che il quadro deve offrireallo spettatore.

Chi vuole rifarsi agli antichi non li colga sul versan-te pittorico, ma ne apprezzi i risultati attraverso statuee monumenti avverte De Chirico; la scultura permettedi cogliere quanto debbano valere le regole generali,mostra come la continuità della linea valorizzi la figurain quanto segno e quindi in quanto valore significativo,permette di capire la logica delle forme nel lirismo del-l’immobilità. La pittura ricavata dalla pittura è lezionemonca di una fantasia che non ha dato tutta se stessa,che non ha maturato e risolto le ragioni per cui si è volta

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cosí lontano a cogliere il senso profondo delle cose: conun risultato che ha del naïf perché difetta di vera espe-rienza.

La mostra che De Chirico ha recensito è fittissima.Centosessanta opere fra tele e disegni, dai primi lavo-ri alle opere futuriste, quando, spiega De Chirico, Sof-fici agisce per scomposizione e trova i suoi equilibri congiornali, carte colorate e altri materiali, a collage; poi iquadri di metà anni ’10, di ridiscussione di temi pla-stici e di soluzioni spaziali, e sei o sette cose recentis-sime, paesi, o nature morte con bottiglie, un mandoli-no fabbricato in trincea, un pugnale conficcato in unascatola. Piacciono al recensore la freschezza e la natu-ralezza di taluni colori, certi gialli, o i grigi o i turchi-ni, che gli ricordano le pitture, su per i muri delle oste-rie, che si vedono in campagna. Ma soprattutto indicagli oggetti, il loro senso di vita quotidiana, il gesto sor-preso nella scelta dei temi, una suggestione di metafi-sica quotidiana, di attenzione ad un grumo minimo divita nascosta: è il punto di congiunzione piú prossimoai suoi interessi.

Soffici sta giocando a tutto campo; oltre alla mostra,un catalogo sistematico di presenza a tutte le grandioccasioni di un intero ventennio, in prima fila e senzasudditanze dal lavoro altrui, nel giro di pochi mesi hastampato tre libri e redatto da solo quattro fitti fascicolidi una sua personale rivista, «Rete Mediterranea». Haraccolto un decennio e piú di pubblicistica sull’arte edaltrettanto ha fatto per la letteratura: il suo non è lavo-ro iniziato oggi, non è scoperta dell’ultima ora la suaattenzione a certi valori preminenti, ma anche non è ilrisultato di una polemica contro avanguardie e momen-ti di punta europei. Al contrario, come i saggi raccoltiin Scoperte e massacri, e in Statue e fantocci stanno a

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dimostrare, all’Europa ha guardato con attenzione per-ché in Italia fosse possibile far maturare ragioni che ilbasso livello intellettuale delle discussioni artistiche, eletterarie, non permettevano di far emergere: ora il lavo-ro compiuto dà i suoi frutti; se Soffici può, infine, vol-gersi all’Italia con il massimo di partecipazione e di sti-molo è perché quei risultati sono forieri di maggioriesiti, e proprio Soffici è in condizione di prestare uncontributo non secondario. Questa presenza massicciarivendica a Soffici un ruolo, e un’alternativa rispetto agliavvenimenti in corso. Chi vuole intendere intenda, e chivuol seguirlo sappia che cosa egli sente e come si vuolemuovere.

Si è tenuto lontano dalle proposte di Ojetti, come daquelle della Sarfatti, osteggia collettivi, accolte di gio-vani e disegni critici, ha rifiutato l’invito di un criticoattento e sensibile come Nino Barbantini che prosegueun’intelligente opera di indicazione di valori a Veneziaa Cà Pesaro. Non gli interessa che si ammucchino gio-vani e meno giovani in luoghi disadorni dove non si hamodo di leggere quanto ciascuno ha da proporre e imigliori finiscono per scontrarsi in modo accozzato: que-ste mostre cosí in voga, nel migliore dei casi sono deisalotti mondani – argomenta agli amici – in cui tuttihanno ragione e torto al tempo stesso, e sempre torto isemplici, i sinceri, chi si muova in buona fede. Si potreb-bero invece fare mostre fra artisti affini ed intelligenti.Ma evidentemente non ne trova.

Si sente tradito sul piano critico, non gli vanno le let-ture del suo lavoro come rottura col passato e comenovità di stagione. Espone a Venezia alla Biennale del1920 e se la prende con chi come Barbantini ha sottoli-neato una stagione futurista ora abbandonata per un’al-tra ragione tematica e stilistica. A Barbantini scrive unalettera molto precisa: il suo è stato un lavoro per porta-re a galla in modo responsabile certe componenti istin-

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tive e popolari che la pittura in voga soffocava e che leesperienze successive hanno dimostrato essere valide. Enon si parli di frattura e di ripresa, la sua è continuità edelle migliori. «Se Lei conoscesse certi cartelli di botte-ghe e di venditori ambulanti toscani, avrebbe visto chela mia arte attinge al fondo nazionale, e anzi regionale.I futuristi, col loro dinamismo, con le loro compenetra-zioni di piani e simili idiozie, facevano tutt’altra cosa».È un invito a non confondere i procedimenti di ricercacon i mezzi impiegati: che lo rendono diverso ieri daifuturisti come ora da Carrà o De Chirico «che peccanocontinuamente di arcaismo, di museo primitiveggiante –io facevo se mai dell’ultrarealismo».

Per gli amici che gli sono piú vicini e lo conosconomeglio valgono altre spiegazioni: Prezzolini, in un suolibretto di ritratti, scrive: «vedete un po’ Soffici checrede di esser diventato uomo disciplinato e borghese,eppure non riesce a trovare una sola rivista, un solo gior-nale, un sol gruppo col quale andare d’accordo, e non fache realizzare, da uomo, il sogno che fu sempre suo dagiovane, una rivista»; lo stesso Prezzolini, in privato,rimprovera il pittore: «è impossibile parlare con gli inna-morati, e tu sei innamorato dell’Italia come lo eri dellaFrancia qualche anno fa»; Papini è ancora piú duro: «èinutile seguitare. Alle mie ragioni rispondi con atti difede. Va benissimo. Valeva la pena lasciare le vecchiereligioni per divenire i bacchettoni della dea Ausonia edel suo Santo Gabriele!... il tuo semplicismo politico èdiventato passione e fanatismo».

Dopo Soffici, Rosai; e, da parte di De Chirico, dopoil richiamo alla scultura antica nella recensione a Soffi-ci, una memorabile paginetta sul disegno nello scritto sulpiú giovane. Che è presentato da Soffici come uno deipochi artisti nuovi interessanti e come uno dei punti diriferimento per le nuove generazioni. Sa inventare,

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Rosai, sa imporre uno stile, con sapienza di deforma-zione ed armonia di composizione bene assistite da capa-cità tecnica; ed ha finezze cromatiche, forza di segno edi impasto. La prevalenza del disegno, la forza emotivadella stilizzazione in Rosai è notevole, come lo è il ricor-do di certa pittura classica toscana, da leggere non in ter-mini di colore, come fa Soffici, ma là dove la indica DeChirico, nella rarefazione narrativa della composizioneche determina una sorta di atmosfera sospesa, di assor-ta immobilità ed incombenza. La suggestione giusta per-ché De Chirico apprezzi le ramaglie di segni o gli acco-stamenti grafici come una sorta di scherma intellettua-le sottilissima (appunto, suggestiva, tale da mettere inmoto lo spettatore), una lama temperata affidata adesperto spadaccino. Col risultato di poche, precise operecariche di una misteriosa energia trattenuta fra attesa diun qualche evento, di un movimento di vita, ed un gransenso di vuoto. Piú che i notevoli paesaggi, De Chiricoapprova, cioè, gli interni, dove, tra le pareti o sotto l’ar-co di una volta, è come incuneato un gruppo di perso-naggi, e davanti uno spazio vuoto o un improvviso muroche chiude: quasi stessero davanti ad un palcoscenico inattesa di uno spettacolo che non ci sarà mai.

De Chirico ha accennato, a proposito di Soffici, alrapporto disegno-pittura nel quadro, ha negato autono-mia espressiva alla pittura, materia piú che sostanzapoetica, ed ha ribadito il suo interesse per un disegnocome metodo e ragione autonomi, non come base o sup-porto o schema del quadro, come mezzo al servizio dellapittura, ma come modo logico e fantastico per costrui-re nell’attenzione dello spettatore la continuità di unalogica fantastica, di un discorso poetico che è scopo del-l’opera. Ora, di fronte ad una paretina in cui Rosai haraccolto alcuni suoi fogli, il critico-pittore può spiegar-si quanto basta: ed esplode uno dei momenti piú altidello scrittore d’arte.

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Tra i fogli esposti, proprio in centro parete, ecco unamano di Rosai che il pittore ha guardato con analiticaattenzione ed ha raffigurato secondo un taglio moltointenso. De Chirico «legge» il disegno, ricostruendo ilprocesso logico-fantastico che esso mette in moto, cheè poi quello della rivelazione pittorica che lo stesso DeChirico chiede alla pittura. Scrive, dunque:

mettendo in moto gli ingranaggi della nostra fantasia, abbia-mo visto quella mano attaccarsi un cubito, e al cubito attac-carsi il radio e il radio all’ulna, e formarsi l’omoplate, e lacolonna vertebrale reggere un tronco, e su questo posarsiun teschio come un birillo, e il tronco posare sull’osso sacro;e venne il femore ad ingranarsi nella tibia, e sotto le setteossa del tarso e del metatarso, e, finalmente, le falangi delpiede, del piede base di ogni scheletro, che si rispetti; e que-sto scheletro si rivestí di muscoli e nervi, e questi di carnee di pelle, e apparí un vero uomo come quello che vedem-mo nascere dalla mano di Ottone Rosai.

Vale la pena ricordare un’altra uscita fiorentina di DeChirico. Non per l’occasione, su cui torneremo, ma peril fatto che De Chirico, presentatore in catalogo del«giovane» pittore bolognese Morandi, ha modo di svol-gere un altro dei ragionamenti che gli stanno a cuore, delmetodo dell’arte, della funzione dell’artista in un talmetodo e del «ritorno al mestiere», argomento cui hadedicato uno dei suoi scritti piú impegnati. Già nell’ar-ticolo su Soffici ha detto come si correggano certe stor-ture del moderno e certe contraddizioni dell’arte nuovalavorando in un certo modo, badando all’antico comelogica di risultati da ottenere e non come aggiustamen-to di modelli operativi. Ma se al centro del discorsodevono essere i fini dell’arte e le risorse di mestieredevono portare in porto quella visione, qual è il meto-do di lavoro dell’artista? In che modo questi si fa parte

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cosciente di un’esperienza piú ampia e totalizzante? DeChirico vuole reagire all’idea di un «ritorno all’ordine»come quella che si va diffondendo ora in Italia.

Proprio su Morandi è stato scritto che il suo meritomaggiore è una sorta di umiltà operativa che lo riscattadall’aura romantica del personaggio protagonista ed ori-ginale: e De Chirico è pronto a ribattere che un similemodo di intender le cose è invece un ripristino camuf-fato di quel mito, perché l’onestà tecnica e professiona-le non intacca la questione arte e non la porta in primopiano. Il «ritorno all’ordine» non si spinge aldilà dellarivendicazione di un ruolo esemplare per l’artista. Men-tre si tratterà di sapere quali orizzonti nuovi si vogliatoccare attraverso un corretto uso del mestiere, e nonsolo di mostrare virtú o stati d’animo del pittore. È unacapacità nuova, diversa, della pittura ciò che De Chiri-co pretende, e riconosce nell’artista bolognese.

Dice di Morandi che ha raccoglimento e attenzione,concentrazione e adesione giuste per un lavoro continuoche non elude la realtà quotidiana ma la approfondiscefino a scavare nel tempo e riallacciarsi con la piú auten-tica italianità. In tal modo il lavoro diviene lirismo, cioèespressione serena e totale e non solo stato d’animo,metodo e comportamento, opera di uno spirito casto eonesto che sa guardare ad un tavolo con pochi oggetticon la medesima commozione da cui era scosso l’animodi un viaggiatore nella Grecia antica. Né su quel tavologli oggetti sono posti a caso: Morandi raggiunge, pitto-ricamente, la «metafisica degli oggetti comuni» nellanitida forma di bicchieri e bottiglie come nella «sacrapagnotta scura e screziata di crepacci come una rocciasecolare». È quella intenzionalità di lavoro, quel meto-do e quel mestiere, aggiunge De Chirico, che porta al dilà dell’inerzia dei volumi in pittura e restituisce aglioggetti il giusto senso del tempo, in termini di forma

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depositata, di fermezza corrugata dalle stagioni e direcupero di evidenza.

C’è nello scritto, come nel suo implicito distinguopolemico, una rivendicazione di veri e propri contenu-ti poetici, degli oggetti dipinti come dati concreti emotivati, e come tali drammatizzazione, cioè evidenzasignificativa, di pensieri e sentimenti. Il lavoro, quelmetodo di lavoro, spoglia da convenzioni poetiche opittoriche, che fanno intendere come forme contingen-ti e passive gli oggetti e pure occasioni di chiacchiera cul-turale, e al tempo stesso dà vita a curiosità ed a visio-narietà.

La rivendicazione dechirichiana aiuta a legger megliole opere di Morandi, esposte con un’ampiezza che fa diquesta presenza la vera e propria prima personale del pit-tore. Specie le tele di «natura morta» (poi saranno chia-mate anche «metafisiche») in cui la natura meno con-sueta degli oggetti prescelti ha indotto ad interpretazioniper lo piú di rarefatta intellettualità. Compaiono ogget-ti di legno e ferro, armature spaziali e squadre da dise-gno. Uno dei primi esegeti, Franchi, ne discorre comedi «studi della sordità aerea di una stanza dalla luceeguale», e quindi come di astratte, quasi algebrichecostruzioni, in cui però non manca di esser notata lamanualità e la sensibilità del pittore... In realtà gli atto-ri, in quel caso, sono certo tempo e spazio deliberata-mente essenziali in stilizzatissime strutture, ma non vadimenticato quanto vi contino gli oggetti, tratti dal lavo-ro quotidiano del pittore, squadre regoli metri ellissi, edanche scatole a graduazione prospettica, ombre e preci-sazioni di luce, mutazioni sottili dei punti di vista. Inquesti oggetti è determinata una stretta connessione frastabilità o durata della loro presenza e la forza, o ten-sione, del colore, del tono, della materia, quasi ad avver-tire in modo lentissimo come quel mondo si sia allesti-to e definito e per quale tenuta emotiva sia giunto a quel

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punto d’equilibrio. Una compenetrazione compositivache non è degli oggetti in se stessi, quanto di un mododi vederli e di scoprirli o rivelarli.

Carrà Ojetti Sarfatti

Per quanto caotica e male assecondata criticamentegli appaia la vita artistica milanese, è a questa che Carràbada con piú attenzione. Né De Chirico manca di pre-starvi occhio, in un breve momento di attività di criti-co che recensisce con qualche sistematicità le mostredella città lombarda. De Chirico è attento soprattuttoalle attività di galleria alle prese con mostre personali,convinto che sia a Milano che la realtà artistica è piúvivace e foriera di possibilità, ma anche deluso che gliartisti non traggano ispirazione dal carattere moderno edeuropeo della città. Gli spiace questa assenza di interesseper il farsi concreto della vita attuale e delle sue possi-bilità di suggestione e di interpretazione; ne ricava unaconvinzione ulteriore di negatività di buona parte degliavvenimenti in corso. Non è un caso che proprio a Mila-no, nel ’21, tenga la sua prima personale, una mostra cal-colatissima ed importante che cadrà in un pressochétotale silenzio.

Intanto è a Milano che la battaglia delle formule edelle proposte critiche, attraverso collettive o selezioni,è piú fitta. Val la pena ricordare alcuni episodi di variopeso e significato. A cominciare, marzo 1919, da una«Grande esposizione nazionale» alla Galleria Centraled’Arte con cui i futuristi rientrano clamorosamente. Incatalogo Marinetti propone un ventaglio di quattromomenti o correnti di sensibilità futurista, parla di «pit-tura pura», fondata sul chiaroscuro e la ricerca di valo-ri plastici, di «dinamismo plastico», come sintesi del-

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l’universo fondata sulla somma di forze o di simultaneitàtempo-spazio, correlata a sintesi di forma-colore, aggiun-ge gli «stati d’animo colorati», non legati a preoccupa-zioni plastiche ed intesi in qualità di straripamento dellapittura nella letteratura in accordo con il recupero disensibilità ottenuto dalle tavole parolibere, e il «deco-rativismo dinamico», una pittura a tinte piatte. (Carràè assente dalla mostra. E Marinetti annota nei suoi Tac-cuini: «A Milano vedo Russolo. Si discute della vigliac-cheria di Picasso che torna a Ingres (pittura precisa damuseo) di Carrà che torna a Giotto di De Chirico chepure si dà al ritratto minuzioso trompe-l’oeil preciso giàfatto da tanti (fra gli altri da Balla)», o, ancora: «DaNotari. Domenica. Grande discussione pro e special-mente contro Le figlie di Lot di Carrà imitazione e quasiplagio di primitivi»).

Ojetti, sotto il titolo di Arte italiana contemporanea,apre prima di tutto agli scultori, gli Andreotti, Bistolfi,Bossi, Maraini, Minerbi, Troubetzkoy, Wildt cui vannomaggiormente le sue attenzioni come al settore di pro-duzione piú avanzato nel quadro dell’arte moderna; ipittori, da Alciati Bazzaro Bucci Carpi Casorati Dudre-ville a Fragiacomo Ghiglia Malerba Gola Martini RossiSelvatico Semeghini Tito completano il quadro, all’in-segna della continuità dall’Ottocento e di qualche aper-tura in nome della qualità, o della serietà di lavoro (e,in catalogo, elogia la fedeltà del pubblico di fronte allapazienza, diligenza, ed esperienza della critica piú seria).La Sarfatti, che ha in programma il superamento delletendenze e una convergenza di intenti, ha invece sceltoCarrà, Sironi, Funi, Russolo e Dudreville insieme aBucci, Carpi, Costantini, Marussig, Penagini, Schalk,Zanini, Piatti, De Chirico, con la presenza di un unicoscultore, Arturo Martini. (Poco dopo è la volta, 1922,di una rassegna a Bottega di Poesia di Casorati OppiZanini Malerba Marussig Carrà Dudreville Funi Tosi e

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Bernasconi, fra gli altri, in nome di «promesse di un’ar-te risanata le cui immagini tornano, per imperfette chesiano, a voler essere modulate sui lineamenti di unmondo rifattosi intimo e silenzioso». È una mostra inrisposta alle due precedenti, e una recensione fa notarecome ormai gli artisti si muovano lasciando traccia di«piccole note di lealtà» mentre la critica dorme, nelvasto letto della tradizione, il sonno grave del giusto benpasciuto).

È il momento, questo, in cui inizia a trovar posto edevidenza Arturo Martini, presente sui fogli di «ValoriPlastici», poi protagonista di una tournée tedesca volu-ta da Broglio, lodato con cautela da Ojetti, presentatodalla Sarfatti, ammirato da Carrà (una sua personalealla Galleria Arte di Milano, presentata da Carrà, seguedi poco la mostra della Sarfatti cui s’è fatto cenno).Proprio la Sarfatti ha esposto un bassorilievo (non un’o-pera di totale tridimensionalità), Gli amanti, di cui hasottolineato la modellatura rotonda e non molle ed unapiacevole rigidità che sa di asprezza acerba di un fruttoche non vuole scivolare nel flaccido. È chiara la con-trapposizione alla plasticità ed al formalismo degli scul-tori amati da Ojetti, ma è anche evidente una letturatutta pittorica: parla di volume e densità ma è attentaall’evocazione narrativa del pezzo, ai valori figurativi,«un angolo di campagna, e, sotto il tetto rustico, dagliembrici spioventi, un contadinello che, abbracciato allaforosetta, le offre con timida grazia un fiore». Cogliecosí almeno una volontà di Martini, la distensione dellosviluppo plastico del bassorilievo, resa piú morbida dallabattuta della luce con suggestioni cui non sono estraneiné Carrà né De Chirico, e neppure Funi. Su «Valori Pla-stici», nel fascicolo del maggio-giugno 1920 (da riportarea parecchi mesi piú tardi), sono riprodotte varie opere,ed una, La pucelle d’Orléans, con una sequenza di tre

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punti di vista diversi. Occasione memorabile, se si tienconto dello scarso entusiasmo della rivista e di quanti vigirano attorno per la scultura: sappiamo dai carteggi diMartini che l’idea di ospitare discorsi sulla plastica, acominciare da una conferenza dello stesso Martini sullascultura e da alcune note di Comisso, cadrà nel nulla.Interessa, in particolare, il gioco delle tre riproduzionidella Pucelle, omaggio vagamente letterario a Giovannad’Arco, almeno nel titolo. Le riproduzioni successiveraffigurano ogni volta frontalmente l’oggetto, ribaden-do una linea avvolgente, continua, luminosa che tienestretto al piano di fondo l’aggetto delle parti plastiche;ed accentuando il tema, l’innesto dell’energia rappresadel cavallo sul cavaliere ben saldo, ma sfumandolo inatmosferica sensibilità. La proposta è dunque quella del-l’evidenza plastica piuttosto che la sodezza volumetricache Martini vuole precisare: in una direzione, ancorauna volta, cara alla pittura, è sottolineata la sottigliezzadi sviluppo dell’intera composizione, e quindi l’unitànarrativa.

In un gioco serrato di intenzioni critiche, contrap-posizioni di programmi e ragioni pittoriche, che a Mila-no ha il suo centro piú vivo, Carrà ha un suo posto e unaprecisa ragione di presenza; ma deve definire il proprioruolo. La Sarfatti lo invita, Ojetti gli affida una colla-borazione alla rivista che sta preparando, Soffici si rivol-ge a lui, Somaré ed altri lo hanno ben presente.

Negli stessi mesi in cui partecipa alla mostra dellaSarfatti si pubblica un manifesto che lo interessa diret-tamente. Si intitola Contro tutti i ritorni in pittura e pro-clama una decisa preoccupazione per i rigurgiti di pit-tura accademica, come per un certo impressionismo riaf-fiorante, ma, soprattutto, per quelle forme di rappre-sentazione che appaiono piú direttamente legate a miste-ro, magia o spettralità, e ricavate da suggestioni lette-

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rarie o da climi metafisicheggianti. Tutti modi pernascondersi la questione della forma e le esigenze dellacomposizione, che sono poi i veri problemi sul tappeto;in contrasto con quanto aveva affermato Boccioni, peril quale centro dell’opera è una logica interna al quadro,capace di costruire secondo modi armonici e ritmici.Carrà è chiamato in causa direttamente: ha dimentica-to la lezione di Boccioni ed ha preferito la via di una sug-gestione figurativa di tono primitivistico che allude inve-ce di affermare e vive di atmosfere invece di decidersiper l’evidenza della struttura visiva. Inoltre, perché sce-gliere Giotto, quando questo pittore non rappresenta unpunto di arrivo, ma qualcosa che ha poi avuto il suoincremento e la sua realizzazione con Raffaello e conMichelangelo, a riprova che ciò che conta non è unmodello ma uno sviluppo ed un processo?

Lo scritto, firmato da Dudreville, Funi, Russolo eSironi, cioè da pittori cui Carrà è in qualche modo vici-no (ha appena parlato di Funi su una rivista, espone conloro), non è di facile interpretazione. I firmatari si pro-pongono di raccogliere un’eredità, Boccioni piuttostoche un generico futurismo, ed evocano Carrà quasi perchiamarlo ad una assunzione di responsabilità, se è veroche per lavoro svolto e per posizioni via via assunte (èsuo un importante testo in morte di Boccioni, a Milanonel 1917 si è presentato come «pittore futurista», sononote le interne polemiche con De Chirico) tocca a luiuna posizione di riferimento. L’invito, se di invito sitratta, e, in ogni caso, ad uscire dai cascami letterari edalle giustificazioni culturali, un punto su cui Carrà nonè certo insensibile.

Non conosciamo la reazione di Carrà, ma c’è da cre-dere che per certi versi il «manifesto» non gli dispiac-cia. Il richiamo ad una continuità attiva, l’essersi rivol-ti a lui in termini di ricerche di strutturalità plastica (loscritto insiste sull’armonia globale, sulla percezione com-

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plessiva del quadro, su una ordinata gerarchia di pre-senze ricondotte ad unità) e di antintellettualismo, nondevono trovarlo distratto. Il richiamo a Boccioni, inuno scritto in cui si proclama la pittura come «fatale,inamovibile, necessaria sensazione di una forza propul-siva», l’evocazione dell’ultimo Boccioni riportano Carràa meditazioni non di poco conto su cui ha impostatoscelte e convinzioni dopo il 1917. Boccioni si era inter-rogato sulla questione della libertà creativa, aveva par-lato di una responsabilità della forma da contrapporreall’arbitrio, all’impressione, al parossismo, all’attimo, alcaso: «l’arte è terribile, il resto non è che abitudine,pazienza, memoria», aveva scritto. E sono motivi cheCarrà ha tenuto presenti, con l’altra meditazione boc-cioniana, che l’espressione della forma deve andare dipari passo con la coordinazione delle energie, e lavolontà deve ritrovarsi nella rivelazione del valore dellapittura.

Ojetti sta preparando una sua rivista, cui darà un tito-lo significativo, «Dedalo», a segnalare la volontà di pre-parare le ali ad un volo che ha sapore di impresa classi-ca. È convinto che l’arte è presenza di valori assoluti edi bellezza senza aggettivi, che si manifestano in unavasta gamma di fenomeni: l’arte moderna in un disegnosiffatto non occupa un posto privilegiato per essereodierna, attuale, nel suo farsi, ma vale per il modo concui sa entrare in un ordine che ha già conosciuto i suoimomenti piú alti e realizzati. Si tratta di dare una seriae solida cultura, allargare l’informazione e fomentareindagini, in modo che si prenda coscienza di un livellodi responsabilità che la cultura alta, l’accademia piúsicura sanno affermare e che deve divenire patrimoniomeno circoscritto. Ojetti non ha simpatia per i pittori-scrittori, per i pittori-critici. Si limita a lodare la pas-sione che rivelano a livello personale, testimoniando

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una lucidità di impegno non sempre sufficiente. Perchéi pittori che scrivono di critica peccano di ragioni, diprincipi, di studio, e dunque di senso della storia,fomentano la fatuità e l’approssimazione, il calcolo piúmiope e i giochi piú limitati. Attenzione, scrive, ad unalogica perversa fatta di ritardi, mezze verità e intuizio-ni, che fomenta la sottocultura ed inquina il lavoro pit-torico vero e proprio. Lo dice per Soffici critico e perCarrà autore di Pittura metafisica. Carrà ha scritto affer-mazioni e ragioni che Ojetti e Longhi, con piú tempe-stività e rigore e quindi con diversa opportunità, hannoaffermato da tempo; quel ritardo, la distorsione di certeprecisazioni storiche, l’assenza di una rigorosa ragionformale danno alle pagine del pittore un che di astrat-to, di volontaristico, che finisce col convincere delladisarticolazione degli oggetti e dello smembramentodelle forme. L’opposto di quanto lui e Longhi volevano.Questo il parere di Ojetti, che lascia sempre piú preoc-cupato Carrà: la contrapposizione artista-critico, laverità del critico come modello da cui dipendere, l’a-strattezza storica rispetto alla fragranza dell’officina pit-torica sono ai suoi occhi altri motivi di isolamento del-l’artista dal suo ambiente, dal pubblico e dalla critica,ed una mortificante condizione che non può non avereun peso negativo nel divenire dell’arte. Carrà ha segui-to un paio di conferenze in cui Bernasconi ha tratteg-giato lo stato attuale della pittura proprio a partire daquesta constatazione di isolamento dell’artista, ed è con-senziente con ciò che Bernasconi auspica, la comunan-za di interessi col piú largo pubblico, intesa come pre-senza viva, cordialità di rapporti, sereno compromessoplastico, capacità di commuoversi e di saper intendere.La posizione di Ojetti lo lascia perplesso. Quando Ojet-ti lo invita a collaborare, come ha invitato Soffici, si dicedisposto, perché è il critico ad aver fatto il primo passo(«se stiamo ad aspettare amici e simpatizzanti sappiamo

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dove si va a finire», scrive all’amico toscano, e Sofficiè d’accordo, tutto sommato Ojetti non è peggiore diquanti si proclamano loro amici), e poi gli ha affidato untema che gli sta a cuore, quanto di mistico e quanto diironia alimenti la pittura contemporanea, e su cui potràspiegare come egli veda le faccende dell’arte nuova. Simette al lavoro, raccoglie materiale, pensa agli italiani,a sé, a Soffici, ma anche a parlare di Picasso, di Derain.L’articolo su «Dedalo» non uscirà: compare un saggiosugli stessi motivi su «Valori Plastici», che c’è da cre-dere diverso da quanto aveva in animo di dire sulla rivi-sta ojettiana.

A Milano Carrà si sente a suo agio, pur tra difficoltàed incomprensioni. Che sia lí che si manifesta una ricer-ca di linea moderna, dove si sono accese le stagioni delneoclassicismo e della scapigliatura e il futurismo hafatto deflagrare una situazione, gli dà la certezza di unacontinuità radicata, legata a una geografia e ad una sto-ria che sanno come prender la via di un palcoscenicoricco di iniziative e possibilità, critiche, mercantili, ope-rative e a risonanza non solo locale. La sua non è la«linea lombarda» su cui si è impegnata la Sarfatti, manon è lontano da certi motivi che il critico de «Il popo-lo d’Italia» e di «Ardita» mette in campo. La Sarfattirilegge Ranzoni e Gola, Previati e Medardo Rosso, cuisono dedicate alcune mostre ad inizio anni ’20, propo-ne Tosi come punto di snodo di uno stile di vita e di con-tegno pittorico capace di far propria la natura senzarinunciare all’astratta geometria e al gusto unificante delcolore; luce ed atmosfera, in questa tradizione, leappaiono come capacità di far reagire le forme, i pitto-ri non cedono al particolare ma affermano eticità edindividualità, cioè si oppongono con mezzi adeguati aegocentrismo e a velleità personali. Una tradizione, pro-prio per questo, dai connotati europei, che ha respirato

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ragioni analoghe a quelle dell’impressionismo d’oltralpee le afferma con operosità specifiche, con valori e signi-ficati non meno puntuali. Cosí il demonizzato impres-sionismo, dissolvitore di valori plastici e di classichesodezze, torna in gioco, ma su una tradizione, da Leo-nardo a Rosso a Tosi ai sette artisti del «Novecento»,che a certe intenzioni formali non ha rinunciato, secon-do la Sarfatti. Se mai il problema è un altro: non rico-noscere ufficialmente come italiana e valida una similetradizione significa abbandonare a se stessi e punireartisti che chiedono un dialogo e sono in condizioniottimali per dar prove collettive di qualche significato.

«Il reale torna ad essere concepito come inestingui-bile ardore della mente che aderisce piú persuasivamentealle forme», scrive Carrà, e cerca radicamenti ed ispira-zione nei luoghi, in una geografia precisa, fra Piemontee Lombardia, con puntate al mare; studia ancora unavolta la pittura antica e guarda all’Ottocento, insegueGiotto e gli pone accanto, in un sottile gioco di interessi,Fontanesi-Piccio, legge Baudelaire e medita sulla pittu-ra di paesaggio. Lo tocca la pittura di Fontanesi, è atten-to all’armonia dei rapporti naturali che questo pittoreottiene per giustezze di luce. E per via di luce e di atmo-sfere cromatiche effuse scioglie certe sue rigidezze pri-mitivistiche, o intanto si sente di farlo, muove talunedurezze compositive che lo disturbano non poco, perchéle ha sentite come soluzioni ancora letterarie, concetto-se, ha un rapporto piú suo con la pittura. «Noi godia-mo nell’opera d’arte noi stessi», annota, e aggiunge chelinee e forme colte al vero altro non sono che «il senti-mento vitale che è in noi, e che noi, per ignote vie, incar-niamo in esse».

In Misticità e ironia, che compare sulle pagine di«Valori Plastici», Carrà ribadisce: è nel paesaggio che ilrapporto tra forme plastiche e mondo sensibile si attuaal meglio, perché lí si vengono ad identificare forze e

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volontà, intelligenza e natura, all’interno di un flussoche cede ogni vitalismo per farsi figurazione poetica.

Nel paesaggio, nella composizione consegnata all’am-biente naturale, Carrà intravvede, lentamente ma conchiarezza, una liberazione da schemi intellettuali ed unasistemazione definitiva: ciò che era attesa e pressione inLe figlie di Lot o in Idolo ermafrodito si distende neglioggetti del Pino sul mare, ancora fortemente costruito,e si fissa nelle opere successive. La puntualità significa-tiva di oggetti e presenze realisticamente leggibili siimpagina nel movimento lento e fasciante della luce flui-damente distribuita ma perentoria, come una sorta diritmo continuo e mosso. È l’astrazione cosí a lungo cer-cata e che ora non ha piú nulla di convenzionale e volon-taristico. In Marina di Moneglia (1922) una barca è scan-dita come unico, misterioso oggetto entro una serie dipiani, il cielo piatto e il mare disteso; qualche primiti-vismo ricompare in Vele al porto, 1923, e si definisce inun lavoro molto controllato come Vasi sul davanzale,dello stesso anno: precisare i piani della scena, sottoli-neare oggetti e forme ma in un senso temporale dellacomposizione che ne garantisca ritmo e continuità, senzaspaccarla in singoli movimenti. Non siamo di fronte anovità radicali, ma ad un ripensamento di questioni: loschema compositivo richiama tele precedenti, ma le solu-zioni e la calma in cui sono immerse per dar loro il sensodi durata e lo spessore significativo sono nuove. Bastaun raffronto tra Il festival un’opera del 1924, e il piúremoto Ovale delle apparizioni per rendersene conto.Nel quadro recente lo spazio, la baracca da baffo, ilgioco delle colline circolari intorno, rammentano le posi-ture e le collocazioni della casa, del manichino, dell’an-gelo tennista nell’altra opera; le profondità, la circola-zione atmosferica mutano come precipitando sul fondo,facendo penetrare nel corpo del dipinto ciò che era esa-speratamente portato in primo piano dal palcoscenico

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dell’Ovale. Cambia il senso di comunicazione, cala inprofondità. Dice Carrà che occorre un «accontenta-mento del bisogno di collaborazione con la bella vitalitàorganica»: ciò che ora ama definire il «concetto archi-tettonico» non viene esasperato da un bisogno di espres-sività, ma si fonde con essa, recupera il «tutto, dal qualesi diparte ogni verace artista».

L’attività della Sarfatti desta in Carrà qualche entu-siasmo: nella situazione del momento una mostra comequella da lei organizzata può rivestire un interesse piúgenerale, e avviare un chiarimento, scrive a Soffici, rac-comandandogli di far pubblicare a Firenze o in Tosca-na il testo che la Sarfatti ha redatto per l’occasione. Larisposta smorza la sollecitudine di Carrà: magari ciò chela Sarfatti ha scritto ha anche una sua apprezzabileragionevolezza, ma il modo di proporre la mostra, pog-giandola su artisti raccattati da ogni dove e senza bada-re a qualità, rende banale il progetto; come prestar fidu-cia a chi imbarca Sironi e Russolo, che per Soffici val-gono quanto Brunelleschi ed Ettore Tito? Perché laquestione resta il potere della Sarfatti, come, a Veneziaper la Biennale, di Pica, un potere senza idee di pittu-ra, di valori, di senso del lavoro in corso. Dice di no alleipotesi della Sarfatti, alle sue motivazioni critiche, noncapisce come non si badi a una pittura che si ponga consemplicità di fronte alla natura, che si fondi sullo studioonesto, senza teorie e proclami; lo dice a Carrà, lo ripe-te a Broglio, lui è un realista classico, non ha nulla a chespartire con quelli di «Valori Plastici», «i nuovi deca-denti raffaelleschi e ingresiani», meno che mai con igiotteschi.

Carrà sembra aver accusato il colpo. Parla di stile, chenon è forma ma processo, interpretazione del reale estrumento anonimo. Ma non condivide l’isolamento diSoffici, anche se è con lui nel pensare che nessuno capi-

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sce nulla di pittura, vecchi e giovani, conosciuti ed igno-ti, che non si sa per chi si lavori, in un paese in cui Spa-dini o Oppi sono salutati grandi pittori e si guarda a unoZanini senza recere. Il suo è un percorso diverso. Nel1922 accetta l’incarico della critica d’arte di un nuovoquotidiano, «L’Ambrosiano» (lo terrà per quasi vent’an-ni). Lo fa per esigenze economiche, di pittura si vivemale, ma è anche una scelta di campo, per lui come pit-tore che nella discussione e nel ragionamento critico sichiarisce problemi e questioni, e per lui di fronte allasituazione. Dirà nei ricordi dettati negli anni ’40, comedi fronte ad una realtà cosí pesante com’è quella italia-na e all’impossibilità di adattarsi abbia preso una deci-sione che rivela «abnegazione a una non comune riso-lutezza intellettuale».

Appena comincia l’attività di critico, eccolo alle presecon la Sarfatti e con una delle sue iniziative piú impor-tanti, la costituzione di un gruppo di sette pittori, cuidà il nome di «Novecento», nucleo di un’ipotesi di lavo-ro che avrà notevole fortuna: pilotare, a partire non dauna dichiarazione di poetica ma dal convergere ragio-nato di posizioni pittoriche, l’intera situazione italiana.Carrà, alla presentazione del gruppo, che si muove sottol’egida di un gallerista disponibile, è estremamente deci-so: chi si mette assieme per far gruppo lo fa per interessee secondo logiche di mercato, non per motivazioni este-tiche ma per omertà (e vent’anni dopo, di Bucci Dudre-ville Funi Marussig Malerba Oppi e Sironi, dirà chehanno valso a una valorizzazione pratica dell’arte ita-liana, ma non per questo hanno partecipato ai problemidi una nuova estetica).

I timori di Carrà in questo caso, e non solo i suoi,sono parecchi; l’operazione Sarfatti rappresenta unapericolosa confluenza di questioni artistiche con que-stioni politiche e di potere, che hanno tutta l’aria di

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venire a pesare con forza sulla vita culturale. Amica datempo di Mussolini, redattrice del giornale ufficiale delfascismo e delle sue pubblicazioni collaterali, la Sarfat-ti si muove su un’onda montante e vincente: a Musso-lini ha chiesto di inaugurare, agli inizi del ’23, la primamostra d’assieme del gruppo, e l’avvio di una piú vastaoperazione culturale. Il che fa temere un pronuncia-mento ufficiale, che diverrebbe impegnativo per chiun-que si interessi d’arte: si teme l’indicazione di una viapolitica, statuale per l’arte figurativa, in coerenza allastretta ideologica cui sono via via chiamate le varie forzenazionali in ogni campo. Mussolini, su un testo con ogniprobabilità preparato dalla Sarfatti, si mostra, piú checauto, generico: dice che non si può governare senzatenere in debito conto e l’arte e gli artisti; lo Stato nondeve sabotare l’arte, la deve invece incoraggiare crean-do condizioni umane per gli artisti, favorendone il lavo-ro senza entrare nella loro sfera di competenza.

Carrà può tirare un sospiro di sollievo; Soffici, dalcanto suo, può dirsi soddisfatto. Era stato tra i primi aporre il problema: di fronte al nuovo regime, avevascritto, c’è una questione di responsabilità da parte degliartisti; ma aveva distinto fra arte di Stato e rapporto chesi deve instaurare tra artisti e fascismo. Il «movimento»fascista, o, come la chiama, la «rivoluzione», deve saper-si scegliere anche in campo artistico i propri uomini e leproprie idee, con attenzione alla particolare novità cheporta avanti. Incoraggi, perciò, difenda, favorisca l’ar-te che mostra una tendenza tale da non entrare in col-lisione con i valori che si sono affermati, in stretto con-tatto con il senso positivo del passato e con i caratteridi razza; ma che le questioni artistiche tocchino agli arti-sti. Esautorarli col consegnare la questione in mano alloStato e ai suoi funzionari ha un doppio segno di nega-tività. Toglie a tutti quel margine di creatività che è del

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lavoro artistico e che è patrimonio di artisti quanto dinon artisti, e nega al mondo dell’arte una crescita entroil suo contesto reale e nel suo tessuto piú ricco di possi-bilità. Con il che Soffici candida gli artisti piú respon-sabili, e se stesso in testa, a una funzione di promozio-ne, ammonimento, censura o lode; ma, intanto, mettein un canto la questione di un’arte di Stato.

Firenze 1922

Broglio sembra raccogliere i primi successi in Ger-mania. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Ber-lino, nel 1921, una novantina di quadri, otto sculture ecentoventi disegni tracciano un profilo di giovane arteitaliana sotto gli auspici di «Valori Plastici»: ci sonoCarrà, De Chirico, Morandi, Martini, Melli, la mogliedi Broglio, Zadkine e Francalancia. Poi la mostra si èspostata a Hannover (e, probabilmente, a Monaco). Unvolantino di quattro facciate, inserito nei fascicoli di«Valori Plastici», dà l’annuncio della tournée e ne divul-ga il successo; un congruo numero di passi da periodicispecializzati e dalla stampa quotidiana conferma apprez-zamenti ed attenzione. Spiega, il volantino, che la sele-zione la si è voluta ristretta e prudente, giocata sulla qua-lità, secondo un criterio di «propaganda nazionale»,affinché all’arte italiana sia riconosciuta una fase di rin-novamento. Qualche conseguenza, oltre un notevoleapprezzamento, c’è stata: le discussioni tedesche su temicome «realismo magico» e «nuova oggettività» sembra-no influenzate in modo particolare da De Chirico (ma èl’intera operazione che Broglio ha proposto ad interes-sare). Si apprezza in De Chirico come in Carrà un sensodel mistero che non deriva dal montaggio degli elemen-ti della composizione, per suggestione scenografica, equindi non si identifica con le forme e gli oggetti pre-

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scelti, ma di forme ed oggetti si serve per rivelarsi, né idue italiani giocano su una sorta di astrazione comequella che s’è diffusa in termini di classicismo, trattan-do le figure come forme: hanno portato in scena i valo-ri formali come naturalità dell’esistenza, e quindi ilmondo e la realtà sono tornati a dominare la scena pit-torica. (Ma c’è chi con una simile interpretazione non èd’accordo: osserva Grosz, a proposito di Carrà, che l’uo-mo, a questo punto, non è piú raffigurato come indivi-duo, come psicologia; che gli si preferisce una connota-zione anonima, se non meccanica: «il destino individualenon ha piú importanza»).

L’escursione tedesca è parte di un progetto ambizio-so, in Italia e fuori, che avrà poca vita e si esaurirà pre-sto, malgrado la buona volontà di Broglio, che si muovesu piú piani, editoriale, della rivista, commerciale (concontratti con gli artisti che li impegnano direttamente)e mostre. L’impresa si conclude con la presenza massic-cia del «gruppo» associato alla sigla «Valori Plastici» alla«Primaverile» fiorentina del ’22.

Della mostra e della presenza del cosiddetto grupporesta un ricordo vivace di Edita Broglio, presente allamanifestazione con un bel gruppo di lavori, è testimo-ne diretta di quelle giornate accanto al marito. Non ètenera, a distanza di anni: Morandi è un solitario, Mar-tini un personaggio difficile, Carrà e De Chirico non sifrequentano volentieri; Savinio è la penna per tutti, fada nucleo al gruppo, Mario Broglio lo ascolta volentie-ri, discute con lui e gli dà spazio quando si tratta di scri-vere, perché, dice Edita «era una penna, una pennadisposta a tutto». Nel ritrattino agrodolce che emergeda questi ricordi Savinio appare assai diverso dal fra-tello, coltissimo ed intelligentissimo, capace di capire edassimilare quanto si agita nell’ambiente in cui si muove;è l’ombra del fratello, ma non si guardano in faccia. È

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probabile che in queste affermazioni giochi un modoparticolare di giudicare, il rapporto fra comportamentied opere realizzate, e realizzate pittoricamente. CosíSavinio, non pittore a quel livello d’anni, ha un certotipo di considerazione, come del resto De Pisis, un per-sonaggio che per vivere dà lezioni di latino e scrive unpo’ impressionisticamente, o poco piú. Un giorno iSignorelli, amici e sostenitori di artisti, regalano una sca-tola di acquerelli a De Pisis, e quello sarebbe stato l’i-nizio: «De Pisis scoprí la pittura».

Come che sia su questi ricordi, la Broglio nega chequelli di «Valori Plastici» siano un gruppo, per naturadelle persone e per differenza di interessi. Per ciò cheriguarda la mostra viene rammentato che l’insieme diartisti direttamente o indirettamente raccolto sotto l’e-gida della rivista rappresentò l’unico episodio significa-tivo della manifestazione ed ebbe modo di presentarsicon una certa precisione, come del resto si rileva sfo-gliando le recensioni del momento (polemiche incluse).Quella presenza, rileva la Broglio, è una vera e propriasorpresa, perché quasi tutti sono mal noti o addiritturasconosciuti al pubblico, quando non lo sono agli stessicritici, con l’eccezione di Carrà, «che veniva dalle bat-taglie futuriste ma ricominciava da capo». Agli artisti del«gruppo» è riservata una grande sala, nel sotterraneo,dominata dall’umidità, tanto che gli stessi espositoridevono spargere sale per riassorbirla almeno in parte. Lasera dell’inaugurazione ci sono quelli che dovrebberoessere i protagonisti dell’occasione, artisti di spicco comeBistolfi o Sartorio, cui è stata riservata una personale insingole sale al pianterreno, ma il successo è degli amicidi Broglio: «a un certo punto entrò da noi Sem Benelli[nume tutelare dell’esposizione]: ecco i trionfatori, disse.Era il battesimo ufficiale».

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La scelta in questa occasione è diversa dagli invii inGermania: sono presenti personaggi non strettamentelegati al mondo culturale di «Valori Plastici», come Bar-toli, Giannattasio, Oppo e Spadini (che è salutato incatalogo da Savinio come un vero e proprio maestro che,esponendo, viene in aiuto a dei «giovani in lotta»),oppure indicati come amici, ed è il caso di Quirino Rug-geri e di Carlo Socrate, che sta attirando l’attenzione diLonghi. Soffici, che non ha aderito, recensisce la rasse-gna e sottolinea che vi si raccolgono i giovani miglioridel momento. Si chiede se l’occasione sia buona, semischiarsi a tardo ottocentisti, provinciali e pittori divaria capacità giovi a qualcosa, tanto piú se la cassa dirisonanza è una città sorda che predilige la pittura peg-giore.

Ed è una preoccupazione ragionevole. La massimaparte delle recensioni, forse influenzata dall’ambienteforse distratta dalla confusione espositiva, reagisce congenericità, e poco si mostra attenta a quanto il «grup-po», o in esso i vari protagonisti, porti di valido o diattendibile. Cosí i singoli non hanno il rilievo che meri-tano. Morandi, ad esempio, presente con agio, Martiniche mette assieme gessi di grande interesse ed un grup-po di terrecotte in cui il rapporto fra pittoricità di super-ficie e pregnanza plastica è portato a una buona qualitàdi equilibrio. Espone opere di cui «Valori Plastici» hagià pubblicato le riproduzioni, e, ancora, Il dormiente eTesta di giovane. Lo presenta in catalogo Savinio, parladi una espressione complessa insieme ingenua e scaltra,della capacità di mettere in rilievo un sentimento (volon-teroso e un poco bisbetico) degli aspetti quotidiani i piúridicoli ed appassionati, i piú profondi e dolci, che cosee creature rivelano sotto la luce sconsolata del sole.

Carrà è presentato da Broglio, che preannuncia su dilui un vero e proprio studio (forse il testo di una futuramonografia): in mostra non propone novità di rilievo,

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rispetto a ciò che è venuto palesando (né poteva, nellasituazione di ricerca e di ripensamento in cui si muove,forzare la mano a nuove proposte). Le formule di Bro-glio sono pressoché rituali: sentimenti accertati e con-vinzioni eroicamente conquistate, possibilità rivoluzio-narie in una pittura che ristabilisce un ordine spiritualeche altrove risulta sovvertito. Ancora Broglio, per pre-sentare De Chirico, e ancora un lungo testo per quellache è una vera e propria personale, con ventuno operetra oli e tempere, in cui le sorprese maggiori vengono daidipinti piú recenti. E su questa parte della produzioneBroglio scrive le cose piú interessanti.

Parla di un mondo «inverosimile» e del suo incantoe delle sue seduzioni, di un clima romantico di contenutipersonali e visioni generali: lo propone come una sortadi mitografia, il documento eccezionale di un ironismomalinconico e tragico. A leggere una simile proposta diinterpretazione vengono alla mente il Palazzeschi diquegli anni ed il Savinio piú maturo, specie dove ildiscorso punta sul risultato ottenuto, su un esito tra ilfortemente drammatico e l’ironico. Opere come l’Au-toritratto, 1920, e la Niobe dell’anno successivo, isolanofortemente il loro oggetto e lo giocano su un taglio moltoaccentuato, con l’incombenza visionaria di una estremapuntualità di presenza, mentre a una tensione piú dif-fusa ed a complessità narrativa rimandano tele di pae-saggio romano. L’appena citata Niobe vuole essere unaesercitazione sul gruppo antico scultoreo delle Niobidiconservato a Firenze: come se una delle figure, per uncapzioso caso, fosse al vivo e come tale osservata e ritrat-ta; la lontananza temporale e la forzatura intellettualedel taglio, al limite dell’apparizione, restituiscono quelsenso di «spettrale essenza» che acquista ormai un valo-re quasi allegorico nelle intenzioni di De Chirico. Nel-l’Autoritratto sembra esser presente una sorta di omag-gio a Dürer, pittura chiara, tratti incisivi, massima con-centrazione di una sensibilità di lontananza nella resa

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pittorica e di durata percettiva (e a Dürer De Chiriconon manca di dedicare nei suoi scritti un significativocenno). Sull’altro fronte ecco un Paesaggio romano, del1922, di cui Broglio ha buon gioco di sottolineare calo-re di stile e un senso di umanità dovuta alla conciliazionedi parvenza di natura e stilizzazione.

Il Paesaggio romano merita un esame attento, tantocomplessa è in questo caso la partitura, tanti sono i rife-rimenti ed i registri intenzionalmente giocati. È la con-trora o il mezzogiorno di un quartiere cittadino, dellaRoma dell’edilizia borghese e della vita minuta, conpalazzi, o ville, addossati a una scenografia di collina chericorda certe riprese da Böcklin di paesaggio rupestre.La «scena» è apparentemente vuota, quanto fitta dipresenze silenziose, ed il silenzio come densità allusivaha un buon gioco nella composizione. Le finestre schiu-dono su qualche spazio intravvisto in interno, o sonoserrate, o rivelano delle tende appena gonfie; una cop-pia conversa in terrazza, o meglio è sorpresa in conver-sazione, un’altra fissa ed indica l’orizzonte, un voltoappare ai vetri ritagliato col peso della Niobe espostanella stessa occasione. Svola nel cielo una dea che per-sonifica la storia come in certi affreschi (non senza unrimando alle stilizzazioni similari nei cieli del doganie-re Rousseau), un aquilone appare come un segnale auto-biografico, un cenno di memoria d’infanzia, alcune sta-tue ai parapetti del terrazzo evocano uno spettacolo dicosa vista e inducono a sollecitazioni letterarie. Se l’in-sieme è un accumulo lento e misterioso, e se le letturepossono incrociarsi a volontà fra momento biografico,suggestioni di mitologie, ironia della scena ciò che fini-sce per colpire è il clima generale e unitario, l’atmosfe-ra insomma, quasi da scena urbana borghese in cui i con-trasti stilistici, le evocazioni di toni diversi di raccontosi evidenziano sottilmente.

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Ojetti non ha mancato di dar conto dell’avvenimen-to ai lettori del «Corriere della Sera»: ed ha usato tonisarcastici quando è venuto a parlare del «gruppo» edelle sue novità. Non poteva essere altrimenti, conside-rate la sua posizione e l’occasione. Perché proprio aFirenze Ojetti è di scena, come organizzatore di unagrande, per mole ed intenzioni, mostra di pittura italia-na dedicata al Seicento e alle sue immediate conseguenzenel tempo. È una mostra di lettura e di proposta, vuoldare una certa immagine di un secolo su cui cresconoormai interpretazioni e discussioni, tra continuità stori-ca dell’arte italiana, crisi del classicismo e formule di rea-lismo. Ma proprio per questo si propone come una revi-sione di gusto, e come una reinterpretazione di culturale cui conseguenze arrivano all’oggi. Cosí l’ha intesa DeChirico, che alle prime avvisaglie del farsi della mostraè balzato in sella al cavallo della polemica e ha dato bat-taglia. Ha affidato a Broglio un piccolo pamphlet chetocca morale culturale, peccati critici e responsabilità dipubblico di fronte alle conseguenze di una simile pro-posta. Broglio ha pubblicato, ma non ha edito la secon-da puntata della presa di posizione dechirichiana, quel-la piú strettamente connessa alla mostra. Ha indetto unreferendum sul Seicento, ha invitato molti, dalla Sarfattia Venturi, da Oppo a Carrà o Bontempelli, trasferendoil discorso su un piano piú largo e variegato, ponendo adiscutere storici d’arte, scrittori, artisti. È un riferi-mento da tener presente, leggendo Ojetti.

Perché da un canto il critico vede nelle opere radu-nate da Broglio una volontà mal riposta di aggiorna-mento e di correzione di tiro: nell’attuale «volante velo-cità di reazione» ci sono anche quelli di «Valori Plasti-ci», quale che sia il loro modo di proporsi. E allora, dicein sostanza Ojetti, vediamo con quali carte si presenta-no, che cosa sanno fare e dove vanno a parare, visto chenegano, criticano e polemizzano. Da un altro punto di

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vista l’articolo attacca pesantemente: il gruppo non ègruppo, è insieme di gente diversa per pittura e valore,un agglomerato pratico che sostituisce alla qualità lafrontalità dell’operazione.

La risposta non può mancare, ed ecco, sul fascicolodi «Valori Plastici» che risulterà ultimo della rivista,Savinio affrontare il tema dei rapporti tra pittura attua-le e critica: non un duello verbale, in verità, ma un sere-no e documentato epicedio. Savinio sceglie una formu-la convincente, una sorta di addio al mondo se il mondoè quello disegnato da Ojetti e dai suoi equivoci, ed unaddio preciso nell’articolazione di dare e di avere delleparti in gioco. La pittura in Italia è ancora una realtà informazione, chiede lavoro sforzi onestà ed interesse perle sue motivazioni reali e per i modi con cui può cre-scere: su questo dato ha convenuto un certo numero diartisti che si sentono responsabilizzati e comprendonodifficoltà e questioni. La critica vuole imporre altrefenomenologie di crescita, è indifferente a ciò che matu-ra, e scambia gente dabbene, che si è rimboccata lemaniche, per carbonari e manovrieri. Non ha capito chesi tratta di pochi uomini attenti legati da un comunerispetto e da fede comune nel proprio lavoro, per i qualimuoversi in sintonia d’amicizia significa esser uomini frauomini. Ojetti ha letto tutto questo con un occhio dacolono verso un paese da colonizzare. E allora, propriocome in paesi di selvaggi, è giocoforza che i coloni bian-chi si uniscano in manipolo per non confondersi, comevorrebbe Ojetti, in una massa informe, in nome delladiversità di gusto e di costumi e della simpatia recipro-ca di razza. Ne è venuto ciò che il critico vuol disper-dere, un clima di consigli, incitamenti, fiducie e corre-zioni reciproche, e quindi di armoniose laboriosità. Ilcoro delle cornacchie giornalistiche ha spezzato quantovi era di promettente nell’operazione in corso; se ne

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traggano le conseguenze, ognuno prosegua da sé, facciafuoco con la sua legna, ottenga ciò che può e come sa.

La replica compare nell’ultimo fascicolo di «ValoriPlastici», e l’addio di Savinio coincide con la chiusuradella rivista. Carrà vi commenta il fallimento della Bien-nale veneziana del 1922, dovuto, a suo avviso, al fattoche le mostre pubbliche sono organizzate su un princi-pio errato, che la critica non sa intervenire e la manopubblica è assente. L’errore comune consiste nell’illu-dersi che gli artisti crescano da sé, senza la pazienza deiraffronti che le mostre dovrebbero saper organizzareper il bene comune: tanto piú ora, quando si dimostrache agli artisti di casa nostra manca un chiaro concettodispositivo e ordinatore dell’opera dipinta, rassegne deltipo di quella veneziana non sanno offrire confrontichiari e larghi, un vivere all’unisono con quanti all’esterolavorano seriamente, il respiro di una grande azionecomune. Ogni chiusura, afferma Carrà, è dannosa, tantoagli «interessi supremi» della nazione, quanto per glistessi fini dell’arte.

Il quadro è completo, e cala la tela. «Valori Plastici»ha esaurito i suoi compiti. La crisi era in aria da tempo.Alla svolta degli estremi anni ’10, Broglio ha ripensatola rivista, ha tratteggiato i termini della sua attività edi-toriale, ha guardato al di là dei confini in modo piú pre-ciso. Sempre piú restio a vedere le cose in termini di ten-denza, preferisce riarticolare contributi e confronti.Intanto predispone una serie di fascicoli in francese,riassumendo il lavoro che compare in lingua italiana inpunte piú definite e pregnanti, e poi prepara una sortadi antologia sistematica di articoli e saggi sotto il titolodi Neoclassicismo nell’arte contemporanea. E affianca allarivista un paio di collane, dedicate rispettivamente amonografie e studi sugli antichi e ad agili volumetti sucontemporanei.

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La «svolta» gli ha posto alcuni problemi, non solo diorganizzazione. Una critica militante vuole dalla rivistaspazio piú disinvolto per cronache, scambi di pagine suartisti anche non italiani, articoli di intervento. Storicicome Longhi, che Broglio non ha mancato di interpel-lare, premono perché si dia una base di cultura e di seriaconoscenza alle iniziative sul momento presente.

Tocca ad una collana, o a piú serie di volumi, pensaBroglio, aggiungere ciò che la rivista non può fare. ELonghi gli prepara un progetto: i termini editoriali sonoillustrati in un volantino che accompagna vari numeri di«Valori Plastici». È un programma che non avrà in pra-tica attuazione, sostituito da altre iniziative: Longhi staper andare militare e la sua presenza si fa piú lasca, oforse è disamorato dalla piega che sta prendendo il dibat-tito culturale e non se la sente di approvare quello cheper lui è un abbassamento di tono. Dirà poi che si erapersa un’occasione importante, che le possibilità diun’altra cultura s’erano vanificate.

Longhi aveva tracciato il disegno di una collana diartisti del Quattro, Cinque e Seicento affidata a studiosiseri e storiograficamente attenti, cui aggiungeva qualchescrittore d’arte di qualità (uscirà solo un volume, daLonghi non previsto, il Giotto di Carrà, nel 1924). Perciò che riguarda l’oggi partiva da una sorta di entroter-ra, con un paio di tomi sul paesismo piemontese del-l’Ottocento, collocando cosí i contemporanei in una tra-dizione e non a ridosso di avvenimenti immediati o diformule logore, come il classicismo o il purismo. È lastessa idea, ed è lo stesso programma, annunciato nellastroncatura di De Chirico, dei passi successivi, dalromanticismo in poi, senza salti logici e senza annessio-ni letterarie o sentimentalismi ideologici (la «metafisi-ca», per lui come per Soffici, è una forma di preraf-faellismo, in perdita secca).

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Broglio è tentato dal corso degli avvenimenti, daParigi che gli pare a portata di mano, da un personalespiritualismo che lo porta a discutere di idee e di puntidi vista etici e variegati. Ospita su «Valori Plastici»l’accesissimo integralismo di Ghersi o lo spiritualismo diTavolato, dà spazio al Carrà piú polemico mentre DeChirico tende via via a defilarsi scrivendo su altri fogli,pubblica articoli di Savinio ed aperture espressionistichedi Däubler accanto alla pubblicistica parigina dei Wal-demar George e Raynal. Non è solo un gioco di oppor-tunità, le notizie di area germanica (da Schrimpf a Kleea Grosz a Jawlensky) o di fronte francese (Picasso eDerain, il postcubismo ed il purismo): non è solo inte-resse pratico, Broglio sente la crescita di una serie di sug-gestioni, accettabili o da discutere, cui prestare atten-zione. Se il vero è pur sempre nazionale, c’è una logicatrasversale, di pensiero e di azione plastica, che lo ali-menta e lo porta ad un notevole livello critico, con cuifare i conti.

Ma la miscela è difficile, e, soprattutto, è difficile reg-gere l’impegno senza avere un punto di riferimento,una militanza applicata ad artisti e ad avvenimenti, ademergenze e a raffronti. Ammesso che mai Broglio si siailluso di avere per le mani qualcosa di somigliante ad un«gruppo», non ha faticato troppo ad accorgersi che ungruppo i «suoi» artisti non lo costituiscono: le paroledell’addio di Savinio dopo la polemica per la «Primave-rile» non lasciano margine a dubbi.

Vale la pena, tra le tante suggestioni raccoglibili in«Valori Plastici» e negli scritti dei suoi collaboratoripiú prestigiosi, ricordare un esempio significativo. Ne èprotagonista diretto Canova e piú in generale il neo-classicismo degli inizi del secolo xix, con le coordinatedel rapporto arte-potere e tradizione italiana ed espe-rienze straniere (quasi una eco della questione arte diStato, o mitologia politica). Per Carrà, che scrive di

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Canova in occasione del centenario della morte e dellamostra in Biennale a Venezia, la questione va postacome ritrovamento della passione e della personalitàdell’artista, quando questi sa fare uso dei miti contem-poranei per affondarli nella fantasticheria della mitolo-gia antica: un modo per tener desta passione del tempoe fantasia personale. Una ricchezza interiore deve domi-nare sempre, se il pittore vuole recuperare umanità difronte alle freddezze imposte dalla letteratura e dalcostume intellettuale: che è poi l’unico modo, secondoCarrà, per ricostruirne un’identità. Anche De Chiricodiscute di neoclassicismo, quello milanese di un artistacome Appiani, e pone il discorso nell’orbita di una Mila-no città moderna ed europea, e dei doveri di una cultu-ra, o di un’arte, metropolitana all’altezza del mondo,fisico e morale, in cui si trova a vivere. La città è il luogoe la ragione del suo argomentare, un luogo senza emo-zioni dei singoli abitanti, meno che mai degli artisti chenon solo vi lavorano ma lo interpretano. Gli dànno fasti-dio il manierismo con cui l’artista profitta del propriotempo e dei luoghi per farsi ideologia di se stesso, e lemotivazioni di una confusione come quella che mescolagusto estetico, etica storica e pateticità del ruolo del pit-tore. Torna la questione del mestiere, come scienza chesi pone al servizio della suggestione (la spettralità) deiluoghi e come interrogazione che vada oltre l’impres-sionismo emotivo e la motivazione culturale. La forzache la città deve rivelare, il vigile sforzo per non tradi-re attenzioni esterne al quieto vivere (o al drammaticovivere, che è la stessa cosa) delle spiegazioni pittoricheformali. Il suo disegno è definitivamente su un altrofronte. Né si vede come Broglio e la sua volontà intel-ligentemente operativa possano tenere in mano matas-se che si srotolano con tanta diversità.

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Fine di stagione

Non è solo questione di poetiche convinzioni e di dif-ferenti modi di maturità: è venuto il momento, come hascritto Savinio, di dare l’addio a una congiuntura che sipone al di fuori dei, pur decisivi, casi personali o dellesingole identità. Per Savinio è la fine del momento delleforze unite (De Chirico, ricordiamo, ha parlato di una«società per azioni»), e di una stagione, se è vero chequel momento lo ha determinato un piú largo motogenerale.

Savinio avrà occasione, anni dopo, di tornare sullaquestione e di riflettere su questa logica dei tempi cul-turali. Il decennio fra anteguerra e dopoguerra, ragio-nerà, è stato una grande forza propulsiva di un’interagenerazione, ciò che è venuto dopo non è se non unaconseguenza «minore»; tutto si è consumato allora. Poisi sono fatte strada una sensazione ed una volontà dirinuncia, e per decenza si è preferito parlare di rinsavi-mento e di ritorno all’ordine, termini tanto pomposiquanto vacui. Si è fatto un gran discutere di umanità eopere ed artisti hanno ricevuto l’etichetta di «umani»:come se prima gli artisti appartenessero alla categoriadegli epizòi! Al decennio propulsivo toccano i meritidell’esplorazione e dell’invenzione («la parola invenzio-ne noi qui la usiamo come la usavano gli archeologi, nelsenso di scoperte»), e gli dei sono stati portati giú dailoro piedistalli per esser messi alla pari tra gli uomini:non come gerarchia o modello, ma come dialogo e dif-ferenza, ispirazione e spazio nuovo da conquistare perespansione della mente, per piú chiara intelligenza e peruna vista fatta piú fina e capace di lungo sguardo. L’im-portante, sottolinea Savinio, è che tutto questo lavoroe sentimento sia accaduto non per ragioni di invenzio-ne poetica o di fantasia («la fantasia è creazione che con-danna l’uomo nei limiti dell’umano»). Agli inizi si era

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parlato di mistero, poi ci si è accorti che non di miste-ro si trattava ma della stessa piú vasta realtà del mondo.C’era stata un’età romantica ed ora si approdava a unvero e proprio classicismo, se per classico si intende nongià l’espressione di uno stato naturale, quanto la capa-cita e l’intelligenza della selezione, cosí da raggrupparequegli elementi che sono sparsi e dispersi nell’impeto diuna corsa perpetua. Poi, dopo il decennio, l’uomo s’èchiuso, ha accolto i limiti dell’umano, e ha perso il respi-ro pacato e disteso che aveva conquistato.

Le formule del fine di stagione si accavallano, rive-lano intenzioni divaricate; dalla potenzialità dei singoliprincipî affermati o delle esplorazioni volute si cala a ter-mini di piú diretto pragmatismo. Si discute di classici-smo (con qualche differenza: il classicismo moderno sidefinisce in termini di neoclassicismo, ribadendo un’i-dea di ripresa e di tradizione che non possono piacerené a Savinio o De Chirico, né a Ungaretti o Bontem-pelli); si evoca il romanticismo, intendendo un’aria deltempo, un’adesione che è interpretazione e suggestionedi un’epoca. Si fa un gran parlare di natura, Carrà la rag-giunge come conquista che era relegata all’esterno ed oraè piú prossima e a portata di sentimento, De Chirico laorganizza e la filtra sul filo di un movimento che legaragioni del pensiero e moti profondi, ancora un senti-mento.

Aveva affermato, De Chirico, che la natura è sí cosada affrontare, da non far cadere fuori del proprio oriz-zonte, ma da usare adeguatamente. Deve non esser coltasul motivo o sul fatto, ma portata in studio, impre-gnandola di quel silenzio e di quel «mistero» che abita-no l’atelier dell’artista, la tolda della nave immobile o lasala dei portolani del pittore pensatore. Diviene ora unafigurazione malinconica, cioè riflessiva ed ammonitoria,di lunghe ombre cariche della noia di chi riconosce nel

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mondo un orizzonte vastissimo e tempi lunghi. (Gli dàragione persino Benedetto Croce, certo non aperto adisillusioni storiche o a indicazioni mitologiche, quan-do osserva come la bellezza sia avvolta in un velo dimestizia, che non è un velo ma lo stesso volto della bel-lezza: la poesia, afferma, è tramonto dell’amore nel-l’eutanasia del ricordo).

Non che i riconoscimenti vengano per De Chirico,anzi la sua fortuna si fa piú imbrogliata. Lo chiama Caso-rati in una mostra a Torino nel 1923, dove, con pochialtri significativi, vorrebbe mostrare quanto di nuovo edi decisivo si va facendo in Italia, e si parlerà di sala degliscandali. Espone alla seconda Biennale romana, in unaimportante sala personale, e Cecchi definisce le sue natu-re morte pittura cadaverica, fatta di cose in avanzatostato di putrefazione. Alla stessa mostra romana ricevela visita di Paul Eluard venuto a comprargli qualcheopera: ma il gesto del poeta francese è isolato nell’osti-lità che è maturata nell’ambiente parigino.

Breton e quanti altri con lui stanno maturando le ideedel surrealismo si sentono traditi dagli sviluppi dechiri-chiani, dello stesso De Chirico che aveva aperto gliocchi dei francesi, per loro esplicita affermazione, sul-l’arte come processo di liberazione da forme e rettori-che pittoriche per lasciar crescere una logica di conta-minazioni e analogie, di sorprese ed aperture, una sim-bologia che potrebbe sostituirsi ai percorsi psicanaliticiin nome delle pulsioni piú nascoste e delle alternativepiú radicali alle logiche correnti. Se lo ritrovano alleprese col museo, col mestiere e con la classicità, e nonne comprendono il movimento di ricerca se non comeuna ricaduta nell’accademismo. Hanno ospitato su«Littérature» una lettera in cui De Chirico spiega le suenovità, in cui parla di vie necessarie al magnifico roman-ticismo fatto di sogni e di visioni, lo stesso cui han

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posto mano Breton e Picasso, Apollinaire e Derain, oltreDe Chirico, e che si ottiene con lo sfruttare a fondo lepotenzialità dell’arte dall’interno.

La sordità è totale: bisogna liberarsi dell’arte, repli-ca Breton, altrimenti se ne rimane prigionieri. De Chi-rico fa il gioco dello spirito passivo dello spettatore,aggiunge Max Morise, gli scodella un quadro come undato di fatto e come realtà conclusa, non lo introducenell’implacabile universo del quadro perché ne veda leforze in movimento e le energie che vogliono esser libe-rate. De Chirico, è la conclusione, riduce un ribollire ditensioni al piacere esteriore della resa artistica, escogi-ta un trucco figurativo, non si spinge oltre: il ricorsoall’antico o il discorso sulla tecnica sono rivelatori diun’iniziativa puramente strumentale.

De Chirico ha parlato a lungo di Böcklin e di Klin-ger; ha lodato il grande ricercatore di segreti, dalle magiesottili, in Böcklin, l’artista capace di porre la rappre-sentazione al di là della logica figurativa, mischiandofigure mitologiche e sentimenti attuali; e in Klinger haapprezzato il raffigurare figure mitologiche con l’imme-diatezza di presenze che è possibile incontrare ogni gior-no, in una città qualsiasi – mitologie, certamente, maanche figure di una precisa esperienza, che si visualizzasulle fantasie delle illustrazioni dei libri di testo e delleenciclopedie. Loda in Böcklin fluidità e morbidezze distesura, come luci, colori, atmosfere protratte e psico-logicamente affinate. Il che porta a definire una scenadrammatica, una visione che «repentinamente si rivelaallo spirito su zampe di colomba». In ogni tela del pit-tore svizzero, afferma De Chirico, si è sorpresi da unalegge fatale di composizione in cui nessun termine èintercambiabile e nessun rapporto modificabile; in cuila composizione propone l’evidenza di qualcosa di giàaccaduto, la cui presenza viene a squarciare il velo ret-

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torico della rappresentazione e la generica emotivitàdello spettatore di fronte agli avvenimenti. Un vero piúreale del vero in nome della qualità pittorica della raffi-gurazione: è questo il senso della classicità che si puòaffermare oggi, una classicità che non può fare a menodel presente, del proprio tempo e dei sentimenti che essodesta.

C’è da credere che De Chirico conosca gli scritti diBöcklin, e in particolare quelli in cui aveva sottolineatocome gli antichi abbiano potuto esser grandi in quantohanno interpretato le idee e le sensibilità del propriotempo: hanno cosí imprestato alla loro opera il senso diuna concezione tanto vasta e radicale da ottenere dal-l’opera la dimensione di un mondo. In Böcklin c’è unesempio preciso: un pittore come Marées si sforza didipingere le tre Grazie, ma il risultato non è quello checi si sarebbe dovuti aspettare, «per noi non ha dipintoche tre donne nude, appiccicate insieme in manierasconveniente, che si palpano». Manca del tutto, oggi,una pienezza di rappresentazione che trovi nella cultu-ra e nella sensibilità diffusa la propria motivazione. Lanostalgia che porta con sé questa assenza, cioè la coscien-za dell’attuale povertà di realtà, è ciò che va evocato erealizzato pittoricamente. Essere moderni vorrà direesprimere un mondo sospeso fra perdita di totalità epensosa coscienza di una tale assenza.

Le opere dechirichiane si infittiscono di personaggisignificativi, dei, filosofi, viaggiatori, tragedi: o, meglio,si popolano di quei simulacri, statue o monumenti ofigurazioni, che rappresentano l’assenza oggi di similiprotagonisti della vita e nel loro simulacro ne celebranol’esigenza di presenza. L’ambiguità dell’indicare comeindispensabili protagonisti di fatto assenti si colora dibiografia e si scalda di emotività ben precise: il raccon-to si muove su fronti antitetici, i quadri narrano di spe-ranze e di delusioni, di aperture su vasti orizzonti e di

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ricadute, di grandi avventure e di inerzie estreme. Iltema dell’addio ha un numero altissimo di varianti e direpliche. E con esso l’altro tema principe, il figliol pro-digo, da intendere come uomo alla avventurosa ricercadi sé e di un ruolo, che si ricongiunge dopo avventure eviaggi, e quindi la circolarità, il ritorno al punto, di ogniesperienza: l’avvistamento di orizzonti e mete ritorna suse stesso come coscienza di un diverso percorso perso-nale e pittorico.

Da un punto di vista iconografico nella figurazionedel figliol prodigo rientrano il manichino del Trovatore,del Grande metafisico, delle figure del filosofo e delpoeta di qualche anno prima: l’autobiograficità dellarappresentazione è ribadita, ma è anche evidente unmutamento di motivazioni e di clima: quei personaggi(il filosofo, il poeta, il metafisico, il trovatore) tornanoad un punto preciso della loro stessa vicenda. Sappiamoda un paio di interventi di De Chirico scrittore che cosaora intenda in tema di ritorno: chi ha riflettuto sulla pit-tura attraverso gli esempi di Claude Lorrain e di Böck-lin, di Appiani e di Poussin, chi ha letto Raffaello comel’artista che ha saputo ingannare l’occhio, appagare l’in-telletto, e muovere il cuore, si trova ora a fare i conticon una precisa stagione che non chiede viaggiatori osperimentatori, ma vuole partecipazione e collaborazio-ne al suo sviluppo positivo. De Chirico fa i conti con l’i-nizio di questa stagione, europea e ricca di aperture, eriprende un altro itinerario. Si tratterà di saper testi-moniare l’epoca, sottrarla ai cascami e alle cadute,mostrarla al meglio, testimoniarne gli sviluppi. Si trat-ta di cantare gesta e realtà di un romanticismo che cono-sce ora altre indicazioni ma è ben radicato nella grandeEuropa moderna e nei suoi esponenti migliori. Non c’èpiú il cercatore solitario; il pittore si riconosce figlio diuna civiltà, e di lí, in un riconoscimento di ruoli, ripren-

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de il suo percorso. Per nulla inatteso, ecco nella galleriadelle circostanze culturali dechirichiane comparire Cour-bet, eroe di una stagione moderna di grande importan-za, e protagonista di ciò che in essa è stato maggior-mente significativo. Su Courbet, e sul grande romanti-cismo europeo, De Chirico torna due volte, nel 1924, aconclusione di una traettoria difficile. Courbet è, nellepagine di De Chirico, prima di tutto il testimone, coluiche è capace di misurarsi con un’epoca, leggendone gliaspetti piú avventurosi ed operosi e mutandoli in canto.Courbet rende in pittura l’elegia e la melica di una sta-gione che si esprime per segnali atmosferici e per segnivisivi, forse carente di poesia come di filosofia ma chenella musica traduce, o sublima, sentimenti fortissimi egrandi volontà. Di quella musica Courbet ha saputoesser partecipe traducendola in giusto spirito figurativo.È la pittura del tranquillo meriggio di una morente esta-te occidentale o di un autunno prolungato.

L’analisi del lavoro di Courbet è una sorta di paral-lelismo ideale fra l’Europa 1830-80 e le condizioni delpresente, come De Chirico lo intende: una stagione cuimetton mano poeti e scrittori, musicisti e pittori, ma dicui sono anche ricordati i filologi e gli archeologi (Cur-tius e Schliemann alle prese con la Grecia preistorica) eVerne, «il grande cantore del viaggio, della goletta, delpallone sferico, e del convoglio». Un mondo che si dila-ta per ogni dove e cui fa da contraltare il passato rivisi-tato, interpretato, riproposto, nel quale artisti e filoso-fi appaiono in pace con se stessi ed il proprio tempo, inun ambiente di officine e di strade, di stanze armate dicortinaggi, di botteghe tenebrose di antiquari e di caser-me, di stazioni, porti, caffè affumicati di «avancittà»:dai borghesi al mondo piú minuto, dalla «città che sale»alle attività commerciali, l’armamentario modernista esimbolista torna in campo, ma saldato assieme in unavisione senza fratture e senza contrapposizioni. L’at-

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mosfera è di sospensione, tra addio al tepore del «bonvieux temps» e attesa del nuovo, il turbamento e lamalinconia aleggiano sul mondo industriale, colonizza-tore, agricolo simili al richiamo dei cacciatori nel silen-zio fresco di un’alba estiva. La stessa atmosfera, si direb-be, e soprattutto la stessa pace operosa, che De Chiricosembra ora chiedere al proprio lavoro di pittore.

Quando torna, in francese questa volta, a discorreredi Courbet, De Chirico aggiunge un paio di identifica-zioni interessanti. Fra Courbet ed il padre di De Chiri-co, a simbolizzare una evocazione viva e vissuta, e fralavoratori e poeti, a segnalare un’identica partecipazio-ne costruttiva: perché l’arte su cui vuol portare l’atten-zione è, prima di tutto, una realtà commossa e commo-vente, fermamente piantata sul solido terreno dellarealtà, che del gran mistero dell’infinito solo ci fa pre-sentire il poco che soffia dagli strappi delle nubi in fugain una notte di luna. (La suggestione sembra essere datada Nietzsche, con una notevole sovrapposizione ditempi e di temi, utile a cogliere le stesse intenzioni ico-nografiche dei quadri anni ’20 del pittore. Si legge inNietzsche che l’ideale sarebbe per lui una musica il cuimaggior fascino consistesse nell’ignoranza del bene e delmale, una musica tutt’al piú resa tremula da qualchenostalgia da marinaio, da qualche ombra dorata e daqualche tenera rimembranza. Un’arte, cioè, che assor-bisse in sé tutti i colori di un mondo morale che tra-monta, di un mondo divenuto quasi incomprensibile,abbastanza ospitale e profonda per accogliere i tardifuggiaschi).

Quando simili compattezze e referenti mancano,quando il mondo non è vissuto, o vivibile, nella sua com-pattezza, spiega De Chirico, vengono meno le ragionidell’arte e la pittura si trascina fino alla banalità. Èquanto accade ora, quando si fa appello ad un’arte

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«sana» e si discute di un clima appena «mediterraneo».Modi di intendere la questione cui è negata ogni felicitàe il cui respiro è monco, in cui è assente ogni forma difantasia. E la fantasia non riguarda unicamente l’in-venzione: «come una luce che dilaga non solo di là, maanche di qua dal puro intelletto, la fantasia pervadendouna pittura ne illumina il colore e ne nobilita la materiae dà fuoco e grazie fino agli ultimi dettagli della tecni-ca». È il «soffio lirico» con cui De Chirico si congedada Courbet, quando spiega che piú un pittore è poeta epiú sente la magia del mestiere in un’arte che è la piúmagica e la piú ingrata: «solo i buoni pittori, animati dalsoffio lirico, trovano il giusto modus operandi».

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