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GIUSEPPE ZANARDELLI: UN VIAGGIO NELLA TERRA IN CUI LA PAZIENZA FU PIÙ GRANDE DELLA MISERIA (14-30 SETTEMBRE 1902) 1. Una necessaria premessa: l’«italianità» di Zanardelli (29 otto- bre 1826 / 26 dicembre 1903) Che Giuseppe Zanardelli sia stato uomo e politico leale, sinceramente legato alla causa liberale e patriottica del Risorgimento italiano, lo dice tutta la sua vita. Assolutamente negato ad ogni forma di compromesso, fu uomo della Sinistra storica, schiettamente portato ad un rinnovamento, in senso democratico, dei costumi, della società, delle leggi e dell’economia. Nato a Brescia il 26 dicembre 1826, frequentò la facoltà di giurispruden- za a Pavia. Nel 1848, scoppiati i moti liberali di Lombardia, prese parte alle dieci giornate di Brescia. Essendosi messo troppo in evidenza per la sua azione “rivoluzionaria”, fu dalla polizia tenuto sotto stretto controllo e per- seguitato. Per tal motivo, decise di rifugiarsi in Toscana, ove rimase dal 1848 al 1851. Nel 1851 tornava a Brescia, reinserendosi attivamente tra i gruppi liberali e patriottici e dedicandosi al giornalismo. Scrisse per il giornale “Il Crepuscolo” (settimanale di scienze, lettere e arti, fondato da Carlo Tenca), e per “Il Costituente”. Si trattava, in prevalenza, di saggi di economia politi- ca. Intanto allacciava stretti rapporti con l’intellettualità lombarda, soprat- tutto milanese. In particolare, a parte Carlo Tenca, si mantenne in relazione con i Visconti-Venosta, Arrigo Boito, Iginio Tarchetti e, in un secondo momento, Giovanni Verga. Nel 1859, in prossimità dello scoppio della seconda guerra d’indipendenza, fu costretto ad espatriare in Svizzera, fissan- - 23 - GIOVANNI CASERTA

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GIUSEPPE ZANARDELLI: UN VIAGGIO NELLA TERRA IN CUI LAPAZIENZA FU PIÙ GRANDE DELLA MISERIA (14-30 SETTEMBRE1902)

1. Una necessaria premessa: l’«italianità» di Zanardelli (29 otto-bre 1826 / 26 dicembre 1903)

Che Giuseppe Zanardelli sia stato uomo e politico leale, sinceramentelegato alla causa liberale e patriottica del Risorgimento italiano, lo dice tuttala sua vita. Assolutamente negato ad ogni forma di compromesso, fu uomodella Sinistra storica, schiettamente portato ad un rinnovamento, in sensodemocratico, dei costumi, della società, delle leggi e dell’economia.

Nato a Brescia il 26 dicembre 1826, frequentò la facoltà di giurispruden-za a Pavia. Nel 1848, scoppiati i moti liberali di Lombardia, prese parte alledieci giornate di Brescia. Essendosi messo troppo in evidenza per la suaazione “rivoluzionaria”, fu dalla polizia tenuto sotto stretto controllo e per-seguitato. Per tal motivo, decise di rifugiarsi in Toscana, ove rimase dal 1848al 1851. Nel 1851 tornava a Brescia, reinserendosi attivamente tra i gruppiliberali e patriottici e dedicandosi al giornalismo. Scrisse per il giornale “IlCrepuscolo” (settimanale di scienze, lettere e arti, fondato da Carlo Tenca),e per “Il Costituente”. Si trattava, in prevalenza, di saggi di economia politi-ca. Intanto allacciava stretti rapporti con l’intellettualità lombarda, soprat-tutto milanese. In particolare, a parte Carlo Tenca, si mantenne in relazionecon i Visconti-Venosta, Arrigo Boito, Iginio Tarchetti e, in un secondomomento, Giovanni Verga. Nel 1859, in prossimità dello scoppio dellaseconda guerra d’indipendenza, fu costretto ad espatriare in Svizzera, fissan-

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GIOVANNI CASERTA

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do dimora a Lugano. Di qui, scoppiata la guerra, tornò in Italia, incontran-dosi con Giuseppe Garibaldi e arruolandosi nei suoi “Cacciatori delle Alpi”.Lo stesso Garibaldi lo inviava a Brescia, affidandogli l’incarico di prepararviuna insurrezione.Dopo l’annessione della Lombardia al Piemonte, fu elettodeputato. A tale carica fu rieletto in tutti gli anni successivi, fino alla morte.Nel 1866, dopo la terza guerra d’indipendenza, e dopo l’annessione delPiemonte, fu commissario del re a Belluno.

Essendosi sempre dichiarato uomo di sinistra, non fu mai chiamato adincarichi di governo fino al 1876, quando, essendo la Sinistra andata algoverno, fu, col Ministero Depretis, ministro dei Lavori Pubblici.Successivamente ricoprì l’incarico di ministro degli Interni (1878) e diGrazia e Giustizia (1881-83 e 1887-91). Dal 1892 al 1894, durante ilMinistero Giolitti, fu chiamato alla prestigiosa carica di Presidente dellaCamera, che avrebbe ricoperto altre due volte. Nel 1897 tornò ad essereministro di Grazia e Giustizia durante il Ministero Rudinì.

Nel 1900, a Monza, sotto il pugnale dell’anarchico Bresci, cadeva il reUmberto I. Gli succedeva Vittorio Emanuele III, il quale, dopo la cadutadel governo Saracco, consapevole che alla guida del paese urgeva un uomodi sicura fede democratica, liberale e vicino alle istanze che venivano dalmondo del lavoro e dalle piazze, pensò di chiamare il vecchio Zanardelli, giàsettantacinquenne, alla formazione di un nuovo governo. Era il febbraio1901. Nel settembre 1902 Zanardelli intraprendeva il suo viaggio per laLucania-Basilicata; un anno dopo, a seguito di contrasti interni ed esterni,soprattutto con l’Austria, e anche per le non buone condizioni di salute. ras-segnava le dimissioni. Era l’ottobre del 1903 e aveva settantasette anni.Ritiratosi nella sua villa di Maderno, presso Brescia, moriva il giorno dopoNatale, il 26 dicembre 1903, compianto da tutti, anche da coloro che l’ave-vano avversato.

Era stato -come si è detto- uomo di sicura fede democratica, rispettosodelle regole e della minoranza; ed era stato uomo di forte carattere e intran-sigente sui principi. Ciò lo rendeva abbastanza scomodo, perché contrarioad ogni forma di compromesso deteriore, ma anche autorevole e rispettato.Sinceramente convinto che l’Italia avesse bisogno di un grande rinnovamen-to in senso economico, sociale, civile e culturale, pur non essendo socialista,fu attento al grido di dolore che si levava dalle plebi affamate, disperate edesiderose di giustizia. Perciò fu sempre contrario a qualunque forma dipolitica antioperaria e repressivamente poliziesca. Questo fu il motivo per

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cui non volle mai collaborare con i governi di destra. E tuttavia, quando igoverni di sinistra dimostrarono anch’essi intolleranza o forme di immora-lità amministrativa, seppe prendere le distanze, rassegnando le dimissioni.Lo fece nel 1882, protestando contro il trasformismo inaugurato daDepretis; la stessa cosa fece sotto il governo Rudinì. Fu naturalmente avver-so al Pelloux e alla sua politica reazionaria e autoritaria, contro cui pronun-ziò forti e vibranti accuse.

Al nome di Zanardelli furono legati importanti provvedimenti.Innanzitutto va ricordata la riforma del codice penale, nell’ambito del qualeera abolita la pena di morte. Non solo. Fu sancita la libertà di sciopero, riu-nione e associazione. Si perseguirono gli ecclesiastici che, avversi allo Statounitario, spingevano alla ribellione e alla disubbidienza. Quanto ai provve-dimenti di natura economica e sociale, notevoli furono l’abolizione deldazio sulla farina e l’introduzione di una rigorosa normativa sul lavorominorile e femminile. Tentò inutilmente l’introduzione del divorzio, presen-tando apposito disegno di legge.

Come tutti gli uomini di alto rigore morale e intellettuale, ebbe nemi-ci, sia a destra che a sinistra. Naturalmente contrari gli furono i cattolici.In compenso ebbe amici il Sud e gran parte dei parlamentari meridionali.Essendo, infatti, sinceramente aperto alle istanze sociali, ed essendo statoun combattente per il Risorgimento e l’unità d’Italia, fu sempre gransostenitore dell’unità nazionale e lontano da ogni diffidenza verso lepopolazioni meridionali. Proprio mentre si diffondevano le pericoloseteorie lombrosiane, di chiara significazione razzista, con grande schiettez-za, da Montalbano Ionico, durante il suo faticoso viaggio per la Lucania-Basilicata, all’on. Torraca che gli rivolgeva calorosi saluti, dopo aver pre-messo, con grande senso di responsabilità, che non intendeva parlare diproblemi e provvedimenti se non dopo aver conosciuto approfondita-mente la realtà che stava percorrendo, cosi dichiarò: “Un’impressione,però, voglio senza ambagi esprimere intiera, ed è che fui veramente edifi-cato dalla nobile attitudine di queste popolazioni. Non una querimonia,non un’espressione di animi concitati, non alcuna indiscretezza di prete-se, ma una mera esposizione pacata ed amplissima delle proprie condizio-ni ed un fidente appello alla giustizia dello Stato e della nazione. Talecontegno, in tanta gravità di mali, è ciò che più mi ha commosso in que-sti sei giorni in cui percorsi la parte che può dirsi più misera dellaLucania-Basilicata. Ciò mostra quanto sia più alto il sentire di queste

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popolazioni e conferma ciò che dissi a Napoli sulla natia bontà dellepopolazioni meridionali”.

Si trattava di un atteggiamento di apertura, se non di amore, che non eraomaggio dettato dal solo sentimento o dalla circostanza, ma era anche l’e-spressione di un pensiero o “filosofia” politica ed economica, che, per fortu-na, fu professata da non pochi uomini di governo del tempo, che avevanoattivamente partecipato alla formazione dell’Italia unita. E tutti erano peruna politica solidale nei confronti delle popolazioni meno felici, forse ancheperché, tra queste, non mancavano popolazioni settentrionali, come le gentidel Veneto e non poche parti dell’Italia centrale, come l’Umbria, le Marchee la stessa Emilia e Romagna. Sta di fatto che, pochi giorni prima che aMontalbano Ionico, a Napoli, sempre nel 1902 e durante lo storico viaggio,con grande passione e amore aveva richiamato il famoso apologo diMenenio Agrippa, con cui spiegò l’impegno suo e del suo governo per larealizzazione di un programma solidale, che investisse l’Italia tutta.Utilizzando, infatti, un’immagine che era stata già di Francesco De Sanctis,ebbe a dire, solennemente, che “l’infermità di alcune membra dell’uomo fasoffrire anche le altre, [cioè fa] totumque corpus ad extremam tabem venire.E come la malattia, così, per converso, la forza, il vigore dei visceri essenzialirisana, ingagliardisce l’intero organismo. Per tali motivi tutti gli stimoli, gliaiuti, i benefizi che noi arrecheremo all’Italia meridionale gioverannoimmancabilmente all’intera nazione”. Era la cordiale e totale accettazione diquanto era stato detto in una mozione parlamentare che, votata il I dicem-bre del 1901, così recitava: ”La Camera, convinta che sia un alto dovere diStato e di solidarietà nazionale cooperare a che tutte le parti d’Italia si riavvi-cinino nella loro prosperità, contribuendo insieme a realizzare la grandezzadella patria, confida che il Governo vorrà provvedere al più presto a restau-rare, con proposte di legge e con atti economici e sociali, le condizioni nonliete di Napoli, delle altre province del Mezzogiorno e delle Isole”.

Ma non c’era solo una ragione di solidarietà o pietà o comprensioneper le infelici condizioni delle popolazioni del Sud a spingere su questeposizioni di fraternità. Né c’era solo un interesse nazionale. C’era ancheuna ragione storica. Non si poteva nemmeno dimenticare, almeno daparte dei più illuminati uomini di Stato, tra i quali era Zanardelli, il note-vole contributo che il Mezzogiorno, soprattutto nella parte rappresentatadal ceto intellettuale, aveva dato alla causa italiana. A Napoli, il 14 settem-bre del 1902, prima ancora di oltrepassare Eboli ed entrare in Lucania-

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Basilicata, Zanardelli si era fermato a considerare come molti meridionalierano nella “sua” Lombardia a difendere la “sua” Brescia; e ricordò come,nei mesi della prima guerra di indipendenza, a combattere contro lo stra-niero, c’erano legioni napoletane, condotte da Guglielmo Pepe. Fra queicombattenti figuravano anche Cesare Rossaroli e Alessandro Poerio, peritieroicamente per la causa nazionale. Poi, a Montalbano Ionico, fra le moltecose che disse, non mancò di ricordare il contributo ideale che alla causaitaliana aveva offerto Francesco Lomonaco, amico personale del Manzoni,sicché ben si poteva dire che egli costituiva quasi un “legame di corrispon-denza spirituale” fra la terra lucana e la terra lombarda. Ancor più esplici-tamente, qualche giorno prima, il 19 settembre, parlando a CorletoPerticara, aveva ricordato che lì, nel 1860, si erano dati convegno tutti ipatrioti lucani, proclamando l’unità d’Italia e l’annessione ad essa dellaLucania-Basilicata, quando ancora Garibaldi non aveva oltrepassato lostretto di Messina. Insomma -aggiunse con grande onestà-, “se anche…Garibaldi non si fosse recato nel continente, l’insurrezione lucana era giàdecisa ed apparecchiata da mesi”.

2. Un dibattito in Consiglio Provinciale e l’interpellanzaCiccotti

Stanti queste premesse, l’idea di fare un viaggio nel Sud, per meglioconoscerlo e meglio provvedere ad esso, non fu né peregrina, né strana, enemmeno spiegabile solo sul piano della sensibilità personale. Già in prece-denza, come si è detto, Zanardelli era stato a Napoli. Era accaduto nel1876, nel 1882 e nel 1883. In Lucania-Basilicata, invece, c’era stato unasola volta, per una cerimonia ufficiale, quando, a Brienza, era andato a com-memorare e ricordare Mario Pagano, inaugurandone un monumento. Ma ilviaggio del 1902 era tutt’altra cosa, perché era un viaggio di ricognizione,condotta sulla condizione del mondo lucano, e meridionale in genere. Nonche essa fosse del tutto sconosciuta, perché, anche a voler ignorare l’inchie-sta di Massari e Castagnola, e poi quelle di Stefano Jacini e LeopoldoFranchetti, noti e diffusi, ormai, erano, fra gli altri, gli studi e le denunce diFrancesco Saverio Nitti e Giustino Fortunato. Così stando le cose, si potevacredere che, almeno in astratto, Zanardelli sapesse o potesse sapere tuttosulle condizioni del Sud. Il suo viaggio, perciò, poté apparire, e di fattoapparve, agli occhi di non pochi avversari, come un viaggio inutile, ovvero

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di semplice propaganda personale e politica, volto a rastrellare consensi peril suo partito e il suo governo.

In realtà, è difficile pensare che Zanardelli, a settantasei anni, volesse fareun viaggio di semplice propaganda, come se la vita dovesse durare in eternoe come se, col prestigio di cui godeva, egli avesse ancora bisogno di siffattimeschini espedienti. Ciò, peraltro, sarebbe in netto contrasto col costumedell’uomo che, per tutta la vita, aveva mostrato ben altra nobiltà d’intenti.La verità è che un conto è lo scritto, altra cosa è la visione dal vivo. Che poi,all’interno del Sud, Zanardelli scegliesse di visitare proprio la Lucania-Basilicata, che elettoralmente pesava molto meno delle altre regioni meri-dionali, può spiegarsi sia con la curiosità che gli avevano suscitato gli amicilucani (Nitti e Fortunato -si è detto-, ma anche Emanuele Gianturco,Lacava e Torraca), sia con la considerazione che la Lucania-Basilicata passa-va, ormai, come il cuore del Sud, ovvero, come si sarebbe detto dopo, comela Cenerentola del Sud, quasi un emblema. Peraltro, proprio in quei mesi laregione era teatro di notevoli sommovimenti sociali, durante i quali nonerano mancati feriti e morti, che avevano interessato l’intero governo e l’in-tera collettività nazionale, tanto più che, sulla scena, erano apparsi infuocatirappresentanti del nascente socialismo, che tante preoccupazioni suscitava.

Era stato proprio un deputato socialista, nativo di Potenza, ancorchéeletto in un collegio napoletano, cioè Ettore Ciccotti, uomo di grande spes-sore culturale, a svolgere alla Camera, il 28 aprile del 1902, una appassiona-ta e articolata interpellanza, che gli stessi avversari, e tra questi il Ministrodelle Finanze Carcano, avevano definito come una vera e propria “monogra-fia delle condizioni politiche, igieniche, economiche e finanziarie” della pro-vincia di Lucania-Basilicata”. Si trattava di un testo che, prima ancora diessere discusso in Parlamento, era stato diffuso attraverso la stampa socialistanapoletana e “La squilla” potentina, anch’essa socialista. Intorno se ne parla-va. Anche per questo, il 2 marzo, il Presidente del Consiglio provinciale diLucania-Basilicata, il sen. Carmine Senise, si era affrettato a convocareapposita riunione, per discutere dei provvedimenti da chiedere al Governoamico. Era stata anche nominata una Commissione, sui cui lavori, in data23 aprile 1902, al momento della riunione del Consiglio provinciale, eprima che l’interpellanza Ciccotti arrivasse in Parlamento, riferì il consiglie-re Perrelli. Nella discussione presero la parola il Presidente dellaDeputazione provinciale Vincenzo Lichinchi, di Palazzo San Gervasio, e,quindi, il consigliere Nicola Salomone, di Stigliano, il consigliere Francesco

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Dagosto, di Moliterno, e il consigliere Fedele Zaccara, di Lauria, i qualitutti apportarono notevoli contributi di denunzia e approfondimenti.

Il dato di partenza, in tutti quegli interventi, fu il massiccio fenomenodell’emigrazione, assunto a spia di una condizione di grande depressione etragica desolazione, “che ogni giorno -avrebbe detto Ciccotti in Parlamento-stende la triste ombra sui campi, invade sempre più i villaggi, le borgate, igrossi Comuni”. Quell’emigrazione era un vero e proprio esodo, anzi, comeaggiunse Ciccotti, era “un esodo doloroso, quasi una fuga”. Lo attestavanole cifre. La Lucania-Basilicata -si legge in Eugenio Sanjust- era allora unaprovincia divisa in 4 circondari. Comprendeva 124 Comuni: 44 nel circon-dario di Potenza, 38 nel circondario di Lagonegro, 19 in quello di Melfi e22 in quello di Matera. Riguardo alla popolazione, secondo i dati del censi-mento 1901, e secondo quanto avrebbe riferito il consigliere Salomonedurante la seduta del Consiglio provinciale- essa contava 491.518 abitanti,con una diminuzione, rispetto al 1881, di ben 47.740 individui, essendoquesti, venti anni prima, 539.258. In venti anni -in altre parole- eranoandati via 168.978 lucani, solo parzialmente compensati da un alto numerodi nascite! Era il termometro della situazione.

Si parlò anche, da parte del consigliere Salomone, e nella stessa sedutadel Consiglio provinciale del 23 aprile 1902, nientemeno che di “incettatoridi carne umana”, veri e propri negrieri e scafisti del tempo, che, sotto ilnome di “agenti per l’emigrazione”, rastrellavano miserabili da trasferireoltre oceano, come nella antica e contemporanea tratta degli schiavi. Il con-sigliere Francesco Dagosto si spinse addirittura a parlare di “emigrazione deifanciulli” e della cosiddetta “tratta di piccoli bianchi”, in virtù della qualemolti genitori letteralmente vendevano i propri bambini, non diversamenteda come avrebbero fatto, un secolo dopo, albanesi, curdi e macedoni. Manon per diletto o malvagità -sentì il bisogno di precisare e di correggere ilDagosto- i genitori [lucani] si inducevano a vendere “le tenere carni dei pro-pri figli”, perché, aggiunse, “quando non potevano mandarli con altri, lamiseria li spingeva ad emigrare con essi”.

Dall’emigrazione, e cioè dalla miseria, in Consiglio provinciale, semprenella stessa seduta, si passò a parlare di una regione priva di strade e ferrovie,con molte aree esposte a frane e alluvioni, che mettevano a rischio l’esistenzadi almeno trenta Comuni (p. 90). Disastrose -si disse- erano le condizioniigienico-sanitarie. Moltissimi paesi, infatti, erano privi di acqua, mentrecompletamente assenti erano istituti di assistenza e cura. La malaria, in tale

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contesto, costituiva un vero flagello. I morti per malaria, infatti, nel 1897,erano stati, 819, con una media di 166 su 1.000 abitanti (contro gli 83,71della Calabria, secondo la denuncia di Nicola Salomone). Assenti, infine,risultavano i capitali finanziari in circolazione, sicché molto diffusa risultaval’usura.

In quegli interventi e denunce, tuttavia, pochi cenni si fecero a riformedi struttura e, comunque, ad interventi che modificassero l’organizzazioneeconomica e sociale della regione. In verità, era assai difficile che, a porreproblemi di tal genere, fossero parlamentari e consiglieri provinciali, che,nella quasi totalità, erano espressione o della ristretta classe dei proprietariterrieri, o di quella, più ampia, dei “galantuomini”, che detenevano, colpotere economico, anche il potere politico e l’egemonia culturale. L’unicavoce diversa, anche se non nettamente espressa, in quella seduta, fu quelladel consigliere Francesco Dagosto, che parlò di “tutto un nuovo ordine dacreare”. Premettendo infatti di volersi dare il ruolo di “avvocato del diavo-lo”, e dicendosi non d’accordo con quanti erano affascinati dal miracolodelle ferrovie, precisò che “una o più ferrovie non sarebbero valse a dare unavita rigogliosa alla […] regione” (p. 118), perché ben altro urgeva. Parlò, diconseguenza, della necessità di una “riforma agraria”, da realizzarsi secondole indicazioni che venivano dal prof. Maggiorino Ferraris, che un progettoin tal senso aveva presentato alla Camera. Per esso e con esso, si chiedeva unpreciso e diretto intervento dello Stato, perché nelle campagne fossero rea-lizzate finalmente, sull’esempio della Toscana, opere di civiltà e bonifica,che non escludessero crediti ai coltivatori. Il tutto doveva essere rivoltoall’aumento della produzione e alla “colonizzazione” delle campagne, cioèalla creazione di diffuse case coloniche, che fossero sede stabile dei coltiva-tori dei campi. L’agricoltura, infatti -si disse da parte di qualcuno-, si sareb-be ripresa, anche nel Sud, solo se gli agricoltori fossero stati residenti sulposto di lavoro. Era il parere anche dell’on. Materi e -si vedrà- dell’on.Ciccotti e altri. Del resto, lo stesso Zanardelli, alla fine del suo viaggio, aPotenza, non mancò di rilevare che impressionante e doloroso, oltre cheincomprensibile, era stato per lui vedere, “in sulla sera, nei circondarii diMatera e di Melfi, tornare a cavallo, o in carretto i contadini i più fortunati,uomini, donne, fanciulli, dai solchi lontanamente coltivati”! Nello stessodibattito provinciale non si mancò, significativamente, di far riferimentopolemico anche alle conquiste coloniali e agli stanziamenti finanziari perl’Abissinia, mentre nulla si faceva per l’Italia più povera. “Paragonateci, se

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volete, all’Abissinia -disse ad alta voce il consigliere Nicola Salomone-, mavenite a spendere fra noi parte di quello che andate a spendere e forse senzaprofitto, in lontane contrade” (p. 107). E Francesco Dagosto, dal suo canto,ancor più esplicitamente, aggiunse: “Se si costruiscono strade ferrate edordinarie nella colonia Eritrea, non è chieder troppo se per la Basilicatainvochiamo dal Governo provvedimenti di facilitazione per completare larete della viabilità ordinaria” (p. 124).

Alla fine, concluso il dibattito, il Consiglio provinciale votò alcuniordini del giorno da inviare -si disse- al “Ministero liberale, presieduto[dalla] nobile e cavalleresca figura di Giuseppe Zanardelli”. Con essi,seguendo le indicazioni puntuali venute dal consigliere Nicola Salomone,si chiesero i seguenti provvedimenti: -le ferrovie Grumo-Matera,Ferrandina-Padula e Lagonegro-Castrovillari; strade di serie; bonifiche;rimboschimenti; lavori di difesa degli abitati e frane; contributi ferroviari;freni all’emigrazione; sistemazione delle finanze comunali; aiuti per ildebito fondiario; una Corte di Appello; istituti d’istruzione; modificazionialle tariffe dei trasporti ferroviari... Intatto, come si vede, rimaneva il siste-ma economico-produttivo generale, che, come si è premesso, non era indiscussione e si riteneva intangibile.

E invece fu proprio su un piano politico più alto che, in data 28 aprilesuccessivo, si collocò l’intervento alla Camera dell’on. Ettore Ciccotti, che,da socialista qual era, pose la questione in termini prima storici e poi distruttura. Anche lui, nel suo lungo intervento, partì dal tragico fenomenodell’emigrazione, riferendo, con dati leggermente differenti rispetto a quelliforniti dal consigliere Dagosto, che, su una popolazione di 539.000 unità,dal 1882 al 1900 erano partiti ben 168.970 lucani, sicché, “malgrado ilnumero dei nati superasse quello dei morti di 80.000 unità e più, la popola-zione complessiva era diminuita di 34 mila abitanti”. Sottolineò, in proposi-to, l’insensibilità e l’assenza del governo in carica, ma anche di quelli prece-denti, adducendo come esempio il fenomeno politico-sociale del brigantag-gio e il comportamento di chi allora gestiva il potere. Con molta acutezza, eda fine storico qual era, egli sottolineò come il nuovo Stato unitario, purpronto e tempestivo nel reprimere nel sangue il brigantaggio, nulla avevafatto per rimuovere le profonde cause sociali di esso. Per meglio illustrare lequali, l’interpellante fece cenno all’alta percentuale degli analfabeti (circa il74% degli abitanti), alla assenza di scuole di arti e mestieri e alla giustizia,“fondamento dei regni”, che, mal amministrata, spesso era nelle mani di

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magistrati, che, essendo del luogo, erano inevitabilmente compromessi conla parte peggiore della società. Non mancarono riferimenti alle condizioniigienico-sanitarie, alla distruzione dei boschi, alla malaria, per la quale sicitarono gli studi condotti del dottor Raffaele Sarra, operante a Matera,“intelligente medico e studioso”, che sarebbe stato sindaco di Matera e chesocialista non era.

Altra attenzione fu dedicata all’usura, al cosiddetto “carnevale bancario”,di cui aveva parlato Giustino Fortunato, e al rafforzamento del latifondo,che, purtroppo, si era esteso in modo smodato, nientemeno che a seguitodella vendita dei beni ecclesiastici, accaparrati puntualmente dai vecchi pro-prietari terrieri, già ricchi, o dai cosiddetti “galantuomini”, dottori e avvoca-ti, desiderosi di investire il ricavato della loro laurea in proprietà terriere. Afronte di tanti e così gravi mali, riprendendo un motivo che era stato pre-sente anche nel discorso del consigliere provinciale Dagosto, Ettore Ciccottinon chiese lavori pubblici inutili, ma interventi a favore dell’agricoltura e,più in genere, della terra, per il recupero della quale andavano programmatilavori di rimboschimento, bonifica e case coloniche. Era necessario, a talfine -concluse-, un massiccio intervento in prima persona dello Stato, che,risparmiando ulteriori aggravi ai Comuni e alle Province, doveva, una voltaper tutte, risolvere la questione demaniale, presentando “un progetto com-pleto di ricostituzione dell’antico dominio collettivo”. Insomma, e per con-cludere, bisognava capire, una volta per tutte, che “la questione dellaBasilicata, come quella di tutto il Mezzogiorno, di cui essa era tanta parte,era in buona parte questione di ordine politico”.

Il Presidente Zanardelli, per impegni precedentemente assunti, non erapresente al momento in cui Ciccotti discuteva così animatamente la suainterpellanza; erano invece presenti Giolitti (nella veste di Ministrodell’Interno) e Carcano (nella veste di Ministro delle Finanze), che, com-plessivamente, non poterono non concordare con la diagnosi dei fatti com-piuta dal Ciccotti, benché non riuscissero a renderlo soddisfatto per lerisposte date e i rimedi proposti. Riprendendo, infatti, la parola dopo l’in-tervento dei due ministri, così il Ciccotti concluse la sua calda arringa: “Laprovincia di Basilicata -disse- è oggi nella condizione di un malato che malsi regge in gambe; e il Governo sapete cosa le dice? – Mettetevi a correre conquelli che stanno perfettamente bene in gambe, fate prova di corsa e di forza[…]. Onorevole ministro, tutto sta a farla questa corsa!”(p. 1015).

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3. Paese per paese, dal 14 al 29 settembre 1902Che Ciccotti fosse un socialista, e quindi avverso al governo in carica,

non significava che, da parte degli amici del governo, si ignorassero o sotto-valutassero i problemi che quello tanto drammaticamente aveva posto. Glionorevoli Pietro Lacava e Michele Torraca, infatti, sentiti gli amici di corda-ta presenti nel Consiglio provinciale, si fecero immediatamente carico di unloro intervento durante la seduta del 20 giugno successivo, essendo indiscussione il programma governativo circa i Lavori Pubblici. Quella voltaZanardelli era presente e si lasciò trascinare dal quadro che i due deputati,suoi amici e sostenitori, gli fecero della loro provincia, che egli non conosce-va affatto, perché – come si è detto – si era appena affacciato a Brienza,alcuni anni prima, compiendovi una visita assai fugace e circoscritta. Nulla,perciò, aveva potuto vedere e sentire di quanto, invece, riferirono inParlamento Lacava e Torraca, del resto non molto diverso da quello cheaveva detto Ciccotti, e che egli non aveva potuto ascoltare direttamente. Fuallora, su sollecitazione dei due parlamentari lucani, che egli maturò la deci-sione di fare un viaggio per la provincia di Lucania-Basilicata, per la quale, aMatera, alla presenza dei suoi elettori e nella giornata del 25 settembre, cosìlo ringraziava Michele Torraca. “Io -disse- […] nell’umile mia vita parla-mentare devo segnare la giornata del 20 giugno come la mia più lieta”. Eaggiunse: ”Ho obbligo di singolare riconoscenza all’on. Zanardelli ed alta-mente lo attesto. Egli non guardò a chi parlava; udì soltanto la voce deldolore”. E decise di partire.

Della intenzione dello Zanardelli a venire in Lucania-Basilicata si venne asapere relativamente presto, nel mese di agosto. I paesi, allora, cominciaronoa mobilitarsi, cercando di mettere a punto le richieste più urgenti da fare. Sipubblicò anche l’itinerario, che, in un primo momento, così come riportatoin data 16 settembre dal giornale quindicinale “Quinto Orazio Flacco, diispirazione cattolica e pubblicato a Venosa, era il seguente:

- 17 settembre. Arrivo a Lagonegro.- 18. Da Lagonegro a Moliterno. Nelle ore antimeridiane, gita al Lago

Sirino e possibilmente a Sella Cavallo. Andata e ritorno 3 ore. (DaLagonegro a Lago Sirino km 8. Da Lago Sirino a Sella Cavallo, Km 6). Coltreno n. 966 delle 13,50, partenza per Montesano sulla Marcellana. Arrivoalla stazione di Montesano alle 14,38. Dalla stazione di Moliterno (km 32)ore 3. Arrivo a Moliterno alle 18.

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- 19. Da Moliterno a Corleto Perticara (Km 47). Partenza da Moliternoalle ore 12, arrivo a Corleto alle 17 ore circa.

- 20. Da Corleto a Stigliano (Km 51). Partenza da Corleto alle ore 11.Arrivo a Stigliano alle 17.

- 21. Da Stigliano a Montalbano (chilometri 57). Partenza da Stiglianoalle ore 9. Arrivo a Craco alle ore 11,30 (30 Km). Si riprenderà il viaggioalle 15. Arrivo a Montalbano alle ore 17,30 circa.

- 22. Da Montalbano a Taranto. Da Montalbano partenza alle 9,30.Arrivo alla stazione di Montalbano alle ore 10,30 (Km 10). Con trenospeciale partenza per Policoro. Si riprenderà il viaggio alle 14 con trenospeciale per Taranto. Fermata presso Metaponto. Arrivo a Taranto versole 18.

- 23. Da Taranto a Matera. Partenza da Taranto alle ore 8 con treno spe-ciale. Arrivo ad Altamura alle 11. Partenza in carrozza per Matera alle 14.Arrivo alle 15,30 (Km 17).

- 24. Da Matera a Rionero. Partenza da Matera alle ore 8,30. Arrivo allastazione di Altamura alle ore 10,30. Partenza con treno speciale per Venosa.Colazione in treno. Fermata alla stazione di Palazzo San Gervasio. Arrivoalla stazione di Venosa alle 12,30. Si riprenderà il viaggio alle 15. Mezz’oradi fermata alla stazione alla stazione di Rocchetta Sant’Antonio. Arrivo aMelfi alle 16,30. Partenza sempre con treno speciale alle 21. Arrivo aRionero alle 21,30.

- 25. Fermata a Rionero.- 26. Da Rionero a Potenza. Partenza alle 9,32 con treno n. 943. Arrivo a

Potenza alle ore 11.- 27. Partenza da Potenza con diretto n. 4 alle ore 9,10. Breve fermata

alla stazione di Muro Lucano.

Il viaggio, così minuziosamente organizzato, dovette però subire, comesi vedrà in seguito, delle modifiche, che ne prolungarono la durata di duegiorni. La partenza, invece, avvenne da Roma all’ora e nel giorno fissato,cioè alle 8,35 del 14 settembre, con treno speciale. Il vecchio Presidentedel Consiglio era diretto a Napoli, prima tappa. Lo accompagnavano ilministro Nasi, i sottosegretari Mazziotti e Roberto Talamo, il segretariocapo della Presidenza del Consiglio, comm. Augusto Ciuffelli, e il segreta-rio particolare cav. Pellegrini. C’era anche un discreto numero di giornali-sti, tra i quali: Vassallo del “Secolo XIX”, Sestini della “Tribuna”, Vasquez

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del “Corriere della sera”, Libonati della “Patria”), Ernesto Serao del“Mattino”, Pignatari del “Roma”, del “Secolo” e del “Carlino”.

Lungo il tragitto, come è ovvio, tappa dopo tappa, il cav. GiuseppeZanardelli fu sempre accolto dagli onorevoli rappresentanti del locale colle-gio elettorale, oltre che da sindaci e varie autorità. “Non vedete -scrivevacon amara ironia da Montalbano il corrispondente de «Il corriere diNapoli»- […] come i deputati di questi collegi lo accompagnano nei loroterritorii, dove hanno tutto preparato: pranzi e dimostrazioni, e se lo conse-gnano a vicenda al confine di ciascun collegio?”. Il viaggio, perciò, cosìcome organizzato, rischiava di avere tutti i caratteri della solennità, con tuttii cerimoniali e i convenevoli del caso, del resto comprensibili. A dispetto,cioè, della onestà intellettuale e morale dell’illustre “visitatore”, rischiava didiventare una coreografica passeggiata, alla ricerca di consensi per il governoe la propria parte politica. Su questa posizione di critica, per l’appunto, sicollocarono non pochi giornali di opposizione, sia nazionali che locali. Era,per fare un esempio, il caso del “Guerin Meschino”, che, il 14 settembre,attraverso sonetti satirici, da Milano scriveva che il buon Governo, si accin-geva ad elargire, alla Lucania-Basilicata, solo una grande processione, conZanardelli che fungeva “da Padreterno”. Nei baùli del Presidente -si aggiun-geva- c’era veramente di tutto: diminuzioni di gabelle e ponti, strade eindulgenze, miglia di ferrovia e croci, cordoni e persino il bel tempo e lapioggia. Intanto -si concludeva- in Lucania-Basilicata, Comune perComune la tavola era “già bella e preparata / per sentirlo parlar dopo il ban-chetto”.

Il viaggio, in effetti, fu, nella sua parte ufficiale, anche qualcosa di simile.Ed era pressoché inevitabile, considerato il tessuto sociale della Lucania-Basilicata del tempo, fatto in gran parte di gente tagliata fuori dal voto,dalla partecipazione e dalla semplice informazione. Il Presidente non potevanon essere, per così dire, “sequestrato” dalle persone che in regione esercita-vano il potere: dal Prefetto ai carabinieri, dai presidenti dei Tribunali ai par-lamentari, dai baroni ai conti e cavalieri. E ciò anche in senso tutto materia-le, se si considera che, per mancanza pressoché totale di strutture alberghieree di ristorazione, il Presidente fu quasi sempre costretto ad alloggiare in casedi privati, che puntualmente erano, e non poteva essere diversamente, palaz-zi e castelli di onorevoli e signori di paese. I quali erano quasi sempre la stes-sa persona; e contro di essi Ciccotti, insieme con i pochi socialisti lucani,pretendeva di strappare provvedimenti governativi, quali confisca di terre

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demaniali e giuste tasse, giusti contratti agrari e giusti salari, in modo dasmantellare – si disse nel Congresso socialista tenuto a Potenza il 24 novem-bre 1902, quel “feudalesimo economico, amministrativo [e] politico”, cheancora imperversava nella regione. Non è meraviglia, perciò, se, esattamentecome aveva previsto il “Guerin meschino”, molto tempo del viaggio diZanardelli fu dedicato a brindisi e cerimoniali.

In questo contesto, le stesse autorità locali, sindaci e consiglieri provin-ciali, di paese in paese, non seppero se non chiedere la ferrovia, grande mitodel secolo, insieme con strade, rimboschimento e incanalamento delleacque, per contenere il fenomeno della malaria. Né diversi furono gli atteg-giamenti e le richieste delle cosiddette Società operaie, puntualmente ricevu-te dal Presidente, ovunque ne fosse attestata l’esistenza. Giova ricordare,infatti, che, nel Sud, come anche in Lucania-Basilicata, esse erano fortemen-te avversate dal socialista Ettore Ciccotti, essendo tutt’altro che organizza-zioni per dir così proletarie, perché, mancando le fabbriche, mancavanoanche gli operai. Quelle Società, in altre parole, che avevano uno scopo pre-valentemente assistenziale, finivano col raccogliere tutta la molteplicitàvariopinta della società meridionale del tempo: artigiani e commercianti,“galantuomini” e persino proprietari terrieri e nobili, soci onorari quasi didiritto. Non avevano, in altre parole, nessuna connotazione di classe e dilotta, ché, anzi, erano docili strumenti nelle mani dei potenti, sempre dispo-nibili ad ogni manovra clientelare, elettorale e trasformistica.

Così stando le cose, come già si è lasciato intendere, tutte le rivendicazio-ni si incentrarono intorno ai lavori pubblici e agli interventi straordinari,pur se riferiti ad un quadro di degrado e di miseria, e sempre mescolati alleglorie letterarie, culturali e patriottiche che i singoli “campanili” potevanovantare. Il tutto si svolgeva, come si è detto, sempre ambienti ufficiali ecomunque selezionati e ovattati, e sempre con la preoccupazione di tenerlontano dagli occhi e dalle orecchie del Presidente quanto potesse turbarlocon manifestazioni rumorose, che i socialisti in particolare, o qualche esalta-to, avrebbero potuto organizzare e, talvolta, riuscirono anche ad organizzare.Si temeva, insomma, la voce diretta del popolo e il contatto diretto con essoe tutto ciò che non fossero bandiere e canti e archi di trionfo. Fu quantoebbero a denunziare 555 lavoratori di Potenza, che, in data 26 settembre1902, polemicamente, scrissero al Presidente, giunto alla fine del suo viag-gio: ”L’Eccellenza Vostra -si legge in quel documento- sarà attorniata da unaquantità di funzionari. Le chiederanno forse costruzioni di strade e di pub-

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blici edifici, soccorsi a Comuni che si trovano impotenti a sostenere gliobblighi assunti e la pubblica azienda, cercando in tal modo di risolvere ilgravissimo problema economico della nostra provincia”. Dimostrando diessere più lungimiranti dei vari Lichinchi e Salomone, ma anche dei Lacavae Torraca, quei 555 lavoratori, forse idealmente ricollegandosi ai Ciccotti, eai Pignatari di quegli anni, così, invece, continuavano: “Ma questi rimedinon ci riguardano; essi non riflettono l’agricoltura, madre e nutrice di tuttele nazioni di cui noi siamo miseri figli. Che ci può importare della costru-zione delle strade, quando i prodotti da esportare mancano, quando l’esatto-re viene a sequestrarci perfino la pelle che ricopre il nostro corpo?”.

Si trattava, invero, di discorso assai diverso da quello che, in data 28 ago-sto 1902, in apposito Consiglio comunale, aveva fatto il Sindaco di Craco,che, nel mentre lamentava l’isolamento del suo paese (“Noi siamo esiliati daDio e segregati si può dire dal Consorzio umano per mancanza di strade”),ricalcava con convinzione un locus communis di quegli anni, attribuendoalle strade e alla ferrovia un potere quasi miracoloso, perché risolutivo diogni problema. Quando infatti -disse in quella seduta- è “interdetta la liberacomunicazione, il commercio, il quale è la fonte delle ricchezze dei paesi,manca e quindi le belle derrate, che producono questi terreni, restanoammonticchiate nei magazzini e, se vendonsi, il loro prezzo deve essere asso-lutamente inferiore al corrente sugli altri mercati, poiché il transito non soloè lungo, ma diviene nella stagione invernale interdetto dal fiume Salandrellaed il meschino trasporto, che si fa a schiena di muli, è più dispendioso diquello della ruota”.

La difficoltà o impossibilità di far commercio -continuava il Sindaco- era“il movente primitivo della continuata emigrazione, poiché l’abbiente, nonpotendo liberamente utilizzare il prodotto delle sue terre, abbandonava lasua proprietà ed emigrava in cerca di migliorare le sue finanze. Un taleabbandono spingeva anche il contadino a lasciare il focolare natio, renden-dosi così ancora insufficienti le braccia per coltivare i fondi dei pochi cherestavano”. Era per ottenere strade di congiungimento a Pisticci, e alla suastazione soprattutto, che il Sindaco, al fine di accattivarsi le simpatie e ifavori del Presidente, chiedeva al Consiglio lo stanziamento di una sommadi L. 1.000, con cui fare buona accoglienza all’illustre ospite e “non esseresecondo agli altri paesi”. Cosa che fu fatta

Come si vede, i 555 lavoratori di Potenza erano su posizioni decisamentediverse, perché, a loro parere, a mancare non erano le strade, ma, piuttosto,

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le “derrate” perché depressa e inadeguata era l’agricoltura, anche da loroconsiderata fonte prima, e anzi unica, di ogni ricchezza e riscatto. “Unesempio -dicevano- ne abbiamo nella nostra città, dove strade non nemancano, eppure è la più povera di tutta la Provincia, è quella dove l’emi-grazione è maggiore, dove la nostra classe soffre i maggiori disagi”. In defi-nitiva -sottolineavano- “non è nel mondo ufficiale che l’Eccellenza vostrapuò conoscere i veri bisogni di questa città e della nostra classe, che è quellache dovrebbe dar vita, ma nelle nostre case. Venga l’Eccellenza Vostra, venganelle nostre case, e vedrà lo stato miserevole in cui siamo, vedrà che non vitadi uomini, ma quasi di bestie meniamo, vedrà la miseria grande, la pazienzapiù grande ancora della miseria”. E Zanardelli, nei limiti del possibile e del-l’età, seppe ascoltarli e fu d’accordo con loro.

4. Tra terre desolate e vestiti di cenciInfatti, pur circondato da funzionari, ministri e giornalisti, quasi sempre

condiscendenti essi pure, il viaggio non mancò di offrire, in presa diretta, ildramma che la regione di Lucania-Basilicata, con le sue popolazioni, viveva.Tra visite ufficiali e rituali brindisi, per squarci improvvisi, la vita reale siaffacciò. E si affacciarono i visi, le rughe e i cenci che erano degli uomini,ma anche la devastazione e la malattia che erano nei luoghi.

Il viaggio, certo, era cominciato con un treno speciale, che, già di per sé,isolava l’illustre viaggiatore. Ma era difficile che si decidesse diversamente.Oggi si sarebbe partiti con un corteo di macchine. Il treno, dopo Roma,passò per Ceccano, poi per Roccasecca, Caianello, Teano, Cassino,Pignataro, Capua, Santa Maria Capua Vetere e Caserta. Secondo l’agenziadella stampa ufficiale, già in questo primo tratto e, anzi, soprattutto in esso,il viaggio ebbe tutti i caratteri di una marcia trionfale, fra stazioni imbandie-rate, fanfare e cartelli inneggianti al “Presidente liberale”. Tutto si svolgevasecondo una attenta regìa e secondo programma. In testa alle folle era sem-pre un Sindaco, insieme con le autorità più rappresentative. Così fino alleore 14,30 del 14 settembre, quando, dopo sei ore esatte di viaggio, il trenoentrò in Napoli. Ad accogliere il Presidente c’era una nutrita schiera di sena-tori, oltre che, naturalmente, il Sindaco, sen. Miraglia, con consigliericomunali, provinciali, componenti della giunta, magistrati e altri. A cena, asera, intervennero oltre 120 onorevoli, fra deputati e senatori del Regno. Intutto, gli invitati furono 420, compresi i rappresentanti del tribunale, dell’e-

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sercito e le autorità accademiche. Il luogo scelto per il banchetto fu il gransalone del Circolo delle Varietà. Qui, alle 21,20, il Sindaco Miraglia pro-nunciò un discorso di saluto, pieno di omaggi e ringraziamenti, cui ilPresidente rispose, con altri omaggi, ringraziamenti e impegni, che riguarda-vano l’Acquedotto Pugliese e, naturalmente, strade, ferrovie e, soprattutto, ilrisanamento della città. Tuttavia, secondo una illuminata convinzione cheera soprattutto di Francesco Saverio Nitti, furono assunti anche impegni perl’industrializzazione dell’area napoletana, perché -si legge nelle cronache deltempo- dall’industria soltanto, “regina del mondo moderno”, potevano deri-vare e derivavano progresso e sviluppo. Altro impegno riguardò l’abolizione“del dazio sopra il pane e le paste”. La cena terminò alle ore 22,42.

Il giorno dopo, 15 settembre, il Presidente partiva per Capri e, quindi,nel pomeriggio, alle ore 19,30, raggiungeva Sorrento, dove passò la notte. Il16 settembre, da Sorrento raggiungeva il Comune di Meta, da cui rientravaverso mezzogiorno, per poi raggiungere, nel pomeriggio, Massa Lubrense el’Eremitaggio di Sant’Agata. Da Sorrento, la sera stessa, si imbarcava pertornare a Napoli. Di qui partiva il giorno dopo, 17 settembre, alle ore 7,55,in treno, per raggiungere, in giornata, la Lucania-Basilicata. Il treno passòper Torre Annunziata, per Nocera, dove, ad attendere il Presidente, fra glialtri, insieme con non pochi sindaci del circondario, c’era il Prefetto diSalerno. Dopo una fermata a Cava dei Tirreni, si arrivò a Salerno. Il tutto,sempre, ad ogni fermata, tra acclamazioni di gente plaudente, con bandiere,fanfare e cartelli inneggianti. La stessa scena si ripeté ad Eboli e a Sicignano,donde ci sarebbe stato il salto verso la Lucania-Basilicata.

Ad accogliere il Presidente, perciò, oltre che le autorità del posto, eranoarrivati anche alcuni rappresentanti parlamentari della Lucania-Basilicata.Ci fu il solito banchetto, con i brindisi di circostanza. Fu a questo puntoche si levò l’onorevole Pietro Lacava, giunto a far da guida all’illustre visita-tore e a introdurlo, quasi novello Virgilio, in una terra sconosciuta. Nuove“note” ormai si sarebbero sentite E dolenti tanto, che l’onorevole Lacavasentì il dovere di preparare il Presidente, preannunciandogli che una nuovarealtà si sarebbe parata davanti ai suoi occhi, assai diversa da quella di Caprie Sorrento. Non era ancora giunto Carlo Levi a dire, in forma icastica, cheCristo si era fermato a Eboli; ma il senso delle parole del Lacava fu proprioquello, tanto che, a sentire quel discorso, Zanardelli, uomo di cultura, intel-ligente e sincero, oltre che abile, ebbe a dire: “Melius ire ad domum luctusquam ad domum convivii” (“Meglio andare nella casa del dolore che in

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quella del banchetto”). E forse furono proprie le parole di Lacava a spingereil Presidente a compiere un immediato atto di “indisciplina”, e fuori delprotocollo prestabilito, perché, inaspettatamente, giunto a Lagonegro lostesso 17 settembre, alle ore 17, e ricevuto dal Sindaco Pesce, dopo essereandato dormire, il giorno dopo, il 18 settembre, dichiarò che intendevaricevere liberamente quanti avessero voluto presentarsi da lui. Anche genteumile.

“Tale decisione -raccontano le cronache- fu simpaticamente e favorevol-mente commentata […]. Tutto il paese fu in festa e straordinariamente ani-mato. Il tempo era bello”. I paesani, quasi increduli, indossavano “il lorocaratteristico costume”. Appartenenti a tutte le condizioni sociali, furonoaccolti con grande cordialità e -si legge- con “schietta dimestichezza”. IlPresidente, uomo laico, volle sentire anche i parroci, che, normalmente,sono ed erano coloro che della realtà di ogni paese conoscono la misura piùesatta. E tra gli incontri più significativi, ci fu persino quello con il parrocodon Antonio Amalfi, figura di prete coraggioso, che, rappresentante di unasorta di Chiesa del dissenso ante litteram, ebbe il coraggio, quando ilPresidente presentò la legge sul divorzio, di schierarsi con lui, rifiutandosi difirmare un documento di protesta contro di essa. Prete impegnato e libero, equindi più sensibile di altri preti alle questioni politico-sociali delMezzogiorno, non è meraviglia che proprio lui, don Antonio Amalfi, sifacesse carico -dicono le cronache- di riaffermare i propri sentimenti liberali,non solo, ma anche e soprattutto segnalare “le miserevoli condizioni delleclassi lavoratrici, che determinavano così allarmante il fenomeno della emi-grazione” a Lagonegro.

Il Presidente ascoltò anche, oltre che il Consiglio comunale, anche i rap-presentanti delle associazioni operaie, “minuziosamente informandosi circale condizioni della viabilità, i movimenti dell’emigrazione e sullo stato delleindustrie locali”. Di tutto prese nota per iscritto. Quindi, a piedi, volle fareil giro del paese. E forse perché impressionato da questo primo impatto conuna realtà, di cui aveva solo sentito parlare, maturò la convinzione che ilviaggio andava prolungato. Al giornalista Sensini, infatti, corrispondentedella “Tribuna”, manifestò l’intenzione di prolungare di un giorno la sosta aCorleto Perticara e, forse, di un altro giorno a Taranto.

Lo stesso 18 settembre, quindi, alle ore 13,50, lasciato il treno, partivaper Montesano, ritornando per un tratto in Campania. Quel tragitto ebbe ilpotere di rafforzare ancor di più l’immagine di una terra dolente e affranta.

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Facendo a meno della scorta di quattro carabinieri, e tolto al trasferimentoogni carattere di ufficialità, il Presidente procedette su una carrozza trainatada tre robusti cavalli. Lo spettacolo di così importante uomo in visita fraterre da sempre abbandonate, che avevano conosciuto, con la miseria e lamalaria, solo i soldati, i carabinieri e i briganti, era del tutto insolito. Perciò,“al passaggio del lungo corteo di carrozze, [che era] chiuso da una grandecarrozza carica di bagagli -raccontano le cronache-, accorrevano dai campi edai rari casolari i contadini attoniti, stupiti, salutando. Quasi tutti […] ave-vano l’aspetto emaciato, il colore terreo; si vedeva bene, purtroppo, chequella gente si nutriva poco e male”. Né mancò un episodio di intensa emo-zione, in quel contesto di speranze e gratitudine per un personaggio tantoimportante, che appariva quasi divinità benevolmente discesa agli inferi.“Presso un gruppetto di misere capanne, fu visto un vecchio calvo, vestito dibrandelli, [che] agitava una strana bandiera fatta di fazzoletti di vari colori:quando le carrozze passarono egli gridò «Viva Zanardelli» e coloro i quali locircondavano ridettero il grido”.

La permanenza a Montesano durò giusto il tempo necessario per incon-trare il Sindaco e la Giunta; quindi, nel pomeriggio, il Presidente partì perMoliterno, ove giunse in serata. Il paesaggio attraversato fu un’altra confer-ma del mondo di sofferenza in cui il viaggio, ormai, si stava svolgendo. Siprocedeva, infatti -secondo il racconto dei giornalisti al seguito-, “a traversomontagne completamente brulle o assai mal coltivate, segno evidente dellagrande miseria di quei contadini”. Sembrava di attraversare l’Agro Romano,che a quell’epoca era non meno desolante e desolato. Ma c’era una differen-za - annotava il cronista: le terre lucane, “in tempi non lontani, ebbero rigo-gliosa vegetazione; ora sono lasciate in triste abbandono per la scarsità deldanaro e per la conseguente continua diminuzione di braccia da adibire allavoro, che invece emigrano”. Sta di fatto che, a dire del cronista, lo spetta-colo “impressionò” l’on. Zanardelli.

Per fortuna, a rasserenare gli animi, il paesaggio cambiò al momento incui ci si avvicinò al paese di Moliterno, in prossimità del quale venne avantil’on. Lovito, potente rappresentante di quella comunità in Parlamento. Conlui era il Sindaco. Il Presidente si diresse verso il palazzo del Lovito, doveavrebbe alloggiato. Tutto era stato organizzato e predisposto alla perfezione.Si camminava a piedi, tra case imbandierate, “accerchiati e festeggiati daipopolani vestiti nei loro abiti di festa – gli uomini in velluto nero con leghette di velluto anch’esse”, le donne all’incirca come le avrebbe viste anche

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Carlo Levi, cioè “tutte di nero con ampi fazzoletti di grave panno nero pen-denti dalla testa sulle spalle alla foggia monastica”.

Il palazzo Lovito era abbastanza ampio, tanto da poter accogliere venti-cinque coperti, oltre che un concertino di arpe e violini, suonati dai “ramin-ghi suonatori” viggianesi, famosi in tutto il mondo. Si sturò anche una bot-tiglia di champagne. Sembrava tutta una festa. Eppure fu proprio aMoliterno che, nel pieno clima della festa, il Sindaco ebbe a lanciare queldrammatico saluto, che avrebbe fatto il giro dell’Italia e sarebbe stato ricor-dato in tutti gli studi condotti sulla questione “emigrazione”. “CaroPresidente -disse all’incirca quel Sindaco, in forma quanto mai secca ememorabile-, ti salutano qui ottomila moliternesi: tremila sono emigrati inAmerica; gli altri cinquemila si accingono a farlo”.

Il giorno dopo, 19 settembre, dopo aver ricevuto, le autorità del luogo,compresi ancora una volta i sacerdoti, e dopo aver a lungo conversato con ilcav. Lichinchi, presidente della Deputazione provinciale di Lucania-Basilicata, intorno alle ore 13 il Presidente partiva per Corleto Perticara,dove giungeva nel tardo pomeriggio di una giornata mite, ma non meno tri-ste per gli squallidi luoghi per cui si dovette passare. Anzi, insieme ai duesuccessivi, quel percorso fu il più triste che avesse fatto il Presidente. Lacampagna -ricorda “La tribuna”- si presentò “quasi affatto priva di vegeta-zione”; in lontananza si vedeva la corona dell’Appennino lucano, con paesile cui case sembravano “le celle di un alveare”.

Il collegio elettorale di Corleto Perticara era dominio assoluto dell’on.Pietro Lacava, potente personaggio, che, vicino a Zanardelli, insieme conMichele Torraca, come si è visto, fu suggeritore del suo viaggio. Perciò l’arri-vo del Presidente avvenne ancora tra case imbandierate, carabinieri a caval-lo, folle di uomini e persino signore a cavallo, fuochi pirotecnici. Come aMoliterno, le donne erano vestite a festa, con “la testa ricoperta del caratte-ristico panno nero, riccamente guarnito da rabeschi e nastri in oro”. La per-manenza in paese fu tutta una reciproca glorificazione, anche in virtù delfatto che Corleto Perticara era stata il centro dell’insurrezione lucana nell’a-gosto del 1860, quando, prima regione dell’Italia meridionale, e primaancora che arrivasse Garibaldi, la Lucania-Basilicata si liberò dei Borboni eproclamò la propria annessione all’Italia unita. A Corleto, perciò,Zanardelli, tra un brindisi e l’altro, potette ascoltare la parola di CarmineSenise, vero eroe di quelle giornate. Tutto avveniva nel sontuoso palazzodi Pietro Lacava. A far gli onori di casa c’era la signora Giulia Lacava,

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che -riferiscono le cronache- “vestiva un bellissimo abito di seta nera e sede-va tra l’on. Zanardelli e l’on. Carmine Senise, avendo di fronte l’on. Lacavatra l’on. Tommaso Senise e il Lichinchi”. Ai brindisi interni rispondevanogli applausi esterni.

Per quel giorno e per il giorno appresso, senza interruzione alcuna,davanti al palazzo stazionarono sempre due carabinieri. Corleto, fu, insom-ma, il massimo del cerimoniale e della festa. Ma ciò, almeno nella mente delPresidente, e al momento del silenzio della stanza da letto, difficilmentepoté far dimenticare il penoso tragitto che, da Moliterno, lo aveva portatofin là. Nei pressi di Viggiano, è vero, il Presidente era passato sotto un arcodi trionfo; ma, poco dopo, cominciata la salita verso i monti, “era unamalinconia grande vedere una così vasta estensione di terreni spogli comple-tamente di rivestimento boschivo, brulli, senza ombra di vegetazione, deva-stata dall’impeto dei torrenti straripanti per difetto di opere idrauliche.Tranne che in prossimità di qualche villaggio, mancavano ovunque traccie(sic) di vita umana!”.

Non meno sconfortante, del resto, fu la mattinata del giorno successi-vo, trascorsa ad ascoltare le rappresentanze locali e quelle di tutti iComuni circostanti, tutti del collegio Lacava. Il Presidente, quasi con pun-tigliosità -stando a quanto si legge nella “Tribuna”- “volle essere informatodel numero delle rispettive popolazioni, della proporzione dell’emigrazione,delle condizioni sanitarie, delle acque potabili, dei mezzi di comunicazione,delle condizioni dell’agricoltura, dei prodotti locali, dello stato finanziariodelle amministrazioni comunali, e a ciascuno chiese quali fossero le necessitàcui era più urgente provvedere.Tutti esposero i propri bisogni e partironogradevolmente meravigliati del grande interessamento dimostrato dalPresidente per queste popolazioni finora quasi considerate come non facentiparte del Regno d’Italia”. Tutti, per di più, ammirarono la sovrumana resi-stenza di quell’uomo ultrasettantenne, che sembrava appartenere ad altrarazza o ad altro mondo, o ad altra Italia. “Una vecchia, sotto il cui mentopendeva un voluminoso gozzo, credette di trovare spiegazione di quella resi-stenza e disse nel suo dialetto: «Dio lo assiste perché sa che viene a farci delbene!»”.

Da Corleto Perticara il Presidente partì due giorni dopo l’arrivo, cioè il21 settembre. La meta era Stigliano. Tra musiche e mortaretti, lungo il tra-gitto, si inaugurò un nuovo tratto di strada che da Aciniello incrociava, adun certo punto, la strada provinciale di Stigliano. Alla casa cantoniera

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“Scorciabuoi”, a metà tragitto, fu dato il nome di “casa Zanardelli”. Tuttoera in ordine, ancorché, prima della partenza, ci fosse stato un movimentodi contestazione da parte di cittadini corletani nei riguardi di Ernesto Serao,corrispondente del “Mattino”. Il suo scritto non era riuscito di loro perfettogradimento, perché a tinte troppo scure aveva parlato del paese e della con-dizione in cui versava. Sta di fatto che la carrozza del giornalista fu fatta par-tire prima.

Il viaggio per Stigliano sembrò, in tutta apparenza, essere un’altra succes-sione di trionfali attestazioni di gioia da parte delle popolazioni locali. Ma,come a Corleto, quella gioia -commenta sottilmente il cronista della“Tribuna”- era fors’anche lo scoppio di una speranza e di una fede dopo igrandi sconforti, lo scoramento per tante delusioni subite. Scoramento chetutto si rivelò nella risposta -triste, amara risposta- che all’on. Zanardelli fudata a Gorgoglione da un vecchio cui il Presidente chiese quali fossero ibisogni di quelle popolazioni”. «Eccellenza -rispose quel vecchio- sono tanti.Ma ciò che importa è che anche voi preghiate Iddio per noi!”.

Il Presidente fu ospitato nel ricco palazzo del barone Formica, in PiazzaCastello. Colà ricevette, come in tutte le altre soste, i rappresentanti deiComuni vicini, cioè Accettura e San Mauro Forte. Tra un brindisi e l’al-tro, il Sindaco, cav. De Chiara, sottolineò soprattutto i pericoli di dissestoidrogeologico, che mettevano a repentaglio la sopravvivenza del paese; machiese anche un collegamento con la stazione ferroviaria di Grassano. Poi,non contento, durante il pranzo che si tenne nella sala municipale, inpiena festa ebbe a dire, più a sé stesso che agli altri: “Voi [Presidente] nondimenticherete certamente le nostre miserie, i nostri sentieri alpestri, lenostre campagne brulle e deserte, le nostre montagne che franano, i nostrifiumi che straripano e ingoiano vittime e saprete provvedere come sapran-no ispirarvi il vostro senno di statista, il vostro cuore di italiano e dipatriota”. Incalzò, su questo piano, il cav. Nicola Salomone, che si è dettoanche lui di Stigliano, consigliere provinciale nonché attivo promotore diordini del giorno nella citata seduta del 23 aprile. Ma tanta insistenzadette fastidio all’on. Pietro Lacava, vero dio del luogo, che si sentì comescavalcato da tanti interventi di uomini a lui subalterni. Volle infatti tron-care con siffatte lamentationes, sicché, rivolgendosi al Presidente,dichiarò, con una secchezza che non ammetteva repliche: “Dissi nella mianativa Corleto che non si deve affaticarti con discorsi. Tu nel tuo viaggiohai promesso di vedere, e dove le cose parlano ogni voce dev’esser muta.

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Un’altra cosa qui non è muta: l’affetto spontaneo”. Continuò allora lafesta, anche fuori, fin sotto il palazzo del barone Formica, dove ilPresidente ritornò a piedi, a passarvi la notte.

L’indomani mattina, il 22 settembre, verso le ore 10, il Presidenteprendeva la via per Montalbano Ionico. Bisognava passare per Craco. Lamiseria, il degrado e la malattia ormai erano impastati con l’aria e salivanodalla terra. A Craco il corteo fece sosta, proprio come avevano auspicato evoluto il Consiglio comunale e il Sindaco. Guida e mèntore fu, questavolta, l’on. Materi, che aveva preso il posto dell’on. Lacava. Durante lasosta il Presidente ricevette sindaci e delegazioni di Montalbano Ionico,Ferrandina, Pisticci, Grottole, Bernalda e Salandra. Ogni delegazione gliconsegnò, al solito, un memorandum di bisogni e cose urgenti da fare. Aparte la solita ferrovia Grumo-Matera-Ferrandina-Padula, si chiesero prov-vedimenti per le frane. Dal palazzo, ove ebbe luogo il pranzo (costato,come si è detto, mille lire), il Presidente si affacciò, constatando i danniche l’ultima frana aveva provocato al paese. “Ne rimase vivamente impres-sionato”. Non poteva immaginare che, un secolo e mezzo dopo, quelpaese, proprio a causa di una frana, non sarebbe più esistito. Promise. Almomento della partenza, quindi, come gli altri del corteo, ricevette, a mo’di viatico, una buona razione di chinino. Cominciava la pericolosa traver-sata per il vasto regno della malaria.

“La strada -si legge nella “Tribuna”- si svolge fra nude ambe e terreniacquitrinosi assolutamente deserti; ma lo spettacolo desolante presenta allegislatore coscienzioso un largo campo di osservazioni assai penose che deb-bono ispirargli il sentimento doverosamente civile e umanitario di cercare ilpossibile rimedio a tanto male. Da ogni parte promontori di terreni alluvio-nali, con traccie (sic) evidenti di recentissime frane […]. La pianura è poianche più triste. Il terreno argilloso, appena superficialmente smosso, è ina-datto a qualunque vegetazione; così che estensioni immense […] rimangonocompletamente inoperose, senza che le rallegri una pianta, un sol filo d’erba[…]. Tutti i componenti la carovana, che non conoscevano questa specie dideserto, ne rimasero dolorosamente impressionati. Il Presidente volle essereminutamente informato delle cause di siffatta tristissima condizione di cosee prese molti appunti”, pur non nascondendo a sé stesso e agli altri “le diffi-coltà enormi che ostacolavano la soluzione di così doloroso problema”.Quasi emblema di tanta desolazione, ma anche di speranza per il futuro, adun certo punto del viaggio “una vecchia contadina, pallida, estenuata dalle

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febbri malariche, offrì all’on. Zanardelli un canestro di bellissima uva […]che fu divisa fra tutti i componenti la carovana” (pag. 13). Poi ci si avviòverso la salita che portava a Montalbano Ionico, lungo la quale, dopo tantosquallore e tanta tristezza, ricominciò lo spettacolo di gente esultante, ban-diere sventolanti, fuochi pirotecnici, donne ben addobbate, portanti, questavolta, “ampie tovaglie bianche che dal capo scendevano graziosamente super le spalle fino ai fianchi” (pag. 13). Ma esso dovette apparire falso e spro-porzionato dopo quanto si era visto.

Ancora una volta fu un palazzo nobile ad accogliere il Presidente. Era ilpalazzo del barone Giuseppe Federici, che, a dimostrazione di certi legamitra politica ed economia, altri non era se non il cognato dell’on.Donnaperna. Era -riferisce il corrispondente del “Don Marzio”- “un ampio,vasto ed antico palazzo, posto a cavaliere della valle”. Esso “offrì un confor-to, un sollievo immenso ed il riposo dopo le sofferenze patite”. Lì, alle 8 disera, ebbe luogo il ricevimento ufficiale.

Vi fece ingresso solenne, allora, l’on. Michele Torraca, che, da uomo dicultura e da informato giornalista, aperto alle più vaste problematiche deltempo, fece, forse, il discorso più impegnativo, più intelligente e più origi-nale che il Presidente avesse ascoltato in tutti quei giorni. Si premurò,infatti, di rilevare, prima ancora che la sensibilità soggettiva dell’ospite, “ilsentimento unitario” che l’aveva ispirato e spinto a quel faticoso pellegri-naggio, nel senso che era stata la Patria di tutti, prima ancora che ilPresidente come individuo, a sentire il dovere di occuparsi dei fratelli piùpoveri e più sfortunati del Regno. Il viaggio, prima ancora che del buoncuore del Presidente, era, perciò, un viaggio politico, nel senso più nobiledel termine, in quanto frutto e risultato di quella Italia unita e solidale,che era stata tra i sogni e le generose intuizioni del montalbaneseFrancesco Lomonaco, eroe del 1799, che -come si è accennato in prece-denza- era stato grande amico del Foscolo e del Manzoni e, quindi, amicodei fratelli lombardi, confratelli del Presidente. Il viaggio di Zanardelli, inaltre parole, era una mano stesa agli Italiani più deboli e sfortunati, perunirli e innalzarli al livello delle popolazioni italiche più ricche, anche per-ché -aggiunse con grande finezza- solo nell’unità civile ed economica sipoteva costruire e realizzare la perfetta unità politica, essendo l’unità eco-nomica e civile “cemento” di quella politica. Il viaggio del Presidente, indefinitiva, poteva ben dirsi “opera patriottica di statista”, tanto più degnadi nota, in quanto, segno di frazionismo antimeridionalismo voluto da

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taluni, proprio in quei mesi l’anima di Zanardelli si era “contristata di[…] accenni a dissensi che da parte a parte d’Italia si erano venuti manife-stando”.

Il Presidente era troppo stanco per indugiare più di tanto sulle miseriedella Lucania-Basilicata e sull’urgenza di radicali interventi. Non poté, però,non cogliere al volo quanto aveva detto l’on. Michele Torraca. E parlò anchelui, oltre che della già ricordata dignità delle popolazioni lucane, anche dellasua intenzione di rendere un effettivo servizio alla Lucania-Basilicata, e aMontalbano in particolare. E parlò di Lomonaco, ma anche di FeliceMastrangelo, che, nel 1799, tanto si distinse, per valore, nella difesa diAltamura contro le orde del cardinale Ruffo. Quindi concluse: “Se altro nonpotrò ottenere [con questo mio viaggio], sarà certo conseguito il risultato diaver richiamato grandemente l’attenzione di tutte le parti d’Italia sullavostra regione. E voi dall’essere conosciuti non avete che da guadagnareimmensamente sotto qualsiasi aspetto”. Poi -dicono le cronache- dopo unagiornata tanto faticosa, volle ritirarsi nelle stanze assegnategli, lasciando che“il banchetto continuasse fra la massima cordialità”. Intanto il corrispon-dente de “Il corriere di Napoli, con amaro realismo, annotava e spediva:”L’Italia, quella di cui intende parlare l’on. Zanardelli, cioè il nord, avrà poicommiserazione della Basilicata?

Il giorno dopo, 23 settembre, verso le 10, dopo aver ricevuto nel palazzoFederici alcune delegazioni, il Presidente si avviò verso Policoro, dondeintendeva prendere il treno per Taranto. Bisognava attraversare l’Agri. Lofece, montando su un carro trainato da neri bufali, passando, quindi, perstrade indicibilmente polverose, nonostante si fosse alla fine di settembre.Lo colpì, a Policoro, la presenza di “alcune curiose casette, tutte messe infila, tutte eguali, ciascuna delle quali aveva all’esterno una porta, una fine-stra e un camino”. Erano le squallide casette dei foresi del feudo del baroneBerlingieri, affittato al cavalier Padula. E fu proprio questi ad offrire il pran-zo in un palazzo, anch’esso baronale. Il Torraca, in quella circostanza, ebbeun’altra felice battuta, quando, salutando Zanardelli, lo definì “il settentrio-nale più meridionale di tutta l’Italia”. Fu il motivo per cui un giornalista,Vassallo, del “Secolo XIX”, riprendesse il tema del frazionismo politico, cuiTorraca aveva fatto cenno il giorno precedente, e parlasse e giustamentecondannasse, con rabbia patriottica, le “irragionevolezze dei sentimentiregionalisti”. Quindi incitò tutti “alla concordia ed alla fede nell’avvenire ditutte le provincie d’Italia”).

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Nello stesso giorno del 23 settembre, alle ore 15,30, ricevute le delega-zioni di Sant’Arcangelo, Colobraro, Rotondella, Nova Siri, Tursi, Noepoli eSan Giorgio Lucano, il corteo del Presidente, ripreso il treno, partì alla voltadi Taranto, dove giunse in serata, dopo una breve sosta alla stazione ferrovia-ria di San Basilio e di Metaponto. Da quel momento, entrando in unaregione certamente più vivace, meglio organizzata socialmente ed economi-camente, e con i primi consistenti segni di presenza socialista, il Presidentesi ebbe anche qualche chiassosa e spiacevole contestazione di carattere speci-ficamente politico. Successe già all’arrivo in Taranto, quando un giovaneufficiale, studente universitario, fattosi largo tra la folla, lanciò nella sua car-rozza bigliettini rossi con su scritti slogans del tipo: ‘Vogliamo pane e lavo-ro!’; ‘I banchetti li paga il popolo!’. A quale ideologia politica quei volantinisi ispirassero, lo diceva anche il loro colore.

A sera, alle ore 20, ci fu, presso la sede municipale della città, un nuovolungo banchetto, cui seguì un nuovo ricevimento, con visita all’ammiraglia-to. Alla magnifica festa -racconta ancora “La tribuna”- “intervennero anchequasi tutte le signore dell’aristocrazia e numerose dame dell’ufficialità insuperbe toilettes”. Ci furono danze, che durarono fino alle cinque del matti-no del 24 settembre. E sebbene la Puglia non fosse oggetto diretto del viag-gio, e la stanchezza fosse tanta, tuttavia il Presidente ebbe il tempo e lapazienza di ricevere delegazioni provenienti, oltre che da Taranto, anche daLecce. In particolare, ricevette la Lega dei proprietari leccesi e sette sindacidel circondario. Non si ebbero, invece, incontri con delegazioni operaie, peresempio dell’arsenale. Taranto, insomma, fu solo una tappa di circostanza,imposta dalla necessità di proseguire, per ferrovia, verso Altamura, a ridossodi Matera.

Il giorno dopo, per l’appunto, 24 settembre, intorno alle ore 11, ilPresidente prendeva un treno per Altamura, attraversando la striscia di con-fine tra la Puglia e la Lucania-Basilicata. Lungo le diverse stazioni nonmancò la solita folla osannante. A Gioia del Colle ci fu una sosta con ricevi-mento di oltre 50 sindaci della zona. Ma si ebbe anche un’altra forma dicontestazione, o, forse, di semplice, casuale incidente. Tutto ebbe origine dalfatto che la polizia caricò la folla che si accalcava, fatta soprattutto da ragaz-zi. Ciò comportò urla e proteste, fra le quali, comunque, mezz’ora dopo,alle ore 12,10, il treno ripartiva per Santeramo in Colle. Qui si fecero trova-re molti operai organizzati in leghe, la cui voce, di chiara impronta sociali-sta, fu netta, grazie ad un cartello che recitava: “Viva Zanardelli!” e aggiun-

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geva: “Vogliamo giustizia, pane, lavoro e libertà”. I carabinieri, al solito,troppo precipitosamente, pensarono ad una offesa e violenza nei confrontidel Presidente. Caricarono perciò i dimostranti, tra scambi reciproci dipugni, schiaffi e calci. Pur respinti, fuori della stazione, gli operai continua-rono a gridare: “Evviva! Vogliamo lavoro!”.

L’ingresso nella stazione di Altamura avveniva alle ore 13. Un lungo cor-teo, in tutta tranquillità, accompagnò il Presidente prima nella sede munici-pale, poi nel palazzo del barone e senatore Melodia, ove lo attendevano “piùche cinquanta signore elegantissime”. Seguì una visita alla cattedrale, bellis-sima, e, quindi, una colazione nel teatro Mercadante, “illuminato a luceelettrica e adorno di striscie a varii colori e da festoni di fiori”. Belle dameerano nei palchi; i “popolani”, invece, erano nel loggione. Gli invitati apranzo furono centocinquantacinque. Fu d’obbligo, in quella circostanza,parlare della civilissima comunità altamurana, della rivoluzione del 1799 edella eroica resistenza che quella cittadina oppose alle milizie del cardinalRuffo, sotto molti aspetti anticipando le mitiche dieci giornate di Brescia.Altamura, per l’appunto, fu detta “leonessa di Puglia”, così come Bresciasarebbe stata definita “leonessa d’Italia”.

La brevità della sosta e la minuta organizzazione della festa non produs-sero forme di contestazione alcuna, anche perché, se Altamura ebbe buonatradizione liberale, opera soprattutto della classe dei dottori, non ebbe unvivace movimento sociale o socialista, non essendoci classe operaia, ma, perlo più, foresi, pastori e gualani, dispersi per le masserie. Non per nulla unodegli slogans più ricorrenti, rivolti al Presidente, fu, durante le ore altamura-ne, “Viva Zanardelli! Viva il governo liberale!”.

5. La difficile tappa di Matera e il viaggio lungo l’area murgianaMa una particolare e diversa situazione Zanardelli avrebbe trovato a

Matera, dove forte era la presenza del movimento cattolico, promosso eorganizzato dal dinamico arcivescovo Gioacchino Rossi, uomo aperto alleistanze sociali presenti nella Rerum novarum di Leone XIII. Si trattava diforze avverse ai liberali laici, cioè a Zanardelli, e avverse, ancor di più, aisocialisti. Avevano anche un organo di stampa, che usciva ogni domenica. Sitrattava de “La scintilla”, che, pubblicata la prima volta nel 1900, nel com-mentare il viaggio di Zanardelli, era stata molto critica. In data 28 settem-bre, infatti, a visita di Zanardelli avvenuta, usciva un editoriale, persino

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malevolo, che portava il titolo assai significativo di Viaggi, feste e banchetti.Il senso e il tono dell’articolo apparivano netti già dai primi due periodi. “InItalia -si leggeva- è invalso l’uso di corbellare il prossimo cristiano, che recla-ma in forma legale i suoi sacrosanti diritti, promettendo viaggi, aiuti e studiidei bisogni più imperiosi e urgenti. Il governo italiano a furia di questi espe-dienti è riuscito a mantenere l’equilibrio sociale, ma oggi, dopo molti annidi simili giochetti, non v’è più chi crede a queste promesse”.

Seguivano attacchi alla retorica, che accompagnava da sempre le celebra-zioni dell’unità nazionale. E invece tutto era un fallimento, i cui segni eranonel fatto che la questione meridionale si era aggravata, anziché essere risolta.A questo punto, pur di render forti le proprie posizioni, “La scintilla” nonmancava di tessere gli elogi del laico prof. Francesco Saverio Nitti, che, cer-tamente lontano dal mondo cattolico, con “studio coscienzioso, preciso,matematico” aveva dimostrato, dati statistici alla mano, che “l’assoluta supe-riorità dei fratelli del Nord su noi del Sud” si era ingigantita. Altro attaccoera rivolto al giornale massonico “La patria”, che tanti elogi andava distri-buendo al “quasi ottuagenario Zanardelli”. Si ricordava come la Lucania-Basilicata non fosse l’eccezione, ma la regola del Sud. “È tutta l’Italia meri-dionale che insorge” si conclamava. Anzi era proprio il caso di dire che,prima dell’unità d’Italia, si stava anche meglio che al presente, ovvero -si leg-geva- le province meridionali “stavano meglio quando stavano peggio”. Tuttii vantaggi, infatti, erano andati al Nord. Poveri, insomma, coloro che arriva-vano tardi, perché ad essi toccavano solo gli ossi (“sero venientibus, ossa”).“L’on. Zanardelli -si aggiungeva- con la sua retorica vecchia e roboante,ripiena di ricordi patriottici e di memorie nostre, non era venuto a far altroche a rinnovare la nostra fede all’Italia una, che da parecchio ha esulato da lepopolazioni”. Era tutta polvere negli occhi, la sua. Con una situazionefinanziaria dissestata, come potevano mai i governi liberali dare fiducia eforza ai Comuni meridionali? “Noi -concludeva l’articolo- non abbiamonessuna speranza nel viaggio del Presidente del consiglio; le soste fatte nelnostro classico suolo sono state alternate da promesse, banchetti e brindisi eDio non voglia che essi siano una dolorosa memoria per i nostri immiseritiComuni!…”. In definitiva -si leggeva in un altro trafiletto del giornale-,tutto il viaggio di Zanardelli era stato un solo “mangiare e ciarlare”.

Ma c’era un altro dato che urgeva nella vita politica, sociale ed economi-ca della Matera di quei mesi, legata ad una particolare contingenza, in granparte occasionale e fortuita. Si trattava della presenza di uno strano perso-

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naggio, cui si è già fatto piccolo cenno in precedenza. Si vuol dire di LuigiLoperfido, che sarebbe passato nella storia locale, ma anche nella mitologiacontadina, come il «Monaco bianco». Come altri agitatori sociali dei decen-ni successivi, egli non era materano, ma forestiero, nativo, per la precisione,di Montescaglioso. Ciò lo teneva lontano da quei facili e sottili condiziona-menti sociali e familiari, che, nella piccola città, tutta controllata dai pochiagrari e dalla Chiesa, bloccava qualunque tentativo di rinnovamento

Luigi Lo perfido era nato nel 1878 e, da ragazzo, emigrato negli StatiUniti, insieme col padre. Non aveva fatto studi. Seguiva tuttavia la sua pas-sione di scultore, per cui frequentò alcune scuole d’arte americane.Ritornato in Italia, si trasferì a Matera, ove trovò una condizione di partico-lare miseria e disagio, fattasi eccezionalmente drammatica a causa di unaserie di scarse annate agrarie, di cui è notizia nelle cronache del tempo.Comparve per le strade, avvolto in un largo saio bianco. Di qui l’appellativodi “Monaco bianco»”. E cominciò la sua predicazione. In principio ebbe ilculto dell’arte, e anzi la venerazione della stessa. Si trattava di un vero e pro-prio misticismo. All’arte, difatti, egli affidava un messaggio di amore e fra-tellanza, che avrebbe dovuto tradursi in una palingenesi del mondo. Eravera e propria teosofia. Sul principio non fu preso in grande considerazione,ché, anzi, il suo messaggio fu piuttosto oggetto di irrisione; ma, via via, riu-scì ad aprirsi un varco nel ceto dei galantuomini, anche perché, in una citta-dina di provincia grigia e chiusa, qual era Matera, egli sembrò portare unsoffio di aria nuova. Una sua mostra, dedicata all’arte e collocata nella sededella Società Operaia (odierno Cinema comunale), ebbe, infatti, notevolesuccesso e partecipazione. Si accorse, però, che la classe borghese e nobilepoteva e intendeva utilizzarlo a propri fini, quando, invece, il suo obiettivoera quello di un appianamento se non capovolgimento delle stratificazioni edei divari sociali.

Aderì allora al socialismo, facendo una scelta che si direbbe di classe.Avendo preso contatto con i socialisti potentini, che avevano ormai consoli-date posizioni, si fece amico dell’avvocato Raffaello Pignatari e dell’on.Ciccotti; nel 1900, quindi, creò la Lega dei contadini, che presto ebbe ungran numero di aderenti (tremila secondo alcuni) e una sua sede.Cominciava una vera e propria battaglia sociale contro il ceto dei possidenti,e “galantuomini” in genere, che, a dirla col “Monaco bianco”, mantenevanocondizioni “feudalistiche”. Nel giugno del 1902, in occasione dei lavoridella mietitura il “Monaco bianco” e la Lega rivendicarono l’assunzione di

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manodopera locale, contro la tendenza dei proprietari cittadini, che preferi-vano arruolare manodopera forestiera, certamente meglio manovrabile epagata a basso costo. Un accordo intercorso tra Lega e proprietari nonapprodò a nulla di concreto, perché i proprietari vennero meno ad ognipatto. I contadini erano ormai disperati e stretti dalla fame. Il “Monacobianco”, con la sua Lega, rivendicò il diritto a spigolare nelle terre dei priva-ti. E poiché ci fu resistenza da parte dei proprietari, il 27 giugno qualchecentinaio di contadini invase le terre di alcuni possidenti.

Il giorno dopo, sul posto, i manifestanti trovarono i carabinieri. Ci furo-no perciò arresti e tafferugli, che portarono alla morte di un contadino, talGiuseppe Rondinone. Seguirono ventiquattro arresti, cui si aggiunse quellodel “Monaco bianco”. Tutti furono tradotti in carcere, a Potenza. A prende-re difese degli arrestati intervennero gli avvocati socialisti Ciccotti ePignatari. Il processo si svolse tra il 23 e il 25 ottobre, portando alla assolu-zione del “Monaco bianco” e di sei contadini; gli altri furono condannati adalcuni mesi di prigione.

Il successo, tuttavia, non galvanizzò più di tanto il “Monaco bianco” che,forse per stanchezza, forse per debolezza, nel 1903 abbandonò la lotta aper-ta e costituì una cooperativa di lavoro, prendendo in fitto, dal nobileVincenzo Caropreso, la masseria “La selva”. Si trattava di un utile e interes-sante esperimento, ma non più di lotta, che, non ebbe, peraltro, grande svi-luppo, essendosi esaurito nel 1911. Contemporaneamente, Luigi Loperfidoaderiva al protestantesimo battista. Lentamente il suo interesse si facevatutto religioso, anche se la sua persona e i suoi movimenti furono sempreseguiti con sospetto dal potere politico, e in particolare dal fascismo, che,nel 1940, pensò bene di mandarlo al confino. Sarebbe morto nel 1960,lasciando nella comunità un segno e un monito, oltre che sogno, raccoltodal partito socialista e dalla Camera del lavoro, prima e dopo il fascismo.

Proprio in questo contesto cadeva la visita di Zanardelli. Le autoritàcostituite del tempo, soprattutto quelle amiche del Presidente, si preoccupa-rono, naturalmente, di prendere tutte le misure necessarie perché l’evento sisvolgesse in tutta tranquillità e in clima di festa. Alcuni giorni prima, perciò,e precisamente il 21 settembre, era stata inaugurata l’illuminazione pubbli-ca. C’era stata, allora, una orazione del dotto prof. Enrico Mele, che avevaparlato delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità; subito dopo, certa-mente per tenere buoni gli animi dei più scontenti, nella sede municipaleerano stati offerti 100 pasti ai poveri della città. Le stesse autorità comunali,

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il giorno 24 settembre successivo, andarono incontro al Presidente, cheavanzava per la strada che veniva da Altamura. Il 16 settembre, intanto, erastato preparato un retorico memorandum per la città di Matera, a firma delSindaco, del cav. dott. Francesco Manfredi, del comm. dott. DomenicoRidola, del duca Marco Malvezzi, del comm. Michele Gattini, del dott.Raffaele Sarra, dell’avv. Nicola De Ruggirei, di Vittorio Giudicepietro, diAndrea Suglia, presidente della Società Operaia, e dell’avv. FrancescoSinisgalli.

Tra gli avversari del Presidente Zanardelli, oltre che i cattolici, erano daannoverare anche i socialisti materani. Ma, messi in carcere il “Monacobianco” e suoi seguaci, di essi, ormai, non c’era più alcuna traccia. Potevanovenire solo di fuori. E così fu. Lo attesta una nota del giornale “La scintilla”,che riferisce delle Autorità comunali, che avevano invogliato e preparato icontadini a fare gran festa al Presidente. Alcuni contadini, ubbidienti, ave-vano a tal fine staccato i loro cavalli, per trainarne la carrozza. Ma il proget-to fallì, perché -racconta sempre “La scintilla”- “alcuni socialisti, piovutici daogni parte in questi giorni”, li convinsero a non farne nulla. La conseguenzafu che, il giorno dell’arrivo di Zanardelli, cioè la mattina del 24 settembre,molti “zappatori” se ne andarono regolarmente in campagna, proprio men-tre uscivano di città anche il Sindaco, il dott. Manfredi, il comm. Ridola,l’assessore cav. Tortorelli, il dott. Sarra e l’avv. De Ruggieri, tutti diretti versoAltamura, ad accogliere trionfalmente il Presidente in arrivo. Intanto, masolo nella tarda mattinata, la città cominciava ad esporre bandiere e cartelli.Poi arrivarono delegazioni dai paesi e la banda di Miglionico cominciò afare il giro di piazza Plebiscito, oggi piazza Vittorio Veneto. Quindi, e solonel pomeriggio, verso le ore 19,30, il corteo del Presidente, formato da ben20 carrozze, dopo aver imboccato via XX Settembre, attraversò largoPlebiscito, passò per via San Francesco e piazza Vittorio Emanuele III (oggidel Sedile), e si avviò per via Duomo.

Zanardelli fu ospitato nel palazzo del conte e senatore Giuseppe Gattini;molti del suo seguito, invece, furono accolti nel palazzo del duca MalvinniMalvezzi. Ben presto, sotto i balconi di palazzo Gattini, così come era suc-cesso altrove, si radunò una gran folla plaudente. Ma anche qui successel’imprevisto. Ad un certo momento, infatti, mentre si svolgeva la cena, ”unurlo indefinibile -racconta “La scintilla”- si levò da tutti i lati della piazza. Ilpopolo domandava la propria redenzione. “Si voleva il lavoro per guadagna-re di che sfamare le famiglie languenti nei tuguri dei due Sassi, donde da

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lunghi anni si levavano tanti gemiti, dove senza speranza si moriva”. E sireclamava la ferrovia. I convitati si misero in agitazione. E poiché -sempresecondo il racconto della cattolica “Scintilla”- l’urlo non cessava, fu necessa-rio l’intervento, dell’on. Michele Torraca, che, mediatore e pacificatore, sifece garante che di tutte le richieste e proteste il Presidente avrebbe tenutogran conto. La folla si calmò.

Il giorno dopo, 25 settembre, fu per Zanardelli giorno assai faticoso,impegnato come fu in una lunga serie di incontri ufficiali e giri per lacittà. Visitò la cattedrale, poi si fermò in Municipio e, attraverso piazzaSan Francesco e l’odierna via Ridola, raggiunse il Liceo-Ginnasio “Duni”.Quindi, attraverso via Umberto e via Margherita, tornò verso il palazzoGattini, dove ricevette le delegazioni dei Comuni di Matera,Montescaglioso, Irsina, Pomarico e Pisticci, oltre che una delegazionedella Società operaia, delle scuole elementari, dei carabinieri, degli avvoca-ti e altri. Alle ore 12, in piazza della Fontana, scoprì, sulla parete delmonastero di Santa Lucia, ancor oggi visibile, una lapide in onore del reUmberto I, assassinato due anni prima, con epigrafe dettata dal materanoNicola Festa, docente di letteratura greca e bizantina presso l’Università“La Sapienza” di Roma. Ci fu allora un episodio che spiacque particolar-mente ai cattolici della “Scintilla”, che lo denunziarono con rammarico erancore. Successe che alcuni cartelli, posti proprio di fronte alla lapide, sullato opposto della piazza, furono levati per inneggiare al divorzio, a evi-dente sfregio -scrisse “La scintilla”- di “un paese eminentemente cattolicocome Matera”.

Finalmente, fattosi tardi, dopo una visita al Palazzo di Giustizia, il lungocorteo del Presidente si diresse verso l’odierno palazzo della Prefettura (allo-ra sotto-Prefettura), per il pranzo. Nel frattempo al Presidente erano staticonsegnati i quattro memorandum che la città -secondo quanto si leggenella “Scintilla”- aveva preparato. Erano stati preparati dal Comitato muni-cipale, dalla Società operaia, dall’Ordine degli avvocati e, infine, da unComitato popolare, appositamente costituito. Non c’è notizia, invece, delmemorandum che Zanardelli, a Potenza, disse essere stato preparato dalComizio agrario della città, in cui si affermava e denunciava che “cinquesesti della popolazione materana abitavano in tuguri scavati nella nuda roc-cia, addossati, sovrapposti gli uni agli altri, in cui i contadini non vivevanoma a mo’ di vermi brulicavano squallidi avvoltoi nella promiscuità innomi-nabile di uomini e bestie, respirando aure pestilenziali”.

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Il banchetto in Sottoprefettura fu, naturalmente, di omaggi e brindisi,come previsto. Ma fu contro ogni previsione un evento cui “La scintilla”,giornale cattolico, non fece alcun riferimento, forse perché non intendevaprendere posizione né contro né a favore del “Monaco bianco” e dei suoiseguaci. E preferì tacere. Ne riferì invece, e dettagliatamente, “La tribuna”. Siebbe che, dopo un intervento del Sindaco Manfredi, e dopo un discorso, alsolito molto sostenuto, dell’on. Torraca, e dopo la risposta, “tra fragoroseovazioni”, di Zanardelli, nella confusione del momento ebbe modo di pre-sentarsi una delegazione di cinque donne e un uomo “miseramente vestiti”,“parenti degli arrestati pei recenti disordini che qui ebbero a deplorarsi”.Erano i parenti dei 24 contadini incarcerati a Potenza, a seguito dei disordinidel giugno precedente. Essi -secondo il racconto fatto dalla “Tribuna”- “piùche entrare, si precipitarono nell’elegante salotto, nel quale li attendeva l’on.Zanardelli. Una delle donne, appena scortolo, gli si gettò ai piedi. Zanardellicommosso la rialzò esortandola a non lamentarsi ma ad esporre i fatti. Allorale cinque donne cominciarono a parlare tutte insieme, facendo un confusocicalìo nel loro dialetto del quale è impossibile comprendere una sola parola.«Ma se parlate tutte in una volta, come farò a capire?» esclamò l’on.Zanardelli. Quattro di quelle sventurate si tacquero, e la quinta, con vocerotta dai singulti, narrò i suoi dolorosi casi. Per tutte l’on. Zanardelli ebbeparole di conforto. «Facitemi grazia» gridavano le donne. E il Presidente conmolta dolcezza, pazientemente, a cercare di far loro intendere che non luipoteva far grazia. Ad ogni modo promise di pregare il Presidente delTribunale di Potenza perché affrettasse il processo. Malgrado queste assicura-zioni, le donne continuarono a lamentarsi e ad implorare, formando un sin-golarissimo gruppo nei loro cenci e delle loro lacrime, tra il mobilio sontuo-so della stanza, circondate da uomini in redingote e cilindro. È stata la primavolta, forse, che quel salotto -continua il corrispondente della «Tribuna»- haaccolto sei popolane in quell’arnese. Il comm. Ciuffelli ebbe incarico diprendere nota dei loro nomi e dei loro desideri. Profondendosi in ringrazia-menti e in genuflessioni, le donne uscirono e riferirono l’esito della lorointervista ad altre che stavano di fuori. Così un benefico raggio di speranzaha illuminato la tristezza di molti infelici”. Poi, a rasserenare la festa, in sera-ta, ci furono, ancora sotto il balcone di palazzo Gattini, nuove manifestazio-ni di plauso all’indirizzo del Presidente, che, la mattina successiva, il 26 set-tembre, alle ore 7, riprendeva il suo viaggio, dirigendosi verso Altamura, ovel’attendeva il treno speciale per Venosa. Pioveva a dirotto.

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La prima sosta fu a Spinazzola, ove ci furono reiterate manifestazioni digioia e di festa. Qualcosa di inaspettato, però, ci fu subito dopo, quando sigiunse a Palazzo San Gervasio, ove, ad attendere il treno, c’erano circa due-cento persone, comprese le autorità. Si trattava di gente pacifica; ma, all’im-provviso, circa ottanta, tra i presenti, furono visti, all’improvviso, issare unabandiera rossa e numerosi cartelli, su cui si elencavano i mali storici del Sude anche qualche rimedio. Fu una manifestazione clamorosa, di cui si eraavuto presentimento nei giorni precedenti, tanto che si era sparsa la voceche il treno non avrebbe fatto sosta in quella stazione. Si leggeva, su queicartelli: “Malaria - Ignoranza - Abbandono - Corruzione - Camorra -Denutrizione - Spese improduttive - Riduzione dell’esercito - Abolizionedelle spese religiose - Diminuzione della lista civile - Libertà di stampa -Riposo domenicale - La libertà a Calcagno”. Tutto avveniva in silenzio e inmodo composto, finché, ad un certo momento, si udì il grido di un giova-ne. “Viva il socialismo”. Gli risposero, in coro, i compagni. I carabinieriallora si misero in stato di allarme. Per fortuna il treno ripartì quasi imme-diatamente, raggiungendo la stazione di Venosa alle ore 11,40.

Dalla stazione di Venosa, accompagnati da una folla sempre plaudente, ilcorteo del Presidente salì al paese. Nella prima carrozza, a fianco aZanardelli, sedevano Giustino Fortunato, il Sindaco e il cav. Ninni. Arrivatiin paese e ricevute le solite delegazioni nel palazzo municipale, il Presidentefece un giro a piedi per le strade, nonostante la pioggia. Non si fermò alungo a Venosa, perché, ritornato nella sede del Municipio, partì subitodopo per Melfi, dove arrivò alle ore 18 circa, fatta una breve sosta aRocchetta Sant’Antonio.

Raggiunta la sede municipale, dopo un piccolo incidente di protesta allastazione, il Presidente ricevette varie delegazioni; poi si avviò ad un banchet-to a bella posta imbandito per lui. Il clima, ora, sembrava più familiare, perla presenza di Giustino Fortunato, che parlò subito dopo il Sindaco.Ricordato come la questione meridionale fosse e sarebbe stata “per lungaora, il problema capitale, il problema fondamentale di tutta quanta la nuovapolitica dello Stato italiano”, don Giustino brindò all’indirizzo delPresidente, definendolo “intemerato e puro... autorità grande… persona dialto valore”. Nella risposta, il Presidente, a sua volta, definì GiustinoFortunato suo amico non solo, ma anche e soprattutto “ornamento dellarappresentanza nazionale per ingegno, cuore, carattere, eloquenza, fedeltà aiprincipi […]. Sembra -aggiunse, riferendosi ad Orazio- che il poeta della

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sua terra abbia proprio scritto per lui scultoriamente il verso “Est animustibi, sunt mores, est lingua fidesque” (“A te sono coraggio, buoni costumi divita, lingua e salda fede”). Ci si avviò quindi verso la stazione, donde siripartì, alle ore 22, alla volta di Rionero in Vulture. Qui giunto, ilPresidente prese alloggio nello “splendido palazzo” dei Fortunato, dove sisarebbe fermato per due giorni, anche per rendere onore ad un amico tantorispettato. Il tempo, intanto, anch’esso si era messo al bello.

Il giorno successivo, 27 settembre, cominciò una lunga giornata di ricevi-menti. Ma prima ci fu una passeggiata per il paese, cui seguì, sotto il palazzodei Fortunato, la manifestazione di un centinaio di contadini e piccoli pro-prietari di Sant’Ilario, che chiedevano di conferire con il Presidente. Nefurono ammessi solo tre. Null’altro seppero fare se non dire “della fame[che] continuamente batteva alle loro case. Si parlò lungamente ed i tre rice-vuti finirono col proporre che per dar lavoro ai disoccupati si provvedessealla costruzione della strada da Atella a Sant’Ilario”.

Il 28 settembre era domenica e di quasi riposo, nel raccoglimento di unacasa tanto ospitale. Il Presidente ormai si preparava all’ultimo trasferimentoa Potenza, dove lo attendeva un discorso ufficiale, che doveva essere ilmomento culminante di una traumatica esperienza, ma anche, per un uomoleale come lui, e nient’affatto demagogico, una precisa messa a punto deiproblemi più urgenti e delle promesse e impegni che si potevano assumere.Molto tempo fu dedicato alla riflessione e alla stesura del discorso. La par-tenza per il capoluogo fu fissata per le ore 7,45 di lunedì 29 settembre.Dalla stazione, fino a Via Pretoria, il trasferimento, in carrozza, avvenne tramanifesti, bandiere e scritte di elogio; ma ce n’erano anche che dicevano:“Non più ferrovie! Non più spese inutili! Vogliamo la diminuzione delleimposte fondiarie! Abolizione della ricchezza mobile e sull’industria armen-tizia! Abolizione del casotto daziario! Vogliamo pane e lavoro!”.

In città, sfuggendo al rito e al protocollo delle cerimonie e degli incontriufficiali, intorno alle 15 il Presidente riuscì a ficcarsi in qualche “sottano”dei popolani potentini, con l’intento di chiedere e sapere direttamente.Difficile -ricorda il cronista- “comprendere ciò che [da quella gente] sirispondeva nel più incomprensibile gergo dialettale”. Era proprio il caso didire che c’era poco da ascoltare e molto da guardare. Le abitazioni eranotutte misere, anche se “non inferiori a quelle degli altri paesi di Basilicata,dove le culle dei bambini pendevano da quattro corde settanta centimetri aldi sopra del letto coniugale”. Era la stessa immagine che, trentatré anni

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dopo, avrebbe impressionato Carlo Levi. Alle ore 20, presso il teatro Stabile,opportunamente addobbato per ospitare 160 invitati, fra i quali tutti ideputati e senatori della Provincia, senza distinzione alcuna tra amici eavversari, fu fissato l’incontro conclusivo. Risultarono assenti il solo on.Lovito e il sen. Gattini, che tuttavia, per lettera, avevano fatto pervenire lapropria adesione morale.

6. Al Teatro Stabile, a Potenza, un discorso onesto e responsa-bile

Dopo l’intervento del Sindaco di Potenza, del senatore Carmine Senise,del cav. Lichinchi, dell’on. Branca e del Sindaco di Montemurro, che parlòa nome di tutti i piccoli Comuni della regione, l’on. Zanardelli si alzò e lesseil suo discorso. Parlò del suo viaggio come di una “peregrinazione”, per unaterra a lui sconosciuta. Era, per la verità, sconosciuta a tutti gli italiani. Anzi-aggiunse con efficace gradatio- “può dirsi […]sia sconosciuta in gran parteagli abitanti della provincia stessa: ché quasi nessuno qui io trovai che avessevisitato, avesse veduto i vari Comuni divisi fra loro da enormi distanze, noncongiunti da vie di comunicazione. Sicché nella impervia regione, quasistranieri gli uni agli altri e perciò non cospiranti ad unico fine, sembrano gliabitatori che pur dovrebbero comporre una grande unità sociale”. Mancava,in definitiva, una regione unita e ben definita nella sua identità.

Con grande acutezza, notò anche come, purtroppo, non ci fosse, “in sìampio territorio”, almeno una grande città, che potesse fare da luogo e cen-tro di vita amministrativa, sociale, culturale e politica. Tutto era frantumato,in una terra che, pure, aveva avuto i suoi fasti e i suoi uomini illustri, anchese, per lo più, affermatisi lontano dal proprio paese. Ora, purtroppo, c’era ildeserto. “Percorsi più giorni -disse- distese di monti, nudi, brulli, senzaqualsiasi produzione, senza quasi un filo d’erba e avvallamenti altrettantoimproduttivi: si correva per ore ed ore senza trovare una casa, ed al desolatosilenzio dei monti e delle valli succedeva il piano mortifero dove fiumi scon-finati scacciarono le colture e, straripando, impaludirono. E vidi ad esempioil letto dell’Agri identificarsi con la valle dell’Agri, e l’acqua vagante nonavere quasi corso in quelle sterminate arene”.

Dominava, in siffatto quadro sociale e geografico, la “malaria pestilenzia-le”. I paesi, appollaiati sulle montagne per sfuggire alla malaria, ogni giornoe ogni ora correvano il rischio di cadere a valle. La situazione igienico-sani-

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taria era semplicemente drammatica. In tutta la regione non c’erano “mani-comi, né brefotrofi, né ospizi pei cronici, né case d’industria”. C’era un soloospedale: quello di Potenza. Se in Lombardia, su 100.000 abitanti, negliospedali c’era posto per 2.257 malati, e se in Toscana i posti erano 2.548, inBasilicata ce n’erano solo 148! Quanto alla situazione alimentare, era sinto-matico il fatto che i giovani non crescevano in altezza come i loro coetanei.In occasione della leva del triennio 1898, 1899 e 1900, si era verificato che“le riforme per difetto di statura furono […] più numerose del doppio nelcomplesso del Regno”. Né si poteva sottacere la mancanza di strade, ferro-vie, scuole, di cui tanto si erano lamentate tutte le delegazioni comunali…L’analfabetismo, dopo l’ultimo censimento del 1901, era del 79%. Agliuomini, così stando le cose, non restava che fuggire. E l’emigrazione eramassiccia, tanto che la popolazione di Lucania-Basilicata diminuiva, mentreaumentava in tutto il resto del Regno. Emigravano da 8 a 9.000 lucaniall’anno. “Salì a quasi 11.000 -ammise Zanardelli- nel 1900, ad oltre 17.000nel 1901”. Insomma, in sintesi, “l’agricoltura periva, il suolo non avevaquasi alcun reddito, la proprietà immobiliare non aveva quasi valore, cosìcome l’industria era totalmente assente”. Che fare, dunque?

Il discorso, in tutta la sua pars negativa, fu accompagnato da lunghi ecalorosi applausi di approvazione. Lo stesso accadde quando il Presidenteparlò dei suoi impegni e dei suoi progetti. Parlò di strade e ferrovie, allegge-rimenti fiscali e rimboschimento, cioè di provvedimenti che, però, nonintaccavano la struttura economica e l’organizzazione sociale della comunitàlucana. Non si parlò, infatti, del latifondo e della persistenza del feudalesi-mo (come pure aveva fatto il Nitti), né dello stato di abbandono e incuria incui i grandi proprietari, baroni e cavalieri, duchi e conti, quasi sempre parla-mentari, lasciavano i loro immensi possedimenti. Non si parlò delle colpe eresponsabilità dei latifondisti e onorevoli Lacava e Gattini, Lovito e Federici,Fortunato e Materi, che erano lì presenti. Non si parlò nemmeno di fittistrozzini e di mancati patti agrari, di creazione di piccola proprietà contadi-na e recupero di beni demaniali usurpati. Non si parlò, insomma di “rifor-ma agraria” né della necessità della industrializzazione, ma solo di beneficida offrire all’agricoltura e a chi l’agricoltura, in forma quasi sempre estensi-va, esercitava. Si parlò anche di usura, di agevolazioni fiscali. Da uomo disottile intelligenza politica, l’uomo di Brescia sapeva, fin dove poteva impe-gnarsi, davanti a quegli uomini, tutti di alto ceto, e con quel Parlamento chel’attendeva a Roma e che era eletto a suffragio ristretto e su base censuaria.

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“Piuttosto che espormi a prometter e non eseguire, vorrei eseguire il nonpromesso” - disse. La conclusione fu un invito alla buona volontà, alla soli-darietà a ad uno sforzo comune, stante la grandezza dei problemi da affron-tare. Ma non di più. “Combattiamo insieme – disse – una grande battagliacontro le forze della natura e contro le ingiurie degli uomini. Non aspiro adalcun bene maggiore che a quello di uscire da questa battaglia, insieme avoi, vittorioso”.

7. Il ritorno a Roma e la legge speciale per la Lucania-BasilicataLa partenza da Potenza fu fissata per l’indomani mattina, martedì 30 set-

tembre. Uscito dal palazzo della Prefettura alle ore 9,45, il Presidente fuaccompagnato in carrozza alla stazione. Si formò un corteo di circa sessantacarrozze. Da Potenza il treno partì alle ore 10. Si fermò alle stazioni diPicerno, Baragiano e Bella-Muro. Qui, a salutare il Primo Ministro, al con-fine della regione di Lucania-Basilicata, intervenne il Sindaco. Parlò quindil’on. Grippo, che, discorrendo del Presidente e del suo viaggio, in tonosolenne, disse: “Egli [il Presidente] non sarà, come disse l’onorevole Brancail nostro ambasciatore, ma il nostro rappresentante, egli che torna a Romapiù meridionale di noi”. Dopo una ulteriore sosta a Nocera, il treno entravain Napoli alle ore 14,14. Di qui ripartiva alle ore 15,25, per concludere lasua corsa a Roma, alle ore 20,30.

Pochi giorni dopo, il 3 ottobre, il Consiglio provinciale di Lucania-Basilicata, riunendosi, approvava un ordine del giorno che, su propostadello stiglianese Nicola Salomone e del consigliere Severini rendevaomaggio, con telegramma, al Presidente, impegnandosi ad inviargli unatela del pittore venosino Andrea Petroni, “a manifestazione -si leggeva-della gratitudine della Provincia […] per l’opera che Egli era venuto acompiere […], con gravi sacrifici e con animo di alta solidarietà nazio-nale”. A stretto giro di posta, il giorno dopo, in data 4 ottobre, ilPresidente rispondeva con altro telegramma, così scrivendo al presidenteVincenzo Lichinchi: “La dimostrazione singolare di estrema benevolenzada parte della rappresentanza di codesta generosa Provincia, dimostra-zione annunciatami col Suo odierno telegramma, mi commuove profon-damente. Essa è troppo largo compenso al dovere da me adempiuto; ioterrò quel ricordo di Potenza, il quale mi viene con tanta concordia dalSuo consesso rappresentativo, fra le mie più preziose memorie.

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Ringrazio poi specialmente gli egregi consiglieri Severini e Salomonedell’affettuosa iniziativa, e Lei, chiarissimo signor Presidente, della gen-tile partecipazione”.

Nei mesi immediatamente successivi, coerente con gli impegni assunti,il Presidente chiamò presso di sé Ernesto Sanjust, un funzionario delGenio Civile proveniente dalla Sardegna, cui affidò l’incarico di raccoglie-re tutti i documenti accumulatisi durante il viaggio, attraverso petizioni,desideri e segnalazioni. Ne nacque un “dossier” di grande interesse ancoraoggi, ché non era studio fatto a tavolino, ma piano elaborato attraverso laverifica diretta sul territorio e dal vivo. Tutto quel materiale fu supportoad una proposta di legge, che, presentata il 28 giugno 1903, fu discussanel febbraio del 1904 e promulgata il 31 marzo 1904. Zanardelli, però, ilvecchio e onesto statista, non c’era più, essendo scomparso tre mesi prima.Nella discussione intorno alla legge intervenne personalmente il nuovocapo del Governo, Giovanni Giolitti, che cercò di frenare le ambizioni deiparlamentari settentrionali, interessati ad ottenere, per le loro regioni, glistessi provvedimenti. La legge, significativamente, fu sostenuta dal Torracae dal Lacava, ma non dal socialista Ciccotti, anche se questi, responsabil-mente, non mancò di partecipare attivamente al dibattito, proponendoemendamenti migliorativi, quasi sempre respinti. In fondo -pensava il bat-tagliero deputato socialista- era pur sempre meglio di niente. E avevaragione.

In fondo, quella legge, se non produsse cambiamenti strutturali, ebbealmeno il merito di migliorare comunque i servizi, offrendo assistenza tecni-ca all’agricoltura, strade, tratturi, acquedotti e, nel tempo, tratti di ferrovie ascartamento ridotto. Ebbe anche il merito di mettere a fuoco i problemidrammatici di una regione che, come si è detto, era emblema del Sud; inol-tre, e ancor di più, dopo il tragico strappo causato dal brigantaggio, riuscì aridar fiducia alle popolazioni meridionali nei confronti del nuovo Stato,avvertito, finalmente, come meno lontano e meno assente. Il Presidentegalantuomo, vero “padre della patria”, aveva assolto ad un’alta funzione esarebbe stato ricordato sempre con gratitudine e simpatia, essendo riuscito amettersi in sintonia con i potenti, ma anche con i deboli. Questi non avreb-bero tratto vantaggi sostanziali, se non in forma indiretta e casuale; ma forsenon si aspettavano di più. Le lotte e rivendicazioni sociali erano di là davenire. È significativo che, a livello popolare, per anni e anni, quando i figlichiedevano qualcosa ai loro genitori, questi, con bonomia e ironia, quando

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si trattava di cose impossibili rispondevano, con una punta di amarezza:“L’avrete, l’avrete – disse Zanardelli”.

Un mese dopo la morte, il 28 gennaio 1904, il Presidente “galantuomo”fu celebrato alla Camera. Prese la parola l’on. Michele Lacava, che parlò dilui come di un “grande italiano” che, già molto anziano, facendo un viaggiotanto faticoso e pieno di disagi e pericoli, “compiva il più alto ministero dilegislatore e di uomo di Stato” E parlò l’on. Bruno Chimirri, calabrese, chefu sempre avversario di Zanardelli. A quel vecchio ottuagenario si doveva –concluse l’on. Chimirri, “se la questione del Mezzogiorno fece un passodecisivo, e se si impone anche ai successori”. Ed era così. Né alcuno potevaminimamente immaginare che, a distanza di 100 anni, tra i “successori” diquello Zanardelli, e dalla sua stessa terra lombarda, sarebbero venuti a sede-re, nel Parlamento italiano, cioè nazionale, rozzi nemici dell’Italia unita edel Mezzogiorno. Avrebbero trovato, purtroppo, nello stesso Mezzogiorno enello stesso Parlamento, un incomprensibile sostegno opportunistico, adimostrazione del fatto che, in Italia, al trasformismo, meridionale e non,non c’è mai limite.

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