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RASSEGNA DI LETTERATURA INTERNAZIONALE SUL REDDITO DI CITTADINANZA INDICE 1. Introduzione pag. 2 2. Origini e percorsi del reddito di cittadinanza » 3 3. Definizioni e giustificazioni » 8 3.1 Il reddito di cittadinanza e le sue varianti » 8 3.2 Il reddito di base » 12 3.3 Regolazione sociale e autonomia personale » 14 3.4 Il reddito di base come strumento di flessibilità sostenibile » 17 3.5 Il reddito di base e le politiche pubbliche » 21 3.6 Partecipazione e cittadinanza » 24 3.7 Le obiezioni al reddito di base e la valorizzazione della persona: quale investimento? » 25 3.7.1 La produzione di beni collettivi e l’autonomia soggettiva » 26 3.7.2 Gli effetti del reddito di base nella dualizzazione del mercato del lavoro » 27 3.7.3 Il reddito di base e lo schema tradizionale dei rapporti di lavoro retribuito » 27 3.7.4 Il reddito di base e la divisione del lavoro sulla base del genere » 27 3.7.5 L’insostenibilità dei costi del reddito di base » 27 3.7.6 La consistenza del reddito di base » 28 4. Il possibile impatto di misure di reddito di base sulla precarietà dei giovani » 28 4.1 La lunga transizione dei giovani all’età adulta » 28 4.2 La precarietà lavorativa dei giovani » 31 4.3 Attivazione stigmatizzante o attivazione abilitante? » 34 4.4 L’attivazione dei giovani in Europa » 36 4.4.1 ‘YUSEDER’. Esperienze e risposte istituzionali in Europa contro l’esclusione sociale dei giovani » 36 4.4.2 Le politiche per l’attivazione nell’esperienza dei Paesi Bassi » 38 4.4.3 Il caso francese.Il Programma CIVIS e la certificazione delle competenze » 40 4.5 Conclusioni. Misure di reddito di base come soluzione per la precarietà giovanile? » 43 5. Reddito di cittadinanza e immigrazione » 44 5.1 Reddito di cittadinanza per quali cittadini? » 46 5.2 L’unità di distribuzione del reddito di cittadinanza » 49 5.3 L’ “effetto magnete” » 52 5.4 Migranti e welfare state » 56 5.4.1 Coesione sociale » 56 5.4.2 Dimensione economica » 58 5.5. Conclusioni. Il reddito di cittadinanza come elemento di attualizzazione dei diritti di fronte alle migrazioni internazionali » 60 6. Il reddito di cittadinanza di fronte alle crisi delle politiche sociali » 63 6.1 La crisi fiscale » 63 6.2 La crisi morale » 64 6.3 La crisi di legittimazione » 65 6.4 La crisi della giustizia sociale » 65 6.5 La crisi del social dumping » 66 6.6 La crisi della governance » 67 6.7 La crisi del lavoro » 67 6.8. La crisi linguistica » 68 6.9 Il RdC: oltre un rapporto a somma zero fra società e economia » 68 6.10 Politiche di RdC e immigrazione » 69 6.11 Politiche di RdC e giovani » 70 Bibliografia » 71 Il rapporto è stato redatto da Alessio Surian, Tania Toffanin, Adriano Cancellieri, Claudia Mantovan, Romano Mazzon. 1

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Una rassegna della letteratura internazionale sul tema del Reddito di cittadinanza (Basic income)

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RASSEGNA DI LETTERATURA INTERNAZIONALE SUL REDDITO DI CITTADINANZA

INDICE

1. Introduzione pag. 22. Origini e percorsi del reddito di cittadinanza » 33. Definizioni e giustificazioni » 8

3.1 Il reddito di cittadinanza e le sue varianti » 83.2 Il reddito di base » 123.3 Regolazione sociale e autonomia personale » 143.4 Il reddito di base come strumento di flessibilità sostenibile » 173.5 Il reddito di base e le politiche pubbliche » 213.6 Partecipazione e cittadinanza » 24

3.7 Le obiezioni al reddito di base e la valorizzazione della persona: quale investimento? » 253.7.1 La produzione di beni collettivi e l’autonomia soggettiva » 263.7.2 Gli effetti del reddito di base nella dualizzazione del mercato del lavoro » 273.7.3 Il reddito di base e lo schema tradizionale dei rapporti di lavoro retribuito » 273.7.4 Il reddito di base e la divisione del lavoro sulla base del genere » 273.7.5 L’insostenibilità dei costi del reddito di base » 273.7.6 La consistenza del reddito di base » 28

4. Il possibile impatto di misure di reddito di base sulla precarietà dei giovani » 284.1 La lunga transizione dei giovani all’età adulta » 28

4.2 La precarietà lavorativa dei giovani » 31 4.3 Attivazione stigmatizzante o attivazione abilitante? » 34 4.4 L’attivazione dei giovani in Europa » 36

4.4.1 ‘YUSEDER’. Esperienze e risposte istituzionali in Europa contro l’esclusione sociale dei giovani

» 36

4.4.2 Le politiche per l’attivazione nell’esperienza dei Paesi Bassi » 384.4.3 Il caso francese.Il Programma CIVIS e la certificazione delle competenze » 40

4.5 Conclusioni. Misure di reddito di base come soluzione per la precarietà giovanile? » 435. Reddito di cittadinanza e immigrazione » 44

5.1 Reddito di cittadinanza per quali cittadini? » 465.2 L’unità di distribuzione del reddito di cittadinanza » 495.3 L’ “effetto magnete” » 525.4 Migranti e welfare state » 56

5.4.1 Coesione sociale » 565.4.2 Dimensione economica » 58

5.5. Conclusioni. Il reddito di cittadinanza come elemento di attualizzazione dei diritti di fronte alle migrazioni internazionali

» 60

6. Il reddito di cittadinanza di fronte alle crisi delle politiche sociali » 636.1 La crisi fiscale » 636.2 La crisi morale » 646.3 La crisi di legittimazione » 656.4 La crisi della giustizia sociale » 656.5 La crisi del social dumping » 666.6 La crisi della governance » 67

6.7 La crisi del lavoro » 676.8. La crisi linguistica » 686.9 Il RdC: oltre un rapporto a somma zero fra società e economia » 686.10 Politiche di RdC e immigrazione » 696.11 Politiche di RdC e giovani » 70

Bibliografia » 71

Il rapporto è stato redatto da Alessio Surian, Tania Toffanin, Adriano Cancellieri, Claudia Mantovan, Romano Mazzon.

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1. INTRODUZIONE

Secondo i dati Eurobarometro (2007, p.79), la popolazione italiana ritiene il proprio sistema di welfare inadeguato (solo il 28% lo considera un modello per altri Paesi, rispetto ad una media UE del 42% e a punte del 70% e 78% in Paesi quali Belgio e Danimarca), non costoso (lo ritengono tale solo il 42% delle persone, rispetto ad una media UE del 52%) e, soprattutto, non dotato di sufficiente copertura: poco più di un terzo degli italiani (36%) pensa che il proprio sistema di welfare sia sufficiente, rispetto ad una media UE del 51% e a punte del 66%, 72%, 74% in Paesi quali Danimarca, Belgio e Francia; anche Paesi di più recente sviluppo del proprio sistema di welfare quali la Spagna, mostrano un apprezzamento da parte della popolazione della copertura del sistema stesso pari al 61%.Il presente articolo si concentra sul reddito di cittadinanza e presenta dati ed analisi in merito a politiche di reddito minimo (RM) nei sistemi di welfare valutandone gli aspetti che presentano particolari potenzialità per un sostanziale salto qualitativo del sistema nel suo complesso. Viene preso in esame il contesto internazionale con particolare attenzione ai Paesi dell'Unione Europea in riferimento a tre tipologie di interventi:

- reddito minimo vitale o d’inserimento, erogazioni legate a politiche di workfare e sottoposte a vincoli, orientate all’inserimento lavorativo, che prevede come destinatari soprattutto chi si trova in condizione di non accesso al mercato del lavoro;- reddito garantito o di base, teso ad integrare il reddito della popolazione al di sotto di una certa soglia di povertà, prescindendo dalla prestazione lavorativa (criterio di incondizionatezza), anche se non universale;- vuole essere universale, invece, il reddito di cittadinanza (income guarantee, basic income, state bonus, national dividend, social dividend, citizen’s wage, citizen’s income, universal grant), destinato a tutti i cittadini residenti, offerto in modo continuo (garantito nel tempo) e indipendente dalla condizione lavorativa, tesa soprattutto a garantire l’esercizio dei diritti di cittadinanza (sostituendo o integrando prestazioni previdenziali e assistenziali in vigore). In quest’ultimo ambito assumono particolare importanza gli indici di povertà relativa e di povertà assoluta. Inoltre, può includere forme di reddito indiretto (erogazione gratuita di beni e servizi primari come la casa, i trasporti, la salute). In questo caso, come afferma il premio Nobel James Tobin in «The Case for an Income Guarantee» (in The Public Interest 4 (Estate) 1966, p. 31) l’obiettivo è «assicurare ad ogni famiglia un livello di vita decente a prescindere dalle sue proprie capacità di guadagno [...] sia che essa abbia o meno al momento la possibilità di garantirsi tale livello di vita attraverso il mercato del lavoro».

La seguente analisi della letteratura tiene necessariamente conto di quanto recentemente messo in luce dal Governatore Draghi nella sua relazione del 29 maggio 2009 quando afferma che «la crisi ha reso più evidenti manchevolezze di lunga data nel nostro sistema di protezione sociale. Esso rimane frammentato. Lavoratori altrimenti identici ricevono trattamenti diversi solo perché operano in un’impresa artigiana invece che in una più grande. Si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento. Tra i lavoratori a tempo pieno del settore privato oltre 800.000, l’8 per cento dei potenziali beneficiari, hanno diritto a un’indennità inferiore a 500 euro al mese». E (a pag. 12-13) afferma: «Va colta oggi l’occasione per una riforma organica e rigorosa, che razionalizzi l’insieme degli ammortizzatori sociali esistenti e ne renda più universali i trattamenti. Non occorre rivoluzionare il sistema attuale. Lo si può ridisegnare intorno ai due tradizionali strumenti della Cassa integrazione e dell’indennità di disoccupazione ordinarie, opportunamente adeguati e calibrati. Essi andrebbero affiancati da una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti, come avviene quasi ovunque in Europa e come prospettato nel

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Libro bianco del Governo». Lo stesso Libro Bianco sul futuro del modello sociale (“La vita buona nella società attiva”) afferma che «I giovani entrano tardi e male – e cioè in età avanzata rispetto ai coetanei europei e con conoscenze poco spendibili – nel mercato del lavoro con la conseguenza di un frequente intrappolamento ai margini di esso e con lavori di bassa qualità. Le donne sono costrette a percorsi discontinui per le persistenti difficoltà di conciliazione del tempo di lavoro con le cure domestiche. Subiscono discriminazioni nella carriera, nell’accesso al lavoro e nella remunerazione».Già un allarme era venuto da Eurostat (2005) che avvertiva che «senza massicci interventi di protezione sociale, l’Italia, con i suoi 11 milioni di poveri, rischia nei prossimi anni di vedere il 42% della popolazione rimanere sotto la soglia di povertà». Secondo i dati Eurostat l’Italia spende per il contrasto alla disoccupazione lo 0,4% del Pil contro una media UE del 2,2% e del 3% della sola Germania; per i giovani disoccupati con meno di 25 anni il tasso di copertura, di sostegno al reddito, è dello 0,65% italiano contro il 57% del regno Unito, il 53% della Danimarca ed il 51% del Belgio (dati ItaliaLavoro) e questo malgrado sia aumentata in Italia la zona grigia di chi, tra gli under 25, non cerca più lavoro, non è inserito in percorsi di formazione, non frequenta più la scuola: oltre 800.000 giovani. Questo dato è aggravato dal fatto che se tra il 1991 e il 1997 la probabilità per un giovane di trovare lavoro a tempo indeterminato era del 40%, oggi si è ridotta al 25%.La rassegna prende necessariamente in considerazione implicazioni in tre ambiti correlati fra loro:

implicazioni giuridiche: il reddito garantito riconosce quale diritto ineliminabile di ogni cittadino una quota monetaria e servizi primari necessari alla sua sopravvivenza;implicazioni economiche: il reddito garantito assume come obbiettivo la riallocazione egualitaria delle risorse socialmente prodotte;implicazioni sociopolitiche: il reddito garantito, ridefinendo i principi di redistribuzione delle risorse, presuppone la rifondazione democratica dell’intera società.

2. ORIGINI E PERCORSI DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Queste brevi note ripercorrono alcuni momenti salienti delle teorie che hanno portato alla definizione del reddito di cittadinanza (spesso definito in ambito internazionale basic income) in quanto:

1) trasferimento monetario (non si tratta di servizi sociali); 2) elargito periodicamente da un'autorità pubblica riconosciuta; 3) alle persone (non alle famiglie); 4) indipendentemente dalle loro condizioni economiche; 5) senza distinzione in merito al loro contributo lavorativo.

A questo cammino storico hanno dedicato scritti significativi, in particolare, Van Parijs e Vanderborght (2005), ripresi on-line (http://www.usbig.net/bibliography.html) da Simon Birnbaum e Karl Widerquist. E’ di Joseph Charlier il primo testo, «Solution du probleme social ou constitution humanitaire», in cui compare la formulazione dei principi del basic income: è il 1848, ma già all'inizio del XVI secolo si cominciava a discutere in Europa di reddito minimo da garantire a tutti i membri della comunità. Alla fine del XVIII secolo, tale discussione si concentra sull’opportunità e le modalità con cui istituire un sussidio incondizionato da attribuire in funzione delle particolari esigenze dei beneficiari. Intorno alla metà del XIX secolo, prende

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forma l'idea di un basic income incondizionato: reddito incondizionato garantito a tutti su base individuale, senza means test (a prescindere da qualsiasi reddito proveniente da altre fonti) e sganciato dalla prestazione lavorativa (Vanderborght e Casassas 2006). In prospettiva umanista, Thomas More (1478-1535) è esplicito in un passo di “Utopia” (pubblicato in latino a Lovanio nel 1516): «Sarebbe molto più utile fornire ad ognuno dei mezzi di sussistenza, così che nessuno si trovi nella terribile necessità di diventare prima un ladro e poi un cadavere». Dieci anni dopo, nel 1526 Johannes Ludovicus Vives (1492-1540) presenta al sindaco di Bruges la proposta “De Subventione Pauperum” in cui chiede che sia il governo municipale ad assicurare un minimo di sussistenza a tutti i residenti: un modo per esercitare efficacemente la carità ripreso dal 1536 nelle misure di assistenza ai poveri della scuola di Salamanca di Francisco de Vitoria e Domingo de Soto e nelle leggi inglesi per i poveri (a partire dal 1576). Vanderborght e Casassas (2006) sottolineano come Vives anticipi concetti chiave dei pensatori legati all’idea di basic income: «Tutte le cose che Dio ha creato, egli le mette nella nostra grande casa, il mondo, senza circondarle con muri e porte, così che esse siano in comune con tutti i suoi figli». Quindi, eccetto coloro in stato di bisogno, chiunque si appropri dei doni della natura «è solo un ladro condannato dalla legge della natura poiché ha occupato e tenuto ciò che la natura ha creato non esclusivamente per lui». Inoltre, Vives insiste che l'aiuto dovrebbe avvenire «prima che il bisogno induca a qualche azione folle o immorale, prima che i volti dei bisognosi arrossiscano dalla vergogna...La beneficienza che precede la dura e sgradevole necessità di chiedere è più piacevole e più degna di ringraziamenti». Ma egli scarta esplicitamente la conclusione più radicale che sarebbe persino meglio se «la donazione venisse fatta prima che sorga il bisogno», che è esattamente ciò che un adeguato basic income comporterebbe (...) I pensatori del nouveau regime hanno fatto dell'assistenza pubblica una funzione essenziale di governo. Così scriveva Montesquieu (1748, sezione XXIII/29, vol. 2, p. 134): «Lo Stato deve fornire a tutti i suoi cittadini una sussistenza sicura, cibo, vestiti ed uno stile di vita che non danneggi la loro salute». Questa linea di pensiero ha condotto alla fine alla messa in opera di sistemi ampi di reddito minimo garantito finanziati a livello nazionale in un numero crescente di paesi, come più recentemente, l'RMI in Francia (1988) e l'RMG in Portogallo (1997).Una prospettiva diversa viene proposta da Antoine Caritat (1743-1794) nell’ultimo capitolo de “Esquisse d'un tableau historique des progres de l'esprit humain” (pubblicato postumo nel 1795). Il marchese di Condorcet sostiene che un'assicurazione sociale ridurrebbe le condizioni di ineguaglianza, insicurezza e povertà, in particolare per gli anziani, gli orfani, le madri sole, i giovani che vogliano intraprendere un mestiere. Questa proposta si tradurrà nelle pensioni di anzianità di Bismarck e nei sistemi di assicurazione sanitaria dei lavoratori in Germania unita (a partire dal 1883). Per Vanderborght e Casassas (2006):

L'assicurazione sociale ci ha portato più vicino al basic income di quanto abbia fatto l'assistenza pubblica, poiché le indennità sociali distribuite non erano dettate da compassione ma erano sulla base di un diritto, basato, in questo caso, sui premi pagati al sistema assicurativo. Ma in un altro modo, ci allontana dal basic income, precisamente perché il diritto alle indennità è ora basato sull'aver pagato abbastanza contributi nel passato, sotto forma di una certa percentuale sul salario. Per questa ragione, diversamente dalle versioni più ampie dell'assistenza pubblica, persino le forme più complete di assicurazione sociale non possono fornire un reddito minimo garantito.

Con un saggio indirizzato all’allora governo, Direttorio, francese, Thomas Paine (1737-1809), sostiene che la proprietà equa della terra giustifica una donazione incondizionata (non ancora un reddito garantito) per tutti e prevede un contributo «ad ogni persona, ricca o povera che sia (...) in luogo dell'eredità naturale che, come diritto, appartiene ad ogni uomo, oltre e al di là della proprietà che egli possa aver creato o ereditato» e afferma che «la terra, nel suo stato naturale e incolto, era e dovrebbe continuare ad essere proprietà comune della razza umana

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(...) E’ solamente nel valore» del miglioramento della terra grazie alle coltivazioni «e non nella terra in se stessa che la proprietà individuale si inserisce. Quindi, i proprietari di terreni coltivati devono alla comunità un canone di affitto del terreno (non ho un termine migliore per esprimere tale idea) per la terra che possiedono; ed è da questo canone che deve venir fuori il fondo proposto in questo progetto» che dovrebbe essere sufficiente a «pagare ad ognuno, giunto all'età di 21 anni, la somma di 15 sterline come compenso, in parte, per la perdita della propria eredità naturale causata dall'introduzione del sistema della proprietà terriera. Ed anche la somma di 10 sterline l'anno, per tutta la vita, a coloro che al momento hanno compiuto 50 anni e a tutti gli altri che giungono a tale età». La proposta di una donazione minima uguale per tutti nel momento in cui si raggiunge la maggiore età viene ripresa dal filosofo francese Francoise Huet ne “Le Regne social du christianisme” (1853, pp. 262, 271-73) che chiede per i giovani una donazione finanziata dalla tassazione su quella parte di terra e di altre proprietà che il testatore ha ricevuto; questa donazione ed una pensione minima, la proposta di Paine, ha ricevuto attenzione da parte di Bruce Ackerman & Anne Alstott della Yale Law School (1999): in questo caso un sussidio incondizionato di 80.000 $, non si basa più sulla proprietà comune della terra, ma su una concezione ampia di giustizia come uguaglianza delle opportunità.Di reddito garantito scrivono William Cobbett (1827), Samuel Read (1829) e Poulet Scrope (1833) in Inghilterra (Horne 1988, pp. 107-132). Poco dopo, ne “La Fauss Industrie”, Charles Fourier (1836, pp. 490-92), afferma l’idea di un “dividendo territoriale”: la violazione del diritto naturale fondamentale di ogni persona a cacciare, pescare, raccogliere i frutti e lasciare il proprio bestiame a pascolare nei terreni di proprietà comune, implica che quella «civiltà deve sostenere chiunque sia incapace a soddisfare i propri bisogni, nella forma di una stanza d'albergo di sesta categoria e di tre pasti al giorno». In linea con alcuni principi introdotti da Fourier, Joseph Charlier (1816-1896) pubblica a Bruxelles “Solution du probleme social ou constitution humanitaire” (1848) il primo testo che rivendica un vero e proprio basic income. Charlier si distingue, però, da Fourier perché non ritiene che il diritto all'assistenza debba essere basato su means test; né concorda con Victor Considerant sul diritto al lavoro remunerato.Il pari diritto alla proprietà della terra è assunto quale fondamento di un diritto incondizionato al reddito. Un reddito «minimo» o «revenu garanti» (reddito garantito), sono per Charlier un modo per assicurare ad ogni cittadino un diritto incondizionato al pagamento trimestrale (più tardi mensile) di una somma fissata annualmente da un consiglio di rappresentanti nazionali sulla base del valore locativo di tutte le proprietà reali. Charlier svilupperà questa proposta con il nome di «dividendo territoriale» ne “La Question social resolue” (1894). La proposta di Charlier trova poca eco, ma contribuisce a divulgare un’idea ripresa anche da John Stuart Mill nella seconda edizione di “Principles of political economy” (1849) che sottolinea la proposta di un basic income non basato sull’accertamento del reddito (means test):

Questo sistema [...] prende in considerazione, come elementi nella distribuzione dei prodotti, sia il capitale che il lavoro. [...] Nella distribuzione, un certo minimo è prima assegnato per la sussistenza di ogni membro della comunità, sia che sia idoneo o meno al lavoro. La rimanenza dei prodotti è divisa in certe proporzioni, determinate in anticipo, tra i tre elementi, Lavoro, Capitale e Talento.

Bertrand Russell (1872-1970), in “Roads to Freedom” (1918, pp. 80-81 e 127), sostiene il principio etico per il quale

tutti dovrebbero aver garantita una quantità di reddito sufficiente per soddisfare i bisogni basilari sia che lavorino sia che no, e coloro che desiderano svolgere qualsiasi tipo di lavoro che la comunità riconosce come utile dovrebbero ricevere una quantità di reddito maggiore. (...) Una volta terminata la

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scuola, nessuno dovrebbe essere obbligato a lavorare e coloro che scelgono di non lavorare dovrebbero ricevere il minimo indispensabile ed essere lasciati completamente liberi.

Sono gli anni delle ampie sacche di povertà dell’immediato dopoguerra e un membro quacchero del partito laburista, l’ingegnere Dennis Milner (1892-1956) e la moglie Mabel pubblicano “Scheme for a State Bonus” (1918) in cui affermano l’utilità di versare con frequenza settimanale un bonus che distribuisca il 20% del prodotto interno lordo della Gran Bretagna a tutti i cittadini, proposta ulteriormente elaborata nel libro “Higher Production by a Bonus on National Output”, incontrando i favori del quacchero Bertram Pickard e dando vita alla State Bonus League, prima di essere discussa dal partito laburista che nel 1921 decise di non farla propria. I Milner affrontano nei loro testi vari nodi centrali: dai rischi legati alla disoccupazione agli elementi di flessibilità nel mercato del lavoro, rimanendo fiduciosi che il bonus dovrebbe risultare in una maggiore efficienza e produttività.In maniera meno radicale, proprio nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, l’ingegnere inglese Clifford Hugh Douglas (1879-1952) ha sostenuto la necessità di introdurre un “credito sociale” nell’ambito di un programma di riforma articolato in due proposte principali: un dividendo nazionale che permetta di ridistribuire la ricchezza fra le classi meno abbienti, e un meccanismo di adeguamento dei prezzi al fine di garantire che i lavoratori possano acquistare ciò che potrebbero produrre, preoccupato da una capacità produttiva industriale superiore alla capacità dei consumatori di servirsi dei beni prodotti. L’economista George D.H. Cole (1889-1959), il primo ad essere chiamato ad Oxford presso la cattedra Chichele di Teoria Sociale e Politica, riprende queste idee sotto il nome di “dividendo sociale” (Cole 1935). Negli anni Trenta del secolo scorso l’idea di un dividendo da ridistribuire viene ripresa da Oskar Lange (in merito ai profitti delle imprese statali) che ritiene si debba tarare tale meccanismo re-distributivo in base ai salari percepiti. Altre forme di “dividendi” denominati “social” o “nazionali” sono presi in considerazione nello stesso periodo (Robertson 1994). Il nobel James Meade (1907-1995), ha sostenuto l’idea del “dividendo sociale” in “Outline of an Economic Policy for a Labor Government” (1935) quale componente centrale di un’economia giusta ed efficace. Nel tentativo di risolvere i problemi legati a povertà e disoccupazione ha dedicato I suoi ultimi scritti al progetto Agathatopia (1989, 1993, 1995) proponendo modelli di partnership fra capitale e lavoro e un dividendo sociale basato sugli asset publici. Un’alternativa basata sul dividendo sociale alla riforma del sistema di welfare inglese, formulata in base ai report e al piano del liberale Beveridge (1942) che prevedeva il pieno impiego (disoccupazione inferiore al 3%), venne formulata da altri due liberali, Juliet Rhys-Williams con lo scopo di fornire mezzi di sussistenza senza discriminare fra donne, uomini e minori. In ambito statunitense, nel 1962 Milton Friedman pubblica “Capitalism and Freedom” in cui definisce come inefficenti le misure di intervento sociale e in chiave liberista propone l’introduzione di un sistema di tassazione “negativa” che garantisca a tutti un ingresso minimo. In alternativa alle proposte di Friedman, Tobin, Pechman and Miezkowski pubblicarono nel 1967 un’analisi di un possibile modello di tassazione “negative” arrivando a suggerire che fosse preferibile un pagamento automatico a tutti i cittadini, un universal basic income chiamato da Joseph Pechman demogrant. Diversamente da quanto sostenuto da Friedman, il demogrant non sostituisce il sistema di assistenza sociale, né i contributi previdenziali, ma contribuisce in modo determinante ad aumentare le entrate dei ceti più poveri, fornendo a ciascun nucleo familiare un contributo in base al numero dei suoi componenti. Una petizione lanciata da oltre mille economisti (fra cui James Tobin, Paul Samuelson, John Kenneth Galbraith, Robert Lampman, Harold Watts) nella primavera del 1968 proponeva al Congresso statunitense «di adottare nell’anno in corso un sistema di garanzie di reddito ed integrazioni».

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La pressione risultò nell’adozione del Family Assistance Plan (FAP), il sistema di welfare sociale messo a punto dal senatore democratico Daniel Patrick Moynihan (1927-2003) su mandato del presidente Richard Nixon e adottato ad Aprile 1970 da una larga maggioranza alla Camera, ma respinto dal Senato. Un più radicale piano “demogrant” era stato incluso su consiglio di James Tobin nella piattaforma presidenziale del democratico George McGovern nel 1972 per essere messo poi da parte ad agosto 1972.Negli anni successive vennero sperimentati cinque piani su larga scala basati sull’idea di “negative income tax”, quattro negli USA ed uno in Canada, pur senza risultati univoci.Il 1972 è stato un anno di sperimentazione anche in Gran Bretagna: il governo conservatore guidato da Heath mise a punto un modello fiscale che modificava i prelievi per i lavoratori che guadagnavano più di otto sterline a settimana ed introduceva alcune misure di welfare sociale: ai lavoratori vengono attribuiti crediti fiscali riscuotibili nei momenti in cui il lavoratore non è più in grado di contribuire al sistema fiscale, una forma di basic income che interessava ampia parte della popolazione: la non ri-elezione di Heath alla guida del governo ha impedito l’esecuzione di questo disegno di legge (Walter 1989).Anche in Australia, l’idea del reddito minimo garantito è stata introdotta negli anni Settanta del secolo scorso dalla Commission of Inquiry into Poverty (Jackson 1995) e ripresa da Henderson con il nome di Guaranteed Minimum Income (Watts 1995). In Nuova Zelanda l’idea di basic income venne inserita nel 1975 nel programma del Values Party.In Europa l’idea del reddito di cittadinanza ha suscitato nuovo interesse a partire dal libro “Uprør fra midten” - pubblicato in Danimarca nel 1978 da Niels Meyer, K. Helweg-Pedersen e Villy Sørensen e tradotto in inglese nel 1981 come “Revolt from the Center” da Christine Hauch, 1981 – e dai lavori del professore di medicina sociale J.P. Kuiper, dell’Università di Amsterdam che nel 1976 propose un reddito “garantito” in modo da favorire condizioni più dignitose di lavoro. Nel 1977 il Politieke Partij Radicalen, di ispirazione cristiana, fu il primo partito europeo rappresentato in parlamento ad includere il basisinkomen nel proprio programma elettorale. L’idea venne appoggiata dal sindacato del settore alimentare, Voedingsbond, affiliato alla federazione FNV, caratterizzato da una base a maggioranza femminile ed impiegata part-time. Nel 1985 il Consiglio scientifico olandese per le politiche di governo pubblicò un report che raccomandava l’introduzione di un “basic income parziale”, una misura universale, ma non sufficiente a soddisfare i bisogni primari di una persona e quindi compatibile con il sistema di “conditional minimum income” già esistente.Nel 1984 il dibattito riprese vigore anche in Gran Bretagna grazie ad un gruppo di ricercatori coordinate da Bill Jordan e Hermione Parker e sostenuti dal National Council for Voluntary Organizations, che dettero vita al Basic Income Research Group (BIRG), dal 1998 Citizen’s Income Trust. L’unico magro risultato fu l’introduzione del baby bond del programma del New Labour di Blair.Sempre nel 1984 Thomas Schmid, pubblica in Germania “Liberation from False Labor”, seguito dalle pubblicazioni di Opielka e Vobruba (1986) e Opielka e Ostner (1987), mentre Joachim Mitschke, professore di finanza pubblica all’Università di Francoforte dette vita nel 1985 ad una campagna in favore del Bürgergeld, reddito di cittadinanza, da amministrarsi secondo il modello della tassazione negativa, sostenuto in seguito da ricercatori quali Claus Offe (1992, 1996) e Fritz Scharpf (1993). Il dibattito in Germania è ripreso con forza nel 2005.In Francia si sono impegnati su questi temi André Gorz (1923-2007) con la proposta (1985) di un reddito di base a vita legato alla prestazione di servizi sociali pari a 20.000 ore e, successivamente, di un reddito non condizionato (1997); Yoland Bresson (1984, 1994, 2000) fautore di un “reddito d’esistenza”; Alain Caillé (1987, 1994, 1996), sostenitore di un reddito non condizionato che favorirebbe attività di interesse pubblico da parte di chi è escluso dal

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mercato del lavoro; Jean-Marc Ferry (1995, 2000), difensore a livello dell’Unione Europea del reddito di cittadinanza universale quale diritto di cittadinanza.A metà degli anni Ottanta del secolo scorso la rete europea che lavora sul reddito di cittadinanza comincia a formalizzarsi: nel 1986 il Collectif Charles Fourier (nato nel 1984) ospita all’Università di Louvain-la-Neuvre la prima International Conference on Basic Income, cui partecipano oltre settanta persone da quattordici paesi europei (Walter, 1989). Due anni dopo, nel 1988, nasce il Basic Income European Network (BIEN) che al suo decimo congresso internazionale ribattezzerà il suo nome in Basic Income Earth Network riconoscendone il carattere internazionale. La rete ha funzioni sia di riflessione teorica, sia di confronto fra le numerose esperienze avviate negli ultimi anni in numerosi paesi o regioni europee, come in altre parti del mondo, dal Brasile all’Alaska, dove il governatore repubblicano Jay Hammond ha messo a frutto parte dei proventi delle estrazioni di petrolio della Baia di Prudhoe creando nel 1976 l’Alaska Permanent Fund grazie ad un emendamento alla State Constitution. Il fondo distribuiva un dividendo annuo a tutti i residenti proporzionale al numero di anni di residenza in Alaska. Dichiarata dalla Corte Suprema degli USA una misura che discriminava gli immigrati da altri Stati USA (contraddicendo l’”equal protection clause” contenuta nel quattordicesimo emendamento della Costituzione federale) dal 1982 il fondo offre un basic income a chiunque risieda in Alaska da almeno sei mesi (circa 650.000 persone): inizialmente 300 $ a persona, poi quasi 2000 $ nel 2000 e 2069$ nel 2008.

3. DEFINIZIONI E GIUSTIFICAZIONI

3.1 Il reddito di cittadinanza e le sue varianti

L’estensione dei diritti di cittadinanza suggerisce di prendere in considerazione e sollecitare, oltre allo spazio prescrittivo, anche gli ambiti e i livelli di partecipazione degli individui alla produzione delle politiche pubbliche: la disponibilità di risorse materiali, in termini di reddito, è la condizione primaria per favorire tale partecipazione. In questa prospettiva, tra i diversi strumenti proposti e sperimentati per affermare i diritti di cittadinanza c’è il reddito di cittadinanza. L’introduzione di questo strumento non viene vista in modo univoco, coerentemente con la disomogeneità degli ambiti sociali ed economici nei quali si è ipotizzata o sostanziata la sua sperimentazione. In effetti, come mostrano, per esempio, l’analisi dell’impatto di alcune sperimentazioni in Irlanda e nei Paesi Baschi e con i giovani e i migranti - la caratteristica primaria di questo strumento è proprio l’adattabilità all’ambiente nel quale viene sviluppato. Diverse misure si riferiscono al reddito di cittadinanza: reddito di base, reddito minimo universale e reddito di esistenza. Si tratta di significati prossimi: tutte le accezioni citate designano uno strumento di redistribuzione delle risorse, di altro tipo rispetto le prestazioni assistenziali tradizionalmente intese, come il vasto ambito dei sussidi di disoccupazione e le diverse forme di sostegno al nucleo familiare. Le diverse misure di reddito di cittadinanza sono sostanzialmente riconducibili a quattro principali varianti (Ward 2008) che differiscono per il numero e la tipologia dei soggetti coinvolti e per i vincoli che determinano le caratteristiche della titolarità del beneficio erogato.

E’ possibile, quindi, definire le seguenti varianti:1) universale (pieno): è riconducibile a un tasso di benessere sociale. Consiste in un’erogazione solitamente di risorse monetarie, a titolo individuale e non condizionato;

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2) condizionato (pieno): si rivolge a tutti ma la sua erogazione è condizionata da vincoli, quali l’impegno in attività di volontariato sociale, l’attivazione nel mercato del lavoro, lo svolgimento del lavoro di cura, la frequenza di corsi di formazione, la ricerca dell’occupazione;3) universale (parziale): è erogato a tutti quelli che appartengono a determinate categorie (disoccupati, lavoratori esclusi dal mercato del lavoro) o sono in possesso di particolari requisiti (anzianità anagrafica, titolo di studio);4) condizionato (parziale): può essere erogato solamente a determinate categorie di soggetti o a soggetti che posseggono particolari requisiti e che rispettano dei vincoli precisi.

Tab. 1. Varianti del reddito di cittadinanza

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copertura--

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- - - Importo + + +

Fonte: Ward, 2008

Le quattro varianti di reddito di cittadinanza presentate oppongono due diversi approcci in tema di giustificazioni degli schemi di sostegno al reddito: da un lato, l’approccio universalista orientato a distribuire l’erogazione di reddito a tutti i soggetti, indistintamente dalla loro condizione personale o professionale, dall’altro l’approccio selettivo che predilige la definizione di alcuni vincoli che condizionano l’assegnazione e l’entità del sostegno al reddito all’appartenenza a categorie qualificate. Alla base c’è una diversa concezione del ruolo dello Stato che, tuttavia, può conoscere un processo di trasformazione nel corso del tempo e tradursi nel sostegno a politiche di attivazione di tipo diffuso e universale, più collegato all’emancipazione delle persone o, invece, tradursi nella predilezione per politiche di assistenza, riconducibili all’idea di un intervento minimo, di riduzione degli effetti negativi prodotti dalla diseguale distribuzione delle risorse materiali. White (2003)1 individua altre quattro varianti riconducibili alla polarità universalismo / condizionalità:1) “repubblicano”: da intendersi come contropartita del “lavoro civico” o del “servizio di cittadinanza”;2) condizionato: si tratta di un’erogazione pensata per tutti i cittadini più svantaggiati nelle prospettive occupazionali;3) a tempo limitato: è da intendersi come un emolumento garantito a tutti coloro che chiedono un congedo o un periodo sabbatico;4) di base: una sorta di credito sociale collegato allo svolgimento di attività produttive nell’economia.Le diverse varianti hanno assunto differenti declinazioni in fase applicativa e strutturato alcune tipologie e misure d’intervento:1) Reddito di cittadinanza: è uno strumento universale e incondizionato. Esso si basa sulla relazione tra cittadinanza e garanzie reddituali. L’appartenenza alla struttura sociale implica il diritto all’ottenimento di una parte della ricchezza prodotta. In questo senso si tratta di un 1 Citato in Noguera (2004).

Universale (parziale) Universale (pieno)

Condizionale (parziale) Condizionale (pieno)

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diritto fondamentale da considerare come una specie di rimborso sociale erogato in termini di remunerazione compensatoria della diseguale distribuzione della ricchezza (Van Parijs e Vanderborght 2006). Lo scopo del reddito di cittadinanza è di garantire a tutte le persone non solamente la redistribuzione della ricchezza ma la possibilità di accedere a condizioni di autonomia che allarghino la partecipazione sociale e riducano progressivamente le disuguaglianze. Il reddito di cittadinanza non è ancora stato introdotto in alcun paese europeo;2) Reddito di base: è una variante debole del reddito di cittadinanza. Esso può essere equivalente o inferiore alla soglia di sussistenza e non sostituisce le altre prestazioni sociali e assicurative percepite dal soggetto. E’ erogato a tutti i soggetti che possono dimostrare condizioni di indigenza materiale, senza siano previsti vincoli alla restituzione degli emolumenti, eccetto per coloro che occupano le fasce di reddito più elevate. L’aspetto più rilevante è costituito dalla determinazione della soglia di reddito di sussistenza o di povertà che definisce la titolarità a ricevere questo emolumento; 3) Dividendo sociale: si tratta di un sussidio universale, non sottoposto a tassazione, finanziato con l’imposta che ha come base imponibile tutti i redditi diversi dal sussidio. La versione universale piena è applicata in Alaska dove, dal 1977, esiste un Basic Income (Alaska Permanent Fund)2, erogato come dividendo sociale a ogni cittadino. La più rilevante elaborazione dello schema del dividendo sociale si deve a Meade (1989) e si fonda sul principio della distribuzione della ricchezza che prevede l’aggiunta di un’erogazione monetaria (dividendo sociale) al reddito derivante dal lavoro retribuito;4) Reddito minimo: si tratta di un sussidio selettivo e condizionato. Esso è erogato solo ai soggetti che dimostrano la condizione di indigenza attraverso l’accertamento del reddito (means test) e il vincolo all’erogazione può essere determinato da: la ricerca dell’occupazione, l’impegno nel lavoro di cura, la frequenza di corsi di formazione e studio o l’impiego in lavori di pubblica utilità. Esso è finalizzato a contrastare lo stato di povertà e a tal fine è concepito come intervento di integrazione delle differenza presente tra il reddito del soggetto e un livello di reddito minimo, di importo inferiore o pari alla soglia di povertà. La corresponsione, infatti, è collegata allo stato di bisogno del beneficiario che deve risultare da una disponibilità di reddito inferiore alla soglia di povertà. La determinazione di questa soglia può essere di tipo assoluto, se identificata con livello di risorse funzionale a soddisfare i bisogni primari, di tipo relativo se, invece, corrisponde al reddito medio o mediano prevalente nel contesto di riferimento.3 Esso è diffuso in quasi tutta Europa, tranne Italia, Grecia e Ungheria. L’obiettivo della sua attivazione è collegato alla necessità di fornire uno strumento di protezione contro la povertà. La diversità delle misure adottate dipende dalle finalità che ne hanno sostenuto l’attivazione e quindi dalle caratteristiche proprie del contesto di sperimentazione: età, condizione lavorativa, residenza e/o nazionalità.4 Il valore o il posizionamento della soglia può essere deciso per decreto del Governo, a livello regionale o federale o non risultare da alcuna legge specifica. Nella maggior parte dei paesi europei tale soglia è definita da decreti governativi che stabiliscono il valore della soglia, annualmente, sulla base della legge finanziaria. E’ possibile che l’erogazione sia condizionata all’accertamento del reddito o non abbia questo vincolo: nel primo caso sono fissati dei valori di reddito e di patrimonio che, di fatto, sono valori-soglia. L’erogazione del reddito minimo è poi condizionata dalla compresenza di altre indennità che possono essere incluse o escluse dal calcolo del reddito;

2 Per un approfondimento è utile esaminare il sito http://www.apfc.org/home/Content/home/index.cfm. Il calcolo dell’importo è operato sulla base della base del valore dell’utile netto presente nel fondo statale (previsto da statuto) che viene poi rapportato ad alcuni coefficienti e suddiviso per il numero dei cittadini. 3 Per un approfondimento del quadro europeo si veda Standing, Guy (2003), Minimum Income Schemes in Europe. Geneva, ILO. 4 Si veda lo studio operato in Europa da Busilacchi G. (2008) al sito: http://www.espanet-italia.net/conferenza2008/p_session10.php.

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5) Reddito minimo di inserimento: è una variante del reddito minimo garantito, con la differenza sostanziale che la sua erogazione è vincolata all’accettazione da parte del beneficiario di programmi di inserimento socio-lavorativo. Le critiche più rilevanti (Raventos 2007) si collegano al rischio che tale strumento detiene nel favorire la diffusione di lavoro dequalificati e bassa remunerazione (bad job) e quindi nell’accrescere l’indebolimento delle opportunità lavorative e di vita del soggetto beneficiario;6) Credito di imposta: è una misura che favorisce i lavoratori che hanno bassi salari o che svolgono l’attività in modo discontinuo (working poor). Esso è strutturato su base familiare: determinata la soglia di reddito per l’acquisizione della titolarità al beneficio si prevedono delle agevolazioni fiscali progressive basate sulla numerosità del nucleo familiare e delle condizioni reddituali. Un esempio di credito d’imposta è quello sperimentato nel Regno Unito: Working families tax credit (WFTC) che si divide tra credito d’imposta sui redditi da lavoro e credito integrato per i figli a carico;5 5) Imposta negativa sul reddito: si tratta di uno schema di agevolazione fiscale che prevede dei trasferimenti monetari a tutti i soggetti che hanno un reddito imponibile inferiore a una certa soglia (Atkinson, 1998). Lo strumento prevede la determinazione di una soglia di reddito (minimo imponibile): i soggetti che hanno un reddito inferiore alla soglia percepiscono un sussidio di importo pari alla differenza tra il reddito e la soglia, coloro che, invece, hanno un reddito superiore sono interessati al regime di imposizione fiscale. Lo scopo dell’imposta negativa è la riduzione delle prestazioni sociali a carico dello stato e la distribuzione di reddito alle categorie svantaggiate;6) Altre misure di sostegno al reddito: vanno annoverati i sussidi per favorire il mantenimento o l’estensione della base occupazionale (riduzione dei contributi sociali pagati dai datori di lavoro o dai lavoratori, crediti d’imposta alle imprese in proporzione al numero degli occupati, i sussidi proporzionati alle retribuzioni o crediti d'imposta per i lavoratori, i sussidi per favorire la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore pubblico); gli incentivi alla cessazione o alla riduzione dell’attività lavorativa (sussidi per l’anticipazione del pensionamento o per la sospensione del rapporto di lavoro) e il reddito di ultima istanza (pensato come uno strumento di accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale, esso è destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale, nei quali siano presenti dei componenti che per discontinuità occupazionale o assenza dei requisiti, non abbiano diritto a percepire beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di lavoro).Un’ulteriore riflessione sulle tipologie viene da White (2003), il quale considera la cittadinanza economica e sociale una sorta di “minimo civico” che si compone di diritti di partecipazione alla ricchezza sociale e di doveri di offrire contributi per generare quella ricchezza. Il principio ispiratore è quello della reciprocità che dovrebbe, secondo White, sostenere un contrattualismo sociale tra stato e cittadini. Queste le proposte di White per giungere ai diritti economici minimi:1) retribuire adeguatamente il lavoro: attraverso la combinazione di salari minimi e sussidi come i crediti d’imposta per i lavoratori con i redditi più bassi;2) passare dal riconoscimento del lavoro al riconoscimento della partecipazione: significa considerare le attività non retribuite come il lavoro di riproduzione sociale, la formazione, o il lavoro sociale come “contributi dignitosi”. Si tratta di politiche prossime al reddito di partecipazione o dividendo sociale, elaborato da Atkinson, o di “lavoro civico” (Beck 1999), o di “servizio alla cittadinanza” (McCormick 1994).3) prevedere un sistema di sostegno al reddito basato su due livelli: da un lato un sussidio illimitato, basato sulla partecipazione o sul lavoro formale; dall’altro un sussidio limitato, scollegato dallo status occupazionale, attagliato sul modello dei “congedi sabbatici”, che

5 Ibidem.

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permetterebbe alle persone di sospendere l’attività lavorativa per dedicarsi alla formazione o ad altre attività. Noguera (2004) critica l’articolazione proposta da White per i seguenti motivi: nel primo caso il rischio è di vincolare i soggetti beneficiare dell’erogazione monetaria a lavori che non piacciono solo per non perdere il beneficio; nel secondo caso, le attività non di mercato potrebbero essere remunerate con l’introduzione di un reddito di cittadinanza parziale; nel terzo caso, si tratta di occupazioni che sono sottopagate poiché mancano di riconoscimento sociale e che pertanto possono produrre la ricerca del lavoro irregolare o sommerso.6

Le diverse tipologie di erogazioni a sostegno del reddito elencate differiscono da altre forme di intervento pubblico che, pur avendo come obiettivo il miglioramento delle condizioni reddituali, agiscono, però, su altri ambiti. E’ il caso dell’introduzione del salario minimo e di altre forme di regolazione della remunerazione della prestazione lavorativa. Il salario minimo corrisponde alla paga più bassa fissata per legge e può essere definita su base oraria, giornaliera o mensile. E’ prevista una rivalutazione periodica dell’importo equivalente al salario minimo sulla base all’indice dei prezzi al consumo e all’andamento economico generale.7

Una distinzione ulteriore va poi fatta tra gli interventi di politiche attive e passive del lavoro che mirano alla continuità reddituale, in presenza della sospensione o della cessazione del rapporto di lavoro e gli incentivi a sostegno del reddito, estranei al sistema degli ammortizzatori sociali. Quest’ultima distinzione, con particolare riferimento al caso italiano, è spesso sfumata nella pratica concreta poiché alcuni strumenti di politica passiva rappresentano, nei fatti, dei sostegni all’occupazione erogati al sistema delle imprese8 in altri casi degli strumenti di politica attiva nati per aumentare la base occupazionale hanno, invece, costituito delle misure di politica passiva9 poco funzionali al raggiungimento del fine costitutivo.

3.2 Il reddito di base

L’accezione che in questo contributo si intende approfondire è quella relativa al reddito di base: si tratta dell’adattamento che più risponde all’esigenza di considerare uno strumento universalistico che promuova l’effettiva redistribuzione delle risorse, finalizzata a garantire la tutela dell’integrità fisica e l’inclusione sociale. Per reddito di base s’intende l’erogazione di un intervento economico rapportato a un preciso indicatore: il salario minimo interprofessionale, a tempo pieno. Si tratta dell’indicatore già previsto in Francia, dove esiste lo SMIC, Salaire minimum interprofessionnel de croissance,10

6 Noguera (2004, p. 12) riporta l’esempio della Spagna, dove si sono sviluppati i “lavori di carità” che vincolano genitori disoccupati, senza più alcun diritto a percepire il sussidio di disoccupazione e con figli a carico, ad accettare lavori poco retribuiti al punto da preferire la ricerca occupazionale nell’economia sommersa.7 Per approfondire il quadro europeo si veda European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Minimum wages in Europe 2007 (http://www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2007/83/en/1/ef0783en.pdf).8 E’ il caso dei sussidi di disoccupazione a requisiti ridotti erogati ai lavoratori occupati in molti settori produttivi e di servizio caratterizzati da un’elevata stagionalità (turismo, agricoltura, edilizia).9 Il riferimento è ai Lavori Socialmente Utili (LSU) e ai Lavori di Pubblica Utilità (LPU): essi sono stati pensati inizialmente per lavoratori dalle medie e grandi imprese, interessati al regime di cassa integrazione straordinaria o giunti al termine del periodo di mobilità. L’utilizzo di questi strumenti è stato poi ampliato a molti giovani disoccupati di lunga durata, in possesso di titoli di studio elevati. Per una critica si veda Michele Miscione (2007), “Gli ammortizzatori sociali per l'occupabilità”, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, vol. 29, n. 116, pp. 695-747.10 E’ opportuno visionare la documentazione elaborata dal Ministero del Lavoro francese al sito: http://www.travail-solidarite.gouv.fr/result_recherche.php3?recherche=Salaire+minimum+interprofessionnel+de+croissance&x=5&y=3.

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che si attesta alla soglia di 1.321 euro, per 35 ore di prestazione lavorativa effettiva, a prescindere dalla tipologia occupazionale e dalla mansione svolta. Si tratta di un indicatore progressivo poiché ogni anno lo SMIC si rivaluta automaticamente di un importo pari all’inflazione registrata l’anno precedente più il 50% dell’aumento medio dei salari. Anche la Spagna, nell’ambito del “Piano Spagnolo di stimolo all’economia e all’occupazione” varato il 30 dicembre 2008 (Decreto Reale 2128/2008),11 ha utilizzato questo indicatore. Nel caso spagnolo si tratta di uno strumento previsto dalla legge n. 8 del 10 marzo 1980 (art. 27 Salario mínimo interprofesional) indicizzato annualmente ai prezzi al consumo, alla produttività media nazionale, all’incremento dato dall’occupazione nella ricchezza nazionale e alla congiuntura economica generale. Per il 2009 il SMI (Salario mínimo interprofesional) è stato fissato a 624 euro mensili, con la previsione di un ulteriore aumento per il 2012 a 800 euro mensili.Le diverse misure di reddito di base sono invece, frequentemente, rapportate all’indice di povertà relativa - che è calcolato dividendo la spesa totale per consumi delle famiglie per il numero totale dei componenti - poiché tale indice non descrive la condizione effettiva dello status socio-economico che s’intende migliorare. L’indice di povertà, infatti, alla pari di altri indicatori come il prodotto interno lordo procapite, non offre alcun parametro di riferimento utile alla misurazione della distribuzione delle disuguaglianze; esso indica un valore medio che non può consegnare alcuna rappresentazione della reale posizione sociale delle persone all’interno del contesto di riferimento. E’, infatti, la posizione sociale a definire lo spazio entro il quale si sviluppa la disponibilità materiale e relazionale che gli individui poi utilizzando per affrancarsi dallo stato di bisogno e condurre un’esistenza dignitosa. Tale spazio si compone di risorse economiche ma anche di funzioni vitali della vita umana quali l’istruzione, la salute, la partecipazione allo spazio pubblico e la qualità delle relazioni sociali (Sen 1992). L’interpretazione riduttiva che è stata tradizionalmente operata da molta parte della scienza economica - proprio a causa della scarsa rilevanza che è stata attribuita al sistema delle opportunità nella sua articolazione - non può che operare una stima della disuguaglianza, senza fornire quegli elementi di analisi che, invece, sono indispensabili per strutturare le politiche economiche e sociali che mirino alla riduzione del divario di opportunità presente. Secondo Sen (1992) la dimensione che, invece, assume maggiore rilevanza per l’analisi della composizione della disuguaglianza si relaziona alle funzioni vitali (funzionamenti), alla loro distribuzione e alla loro riproduzione. Tuttavia, Sen evidenzia che non basta guardare alla condizione delle funzioni vitali per operare la strutturazione di politiche economiche orientare al raggiungimento dell’eguaglianza delle opportunità. Le pari condizioni di accesso al godimento di beni e servizi sono garantite dallo sviluppo delle capacità e non dalla disponibilità di alcuni mezzi o dall’applicabilità di specifiche limitazioni che garantiscono la realizzazione delle funzioni vitali. Solo lo sviluppo delle capacità permette agli individui di scegliere in modo autonomo come realizzare tali funzioni (Nussbaum 2001). Questa distinzione è cruciale per distinguere le politiche pubbliche che muovo verso la promozione delle capacità individuali dalle politiche che agiscono come mero rimedio agli squilibri prodotti dall’economia di mercato.Sul concetto di sviluppo delle capacità poggia la giustificazione etica che sostiene l’istituzione del reddito di base: esso è da considerarsi, quindi, come uno strumento capace di attivare le capacità umane che permettono la riproduzione delle funzioni vitali. In tale direzione, il reddito di base deve considerarsi un’erogazione economica diversa dai sussidi di disoccupazione ma anche dalle prestazioni assistenziali genericamente intese. L’erogazione

11 Si tratta del Decreto Reale a sostegno dell’economia spagnola (Real Decreto-Ley 10/2008) Si veda il testo del decreto al sito del Parlamento spagnolo: http://www.congreso.es/portal/page/portal/Congreso/Congreso.

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del reddito di base è incondizionata poiché prescinde dall’attivazione del soggetto per l’accesso e il mantenimento di un’occupazione nel mercato del lavoro. Il reddito di base è, inoltre, cumulabile con altri redditi da lavoro ed è corrisposto ai soggetti, individualmente, e non, invece, alla famiglia. Si tratta di una specie di credito sociale che offre alle persone la possibilità di contribuire all’implementazione dei beni pubblici, attraverso la disponibilità allo svolgimento di attività di produzione e di servizio, funzionali alla crescita dell’utilità sociale dell’area nella quale vivono e operano. Sulla scorta della definizione operata, la fruizione del reddito di base non è, dunque, alternativo alla ricerca di una occupazione né all’erogazione di sussidi o prestazioni assistenziali. Il reddito di base è piuttosto pensato per aumentare il benessere individuale e collettivo, attraverso l’adozione di un sistema di remunerazione alternativo a quello di mercato ma anche alle misure di sostegno al reddito previste dai regimi di welfare. In aggiunta, va evidenziato che la corresponsione del reddito di base al singolo individuo facilita l’emancipazione di questi dalla famiglia e dai vincoli di bilancio familiari, valorizzando, in tal senso, la ricerca di percorsi di vita autonomi e responsabilizzanti. Questo aspetto assume una peculiare rilevanza nei paesi caratterizzati dal modello di welfare mediterraneo, quali l’Italia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo, dove maggiori sono la decentralizzazione dell’attività di cura alle famiglie da parte dello Stato e la dipendenza della persona dalle scelte e dai vincoli familiari. Nel Reddito minimo universale (2006), gli autori, Van Parijs e Vandeborght, evidenziano che “non vi è piena cittadinanza se la famiglia in cui si nasce definisce il perimetro delle scelte possibili, se occorre accettare un lavoro purchessia, anche se degradante e malpagato, se non si può uscire da un matrimonio non più sostenibile, se si dipende dal giudizio o dalla disponibilità di altri nel soddisfacimento delle proprie necessità”.

3.3 Regolazione sociale e autonomia personale

In Europa, lo sviluppo dei regimi di welfare nazionali non ha proceduto negli stessi tempi e con strumenti simili, producendo, di fatto, risultati assai eterogenei e di difficile comparazione. All’indomani della Seconda guerra mondiale in molti paesi, tra cui l’Italia, la pressante esigenza di allargare la base occupazionale e di ridurre i flussi emigratori ha circoscritto l’opera di strutturazione dei diritti e delle tutele al lavoratore maschio capofamiglia. Si tratta di un modello di stato sociale riferito principalmente sulla figura del maschio adulto procacciatore di reddito (male breadwinner) che con maggiore enfasi ha interessato i paesi dell’Europa mediterranea.12 Questo modello di stato sociale ha, di fatto, escluso la promozione delle pari opportunità, complessivamente intese: per le donne, il maggior carico di lavoro familiare e l’inadeguata distribuzione dei servizi pubblici per il sostegno al lavoro di cura hanno costituito un pesante limitate alla partecipazione al mercato del lavoro retribuito, smorzando anche le aspettative di crescita professionale collegate alla partecipazione; per i giovani, l’onerosità delle spese abitative ha prolungato la permanenza all’interno della famiglia di origine, posticipando l’emancipazione personale al raggiungimento di una posizione occupazionale stabile; per gli immigrati, le difficoltà di regolarizzazione amministrativa e la precarietà occupazionale hanno allargato il divario sociale tra lavoratori con la stessa qualifica professionale ma diverso status giuridico, innescando derive localistiche poco funzionali al miglioramento delle prospettive di vita della cittadinanza, complessivamente intesa.Tuttavia, un elemento di ulteriore riflessione viene dall’analisi della rappresentanza del lavoro: la rigidità della regolazione di matrice keynesiana se da un lato ha legittimato l’azione

12 La continuità culturale, politica e sociale dei paesi dell’area mediterranea quali Spagna, Portogallo, Italia e Grecia ha imposto una riflessione sulla specificità di un modello di welfare mediterraneo. Su questo argomento è utile la lettura di Ferrera (1996).

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collettiva delle organizzazioni sindacali, dall’altro ha istituzionalizzato lo spazio del conflitto, imponendo alle stesse organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori l’accettazione delle regole dello scambio politico (Offe 1983). In Europa si è così evidenziata una situazione piuttosto eterogenea che oscilla dal controllo esercitato nel luogo di lavoro con la pratica della codeterminazione, la Mitbestimmung, in Germania all’esercizio della concertazione delle politiche nazionali e della contrattazione aziendale in Italia. Nel mezzo la situazione di altri paesi europei, nei quali la presenza sindacale è meno radicata e la regolazione del lavoro è, invece, più centralizzata, come la Francia e la Spagna, e ai margini, l’esperienza dei paesi scandinavi, che si fonda su alti tassi di sindacalizzazione e il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nella gestione delle politiche del lavoro, assistenziali e formative. Il carattere eterogeneo della rappresentanza del lavoro in Europa è stato ulteriormente complicato dall’unificazione monetaria e dall’allargamento delle reti internazionali di divisione del lavoro: questi processi hanno contribuito a ridisegnare non solo la struttura del tessuto produttivo ma anche le soggettività della rappresentanza su base nazionale. In questa direzione, sono emersi i limiti dell’attuale modello di regolazione del lavoro, stretto tra una regolazione di tipo formale, di matrice giuridica, su base nazionale, e una regolazione di tipo sostanziale, di matrice economica, su base internazionale. Il divario crescente tra questi due tipi di regolazione ha accelerato il dumping sociale, prodotto dal ricorso alla delocalizzazione della produzione dai paesi con elevate tutele accordate al lavoro ai paesi privi di regimi di protezione dell’impiego. Si tratta di un fenomeno che sta interessando in termini consistenti l’industria manifatturiera europea; minore risulta, invece, l’impatto che tale fenomeno ha avuto nel terziario avanzato, mentre nel settore dei servizi alla persona, all’opposto, sono stati i lavoratori a raggiungere il luogo della prestazione lavorativa, alimentando i flussi migratori per motivi di lavoro all’interno e all’esterno dello spazio dell’Europa a ventisette.Se non è possibile sostenere che la delocalizzazione abbia prodotto in toto l’aumento della disoccupazione all’interno dei sistemi manifatturieri europei, risulta, però, evidente che i processi intercorsi hanno messo in luce le difficoltà strutturali presenti. In tale direzione, sono proprio i sistemi produttivi a basso contenuto tecnologico a essere maggiormente esposti alla concorrenza dei sistemi caratterizzati da un’antica tradizione manifatturiera, grandi riserve di forza lavoro e basse protezioni accordate ai lavoratori. Per le imprese di molti paesi europei l’attenuazione degli effetti negativi prodotti dalle disparità presenti nel quadro della regolazione del lavoro si è risolta nella costante rincorsa alla riduzione del costo del lavoro, senza che da parte delle istituzioni politiche siano state avviate delle iniziative di protezione dell’occupazione. In tale direzione, va evidenziato come a nulla siano serviti i richiami alla necessità di adottare misure di protezionismo delle merci, se non a eludere i nodi irrisolti, collegati alla presenza di specializzazioni produttive caratterizzate dall’elevato ricorso al lavoro manuale e dalla bassa intensità di contenuto tecnologico, che per tali ragioni, quindi, sono facilmente riproducibili e trasferibili.L’aumento dell’instabilità reddituale e la graduale precarizzazione delle condizioni di vita che ne derivano stanno mutando profondamente il significato che le persone attribuiscono all’appartenenza a un’entità statuale ma anche il valore dell’identificazione con gli interessi generali della collettività. Questi processi minano le fondamenta della costituzione materiale degli stati europei e rischiano di allontanare le prospettive di crescita dello spazio della partecipazione e di limitare, quindi, l’estensione dei diritti di cittadinanza. L’allargamento della partecipazione civile, politica e sociale si pone, infatti, con maggior urgenza per le persone che occupano una posizione di svantaggio materiale e sociale: se per esse viene meno la possibilità di partecipare attivamente allo spazio pubblico, si riducono necessariamente le opportunità di influenzare le decisioni politiche. Con l’effetto di allargare lo spazio delle ineguaglianze tra la cittadinanza piuttosto di ridurlo.

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Storicamente, l’opportunità di scegliere tra le diverse possibilità di partecipare alla vita pubblica, in termini di impegno civile, politico e sociale, è strettamente correlata, alla posizione sociale, all’appartenenza di classe. Tuttavia, le gerarchie sociali possono mutare sia per effetto della mobilitazione attivata da gruppi di interesse e da movimenti politici sia su stimolo delle politiche di attivazione realizzate dalle istituzioni pubbliche. Secondo Marshall (1950) è stata l’espansione dell’economia capitalistica che ha prodotto le disuguaglianze di classe, al punto da contrapporre l’appartenenza di classe all’idea di cittadinanza. Nelle società capitalistiche mentre la classe è la fonte delle disuguaglianze, la cittadinanza opera in senso in contrario, a favore dell’uguaglianza di tipo giuridico. In tale direzione, Marshall individua tre tipi di cittadinanza: quella civile, collegata alla libertà personale, di parola, di credo religioso; quella politica, riferita al diritto di partecipare all’esercizio del potere politico e quella sociale che riguarda il costante miglioramento del tenore di vita, l’assistenza sanitaria e la previdenza sociale. Marshall considera questi tre tipi di cittadinanza delle tappe di un unico processo evolutivo. In realtà, il loro sviluppo non si è configurato lineare e nemmeno immutabile: i diritti di cittadinanza sono il prodotto del riconoscimento giuridico di condizioni che cambiano contestualmente alle trasformazioni che intervengono nella società. I diritti di cittadinanza non sono dati per sempre e nemmeno mantengono la fisionomia originaria. In tale direzione, sosteneva Tawney (1975, p. 637) “Il carattere di una società è determinato meno dai diritti astratti che dai poteri effettivi. Non dipende da che cosa i suoi membri hanno il diritto di fare se ne sono capaci ma da cosa possono fare se vogliono”. La possibilità che l’individuo si attivi nel contesto sociale ed economico di riferimento non è spontanea e dipende fortemente dalle sollecitazioni esterne presenti: il reddito di base può rappresentare un efficace stimolo alla partecipazione civile, politica e sociale poiché agisce in contrasto alle spinte limitanti ed escludenti imposte dallo scambio di mercato e favorisce una maggiore inclusione sociale. Il reddito di base valorizza, così, la partecipazione attiva delle persone poiché impone una decostruzione della rappresentazione sociale del senso di appartenenza dell’individuo allo spazio pubblico e sollecita una sua ricostruzione su basi materialmente fondate. La redistribuzione della ricchezza rimane la questione cruciale attorno alla quale si ridisegna lo spazio della politica e il ruolo dello stato sociale. In questa direzione si riscontra, invece, un rapporto ineguale tra la crescita economica registrata in alcune aree e il benessere sociale. In molte realtà europee l’aumento generalizzato del benessere materiale non ha comportato una redistribuzione della ricchezza attenta alla riduzione delle disuguaglianze; né questo aumento ha favorito la promozione delle pari opportunità nell’accesso alla realizzazione di condizioni di vita materiali, culturali e sociali adeguate alle aspettative della cittadinanza. Anzi, la concentrazione della ricchezza è aumentata così come si è ridotta ovunque la mobilità sociale ascendente. Questo processo di polarizzazione sociale sta pregiudicando la possibilità di migliorare il livello e la diffusione dell’istruzione e della formazione professionale che saranno sempre più rilevanti per consolidare l’autonomia dal bisogno e la realizzazione del sé negli individui e accrescere la dotazione di risorse materiali e immateriali nei singoli paesi. Il divario nelle condizioni materiali di vita si è posto con maggiore evidenza a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, al termine dei “trenta gloriosi”, in corrispondenza della fase di stagflazione che in piena crisi petrolifera ha sancito il fallimento degli accordi di Bretton Woods, sottoscritti nel 1944. Da quella fase ha avuto inizio il progressivo scardinamento dei sistemi di welfare europei e con esso l’aumento delle disuguaglianze sociali. Occorre evidenziare che proprio il compromesso di classe teorizzato da Keynes nel 1936 aveva considerato la strutturazione dello stato sociale l’elemento imprescindibile per la riduzione delle disuguaglianze derivanti dallo scambio di mercato. Durante l’espansione postbellica è

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stato proprio lo stato sociale keynesiano a garantire alla cittadinanza un’elevata coesione sociale e alle istituzioni un diffuso consenso politico. Il complesso di trasformazioni da allora in atto ha avuto ripercussioni notevoli sulla capacità delle istituzioni politiche di rappresentare i bisogni della cittadinanza, specie a fronte del costante richiamo alla necessità di operare tagli al sistema di welfare venuto da parte di organizzazioni internazionali, quali il Fondo Monetario Internazionale (International Monetary Fund) e la Banca Mondiale (World Bank). A risentirne è stata la partecipazione attiva della cittadinanza alla politica: la riprova è data dal costante calo dell’affluenza alle urne registrata proprio dalla fine degli anni Settanta. Se il compromesso keynesiano non è più stato in grado di riorientare le decisioni politiche degli stati europei verso una progressiva riduzione delle disuguaglianze sembra sia meno imputabile al rapido alternarsi dei cicli economici e, invece, sia più riconducibile alla necessità di rispettare i vincoli del mercato e della struttura di classe rispetto alla tensione per l’affermazione dei diritti fondamentali. Alcuni autori, tra i quali Wacquant (2006), hanno intravisto una stretta correlazione il declino dello stato assistenziale e l’estensione stato penale, interpretando le politiche repressive come la risposta autoritaria dei governi al crescente impoverimento prodotto dalla riduzione dell’intervento pubblico nella sfera economica. In questa direzione, l’esercizio dello stato di diritto, che attraverso la politica dovrebbe operare la riduzione delle disuguaglianze, cede il passo all’ideologia dello stato ridotto alle funzioni minime che, invece, accentua l’impoverimento e l’esclusione sociale. Secondo Wacquant il controllo sociale ha progressivamente sostituito le politiche sociali e il diritto al posto di lavoro è stato sostituito dal diritto alla sicurezza. Rimane, tuttavia, irrisolta la questione del rapporto tra i diritti di cittadinanza e lo spazio globalizzato. Zolo (2007) evidenzia come tale rapporto sia quanto mai messo in difficoltà dall’agire di spinte contrastanti: da un lato i processi economici e la divisione internazionale del lavoro minano lo status di cittadino poiché evadono i confini nazionali, dall’altro la condivisione di una comune identità storica rinsalda la lealtà alle istituzioni politiche statuali e legittima lo stato di diritto. La questione del superamento della connotazione meramente giuridica del concetto di cittadinanza impone di “rielaborare ed arricchire la nozione di cittadinanza fino a farne la categoria centrale di una concezione della democrazia che sia fedele ai principi della tradizione liberal-democratica e nello stesso tempo non sia puramente procedurale. Una concezione non formalistica ma attiva e conflittuale della cittadinanza permetterebbe di guardare al sistema politico ex parte populi, privilegiando il punto di vista della titolarità dei diritti civili, politici e sociali – secondo la classica ripartizione proposta da Thomas H. Marshall – e del loro godimento effettivo da parte delle cittadine e dei cittadini” (Zolo: 47).Perché un cittadino dovrebbe sentirsi parte di uno spazio collettivo se questo non offre vantaggi in termini di crescita della disponibilità di risorse materiali e immateriali?

3.4 Il reddito di base come strumento di flessibilità sostenibile

In Europa il tema della flessibilità del lavoro è stato discusso a più riprese all’interno dei singoli stati e in sede di Commissione Europea13, tuttavia, il dibattito ha sovente risentito di un’approssimazione di fondo, riconducibile alla vaghezza con la quale si è definito l’ambito entro il quale declinare la flessibilità. Barbier e Nadel (2002) evidenziano, infatti, che la flessibilità del lavoro non può essere confusa con la flessibilità dell’occupazione. Pure se si tratta di processi che rischiano di procurare effetti simili, è utile una prima distinzione tra le due tipologie. Con “flessibilità del lavoro” s’intende descrivere l’insieme delle condizioni che

13 Si veda il Libro Verde della Commissione Europea (2006), “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”.

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modificano lo svolgimento della prestazione lavorativa, nella sua estensione, intensità e localizzazione, sulla scorta di determinate e circoscritte esigenze della produzione. Con “flessibilità dell’occupazione”, invece, ci si riferisce alle condizioni strutturali che determinano lo svolgimento della prestazione lavorativa, con riferimento non tanto al contenuto del lavoro ma alla forma giuridica della prestazione lavorativa e alle protezioni sociali a essa collegate. Si tratta di una discrepanza che altri studiosi hanno tradotto attraverso l’uso della distinzione tra flessibilità qualitativa o funzionale e flessibilità quantitativa o numerica (Gallino 2001). La traduzione inglese del termine “flessibilità” non aiuta a operare la necessaria distinzione tra le due tipologie descritte; flexibility è utilizzato, infatti, indistintamente per descrivere entrambe le accezioni di flessibilità (Barbier e Nadel, p. 11)14. La flessibilità del lavoro, evidenziano gli autori, non comporta de facto la diminuzione delle tutele accordate allo status occupazionale né si traduce necessariamente in una decurtazione retributiva. La flessibilità del lavoro quando decisa dal lavoratore e non imposta dalle esigenze dell’impresa o dal sovraccarico del lavoro di cura può tradursi in una forma di flessibilità sostenibile (Gallino 2001) poiché può aiutare l’individuo a integrare le diverse funzioni vitali con maggior appagamento, senza operare il trade off tra la propria realizzazione identitaria e la sottrazione di diritti e/o di quote di reddito. Questa forma sostenibile di flessibilità si contrappone alla forma di flessibilizzazione delle condizioni di lavoro proposta nel Libro Verde “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo” nel quale, invece, è sostenuta la necessità di allentare i vincoli sulla flessibilità in uscita per stimolare l’aumento dell’occupazione da parte delle imprese.15 Altri autori (Giles et al. 2002) hanno messo in luce come la flessibilità nell’organizzazione del lavoro possa produrre il miglioramento delle condizioni lavorative dei dipendenti e al contempo stimolare quelle innovazioni organizzative che aumentano il valore della produzione. La crescita dell’autonomia dei dipendenti nello svolgimento dell’attività lavorativa e nella soluzione dei problemi di natura organizzativa, oltre all’aumento delle competenze produce soddisfazione lavorativa e costituire uno strumento di redistribuzione dei profitti dell’impresa, attraverso l’implementazione di percorsi di formazione continua che migliorino le condizioni dello svolgimento della prestazione lavorativa, all’interno di quello specifico luogo di lavoro e facilitino l’eventuale ricollocazione del lavoratore in un altro ambiente di lavoro. Standing (1999) ha evidenziato che la precarietà delle condizioni materiali di vita non è solo connessa al lavoro atipico, ma è riconducibile a molteplici dimensioni, collegate alla presenza e all’estensione delle seguenti condizioni: la sussistenza di effettive pari opportunità occupazionali per tutti, la protezione contro la perdita dell’occupazione, lo sviluppo di un senso di stabilità personale in una prospettiva dinamica di insicurezza del lavoro dovuta a frequente mobilità esterna, la sicurezza delle condizioni fisiche nelle quali si svolge la prestazione lavorativa, la possibilità di apprendimento continuo nell’intero ciclo di vita (lifelong learning) in un ampio contesto che favorisca la creazione e diffusione di conoscenza e competenze, attraverso l’accesso all’istruzione e alla formazione, la stabilità reddituale e la garanzia di poter fare affidamento nella rappresentanza sindacale. Nei paesi dell’area mediterranea (Eurostat 2008) le imprese investono meno nella formazione dei lavoratori dipendenti occupati, rispetto sia alle imprese dell’area centrale sia a quelle scandinave; certamente questa eterogeneità deriva da diverse specializzazioni produttive che impongono dei livelli di formazione funzionali al raggiungimento di determinati standard 14 Barbier e Nadel evidenziano che, invece, la lingua tedesca opera una sostanziale distinzione tra l’accezione più scientifica del termine “flessibilità” (Flexibilität) e quella d’uso comune, riferita alla generica capacità di adattamento (Anpassungsfähigkeit). 15 Su questo aspetto è opportuno approfondire il documento elaborato da alcuni giuristi italiani: I giuristi e il Libro verde “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”. Una valutazione critica e propositiva. www.lex.unict.it/eurolabor/news/doc_ libroverde .pdf .

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produttivi. Tuttavia, recenti studi (Bandiera, Guiso, Prat, Sadun 2008)16 che hanno analizzato il sistema di valutazione e d’incentivazione dei manager di alcune imprese europee hanno evidenziato che lo scarso investimento nella formazione dei lavoratori dipendenti riscontrato in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, è certamente dovuto alle caratteristiche del tessuto produttivo ma si relazione in misura ancor più rilevante agli attributi della dirigenza imprenditoriale che orientano a preferire il modello fiduciario o quello collegato alla performance. Questa riflessione sul sistema di reclutamento dei manager è funzionale a posizionare il centro dell’analisi sul rapporto tra la qualità del lavoro e le strategie dell’impresa. Il ruolo della direzione d’impresa nella determinazione di questo rapporto è primario: l’organizzazione del lavoro, la distribuzione dei ruoli e l’assegnazione delle qualifiche nonché la regolazione salariale sono a capo del management che sulla base del sistema di relazioni industriali presente all’interno dell’azienda è vincolato o meno al confronto con le organizzazioni sindacali ma che in termini generali gode di ampio margine decisionale.I cambiamenti esterni, riconducibili alle trasformazioni che mutano il diritto del lavoro e la struttura delle relazioni industriali, hanno un impatto altrettanto significativo sulla regolazione del lavoro interna all’impresa. Tuttavia, proprio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e con maggior vigore dopo l’unificazione del mercato monetario europeo alla fine degli anni Novanta, la ristrutturazione delle imprese europee è stata sostenuta in via rilevante dal tentativo di ridurre il costo del lavoro da parte di imprese specializzate in produzioni che richiedono un elevato apporto di lavoro manuale e con basso contenuto tecnologico e quindi con scarso investimento in ricerca e innovazione. In misura residuale tale processo può dirsi riconducibile all’aumento dei vincoli generati dalle norme in materia lavoristica e dall’onerosità prodotta dai sistemi di relazioni industriali. Di fronte all’aumento della competizione internazionale e al rapido susseguirsi di cicli economici espansivi e recessivi, le strategie imprenditoriali si sono orientate a comprimere il costo del lavoro, chiedendo alle istituzioni politiche nazionali la decurtazione degli oneri sociali e l’aumento della flessibilità occupazionale. In assenza di politiche industriali capaci di orientare la specializzazione produttiva delle imprese e di ridurre gli squilibri territoriali presenti nei singoli stati, le richieste giunte dal sistema delle imprese hanno, di fatto, contribuito ad accentuare il rischio recessivo poiché l’aumento posti di lavoro caratterizzati da un’elevata discontinuità occupazionale ha effetti immediati nella riduzione della domanda interna e quindi sulla produzione industriale ma conseguenze ancora più deleterie nell’investimento nella formazione e nella ricerca. Senza trascurare l’effetto che la precarizzazione occupazionale ha nell’aumento della disoccupazione di lungo periodo. Nell’Europa a 15 (OCSE 2008) si calcola che l’incidenza dei lavoratori scoraggiati17 non disponibili a trovare occupazione sul totale della forza lavoro sia pari a 1,14%. In Italia questa incidenza è pari al 5,29%: si tratta della percentuale più elevata in Europa e tra i paesi aderenti

16 La ricerca è stata svolta da alcuni ricercatori della London School of Economics nel 2008. Il campione era composto di circa 4.000 imprese in Europa (Francia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Portogallo, Svezia e Regno Unito), Asia (Cina, India e Giappone) e Stati Uniti. Il campione italiano era composto di 202 imprese con un numero medio di lavoratori occupati pari a 606. Nel caso italiano ma anche in quello greco e portoghese al momento dell’assunzione il campione delle imprese intervistate ha dichiarato di affidarsi in prevalenza alla rete di relazioni personali e familiari piuttosto che all’esame delle competenze acquisite mentre nella successiva valutazione della prestazione lavorativa prevarrebbe il modello fiduciario, per il quale gli avanzamenti di carriera risultano strettamente correlati alla rinuncia da parte dei managers ad esporre posizioni contrastanti con la proprietà aziendale.

17 I lavoratori scoraggiati sono individui in età compresa tra 15 e i 64 anni, quindi tra la popolazione in età lavorativa, ma che risultano inoccupati e che hanno rinunciato a considerare l’opportunità di accedere al mercato del lavoro. In realtà, per l’Italia, questo dato risente dell’elevata incidenza dell’economia sommersa e dell’occupazione irregolare che pregiudica l’analisi del mercato del lavoro.

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all’OCSE. Per contrastare queste tendenze, l’istituzione del reddito di base può essere particolarmente efficace. L’erogazione del reddito di base permetterebbe, infatti, alla popolazione attiva di emanciparsi dall’accettazione di una qualsiasi occupazione ma anche dalla condizione di dipendenza dalle prestazioni pubbliche. Si tratta di un approccio coerente con quanto esposto a partire dal 2000 dall’International Labour Organisation (ILO), attraverso la definizione di decent work secondo la quale “… Decent work means work which is carried out in conditions of freedom, equity, security and human dignity…” (ILO 2005). Con decent work s’intendono le diverse condizioni che favoriscono l’integrazione tra le prospettive individuali e lo svolgimento della prestazione lavorativa: l’equilibrio tra lavoro e tempo dedicato alla cura degli affetti, le prospettive professionali e personali e sviluppo delle capacità, delle conoscenze e delle competenze. Gli studi empirici sulla qualità del lavoro e sulle conseguenze della discontinuità lavorativa (ISFOL, 2006) hanno evidenziato che la flessibilità sostenibile è quella che permette al lavoratore di trarre benessere dal cambiamento, piuttosto che un generale peggioramento delle condizioni materiali di vita, attraverso la possibilità di adeguare l’orario di lavoro alle esigenze personali e di accrescere le conoscenze e le competenze. La flessibilizzazione delle condizioni lavorative non può che penalizzare la forza lavoro con basse qualificazioni e in questa direzione lo spostamento delle tutele dal posto di lavoro al mercato del lavoro, così come auspicato nel Libro Verde, accentua lo scarso investimento informativo da parte delle imprese e aumenta la mobilità occupazionale. Se la questione cruciale è lo sviluppo delle competenze per aumentare le possibilità occupazionali e la competitività dei sistemi produttivi, la soluzione presentata nel Libro Verde è di certo la meno efficace. Dall’analisi del caso italiano, si evince che, di fatto, la flessibilità delle condizioni di lavoro è stata spesso garantita da un ampio utilizzo di forme contrattuali in modo difforme rispetto alla volontà del legislatore mentre poco si è dibattuto sulla necessità di alimentare una cultura d’impresa orientata all’investimento e alla formazione continua, da intendersi come elementi costitutivi e non discrezionali dell’attività imprenditoriale (ISFOL 2008). Se manca una responsabilizzazione dei soggetti che distribuiscono le risorse pubbliche e detengono quelle private è evidente che la riduzione delle tutele accordate al lavoro subordinato ed economicamente dipendente non può che aumentare la precarizzazione in atto, senza però venga svolta alcuna tematizzazione delle difficoltà strutturali che interessano i sistemi produttivi. Su queste linee, l’introduzione del reddito di base permetterebbe all’individuo di affrontare l’intero ciclo di vita senza la preoccupazione di dover accettare qualsiasi tipo di proposta d’impiego per non perdere la titolarità alle prestazioni a sostegno del reddito e stimolerebbe pure un riordino della frammentazione dell’attuale sistema delle prestazioni della sicurezza sociale. Il reddito di base può essere annoverato tra i diritti di prelievo fiscale (Supiot 1999): questi diritti dipendono dalla previsione di una contribuzione che ne garantisca il finanziamento e dall’autonoma decisione del titolare di fruirli. Il loro esercizio, tuttavia, dipende da una libera decisione e non dal vincolo sanzionatorio. Il diritto del beneficiario, sottolinea Supiot (1999, p. 67), è collegato ad una funzione che può essere esercitata all’interno o all’esterno del mercato del lavoro.

3.5 Il reddito di base e le politiche pubbliche

Lo scenario sociale ed economico attuale presenta la crescita generalizzata della precarizzazione della condizione lavorativa riconducibili alla maggiore incidenza del lavoro

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temporaneo18 e del part time imposto.19 L’analisi del tasso di occupazione e di disoccupazione non offre, infatti, alcuna spiegazione sulle condizioni occupazionali della forza lavoro e nemmeno aiuta a interpretare l’aumento del numero di lavoratori impoveriti (working poor). I processi di indebolimento della condizione lavorativa accrescono il rischio di esclusione sociale e di marginalità e nel lungo periodo costituiscono un elemento di indiscutibile aggravio della spesa pubblica. Uno sguardo alle politiche economiche europee evidenzia che la riduzione di tale rischio è stata affrontata in modo eterogeneo, attraverso politiche di riduzione del costo del lavoro ma anche con politiche di aumento del reddito: in entrambi i casi, i risultati non sono stati rispondenti alle attese iniziali. A complicare l’azione di contrasto all’esclusione sociale è intervenuto il nuovo quadro economico: l’integrazione monetaria europea se ha favorito la mobilità delle merci non ha offerto alcuna garanzia alla tutela delle condizioni di lavoro. La disomogeneità ancor oggi presente all’interno dell’Europa a 27 sul piano delle tutele contrattuali e reddituali facilita il dumping sociale. Il trasferimento della produzione da aree dove il costo del lavoro è più elevato e le tutele riservate ai lavoratori più stringenti a paesi dove minore è il costo del lavoro e scarsa è l’osservanza dei diritti dei lavoratori ha certamente rappresentato una delle prime cause dell’aumento della disoccupazione in Europa. E’ possibile sostenere, tuttavia, che il contrasto alla disoccupazione seppure impegni l’agenda politica della maggior parte dei governi europei trova, di fatto, nell’ambito nazionale il riferimento meno efficace: la globalizzazione dello spazio economico costituisce oggi un motivo di ripiegamento delle politiche economiche e sociali messe in campo dai singoli stati. Il rispetto dei criteri stabiliti dal trattato di Maastricht non lascia spazio ad alcuna ipotesi d’intervento espansivo della spesa pubblica per sostenere l’occupazione. Tuttavia, nemmeno le politiche protezionistiche, pensate per ridurre gli effetti della concorrenza internazionale, hanno comportato la protezione dell’occupazione nei paesi a più antica industrializzazione: esse hanno, invece, evidenziato la scarsa specializzazione manifatturiera di alcuni paesi, i cui beni, proprio per l’alta intensità di lavoro manuale e lo scarso contenuto innovativo e tecnologico, sono risultati di facile riproduzione da parte di paesi in via di industrializzazione con ridotta capacità innovativa ma abbondante riserva di forza lavoro. I problemi per tali tipi di merci e per la forza lavoro impegnata nella loro produzione sono sorti all’indomani dell’unificazione monetaria europea. E’ allora che il richiamo all’urgenza di varare le politiche protezionistiche è emerso con maggiore evidenza: in realtà tale richiamo rispondeva alla necessità da parte di alcuni governi nazionali nel tentativo di mantenere il consenso politico, dopo che l’unificazione monetaria aveva decretato la fine delle politiche di svalutazione monetaria che tanta parte hanno avuto nel sostegno all’esportazione di merci a basso contenuto tecnologico. In tale direzione, se la perdita della sovranità nazionale nell’ambito della politica economica e sociale è uno degli effetti dell’integrazione economica dell’Europa occidentale (Offe 1999) è pur vero che al processo di denazionalizzazione è subentrata una sovranità multiforme, fondata più che sui confini dello stato-nazione sugli interessi particolari di gruppi economici, politici e sociali (Sassen 2008). Nonostante i mutamenti della soggettività della nuova sovranità e della disposizione dei luoghi decisionali, il processo di polarizzazione sociale risente ancora fortemente della strutturazione delle politiche economiche, fiscali, del lavoro e sociali varate dallo stato nazionale. In tale direzione è possibile sostenere che la posizione degli individui all’interno del processo di polarizzazione sociale è una diretta conseguenza della scelta delle istituzioni pubbliche nell’orientare l’estensione o la riduzione all’accesso alle risorse e ai beni collettivi. 18 Nell’Europa a 15 (OCSE 2008) l’incidenza del lavoro temporaneo sul totale dell’occupazione è aumentata dal 10,5% del 1990 al 14,5% del 2008 (+ 4%).19 I lavoratori part-time involontari lavorano meno di 30 ore a settimana. Nell’Europa (EU 15, OCSE) la quota di lavoratori occupati con contratto a tempo parziale involontario sul totale dell’occupazione è aumentata dal 1,8% del 1990 al 3,4% del 2008 (OCSE 2008).

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L’egemonia acquisita dalla dimensione economica, se rappresenta l’indicatore del progressivo scardinamento dello spazio regolativo politico-istituzionale che trasforma necessariamente l’esercizio della sovranità statale, essa costituisce pure un potente deterrente all’elaborazione di politiche di redistribuzione, orientate alla riduzione dell’iniquità fiscale e delle diseguaglianze sociali. L’imperativo del continuo inseguimento alla riduzione del costo del lavoro da parte delle imprese e dei costi dello stato sociale da parte delle istituzioni politiche nazionali ha contribuito al progressivo impoverimento delle competenze e alla crescente privatizzazione dei beni collettivi. Il keynesismo e la peculiare attenzione riposta alla redistribuzione delle risorse a esso collegato è stato gradualmente sostituito dal ritorno all’approccio neoclassico che assume i valori dell’impresa e dell’accumulazione come valori fondanti dell’attività di regolazione politico-istituzionale.Tuttavia, l’approccio neoclassico si è rivelato inefficace proprio nello specifico ambito economico poiché, a fronte dell’acuirsi degli effetti negativi prodotti dal rapido susseguirsi di cicli economici espansivi e recessivi, non ha saputo preservare il tessuto economico, attraverso la previsione di strumenti funzionali alla crescita della competitività delle specializzazioni produttive nazionali. La flessibilità sostenibile e contrattata richiede un investimento di prospettiva che spesso le singole imprese non riescono ad affrontare a causa di vincoli di bilancio collegati alla struttura produttiva che impongono strategie di breve-medio termine ma anche per fattori culturali che inducono a limitare gli investimenti sul capitale umano. In tale direzione, la progressiva erosione delle protezioni accordate al lavoro e all’occupazione non aiuta né i lavoratori né la struttura produttiva: ai primi impone l’instabilità delle condizioni materiali di vita, alla seconda pregiudica quegli investimenti funzionali ad aumentare la specializzazione. Il superamento dell’impasse può derivare proprio dall’istituzione del reddito di cittadinanza poiché in linea con quanto previsto dalla Strategia di Lisbona in tema di politica sociale con particolare riferimento alle azioni che l’Unione Europea sostiene per la promozione dell’occupazione e il generale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro20. L’esplicito riferimento contenuto nel Trattato è alle azioni di sviluppo di politiche di protezione dei lavoratori nell’ambito: del miglioramento dell’ambiente di lavoro e delle condizioni generali di svolgimento dell’attività lavorativa; della sicurezza e della protezione sociale dei lavoratori; della protezione in caso di risoluzione del contratto di lavoro; dell’informazione e della consultazione dei lavoratori; della rappresentanza e della difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro; delle condizioni d’impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell’Unione; dell’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro; della parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro e il trattamento sul lavoro; della lotta contro l’esclusione sociale; della modernizzazione dei regimi di protezione dell’impiego.In tutta Europa, con diversi approcci e gradualità, il dibattito in tema di politiche del lavoro si è arrancato sul trade off tra la protezione accordata on the job e la tutela in the market. La questione assume un connotato residuale se si considera la rilevante espansione del contratto di lavoro a tempo determinato e di tutte quelle forme occupazionali intermittenti. Si tratta di una trasformazione che, con diversa intensità e diffusione, ha già, di fatto, spostato il rischio legato al contenuto assicurativo del rapporto dalle imprese ai lavoratori. In tale direzione, le politiche del lavoro convergenti sulle strategie di inserimento lavorativo (workfare), attraverso i meccanismi di controllo e le sanzioni previste, hanno sostenuto la responsabilizzazione dell’offerta di lavoro mentre, invece, proprio l’espansione della

20 Cfr. Titolo X della Versione consolidata del trattato sull'Unione europea e del trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

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precarietà occupazionale ha deresponsabilizzato la domanda di lavoro che ha potuto ridurre i rischi assicurativi del rapporto di lavoro facendoli gravare sulla spesa sociale.Sotto un altro profilo anche la tradizionale divisione tra politiche attive e politiche passive del lavoro appare superata: l’analisi dei soggetti ai quali poi sono destinate le risorse pubbliche svela in realtà che molte misure, attive e passive, rappresentano degli incentivi indiretti ai sistemi locali piuttosto che degli strumenti di miglioramento delle condizioni, a titolo individuale e collettivo, di svolgimento della prestazione lavorativa.21 In un’ottica di superamento degli strumenti di politica attiva e passiva del lavoro, l’istituto del reddito di base potrebbe favorire l’ottimizzazione della ricerca di lavoro: l’erogazione prevista aumenterebbe le possibilità di una ricollocazione occupazionale più efficiente, poiché permetterebbe che la domanda di lavoro fosse valutata conseguentemente alle competenze e alle aspettative possedute, evitando, quindi, di dover accelerare la ricerca a causa di vincoli reddituali, legati all’approssimarsi della scadenza del termine di erogazione di altre forme di integrazione del reddito o di prestazione assistenziale.Tra le obiezioni più diffuse all’istituzione del reddito di base vi è appunto quella che corrobora una maggiore sostenibilità sociale dei sussidi di disoccupazione, per il sistema di controlli e sanzioni che ne accompagnano l’erogazione, ma anche per la legittimazione dello stato sociale. In realtà, diversi studi hanno dimostrato un potenziale effetto discriminatorio collegato al sussidio di disoccupazione: la permanenza nello stato di disoccupazione per lunghi periodi o in termini ripetuti aumenterebbe il rischio di discriminazione salariale e di segregazione occupazionale,22 con il rischio, come già evidenziato nel caso italiano, dell’aumento dell’inoccupazione e dell’incidenza dei lavoratori scoraggiati. Occorre poi evidenziare che il reddito di base, benché indicizzato al salario minimo interprofessionale, sia un istituto a sé e prescinda, quindi, dall’esame della posizione contributiva e occupazionale. In tale direzione, non è possibile considerare l’istituto del reddito di base come sostitutivo delle prestazioni sociali e assistenziali. Tutt’altro: esso ne integra il valore, economico e sociale, attraverso la promozione della capacità di attivazione della persona. Nei casi ove l’istituto del reddito di base concorra a sanare i rischi connessi alla ricollocazione lavorativa dopo la permanenza nello stato di disoccupazione è evidente che esso per la persona può rappresentare uno strumento per accrescere la propria dotazione di competenze e risultare, quindi, di estremo aiuto all’acquisto di una maggiore autonomia dall’intervento assistenziale e sociale fornito dallo stato. Supiot (1999, p. 192) sottolinea che “per essere efficiente, la flessibilità deve fondarsi sulla sicurezza degli individui. Per essere efficiente, la politica del lavoro in un contesto d’incertezza deve fondarsi su una convenzione di fiducia tra datore di lavoro e lavoratori. Ora, non si da fiducia senza che venga riconosciuta al singolo la reale libertà d’azione, ovvero senza una libertà che abbia a disposizione i mezzi per rendersi effettiva. Ciò che vale per un l’imprenditore (garanzia della proprietà dei suoi beni, libertà di gestione) vale anche per i lavoratori (garanzia di sviluppo del capitale umano, libertà effettiva di azione) in un contesto di flessibilità nell’incertezza”. Questa considerazione impone, perciò, una riflessione sulla necessità di riconsiderare il tema dell’obbligo sociale e la stessa strutturazione delle politiche sociali e del lavoro. L’introduzione del reddito di base senza la previsione di misure condizionanti all’inserimento lavorativo permette, inoltre, di operare una forte integrazione tra le politiche sociali e le politiche del lavoro e di ridurre, quindi, l’inefficace distinzione che divide le politiche attive e quelle passive. 21 Il riferimento è al caso italiano: i sussidi di disoccupazione a requisiti ridotti erogati ai lavoratori occupati nei settori ad elevata stagionalità, come quello turistico, e in parte quello edile e agricolo, hanno contribuito a ridurre gli effetti negativi dovuti alla sospensione lavorativa, senza però la previsione di alcuna ricaduta positiva sulla qualificazione della domanda e dell’offerta di lavoro. Si veda la nota n. 4.22 Cfr. Blanchard, O., Tirole, J. (2004).

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3.6 Partecipazione e cittadinanza

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, nelle società occidentali si è progressivamente affermato un modello di sviluppo basato sulla polarizzazione delle condizioni materiali di vita. Tale polarizzazione è, principalmente, imputabile a difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro e nel mantenimento dello status occupazionale e, più in generale, nell’acquisizione di risorse materiali e immateriali funzionali a garantire stabili condizioni di vita. Lo squilibrio che si è prodotto grava in misura maggiore su giovani, donne, migranti e su soggetti con basse qualifiche professionali ma anche su molte persone che si trovano ad affrontare particolari fasi di vita che presuppongono la sospensione o la cessazione dell’attività lavorativa. La polarizzazione esistente è stata assunta come elemento oggettivo, esito naturale dell’impiego di mezzi scarsi da destinare a usi alternativi, necessariamente caratterizzata da un’elevata flessibilizzazione delle condizioni di lavoro e dall’insicurezza sociale che il susseguirsi rapido di cicli economici espansivi e recessivi produce. Elementi, questi, che hanno generato degli effetti divergenti: da un lato il progressivo abbassamento delle tutele previste nei regimi di welfare corrode le possibilità d’intervento da parte istituzionale nello sviluppo delle capacità personali, dall’altro proprio tale ripiego delle istituzioni accentua lo stato di dipendenza di molti dalle prestazioni assistenziali. E’ possibile sostenere che proprio la strutturazione di un sistema di sussidi e indennità, condizionati dall’appartenenza a uno status o dall’attivazione individuale per il reinserimento occupazionale, abbia notevolmente mitigato lo sviluppo delle possibilità di scelta autonoma e di emancipazione dei soggetti. I risultati prodotti sono stati: l’aumento del turn over occupazionale e il conseguente indebolimento delle competenze professionali e il sostanziale impoverimento delle condizioni materiali di vita. La scarsa rilevanza delle politiche di attivazione delle capacità personali ha, così, aumentato il rischio di scoraggiamento degli individui poiché maggiore è l’incertezza riguardo alle competenze acquisite e ha notevolmente contribuito a eludere la necessità di fronteggiare il dumping sociale prodotto dall’allargamento delle reti di divisione internazionale del lavoro. In tale direzione, proprio l’accresciuta competizione tra diverse aree mondiali sulla base del minor costo del lavoro piuttosto che sull’aumento della specializzazione produttiva, ha, di fatto, prodotto una crescente flessibilizzazione delle condizioni di lavoro e una più generale provvisorietà delle condizioni materiali di vita, al punto da minare la giustizia sociale sulla quale poggia l’idea di cittadinanza. Il rapido incedere dei cicli economici ha, così, finito per rappresentare la principale giustificazione che molti governi hanno usato per motivare l’implementazione di politiche economiche e sociali di fase, rinunciando a sviluppare, invece, delle strategie collegate al ciclo di vita delle persone. Quest’orientamento non ha agito sulla riduzione delle disuguaglianze strutturali e nemmeno ha esteso e rafforzato il consenso politico degli individui verso le istituzioni, anzi, esso ha agito proprio in senso contrario. Nella fase attuale la regolazione operata dai singoli governi nazionali sembra incapace di ridurre la polarizzazione presente, con il risultato di accentuare: la disoccupazione e il numero dei lavoratori impoveriti, la deriva verso i salari di sussistenza, la crisi fiscale dello stato e i limiti alla produzione di beni collettivi. Tale condizione restringe notevolmente i margini di definizione dello spazio regolativo assegnato alla politica e aumenta, invece, il campo di strutturazione dello scambio di mercato, con l’effetto di accrescere la dipendenza delle condizioni presenti e delle prospettive di vita delle persone dai cicli economici. Si tratta di una questione ancora aperta circa gli esiti delle trasformazioni che hanno interessato i regimi di welfare europei.

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Il principio di giustizia sociale che ha sostenuto l’espansione dello stato sociale muoveva dall’obiettivo di riduzione delle disuguaglianze, specie di quelle collegate alla condizione lavorativa, non riconducibili solamente al reddito ma al potere di disporre della ricchezza sociale che questa condizione genera (De Leonardis 2002). La questione ancora cruciale è collegata alla redistribuzione del potere di scelta individuale e alle garanzie collettive di fruizione delle condizioni di riproduzione sociale. In questa direzione, le trasformazioni del welfare state muovono tutte dal dibattito sulla redistribuzione delle risorse e sulle conseguenze che tale processo ha nell’estensione o nella riduzione dei diritti di cittadinanza. L’affermazione dei diritti è, invece, stata progressivamente soppiantata dal richiamo al rapporto tra costi e benefici monetari. Tuttavia, la coesione sociale è un prodotto relazionale che si fonda sull’estensione dei diritti di cittadinanza ma proprio perché è frutto di un processo, essa subisce una continua ridefinizione che alterna inclusione ed esclusione, senza che ci sia la possibilità di eludere la dimensione conflittuale che sostiene la loro affermazione. Il confinamento dei diritti di cittadinanza entro una caratterizzazione formalistica riconducibile allo status giuridico definito dallo Stato nazionale ha fortemente limitato le prospettive di espansione di tali diritti (Zolo 2007). In Europa, lo sviluppo dello status sociale di cittadino è un terreno sul quale si stanno consumando le lotte per il riconoscimento da parte di persone provenienti da altre aree continentali. Si tratta di un processo che mina la concezione formalistica della cittadinanza e che impone un ripensamento dello stesso significato di “appartenenza collettiva”; quest’ultima è, infatti, sempre più equidistante dallo Stato-nazione ma anche dalla cosiddetta società globale (Sassen 2008). Quali le prospettive di evoluzione? Zolo (2007) sostiene che l’affermazione della cittadinanza si è sostanziata in termini progressivamente escludenti, al punto di poter suffragare l’ipotesi di “un’effettività decrescente del riconoscimento dei diritti soggettivi” che “al riconoscimento sempre più ampio della titolarità formale (entitlement) di nuove categorie di diritti ha contrapposto un’effettività decrescente del loro godimento (endowment) da parte dei cittadini” (Zolo 2007. p. 79). L’aumento delle disuguaglianze e gli alti costi sociali ed economici generati portano a considerare ineludibile la necessità di ripensare le condizioni dello sviluppo, in una prospettiva che aumenti la coesione sociale e favorisca effettive pari opportunità di scelta tra molteplici possibilità di vita. Un’idea di cittadinanza da considerare sia diritto di fruire delle risorse collettive sia dovere di partecipare alla loro espansione rappresenta ancora oggi una tensione inderogabile. I diritti di cittadinanza altro non sono che beni comuni di natura collettiva; è la loro caratterizzazione pubblica che ne giustifica la difesa e l’estensione non, invece, il presupposto della sussistenza della titolarità su base individuale.

3.7 Le obiezioni al reddito di base e la valorizzazione della persona: quale investimento? La maggiore obiezione rivolta all’istituzione del reddito di base è riconducibile all’effetto scoraggiamento che tale strumento produrrebbe tra la popolazione in età lavorativa, al punto da preferire l’uscita dal mercato del lavoro o la sospensione ad libitum dell’attività lavorativa. Lo scenario rappresentato non potrebbe che destare preoccupazione, per l’aggravio che ne verrebbe alla spesa pubblica. A questa prima obiezione è possibile replicare evidenziando che certamente la produzione di valore non è rintracciabile esclusivamente nello scambio di mercato. Polanyi (1944, 1974), Sen (1992) e Nussbaum (1993), rilevano che molta produzione di valore è rintracciabile in processi di scambio di reciprocità che hanno una struttura asimmetrica, ove la produzione di valore è collegata all’aumento del benessere relazionale e all’acquisto di capacità piuttosto che all’aumento della disponibilità di beni materiali o all’acquisizione di status sociale. Per tali ragioni l’uscita transitoria o definitiva dal mercato del lavoro non si traduce nel passaggio dall’occupazione all’inattività, poiché il fine verso il quale proiettare l’erogazione del reddito di base non è la mera dotazione di risorse,

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ma l’opportunità per la persona di emancipazione dallo stato di bisogno e quindi di progressiva autonomia. La disponibilità reddituale rappresenta una precondizione per la partecipazione attiva della cittadinanza allo spazio politico, sociale, lavorativo. Tale reddito, evidenzia Sordini (2006), per produrre l’acquisto delle capacità indispensabili per lo svolgimento delle funzioni vitali non può essere assistenziale (reddito di ultima istanza) e nemmeno condizionato (reddito di reinserimento) pena la rottura del patto fiduciario tra stato e cittadini. Molte critiche avanzate al reddito di base sono riconducibili alla preoccupazione di alimentare l’inattività dei beneficiari in età lavorativa. Occorre, però, chiedersi quali persone in una società basata su un’economia della conoscenza sviluppata e su effettive opportunità di valorizzazione delle competenze dipenderebbero dalle risorse redistribuite attraverso il reddito di base. “La risposta è semplice: non chi ha troppe risorse senza fare nulla, ma chi ne ha troppo poche (culturali, simboliche, relazionali, e dunque anche economiche)” (Sordini 2006, p. 26). In questa direzione le politiche di attivazione non dovrebbero né togliere i diritti disponibili, né vincolare i soggetti che li fruiscono. E’ in questo senso che il reddito di base diventa uno strumento che supera la logica della differenziazione di trattamento prodotta dalla frammentazione delle prestazioni di sostegno al reddito. Raventos (2007, p. 181) sottolinea che immaginare che il reddito di base incoraggi la cultura della dipendenza e il parassitismo equivale a pensare che la psicologia umana si adegui alla mancanza di stimoli. Si tratta di una rappresentazione che contrasta, appunto, con la numerosità dei soggetti impegnati in attività di volontariato non remunerate. Vale la pena di prendere brevemente in considerazione anche altre sei critiche e obiezioni.

3.7.1 La produzione di beni collettivi e l’autonomia soggettiva

Una critica mossa al reddito di base è riconducibile all’idea che l’estraneità dell’istituto a vincoli di mercato e alla previsione di corrispettivi e di sanzioni a essi collegati, non produca alcun valore per la persona né per la collettività, poiché l’autonomia soggettiva, da sola, non risolve il problema della produzione dei beni collettivi. A questa obiezione è possibile rispondere che la produzione di beni collettivi può essere sostenuta e orientata dall’attore istituzionale ma non si darebbe senza il sostanziale apporto di alterità dialoganti. Senza questo apporto non si da appartenenza e senza appartenenza vengono a mancare gli elementi costitutivi della solidarietà. Sull’idea di appartenenza e di solidarietà si fonda la costruzione dell’identità collettiva che, a prescindere dagli elementi valoriali che la compongono, costituisce il riferimento principale per lo sviluppo dell’identità individuale. Senza questo riferimento la deriva più prossima è rappresentata dall’atomizzazione sociale o, come succede nel caso italiano, dall’accentuazione di fenomeni familistici e clientelari. Porre i diritti soggettivi al centro delle politiche economiche e sociali costituisce, dunque, un elemento irrinunciabile per l’emancipazione della persona dallo stato di dipendenza e per finalizzare la redistribuzione delle risorse a usi più compatibili con l’idea di giustizia sociale.

3.7.2 Gli effetti del reddito di base nella dualizzazione del mercato del lavoro

Il reddito di base è criticato poiché aumenterebbe la distanza sociale tra i lavoratori occupati con contratti a tempo indeterminato ben remunerati e i lavoratori che vivono una permanente condizione di precarietà che alterna lavoro e non lavoro e che percepiscono dei trattamenti salariali vicini alla soglia di sussistenza. Questa dualizzazione, certamente presente, sostiene Raventos (2007, pp. 184-185) è riconducibile alla combinazione di fattori collegati alla

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legislazione lavorativa, all’aumento della disoccupazione e alle nuove tecnologie. In questa direzione, sottolinea Raventos, semmai il reddito di base ha la funzione di aumentare le chance occupazionali e formative e gli aumenti salariali a queste collegate: esso, quindi, è funzionale alla riduzione della dualizzazione presente poiché accresce le opportunità di scelta degli individui.

3.7.3 Il reddito di base e lo schema tradizionale dei rapporti di lavoro retribuito

L’istituzione del reddito di base è criticata poiché allontanerebbe i soggetti in età lavorativa dal tradizionale schema di partecipazione al mercato del lavoro, pregiudicando il valore inclusivo dell’attività lavorativa, così come si è delineato a sottoposta ai vincoli contrattuali previsti nei diversi ordinamenti giuridici. Altre critiche partono dal presupposto che solamente l’inserimento nel mercato del lavoro possa ridurre la povertà. In realtà gli assunti che muovono questa obiezione sono criticabili proprio a partire dalla verifica che l’inclusione sociale è un prodotto di una pluralità di fattori, non necessariamente riconducibili al lavoro contrattualizzato (Raventos 2007, pp. 188-189). Inoltre, anche la riduzione della povertà è spesso dissociata dall’inserimento formale nel mercato del lavoro: il fenomeno dei lavoratori impoveriti dimostra che il peggioramento delle condizioni materiali di vita coesiste con la diffusione del lavoro regolato e contrattualmente remunerato;

3.7.4 Il reddito di base e la divisione del lavoro sulla base del genere

Il riconoscimento del valore del lavoro di cura e di riproduzione sociale è tra i fattori più rilevanti per la riduzione delle disparità tra i generi (Raventos 2007, pp. 182-183). La previsione di questo strumento detiene un valore abilitante per le donne occupate nel lavoro di cura poiché riconosce loro un ruolo sociale, scollegato dall’inserimento nel mercato del lavoro. Le principali obiezioni sono riconducibili all’effetto che l’erogazione del reddito di base potrebbe avere nell’ulteriore riduzione della partecipazione femminile al mercato del lavoro: in realtà, esso va più interpretato come uno strumento di riconoscimento del valore del lavoro di cura, che come un’erogazione che rappresenta un impedimento alla piena partecipazione al mercato del lavoro retribuito.

3.7.5 L’insostenibilità dei costi del reddito di base

Raventos (2007, pp. 191-192) sottolinea che, nei fatti, tutte le misure economiche soddisfano alcuni gruppi sociali e ne lasciano insoddisfatti altri. La questione della sostenibilità finanziaria del reddito di base è strettamente collegata alla posizione che la riduzione delle disuguaglianze occupa nell’agenda dei governi nazionali. L’introduzione del reddito di base, alla pari di altre misure e interventi messi in atto dai governi, è una scelta politica. In questa direzione la tensione tra diversi gruppi sociali è inevitabile, ma solo l’uscita dalle politiche della contingenza può contribuire a trasformare positivamente i conflitti: il richiamo ai costi di mantenimento del sistema non offre alcuna prospettiva di regolazione politica.

3.7.6 La consistenza del reddito di base

L’efficacia dello strumento dipende dalla sua generosità / scarsità. Nel caso di una misura pari al 50% della soglia di povertà (Raventos 2007, p. 196) i benefici collegati all’istituzione del reddito di base non possono essere raggiunti. E’ possibile, comunque, ipotizzare che un parziale reddito di base sostenga l’avvio della sua introduzione piena nel corso del tempo.

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4. IL POSSIBILE IMPATTO DI MISURE DI REDDITO DI BASE SULLA PRECARIETA’ DEI GIOVANI

Insieme, e forse più di altre misure di welfare, il reddito di cittadinanza appare uno strumento in grado di incidere su una condizione strutturale particolarmente critica delle società europee che investe la condizione giovanile. I giovani, infatti, oggi vedono gradualmente crescere la propria precarietà lavorativa e i propri rischi di esclusione sociale e, invece di fare da traino per la società, finiscono per esserne una delle parti più deboli.Per fronteggiare tali difficoltà strutturali, sono stati adottati e proposti diversi interventi, spesso specifici per i giovani, allo scopo di coniugare “attivazione” e protezione sociale.Tali misure oscillano da iniziative più stigmatizzanti e marginalizzanti a interventi e proposte che mirano a valorizzare capacità e percorsi formativi e a ri-attivare così la partecipazione, in senso ampio, dei giovani nella società. Dopo averli variamente sperimentati, gli interventi che si basano su caratteristiche di condizionalità, e quindi di mancanza di “fiducia” rispetto alla capacità decisionale dei giovani, mostrano tutti i loro limiti, in particolare nei confronti dei segmenti più svantaggiati della popolazione. Al contrario, misure quali il reddito di cittadinanza che mettono al centro caratteristiche di universalità e incondizionalità, appaiono in grado di aprire ai giovani spazi di interlocuzione più a lungo termine con i processi formativi e le politiche del lavoro e sembrano avere un maggiore potenziale di attivazione delle componenti motivazionali e, in ultima istanza, di una piena cittadinanza e partecipazione.Tale scenario rimane, per lo più, da verificare, soprattutto in quei paesi dell’Unione Europea in cui sono state introdotte misure di reddito di base, fissando un limite di età (per esempio 21 anni in Irlanda, 23 nei Paesi Baschi o 25 in Francia), che esclude proprio una parte importante della componente giovanile e, in modo ancora più evidente, nei paesi come l’Italia dove non esiste alcuna misura di reddito di base.

4.1. La lunga transizione dei giovani all’età adulta.

Le diverse tappe che “tradizionalmente” contrassegnano il passaggio dalla condizione di giovane23 a quella di adulto, vale a dire l’accesso ad un lavoro in grado di garantire un reddito sufficiente, l’allontanamento dalla casa dei genitori e la creazione di una nuova famiglia, sono via via più complesse, più gravose e maggiormente contrassegnate da rischi (Aassve e Davia. 2005, Bradley e Van Hoof 2005, Coijn e Klijzin 2001).Oggi infatti si assiste sempre di più ad un accavallamento delle sequenze della vita: si può essere contemporaneamente studente e avere responsabilità familiari, essere lavoratore o alla ricerca di un lavoro, vivere o no presso i genitori e il passaggio dentro e fuori da tali condizioni è sempre più frequente. Assistiamo ad una continua oscillazione tra autonomia e dipendenza, gioventù e adultità, con un movimento simile ad uno yò-yò (Walther e Pohl 2005). L’unica certezza di questo processo di de-standardizzazione dei percorsi di vita è che i giovani sono mediamente più avanti con gli anni allorché superano le diverse tappe della vita.

23 La definizione di 'giovane' è socialmente costruita e varia profondamente al mutare dei contesti. Nel corso di questo capitolo ci riferiamo ad un concetto sociologico di gioventù, vale a dire a quella fase di transizione, tra l'infanzia e l'adultità, che riguarda soprattutto la sfera della casa, del lavoro e della famiglia. I dati statistici impiegati, quando non diversamente indicato, fanno riferimento alla definizione convenzionalmente accettata di giovane, cioè i soggetti da 15 a 24 anni, definizione utilizzata dall'ONU e dall'UNICEF e ripresa dall'Unione Europea. Va segnalato comunque che enti di ricerca quali Eurostat adottano anche la fascia d’età 16-29 anni e organismi come il Consiglio d’Europa aprono alcuni programmi destinati ai giovani ai soggetti che hanno compiuto il 35° anno d’età.

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In altre parole siamo di fronte ad un più tardivo processo di autonomia e responsabilità giovanile.Se il trend appare simile in tutta Europa (Corijn e Klijzing 2001), le specificità nazionali rimangono comunque significative. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che, a partire dagli anni ‘50, molti paesi europei hanno creato una rete estensiva di welfare rivolto, tra le altre cose, a sostenere i giovani in condizioni economiche più precarie nell’assunzione di ruoli adulti responsabili, come per esempio la formazione di nuove famiglie (ibidem). Questo vale soprattutto per i paesi del Nord Europa e per alcuni paesi come la Francia e i Paesi Bassi, che hanno introdotto diverse misure di sostegno del reddito (cfr. 4.4.2). Nei paesi mediterranei come l’Italia, invece, quasi nulla è previsto in favore di soggetti giovani, magari in cerca di prima occupazione o che hanno lavorato saltuariamente. Infatti le risorse di welfare che l’Italia mette in gioco sono destinate, per circa il 90%, alle categorie degli anziani e dei disabili (nel 2003, il 47% della spesa per assistenza sociale ha finanziato un’unica misura: le pensioni di invalidità civile – Regione Lazio 2006). Come hanno sottolineato recentemente Livi Bacci e De Santis (2007), bassa è la spesa sociale a favore della disoccupazione (2% del totale della spesa sociale in Italia, contro il 6,5% in Europa), quella per le famiglie con figli (4% contro l’8% in Europa), quella per la casa (0,1% in Italia e 2% in Europa) e, in generale, quella per l’esclusione sociale (0,2% contro 1,5%)24.In Italia supportare i giovani nella transizione all’età adulta è tradizionalmente considerata una questione famigliare e non una responsabilità anche collettiva25 (Kieselbach et al. 2006). Non a caso i pochi interventi di welfare state che supportano i giovani sono gli assegni famigliari che vengono di fatto erogati alle famiglie.I limiti di un modello che attribuisce un ruolo così fondamentale alle famiglie emergono in modo ancora più palese in una situazione di particolare difficoltà come quella attuale (cfr. 4.2.): il fatto che la sicurezza del reddito è troppo spesso dipendente dalla famiglia d’origine, infatti, fa sì che le condizioni socio-economiche di partenza diventino sempre più un decisivo fattore di protezione o di vulnerabilità sociale (ibidem). Proprio per questo si moltiplicano coloro che invitano i governi del Sud Europa ad assumere maggiori responsabilità nei confronti della difficile transizione giovanile.Due dei principali indicatori di questa specifica difficoltà dei giovani italiani sono rappresentati dall’allungamento del periodo di vita con i genitori e dal basso tasso di natalità. Il periodo di vita con i genitori si sta in media allungando in tutta Europa (Corijn e Klijzing 2001), anche a causa della crescente precarietà economica dei giovani. In Italia, però, questa dinamica è ‘da sempre’ molto più significativa, in quanto è dovuta ad uno specifico intreccio tra fattori socio-culturali (tra i quali emerge appunto la centralità della famiglia d’origine) e l’incapacità del sistema di welfare di fornire una qualche forma di protezione (Aassve et al. 2007).A questo proposito è sufficiente considerare che l’età media alla quale almeno il 50% dei giovani (18-35 anni) non vive più con i propri genitori è per le donne italiane di 27,1 e per gli uomini addirittura di 29,7 anni (Iacovou 2002). Valori decisamente superiori a quelli registrati negli altri paesi mediterranei (es. in Spagna rispettivamente 26,6 per le donne e 28,4 per gli uomini), e soprattutto rispetto a quelli dei paesi dell’Europa continentale (es. Francia 22,2 e 24,1) e dell’Europa del Nord (Danimarca 20,3 e 21,4 - cfr. tab. 2).

Tab. 2 - Età media alla quale almeno il 50% dei giovani non vive più con i propri genitori

24 Per la quota di case in affitto, i dati fanno riferimento al censimento della popolazione e delle abitazioni 2001; per la distribuzione per funzioni della spesa sociale in Italia e in Europa, a Eurostat (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/)25 Per riprendere la classica distinzione di Titmuss (1958) tra welfare state residuale e istituzionale, possiamo dire che quello italiano è residuale in quanto interviene solo quando viene meno la famiglia o il mercato.

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Paese Donne UominiDanimarca 20.3 21.4Finlandia 20.0 21.9

Paesi Bassi 21.2 23.3Regno Unito 21.2 23.5

Francia 22.2 24.1Germania 21.6 24.8

Belgio 23.8 25.8Austria 23.4 27.2Irlanda 25.2 26.3

Portogallo 25.2 28.0Spagna 26.6 28.4Grecia 22.9 28.2Italia 27.1 29.7

Fonte: elaborazione dati ECHP.

Il secondo indicatore di una crescente difficoltà dei giovani italiani riguarda il tasso di natalità. Anche in questo caso a livello europeo assistiamo ad un trend di crescita progressiva dell’età media in cui si ha il primo figlio. Ma in Italia si raggiungono livelli più significativi, tra i più alti del mondo. Più precisamente, secondo i recenti dati Eurostat (2009a), il tasso di natalità italiano è il terzo più basso di tutta Europa (UE 27), seguito solo da Austria e Germania (cfr. tab. 3).

Tab. 3 – Tasso di natalità nei paesi europei (2008)

Tasso di natalità 2008Irlanda 16.9Francia 13.0Regno Unito 12.9Estonia 12.0Svezia 11.9Danimarca 11.8Belgio 11.7Cipro 11.6Repubblica Ceca 11.5Lussemburgo 11.5Spagna 11.4Paesi Bassi 11.2Finlandia 11.2Polonia 10.9Slovacchia 10.6Lettonia 10.6Slovenia 10.5Lituania 10.4Romania 10.3Grecia 10.3Bulgaria 10.2Malta 10.0Ungheria 9.9Portogallo 9.8Italia 9.6Austria 9.3

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Germania 8.2EU 27 10.9Euro Area (EA 16) 10.5Fonte: Eurostat 2009a.

Un aspetto fondamentale da mettere in evidenza è che esiste una correlazione diretta tra politiche di sostegno al reddito e livelli di natalità generale. Infatti, come è stato recentemente mostrato (Aassve e Davia 2005), la grande differenza tra i paesi europei è determinata dal fatto che, grazie alla ricchezza delle misure di sostegno del reddito e per la cura dei figli, nei paesi del Nord Europa, ma anche in Francia, il fatto di avere figli non espone a maggiori rischi di povertà mentre ciò accade in maniera molto più significativa nei paesi mediterranei, come l’Italia.

4.2. La precarietà lavorativa dei giovani

La ritardata autonomia abitativa e l’abbassamento dei tassi di natalità sono certamente in parte il frutto di una differenziazione dei percorsi di vita che ha messo in discussione aspettative sociali e norme tradizionali (Corijn e Klijzing 2001). Ma, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, queste dinamiche sono soprattutto il frutto di una crescente insicurezza economica. Uno dei principali indicatori delle difficoltà economiche dei giovani è rappresentato innanzitutto dall’incidenza percentuale relativamente più alta di giovani che svolge i cosiddetti lavori atipici. In tutta Europa (e in tutto il mondo occidentale), infatti, abbiamo assistito ad una crescente deregolamentazione del mercato del lavoro, sia in entrata (ne sono un esempio i ‘lavori per studenti” in Slovenia, i “contratti di collaborazione a progetto” in Italia e il proliferare di contratti a termine in Finlandia e Spagna), che in uscita (soprattutto in Danimarca e nel Regno Unito - cfr. Walther e Pohl 2005). Questa crescente deregolamentazione ha portato alla creazione di un segmento del mercato del lavoro, sempre più ampio (e quindi in realtà sempre meno “atipico”) caratterizzato da un basso livello di tutele contrattuali e di protezione sociale. Tale trasformazione non ha inciso, però, con la stessa intensità su tutti i gruppi sociali ma ha riguardato soprattutto alcune categorie, una delle quali è rappresentata proprio dai giovani. Secondo i dati Eurofond (2008) riferiti al 2006, la percentuale di giovani europei con un contratto di lavoro temporaneo26 è del 40,5% contro percentuali tra i lavoratori adulti che vanno dal 12,1% (25-49 anni) al 6,9% (50-64 anni). E ancora più significativo è il trend di crescita. Infatti se prendiamo in considerazione il quinquennio 2001-2006, possiamo notare che la quota di lavoratori con un contratto a termine tra i giovani è aumentata di quasi di cinque punti percentuali (4,6%), mentre tra coloro che hanno un’età compresa tra 25 e 49 anni è cresciuta del 2,1% e tra gli over 50 dell’0,50%. Quindi la forbice tende ad allargarsi sempre di più e, perciò, la quota di giovani, tra i cosiddetti lavoratori precari, tende a crescere.Per quanto riguarda l’Italia, una recente ricerca ISFOL (Mandrone 2008a) ha evidenziato come è impiegato in lavori flessibili ben un giovane su tre e ha addirittura mostrato come la condizione giovanile rappresenti nettamente il principale fattore di esposizione alla precarietà lavorativa: essa incide in maniera molto più significativa di altri fattori pur importanti come il fatto di essere donna, di essere laureato, di vivere nel Sud Italia e di lavorare in imprese di piccole dimensioni (con un numero di addetti da quattro a dieci).26 Generalmente vengono considerati atipici i lavori a tempo determinato. Come ha recentemente evidenziato l'ISFOL (Mandrone 2008b), questa categorizzazione non è priva di ambiguità anche perché per esempio in Italia occorrerebbe aggiungere a questo gruppo anche un numero consistente di lavoratori autonomi che in realtà sono veri e propri lavoratori dipendenti a termine, in quanto, per esempio, come ha mostrato la stessa ricerca, ben l’81% dei lavoratori con contratti di collaborazione a progetto, non hanno scelto questo tipo di contratto.

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Nella stessa ricerca ISFOL (ibidem) ha mostrato, inoltre, che tale precarietà lavorativa è solo raramente l’anticamera di una progressiva entrata nel mercato del lavoro standard perché la scelta di forme contrattuali più flessibili non è dovuta tanto a esigenze contingenti legate al ciclo economico ma alla volontà di ridurre il costo del lavoro e di aumentare le possibilità di licenziamento. Non a caso ben il 74,1% dei soggetti intervistati che ha un contratto di lavoro a termine giudica bassa o nulla la possibilità che, alla scadenza del contratto, questo venga trasformato in contratto a tempo indeterminato. Dunque tale fenomeno contribuisce a creare un mercato sempre più duale con lavoratori che condividono la stessa mansione ma hanno diverse tutele e diversi diritti. Come è stato registrato anche da un recente sondaggio Eurispes (2005), la precarietà lavorativa dei giovani incide profondamente sulle loro capacità reddituali: infatti ben il 65,9% dei giovani intervistati (18-35 anni) afferma di essere poco (30,5%) o per nulla soddisfatto (35,4%) del compenso economico del proprio lavoro. Inoltre una parte minoritaria ma comunque significativa di giovani (15,5%) lamenta persino l’irregolarità nel pagamento. Un’altra conferma di ciò viene dall’indagine sui redditi delle famiglie condotta dalla Banca d’Italia che ha sottolineato come se «alla fine degli anni Ottanta le retribuzioni nette medie mensili degli uomini tra i 19 e i 30 anni erano del 20% più basse di quelle degli uomini tra i 31 e i 60 anni; nel 2004 tale differenza era salita al 35%» (Rosolia e Torrini 2007).Un secondo indicatore della precarietà lavorativa dei giovani è rappresentato dal problematico collegamento tra percorsi formativi e offerta di lavoro (il cosiddetto labour mismatch) che si traduce, tra le altre cose, in tassi di disoccupazione giovanile mediamente molto più alti di quelli complessivi. Infatti secondo Eurostat (2009b), al secondo trimestre 2008, il tasso di disoccupazione giovanile (15%) era ben più che doppio rispetto a quello degli over 25 (5,8%)La precarietà lavorativa dei giovani comporta, tra le altre cose, che essi siano maggiormente esposti a situazioni di crisi come quella attuale. Non a caso, dal secondo trimestre 2008 al secondo trimestre 2009, sempre secondo i dati Eurostat, il tasso di disoccupazione giovanile è passato dal 15% al 19,7%, salendo cioè del 4,7%; crescita decisamente superiore a quella registrata tra gli over 25 (+1,7%) il cui tasso di disoccupazione è passato nello stesso periodo dal 5,8% al 7,5%. Sono cioè i giovani più degli altri “a pagare le conseguenze di percorsi di inserimento lavorativo attuati attraverso strumenti contrattuali flessibili - scarsamente tutelanti in caso di disoccupazione - che con rapidità riflettono gli andamenti congiunturali” (Veneto Lavoro 2009, p. 51). Le difficoltà dei giovani ad inserirsi nel mondo del lavoro derivano in gran parte dal fatto che sia il sistema formativo che il mercato lavorativo non sono supportati e stimolati a valorizzare le “capacità” dei giovani (Sen, 2002). Questo vale ancora una volta in maniera particolarmente significativa per l’Italia, dove in primis la domanda di lavoro è in gran parte caratterizzata da occupazioni scarsamente qualificate27: basti pensare che nel 2004 solo per il 18% delle nuove assunzioni è stato richiesto un diploma di laurea (Kazepov et al. 2005). E spesso sono proprio le aree più dinamiche del Paese, come per esempio la cosiddetta Terza Italia (tra cui il Veneto), ad essere caratterizzate da produzioni ad alta intensità di lavoro manuale e da un’elevata domanda di lavoro flessibile. Anche il sistema di istruzione e di formazione non sembra in grado di valorizzare adeguatamente le capacità giovanili che non riescono così a tradursi in competenze utili nel mondo del lavoro. Infatti una parte consistente di giovani arriva a conseguire un titolo di studio universitario senza però essere in grado di trovare un lavoro che corrisponda al proprio livello di istruzione. La percezione di questa grande difficoltà è stata recentemente testimoniata da un sondaggio del Trendence Institute di Berlino (2009) che ha raccolto le opinioni di 196.000 studenti di 775 università in 22 nazioni europee, dalle quali è emerso che

27 Il fenomeno per cui la domanda di lavoro è considerevole soprattutto per quanto riguarda le mansioni scarsamente qualificate è tipico dei paesi dell'Europa mediterranea (Walther e Pohl 2005).

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ben l’88% degli studenti italiani confessa di essere preoccupato per la carriera che li aspetta contro un ridotto 9,2% che invece guarda con tranquillità al futuro lavorativo; la media europea di ottimisti è invece pari al 32,6%, e raggiunge il 61,9% in Norvegia e il 61,2% nei Paesi Bassi, ma anche il 46,6% in Germania e il 37,3% in Francia. Inoltre ben il 39,4% degli studenti italiani pensa che i corsi delle facoltà frequentate non sono stati in grado di fornir loro le abilità richieste dal mercato del lavoro, contro una media europea del 27,2%; da ultimo gli studenti italiani si aspettano di firmare un contratto di lavoro con una retribuzione lorda annua pari a 19.965 euro, contro una media europea di 25.108 euro annui (che raggiunge i 41.667 euro in Germania e i 51.221 in Danimarca).Lunghi percorsi educativi e formativi non sono cioè più in grado di soddisfare l’aspirazione alla mobilità sociale; non a caso se torniamo a considerare l’uscita dei giovani dalla casa dei genitori, notiamo come questa sia posticipata soprattutto da chi raggiunge un titolo di studio elevato partendo da condizioni sociali più basse. I requisiti all’uscita, a parità di aspirazioni, richiedono probabilmente più tempo per essere realizzati per chi parte da una situazione più svantaggiata (Ambrosi e Rosina 2009). Il risultato è che una parte importante di giovani, pur avendo raggiunto alti livelli di istruzione, è costretta a dipendere dalla famiglia, non riuscendo quindi a raggiungere un grado di autonomia sufficiente a completare la transizione all’età adulta (Kazepov et al. 2005): questo è il cosiddetto fenomeno della proletarizzazione (o disoccupazione) del lavoro intellettuale.I giovani, dunque, in modo ancora più accentuato quelli italiani, appaiono troppo spesso divisi tra chi si ritrova “catapultato28” nel mondo del lavoro senza un’adeguata formazione o livello di istruzione e chi ha alti livelli di istruzione e formazione ma è costretto ad accettare mansioni che portano a sacrificare il proprio percorso formativo e le proprie aspirazioni o a rimanere ai margini del mercato del lavoro (Walther e Pohl 2005). Non a caso l’Italia è uno dei paesi OCSE con il più lungo periodo di transizione tra sistema educativo e lavoro e nel 2000 è stato il Paese con la percentuale più bassa di soggetti che è entrata nel mercato del lavoro direttamente dal sistema educativo (Kazepov et al. 2005). Abbiamo sottolineato come le difficoltà nel raggiungere una sicurezza del reddito abbiano trasformato i giovani in uno dei gruppi maggiormente esposti a situazioni di shock e crisi e, dunque, con la maggiore probabilità di rimanere invischiati in meccanismi a palla di neve (snow-ball) di sfortune cumulate. Coloro che hanno risorse famigliari adeguate corrono il rischio di rimandare sine die il raggiungimento di un’indipendenza economica; tutti gli altri, rischiano di cadere nell’esclusione e nella marginalità sociale (Kazepov et al. 2005, Wigley 2006). Questo secondo aspetto emerge chiaramente dalle statistiche europee: infatti ben il 19% dei giovani vive una condizione di rischio di povertà rispetto ad una percentuale del 12% tra gli adulti (25-64) (Commissione Europea 2005). Tra i giovani in maggiore difficoltà abbiamo i cosiddetti NEETs (Not in Education, Employment or Training), cioè coloro che non sono né nel mondo dell’istruzione, né in quello del lavoro, né in quello della formazione. In Italia, secondo i dati del 14° Censimento generale della Popolazione del 2001, i giovani di età compresa tra i 16 e 24 anni che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione professionale risultano 1,4 milioni, pari al 25%. Una porzione decisamente considerevole (De Angelis e Mastroluca 2009).Tra i giovani particolarmente esposti al rischio di cadere in una o più forme di esclusione sociale, c’è una categoria sempre più numerosa che è quella dei figli degli immigrati: essi, infatti, risultano svantaggiati allo stesso tempo per lo status socio-economico generalmente più basso, per fattori culturali ascritti (es. lingua), per la discriminazione più o meno

28 Come ha sottolineato recentemente il Libro bianco del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali (2009), i giovani si ritrovano sempre più frequentemente intrappolati ai margini del mercato del lavoro e con lavori di bassa qualità, ai quali corrispondono basse retribuzioni.

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istituzionalizzata subita (sia a scuola sia nel mondo del lavoro) e per lo status legale spesso non chiaro (Walther e Pohl, 2005). Questa condizione di svantaggio è emersa ancora una volta in modo significativo a causa della recente crisi economica che ha comportato un forte aumento della disoccupazione tra i migranti nei paesi OCSE (OCSE 2009).Dunque per i figli degli immigrati la mancata valorizzazione delle proprie capacità si manifesta in modo ancor più radicale, perché essi devono affrontare specifiche difficoltà nel percorso formativo29 e, pur avendo aspettative simili a quelle medie di un giovane italiano, ricevono spesso offerte lavorative tipiche “da immigrato”, cioè nei lavori 3D (dirty, dangerous and demanding). Essi sono così spesso costretti a scegliere tra una condizione di disoccupazione30 e un’occupazione all’interno delle nicchie segregate del mercato del lavoro (Kazepov et al. 2005). La marginalità di una parte importante di giovani, figli di italiani o figli di immigrati, comporta un costo sociale ed economico molto elevato, uno spreco di capitale umano, in quanto risorse, energie e creatività di un’intera generazione rimangono sotto-utilizzate. Questo appare ancora più grave in una fase storica nella quale il contributo giovanile è già fortemente ridimensionato dai grandi cambiamenti demografici in corso che, secondo le ultime previsioni ISTAT, faranno sì che tra il 2007 e il 2051 si ridurrà la quota percentuale di giovani, passando dal 10,2% al 9,1% del totale mentre nello stesso tempo la percentuale dei soggetti con almeno 65 anni passerà dal 19,9% al 33%. Non a caso l’Unione Europea ha più volte posto l’enfasi sulle crescenti difficoltà dei giovani31 (Commissione Europea, 2003) e ha sottolineato come tale priorità sia stata troppo spesso sottovalutata dalle politiche di inclusione e da quelle attive per il mercato del lavoro (Walther e Pohl 2005).

4.3. Attivazione stigmatizzante o attivazione abilitante?

Le risposte degli stati europei alla situazione di precarietà ed esclusione sociale dei giovani sono state generalmente insufficienti rispetto alla gravità delle problematiche; inoltre, a partire dagli anni ‘90 sono state sempre più frequentemente inserite in un quadro di crescente e convergente ridimensionamento del welfare state sintetizzato da alcune ambivalenti parole-guida come “attivazione” e “workfare”. Negli ultimi anni i paesi europei hanno, infatti, iniziato a coordinare le loro politiche per i giovani; se ci riferiamo per esempio alle politiche per l’occupazione giovanile, possiamo rilevare una convergenza a partire dalle linee guida del vertice europeo del Lussemburgo del novembre 1997.In particolare si stanno sempre più affermando le cosiddette politiche di workfare rivolte all’integrazione sociale tramite l’inserimento lavorativo da attuare attraverso politiche “attivanti” di incentivi e penalità. Come è stato sottolineato da più parti (Standing 2001, Vanderborght 2002), vi è, però, una significativa confusione semantica intorno al termine attivazione; infatti, vi sono almeno due modi per intendere le politiche attivanti, uno che mette

29 In Italia, secondo i dati contenuti nella ricerca condotta dal Ministero della Pubblica Istruzione sugli esiti scolastici degli alunni stranieri nel 2006/2007, esiste uno scarto significativo nei risultati degli scrutini tra alunni italiani e stranieri, scarto che aumenta in modo progressivo per ordine di scuola. Per la scuola primaria, si attesta a un valore superiore a 3 punti percentuali (-3,5 %): è stato promosso il 99,9% degli alunni italiani e il 96,4% degli stranieri. Per la scuola secondaria di primo grado, il divario è molto consistente, pari a -6,8% (97,3% di promozioni fra gli italiani e 90,5% fra i non italiani). Uno scarto ancora più importante si registra nella scuola secondaria di secondo grado (-14,4%): 86,4% sono stati i promossi fra gli studenti autoctoni e 72% fra gli allievi stranieri. 30 La realtà lavorativa dei figli degli immigrati è decisamente molto complessa e non priva di dinamiche che si spingono in direzioni opposte a quella dell'esclusione sociale. Per un approfondimento in tal senso cfr. Waldinger (2001) e Kasinitz et al. (2008).31 La UE ha inserito i giovani svantaggiati tra le sei aree prioritarie di intervento (EC 2003).

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al centro la volontà di superare la ‘dipendenza dal welfare”, l’altro che si propone soprattutto di combattere la marginalità e l’esclusione sociale.Secondo la prima versione, largamente dominante, attivare significa costringere ad accettare lavori, anche se considerati a volte degradanti e umilianti, vale a dire che non soddisfano quello che Standing (2008) ha chiamato “principio del lavoro dignitoso”. Questo approccio disciplinante mira all”integrazione “forzosa” nel mondo del lavoro all’interno di una relazione di potere fortemente asimmetrica tra Stato e singolo cittadino (Walther e Pohl 2005). L’effetto principale sembra soprattutto quello di soddisfare l’esigenza del sistema economico di avere un esercito di forza lavoro di riserva costretto ad accettare i lavori che gli vengono offerti, a scapito della qualità degli stessi lavori e del livello dei salari. Questo passaggio dai diritti del lavoro al dovere del lavoro, con la sua logica stigmatizzante, non sembra particolarmente adeguato, invece, per attivare potenzialità e capacità dei soggetti, specie di quelli con maggiori difficoltà (Christensen 2000). Non a caso se le politiche di workfare hanno avuto alcune ricadute positive sulle statistiche occupazionali32, sembrano avere accentuato anziché diminuito proprio le difficoltà dei soggetti più poveri e in condizioni maggiormente precarie (Van Oorschot 2006, cfr. 4.4.2). L’enfasi posta sulle responsabilità individuali e la messa in secondo piano delle responsabilità collettive, appaiono particolarmente pericolose per la situazione dei giovani dei paesi del Sud Europa, come l’Italia, dove il welfare state, come abbiamo visto, è rimasto fortemente incentrato sul male breadwinner (cioè sull’uomo come unico procacciatore di reddito per la famiglia) a tempo indeterminato e i lavoratori precari (tra i quali una parte importante dei giovani) restano generalmente privi delle tradizionali forme di garanzia come per esempio la copertura reddituale durante ferie, malattie e maternità. Basti pensare che in Italia, al netto dei percettori della cassa integrazione guadagni, ancora formalmente occupati, i beneficiari di politiche di sostegno del reddito sono solo il 28% del totale dei disoccupati (Mandrone 2008b). Inoltre va ricordato che un salario minimo esiste in forme diverse praticamente in tutta Europa tranne Norvegia, Austria, Germania e appunto Italia. E in Italia, come in Germania, Ungheria e Norvegia, non c’è neppure un sistema di assistenza sociale specifico per i giovani (essi accedono a quello generale se ne hanno i requisiti). Nonostante questi deficit strutturali del welfare state italiano, assistiamo anche in Italia all’introduzione di istituti di workfare, cioè politiche che vincolano i sussidi alla disponibilità a lavorare o a partecipare ad attività formative. Ma introdurre sanzioni senza un’adeguata “premialità”, ponendo enfasi sulla responsabilità individuale, senza farsi carico in maniera strutturale delle responsabilità collettive, appare paradossale e pericoloso; infatti l’Italia non ha certo un sistema di welfare “troppo generoso” come potrebbero apparire quello danese e olandese, contraddistinti da alti livelli di de-mercificazione. Questo discorso appare ancora più rischioso in un momento in cui diversi osservatori (Kieselbach et al. 2006) hanno messo in evidenza come, a causa dei crescenti processi di individualizzazione e a seguito della crescente instabilità famigliare sembra che stia iniziando a ridursi anche il tradizionale ruolo di sostegno giocato dalla famiglia (a questo proposito si è parlato di “secolarizzazione” della famiglia tradizionale). Va aggiunta, inoltre, la considerazione che in paesi come l’Italia, con 32 E’ importante sottolineare che esiste spesso una forte discrepanza tra la definizione statistica e la percezione sociale di occupazione e disoccupazione. Basti pensare che nel caso italiano, secondo la Rilevazione continua sulle forze di lavoro (Rcfl) dell’ISTAT sono conteggiati tra gli occupati principalmente tutti coloro che nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura e considerati disoccupati i non occupati che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nei trenta giorni che precedono l’intervista e sono, altresì, disponibili a lavorare o ad avviare un’attività autonoma entro le due settimane successive all’intervista. Quindi la definizione di occupazione (un’ora di attività in una settimana anche se non remunerata) è ben più ampia di quella di senso comune e al contrario quella di disoccupazione è molto più ristretta dato che tende a escludere e a considerare come ‘persone non attive’ gran parte di coloro che per il senso comune sono invece disoccupati. Per un interessante riflessione su questi limiti cfr. Pirone (2009).

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un’alta percentuale di lavoro sommerso, lo stabilire questo tipo di sanzioni rischia di favorire l’intrappolamento dei giovani nel mondo del lavoro irregolare e, soprattutto, in alcune regioni d’Italia, di ampliare il ruolo di “protezione” giocato dalle organizzazioni criminali di stampo mafioso.Quello che appare più urgente e prioritario per il contesto italiano è l’introduzione di misure di sostegno al reddito, di forme di reddito di base che permettano ai giovani di affrontare le emergenze di un sistema economico sempre più instabile (Standing 2008) e, soprattutto di fronteggiare tutta una serie di deficit strutturali del “modello italiano”.Per individuare possibili percorsi passiamo ora ad analizzare alcuni contributi proveniente dalla ricerca comparativa europea YUSEDER (cfr. 4.4.1) sull’esclusione sociale dei giovani e a focalizzare, in seguito, l’attenzione su alcuni aspetti delle politiche già intraprese in due importanti Stati europei come i Paesi Bassi (cfr. 4.4.2) e la Francia (cfr. 4.4.3).

4.4 L’attivazione dei giovani in Europa

4.4.1 “YUSEDER”. Esperienze e risposte istituzionali in Europa contro l’esclusione sociale dei giovani

Il progetto di ricerca YUSEDER (Youth Unemployment and Social Exclusion: Objective Dimensions, Subjective Experiences, and Innovative Institutional Responses in Six European Countries) fa parte del 4° Programma Quadro dell’Unione Europea. L’obiettivo di tale ricerca è stato quello di indagare33 sul tema dell’esclusione sociale dei giovani, con una particolare attenzione alla disoccupazione di lunga durata in quanto condizione di forte rischio di marginalità sociale (e quindi di particolare interesse per politiche attivanti). La ricerca si è svolta in sei paesi europei con politiche di welfare tradizionalmente molto differenti tra loro: tre paesi del Nord Europa (Svezia, Belgio e Germania) e tre del Sud Europa (Italia, Spagna e Grecia). Molto spesso questo tipo di analisi impiegano un concetto di esclusione sociale ambiguo e poco definito. Invece la ricerca YUSEDER ha ripreso esplicitamente il concetto di esclusione sociale multidimensionale di Kronauer (1998), che ha invitato a considerare l’esclusione sociale come il risultato dell’intreccio di differenti dimensioni: esclusione dal mercato del lavoro, esclusione economica, esclusione istituzionale, isolamento sociale, esclusione culturale ed esclusione spaziale. Per quanto riguarda l’Italia la ricerca fornisce diverse indicazioni interessanti; infatti ciò che è emerso è che il problema principale non è tanto rappresentato dall’ambivalente legame con la famiglia che, anzi in molte occasioni rappresenta un baluardo fondamentale contro l’esclusione sociale e contro il rischio di povertà; piuttosto il problema principale dell’Italia sembra esser rappresentato dal fatto che la mancanza di un sostegno istituzionale al reddito rende il sostegno famigliare l’unico supporto per i giovani in difficoltà, trasformando così il legame famigliare in dipendenza famigliare34 e rendendo l’origine sociale dei giovani una discriminante decisiva nella strutturazione delle opportunità di vita. Più in generale, uno degli aspetti più interessanti delle conclusioni della ricerca europea YUSEDER è stato quello di individuare una serie di fattori che favoriscono il rischio di esclusione dei giovani e una serie di fattori che risultano essere, invece, protettivi contro tale rischio (Kieselbach et al. 2006).33 La ricerca è stata realizzata attraverso interviste a giovani disoccupati di lunga data (50 soggetti tra 20 e 25 anni per ciascuno dei sei paesi individuati per l'indagine) e a testimoni privilegiati.34 Il sempre più frequente perdurare della dipendenza famigliare anche oltre i trent'anni fa sì che si rischi di intaccare il sistema di reciprocità intergenerazionale. Molto spesso, infatti, il sostegno famigliare non riesce più a tradursi, con il tempo, in reciprocità differita positiva, ma si trasforma in una semplice reciprocità negativa per l'impossibilità dei giovani di bilanciare un così lungo periodo di sostegno ricevuto dai genitori.

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Tra i principali fattori di esclusione emersi dal lavoro di ricerca abbiamo:

• la scarsa qualificazione che rende particolarmente difficile l’integrazione nel mercato del lavoro primario;

• la passività nei confronti del mercato del lavoro: cioè la scarsa motivazione alla ricerca di un lavoro o alla partecipazione ad attività formative, frutto spesso di precedenti percorsi stigmatizzanti e “frustranti”;

• la precarietà delle condizioni economiche: per quanto riguarda i paesi mediterranei come l’Italia, i soggetti più esposti all’esclusione sociale sono coloro i quali non possono essere aiutati dalle proprie famiglie;

• la mancanza di un sostegno istituzionale, in particolare nei paesi del Sud Europa caratterizzati da deficit strutturali;

• la mancanza di supporto sociale (famiglia, amici);• la mancanza di auto-stima.

Tra i fattori protettivi, spesso speculari ai primi, abbiamo:

• ricevere un supporto istituzionale;• ricevere un sostegno economico;• avere un sostegno sociale (amici o famiglia);• avere alti livelli di istruzione, buone qualifiche e buoni percorsi professionali;• svolgere attività socioculturali: i giovani a più basso rischio di esclusione sociale sono,

infatti, anche più spesso attivi a livello sociale e occupati in attività di interesse personale, in associazioni e gruppi organizzati;

• avere buone capacità comunicative.

Da questo lungo elenco di fattori protettivi e fattori di rischio emerge, tra le altre cose, come l’inclusione sociale sia un fenomeno fortemente multidimensionale e che perciò l’integrazione forzosa nel mercato del lavoro non appare sufficiente a garantire un’integrazione di lungo termine. Per attivare e mobilitare i giovani, servono piuttosto sostegni istituzionali e reddituali incentrati sul rispetto delle specifiche situazioni biografiche e mirati a valorizzare le capacità dei giovani e la loro autostima.Andiamo ora ad analizzare come, in due importanti Stati europei come i Paesi Bassi e la Francia, vengono implementati alcuni dei fattori di protezione dall’esclusione sociale appena delineati.

4.4.2 Le politiche per l’attivazione nell’esperienza dei Paesi Bassi

Quando si parla di welfare state e in particolare di interventi per i giovani, particolarmente interessante appare il caso olandese. Si tratta, infatti, di un modello di welfare state noto per essere ibrido, in quanto a partire dal secondo dopoguerra ha unito elementi tipici del regime corporativo a molte caratteristiche del modello social-democratico. Inoltre dagli anni ‘90 in poi ha conosciuto forti modifiche in senso liberale (Van Oorschot 2006).Il welfare state olandese si presenta come altamente de-mercificante, grazie all’implementazione a partire dal secondo dopoguerra di una serie di misure di sostegno del reddito, di ampia copertura e assai generose (Van Kersbergen 1995). In particolare sono stati

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introdotti diversi programmi universalistici, anche se ristretti a determinate categorie, che non si basano sui contributi versati ma che si rifanno sulla tassazione generale:• una pensione base assicurata a tutti i cittadini con più di 65 anni (869 euro per una persona

single); per la sua ampiezza tale misura è stata da alcuni descritta come un primo passo verso una misura di reddito di cittadinanza per tutti (Vanderborght 2002);

• sussidi base per lo studio e prestiti per studenti concessi indipendentemente dal reddito (Barr 2001);

• sussidi famigliari35.A questi interventi universalistici vanno aggiunti ulteriori sostegni scolastici e tutta una serie di sostegni al reddito finalizzati al raggiungimento dell’autonomia abitativa, come per esempio sussidi per gli affitti, sostegni al pagamento di mutui e una rete molto complessa e ampia di abitazioni sociali. Inoltre gran parte dei disoccupati riceve benefici di assistenza sociale e, in generale, coloro che non hanno i mezzi di sussistenza hanno diritto ad un reddito minimo (l’Algemeen Bjjstand Wet, istituito nel 1963). Tutti questi interventi, nel loro complesso, si traducono in un forte ruolo istituzionale di sostegno al reddito. Se prendiamo solo in considerazione il reddito minimo, notiamo che si tratta di un intervento anche quantitativamente significativo, uno dei più generosi d’Europa (Busilacchi 2001): esso è infatti ancorato al salario minimo e più precisamente è pari ad un massimo di 769,87 euro per un single e di 1099,81 euro per una coppia (Vanderborght 2002). Per capire la significatività di tale intervento, basti pensare che il reddito minimo in Francia è di 405,62 euro per i singoli e di 608,43 per le coppie con o senza figli. Inoltre tale misura è riservata a coloro che hanno compiuto 18 anni e quindi riguarda anche un segmento importante dei giovani. Se prendiamo ancora una volta in esame la Francia, notiamo che tale analoga misura è riservata a coloro che hanno compiuto 25 anni; da essa sono perciò esclusi tutti coloro che secondo le statistiche ufficiali (cfr. nota 23) sono ritenuti giovani.Considerato questo ampio quadro di misure di sostegno al reddito messo in atto dal welfare state olandese non stupisce affatto che, in un nessun altro Paese con uno stato sociale avanzato, il dibattito sul reddito di cittadinanza sia stato così ampio e vivace. Infatti nei Paesi Bassi sin dal 1975 il reddito di cittadinanza è stato discusso da partiti politici, sindacati e persino a livello governativo. Basti pensare che nel 1985 un rapporto di ricerca del governo, significativamente intitolato Garanzie per la sicurezza: prospettive per un nuovo sistema di sicurezza sociale, ha dichiarato esplicitamente che «la garanzia di un sussidio sociale minimo deve essere l’obiettivo più importante della sicurezza sociale» (WRR 1985).Oggi il tema del reddito di cittadinanza è uscito dall’agenda politica dei Paesi Bassi, ma comunque alcuni autori (Vanderborght 2002) parlano della possibilità di un’introduzione strisciante, cioè dalla “porta di servizio”, di un reddito di cittadinanza a causa proprio dell’esistenza di una serie di sostegni al reddito di tipo universalistici, come lo schema pensionistico base incondizionato e i contributi scolastici che non richiedono prova dei mezzi e anche per il fatto che nei Paesi Bassi gran parte dei disoccupati ha una copertura assistenziale. Tutto questo dibattito va però inquadrato all’interno delle recenti grandi trasformazioni che sta conoscendo il welfare state olandese. Come in parte già evidenziato, infatti, lo stato sociale olandese ha subito diverse modifiche in senso liberale nel corso degli ultimi anni.All’origine di tutto ciò vi è il fatto che ad inizio anni ‘80 la disoccupazione era salita in maniera significativa (10% nel 1983) tanto da essere ribattezzato, soprattutto dai suoi avversari, come “welfare state senza lavoro”. Per fronteggiare questo problema, il leit-motiv della prima coalizione governativa “lib-lab” olandese del 1994 era work, work, work. I Paesi Bassi scelsero, così, di intraprendere una serie di riforme del welfare state rivolte ad aggirare

35 Il paese più generoso d'Europa per i trasferimenti famigliari è il Belgio, dove essi vengono concessi sempre senza prova dei mezzi (Gauthier 1996, Vanderborght 2002).

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la cosiddetta “trappola del welfare”, vale a dire la dipendenza dai sussidi e attivare le responsabilità individuali dei singoli beneficiari. In breve tempo, l’importo per le politiche di attivazione (ALMP - Active Labour Market Policies) ha superato quello dei sussidi per la disoccupazione (Van Oorschot 2006), tanto da far diventare i Paesi Bassi uno dei laboratori europei delle politiche di attivazione. A partire dal 1996, per esempio, il reddito minimo garantito, è diventato un unico dispositivo che ingloba anche il sussidio per i disoccupati, e soprattutto, che impone politiche per l’attivazione. E’, cioè, fortemente aumentato il grado di obbligatorietà a sottoporsi a programmi di reinserimento, così come è divenuto più pressante anche l’obbligo dei beneficiari a reintegrarsi accettando l’offerta di lavoro in quel momento disponibile. Questo processo ha coinvolto anche categorie svantaggiate come le ragazze madri con figli di più di cinque anni, anch’esse sottoposte ai medesimi obblighi. Più dettagliatamente il Job-seekers Employment Act approvato nel 1998, prevede programmi per entrare nel mercato del lavoro rivolti a giovani e disoccupati di lunga data attraverso diversi percorsi (Spies e Van Berkel 2001), come lavori sussidiati presso datori di lavoro o organizzazioni locali, lavori non pagati o attività formative.La varietà di tali percorsi mette bene in luce la varietà dei significati che possono assumere le politiche di attivazione. A questo proposito alcuni autori (Vanderborght 2002) hanno proposto di suddividere le politiche attivanti in quattro differenti categorie, le prime due rivolte alla domanda, le altre all’offerta:

• interventi volti a ridurre i costi del lavoro per i lavoratori non qualificati;• creazione di lavori sostenuti da sussidi;• istituzione di crediti d’imposta;• creazione di programmi focalizzati all’istruzione e alla formazione e consulenze

lavorative per le persone che ricevono i sussidi.Se guardiamo al caso olandese i risultati in termini di statistiche occupazionali sono notevoli36: il tasso di disoccupazione complessiva è infatti sceso nel 2002 al 2,4% (ibidem). Per questo si è parlato di “miracolo olandese”.Una componente generalmente riconosciuta di questo “miracolo” è rappresentata dalla grande spinta al lavoro part-time che ha fatto sì che i Paesi Bassi abbiano oggi la più alta percentuale di lavoro part-time dei paesi OCSE (Van Oorschot 2006). Questo processo è avvenuto anche con l’estensione a questi lavoratori di tutti i diritti attribuiti ai lavoratori full-time: nel 1993 i lavoratori part-time hanno, infatti, ottenuto il diritto alle ferie pagate e ad un salario minimo legale proporzionale alle ore lavorate; mentre nel 1996 tale parità di trattamento è stata inserita nel codice civile e in quello del lavoro. Questi interventi hanno fortemente stimolato la redistribuzione del lavoro, permettendo così a molti cittadini di combinare lavoro retribuito e lavoro di cura (Vanderborght 2002).Invece le politiche di attivazione olandese, troppo incentrate sull’entrata immediata nel mondo del lavoro, non hanno intaccato la povertà di lungo termine. Anzi come recentemente messo in luce da Van Oorschot (2006) negli ultimi anni nei Paesi Bassi sono aumentate le disuguaglianze di reddito, il numero di famiglie povere e la proporzione di lavoratori poveri e resta molto alta la quota di disoccupati di lunga data. Questo ha portato alcuni studiosi ha sostenere che tali interventi “attivanti” hanno finito per focalizzarsi soprattutto su donne i cui mariti già lavoravano e, in generale, su chi ce l’avrebbe fatta lo stesso; hanno cioè facilitato chi aveva le possibilità migliori in un periodo di crescita di posti di lavoro. Si parla a questo proposito di “effetto scrematura” (Van Oorschot 2004). La reintegrazione dei gruppi sociali più svantaggiati, come i migranti o anche i parzialmente disabili, non è, invece, avvenuta. Anzi proprio a causa del sistema sanzionatorio che caratterizza il modello di workfare, il loro senso di isolamento sociale e di inutilità è 36 Cfr. nota 33.

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aumentato e la loro autostima ulteriormente pregiudicata (Snell e De Boom 2008). Non a caso alcune categorie come quella dei malati cronici e dei disabili parziali incontrano maggiori difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro. Sempre nei Paesi Bassi appaiono invece più promettenti alcune politiche che mirano a garantire una sicurezza del reddito ancorandola a forme di condizionalità ma non necessariamente all’accettazione di qualsiasi lavoro a tutti i costi. Uno di questi interventi permette ai comuni olandesi di attuare progetti di inclusione attraverso lavoro non pagato; a questo proposito particolarmente interessante appare il caso di Rotterdam (Lind e Hornemann Møller 1999, Van Berkel e Hornemann Møller 2002), dove i progetti di attivazione sono su base volontaria sociale e non sono mirati esclusivamente all’inclusione lavorativa. Il modello olandese appare dunque ben rappresentare la poliedricità del concetto di attivazione. Basti pensare anche al fatto che nel 1999 il governo olandese ha introdotto l’Income Aecurity Act for Artists che, sotto certe condizioni, riconosce l’utilità sociale del lavoro di artista, garantendo per quattro anni il diritto a ricevere un reddito minimo, pur se inferiore ai livelli di assistenza sociale (Vanderborght 2002). Altri programmi specificatamente rivolti ad “attivare” i giovani si stanno sperimentando in Europa. Concludiamo proprio passando a focalizzare l’attenzione su uno di questi, vale a dire il programma CIVIS istituito in Francia nel 2005.

4.4.3 Il caso francese. Il Programma CIVIS e la certificazione delle competenze

In Francia ben il 75% dei giovani tra i 16 e 25 anni dipende in qualche modo da aiuti pubblici. Il programma CIVIS (Contrat d’insertion dans la vie sociale) istituito nel 2005 appare come uno dei programmi più innovativi tra quelli che si occupano esplicitamente di giovani. Tale programma nasce nel 1998 come programma TRACE (TRajet d’ACces à l’Emploi) e si propone di perseguire l’inserimento sociale e professionale dei giovani in difficoltà attraverso l’ausilio della rete diffusa37 su tutto il territorio nazionale (600 strutture) delle “Missioni Locali” (Missions locales d’Insertion - ML) e dei “Servizi di informazione ed orientamento professionale”, detti PAIO (Permanences d’Accueil d’Information et d’Orientation). Il giovane firma un contratto di inserimento nella vita sociale con la struttura che lo segue (ML o PAIO), impegnandosi ad assumersi le proprie responsabilità e a seguire un programma. Tale programma, che prevede la predisposizione di un percorso individualizzato della durata di un anno (rinnovabile in determinate circostanze) e l’individuazione di un referente unico, mette al centro le caratteristiche individuali, le condizioni di vita e familiari dei soggetti, i loro percorsi formativi e lavorativi. Per fare ciò il programma mira a fornire risposte complesse e multidimensionali: opportunità di formazione, messa a disposizione di alloggi, soluzioni ai problemi di mobilità, informazione e aiuto per la ricerca di lavoro. Il programma CIVIS si propone, inoltre, di collegare il giovane con le diverse opportunità reperibili nel territorio attraverso la cooperazione di diversi attori locali e la mobilitazione di un’ampia gamma di strumenti e risorse.Ai partecipanti al programma viene erogato anche un sostegno al reddito (Allocation CIVIS, inizialmente chiamato BAE, Bourse d’Accès à l’Emploi): una indennità che può arrivare a 300 euro al mese e che non può superare i 900 euro all’anno. L’introduzione di tale misura di sostegno al reddito ha sancito il riconoscimento che la mancanza di risorse monetarie può minare l’efficienza di alcuni percorsi di inclusione. Più in generale, il programma CIVIS esprime il riconoscimento da parte delle istituzioni francesi dell’esistenza di una responsabilità collettiva nel supportare le capacità, l’autonomia38

e l’acquisizione del senso di responsabilità dei giovani. Inoltre l’approccio multidimensionale

37 La creazione di queste strutture è stata ispirata dalla pubblicazione del famoso rapporto Schwartz (1981) sull'inserimento professionale e sociale dei giovani.

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che sottende il programma, il fatto cioè di non essere rivolto solo a combattere la disoccupazione ma l’esclusione in generale, sembra adatto ad ovviare ai limiti delle “tradizionali” politiche per l’attivazione che mirano ad un’inclusione attraverso qualsiasi lavoro, anche se degradante e stigmatizzante. Perché come ha sostenuto Schwartz nel suo famoso rapporto (1981): «per alcuni, anche se gli si trova un lavoro, niente è stato risolto». Dall’aprile 2005 all’aprile 2009 il numero dei giovani che hanno partecipato al programma CIVIS è via via cresciuto sino ad arrivare a 733.260 unità39. Dei 465.456 che sono usciti dal programma il 37,9% ha trovato un lavoro a lunga durata (di almeno sei mesi). Una percentuale rilevante per questo tipo di interventi.In generale si può sostenere che il programma CIVIS ha permesso di focalizzare l’attenzione sulla sicurezza temporale e sulla creazione di un ambiente composto da programmi istituzionali e risorse pubbliche40 capace di tenere in considerazione e di valorizzare i diversi vincoli e risorse dei percorsi biografici di ciascun giovane (Farvaque e Salais 2002). Tutti fattori solitamente considerati inefficienti, secondo una prospettiva meramente economica, di “welfare to work”, ma che appaiono imprescindibili per riconoscere e valorizzare le capacità dei giovani e il loro capitale umano, per aumentare ciò che il singolo soggetto può fare e può essere (i doings e i beings - Sen 2002).Dal caso francese è opportuno evidenziare anche un altro importante intervento rivolto a valorizzare le capacità dei soggetti. Ci riferiamo al riconoscimento dell’apprendimento non formale e informale (Validations des acquis41) che oltralpe conosce una lunga tradizione che risale al 1985 (Vaccaro e Richini 2006). La possibilità di riconoscere formalmente gli apprendimenti conseguiti in diversi ambiti di esperienza del lavoratore, attraverso procedure di certificazione delle competenze rappresenta un importante strumento per incentivare i soggetti a strutturare percorsi formativi capaci di incentivare, ancora una volta, l’autonomia e il senso di responsabilità. Tale riconoscimento, tra le altre cose, permette anche di superare la logica del “tutto o nulla” dell’esame finale per il conseguimento del titolo, attraverso il riconoscimento di parti del processo formativo. In secondo luogo permette la valorizzazione delle competenze acquisite nel luogo di lavoro.Il salto di qualità del sistema francese si è avuto con la legge del 2002 sulla “modernizzazione sociale” (L. 2002/73 del 17 gennaio) che consente a tutti coloro che hanno maturato un’esperienza di lavoro di almeno tre anni e che per almeno quattro anni abbiano svolto attività di tipo educativo, sociale, culturale, abbiano esercitato uno o più mandati come membri di un governo locale, o che abbiano avuto responsabilità continuative di tipo associativo, di rivolgersi a un giurì per ottenere una certificazione delle competenze acquisite. Inoltre, con questo provvedimento, i lavoratori possono usufruire di appositi congedi e beneficiare di un accompagnamento, cioè di un aiuto, per costruire il proprio percorso di esperienze professionali e per preparare correttamente il proprio dossier di acquis. Quest’ultima misura appare particolarmente significativa42 per i soggetti più esposti alla discontinuità professionale e più deboli dal punto di vista culturale.

38 La sensibilità delle istituzioni francesi nei confronti dell'autonomia dei giovani è stata manifestata anche dalla recente creazione (2001) di una Commissione nazionale per l’autonomia dei giovani.39 I principali finanziatori del programma, che ha un budget di 351 milioni di Euro, sono Stato, Regioni, FSE.40 Ormai è da più parti riconosciuto come il modello di welfare state francese, in termini di spesa sociale e di livelli di copertura, stia mostrando una dinamica in senso universalistico superiore a quella degli altri paesi europei continentali e inferiore soltanto ai paesi nord-europei (Palier 2005, Pace 2009).41 Termine con cui si indicano l'insieme di conoscenze, abilità e 'saper essere' che un individuo ha maturato in un ambito professionale, sociale o formativo/educativo.42 Non mancano comunque difficoltà nell'implementazione di questo strumento: alcuni hanno messo in luce una scarsa conoscenza del dispositivo da parte dei potenziali utilizzatori, altri il fatto che sia molto impegnativo in termini di tempi e costi, altri che si tratta di uno strumento ancora troppo complesso, soprattutto per coloro che hanno livelli di istruzione più bassi (Vaccaro e Richini 2006).

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Anche in Inghilterra esistono diverse forme di riconoscimento delle competenze acquisite in contesti informali e non formali, anche riferite a tempi relativamente lontani o acquisite nel tempo libero e nella vita famigliare, con particolare attenzione per il riconoscimento di esperienze acquisite attraverso i percorsi lavorativi, per esempio il modello Work Based Learning della Middlesex University. Il sistema educativo e formativo dovrebbe giocare un ruolo centrale per controbilanciare (invece di rinforzare) le disuguaglianze sociali attraverso un’adeguata individuazione dei bisogni formativi e una conseguente diversificazione dell’offerta formativa; e, perciò, anche attraverso il riconoscimento e la valorizzazione dei percorsi di apprendimento non formale, come sollecitato anche recentemente dalle parti sociali europee (Forleo e Rossi 2003). Ne è un esempio il progetto YOUTHPASS, primo certificato europeo di qualificazione che riconosce le capacità acquisite attraverso l’educazione non formale. Attuato dalla Commissione Europea, è disponibile per tutte le persone che partecipano ad un progetto all’interno del programma “Gioventù in Azione”, ma rappresenta un modello che può essere utilmente adattato anche ad altri contesti di riconoscimento e certificazione delle competenze. Il certificato è suddiviso in otto competenze chiave: comunicazione nella madre lingua, comunicazione in una lingua straniera, imparare ad imparare, competenze matematiche e competenze di base scientifiche e tecnologiche, competenza digitale, competenze interpersonali, interculturali e competenze sociali e civiche, espressione culturale e spirito di impresa. Tutto questo mette le premesse per valorizzare i percorsi individuali di formazione sia formale che informale e quindi, potenzialmente, per stimolare lo sviluppo delle capacità individuali attraverso l’apprendimento continuo durante l’intero ciclo di vita (il cosiddetto life long learning). Non appare casuale che i maggiori contributi in merito al riconoscimento e alla certificazione di competenze, acquisite in spazi non formali e informali, vengano proprio da Paesi come la Francia (Aubret 1999) in cui sono state adottate misure di reddito minimo che “liberano” spazi di riflessione e pianificazione del proprio futuro per i soggetti in difficoltà rispetto al mondo del lavoro e che si trovano, quindi, nella condizione di ripensare le proprie competenze. Appare evidente che un sussidio non condizionale permette di dare priorità, all’interno di tali riflessioni, ad un progetto di vita complessivo rispetto a esigenze economiche contingenti. Tale prospettiva, più a lungo termine, contribuisce anche ad una scelta più consapevole e motivata dei propri percorsi formativi.Mettere al centro il tema della qualificazione formale e informale è particolarmente urgente per un Paese come l’Italia che, per esempio, per quanto riguarda la formazione continua spende un quinto di ciò che spende la Francia (0,30% del monte salari dei dipendenti delle imprese private contro l’1,6% della Francia, Vaccaro e Richini 2006), Paese in cui è riconosciuto esplicitamente il diritto individuale alla formazione. D’altronde è stato da più parti riconosciuto il ruolo significativo che può giocare la formazione professionale nel contribuire a prevenire l’intrappolamento dei soggetti nella marginalità o nella dipendenza dal welfare. Per esempio Esping-Andersen et al. (1994) hanno evidenziato come in Danimarca alcuni programmi di formazione professionale hanno aumentato le probabilità di uscita dalla disoccupazione del 30%; e addirittura del 50% quando ad essa si aggiunge una preparazione anche teorica.

4.5. Conclusioni. Misure di reddito di base come soluzione per la precarietà giovanile?

Oggi assistiamo ad una struttura di rischi che vede i giovani tra coloro che più degli altri sono in balia dei rischi di povertà, basso reddito, disoccupazione e, a volte, intrappolamento nell’esclusione. Come sottolineato da Van Parijs e Vanderborght (2006), parlare di capacità e

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responsabilità dei giovani, in mancanza dei mezzi materiali necessari per esercitarle, significa utilizzare parole vuote43. Per questo diversi autori (Casassas 2007, Standing 2008) hanno sottolineato come occorra innanzitutto garantire maggiore indipendenza materiale e dunque potere contrattuale a chi non ne ha. In questo senso, uno dei modi che appaiono più efficaci, particolarmente in questa fase di grande precarietà lavorativa e reddituale dei giovani (e non solo), è quello di adottare misure di reddito di base, legate ad un concetto di attivazione più ampio e non ristretto all’accettazione immediata di qualsiasi lavoro. ‘Tradizionalmente” alcuni paesi europei hanno adottato politiche che puntano a supportare l’autonomia dei giovani (es. Paesi Bassi e Francia) mentre in altri paesi (del Sud d’Europa come l’Italia) la transizione all’età adulta non è considerata una responsabilità collettiva ma una questione prevalentemente famigliare e quindi fortemente dipendente dalle capacità delle famiglie d’origine. Negli ultimi anni, invece, gran parte dei paesi europei sembra convergere nell’adozione di politiche sanzionatorie di workfare che focalizzano l’attenzione sulle responsabilità dei giovani e sulla loro attivazione “forzosa”. Quindi anche in paesi come l’Italia si stanno introducendo politiche che vincolano i (pochi) sussidi alla disponibilità a lavorare o a partecipare ad attività formative: cioè sanzioni, senza un’adeguata premialità. Come ha mostrato il caso olandese (cfr. 4.4.2), tali politiche, però, non sembrano in grado di supportare proprio i più svantaggiati che anzi molto spesso hanno visto peggiorare le proprie condizioni e le proprie possibilità. Inoltre le politiche per l’attivazione, troppo spesso esclusivamente limitate all’integrazione lavorativa, presuppongono un concetto di attività troppo ristretto. Come è stato più volte sottolineato (Van Parijs e Vanderborght 2006, Vanderborght 2002, Young 2000), occorre rimettere al centro una politica capace di reintrodurre una piena cittadinanza anche nei meccanismi di integrazione nel mercato del lavoro e di prendere atto che la nozione di attività non può essere ridotta al lavoro pagato in senso stretto, perché vi sono attività non pagate come il lavoro di cura, la formazione o il lavoro volontario che contribuiscono ad ampliare la ricchezza comune e la partecipazione attiva nella società (cosa che, peraltro, non fanno invece molti lavori pagati). Attività culturali o di volontariato per esempio contribuiscono a sostenere una cittadinanza attiva, a esprimere la propria energia creativa, a facilitare il dialogo interculturale e intergenerazionale, ad acquisire competenze extraformali e valori come dialogo e solidarietà. Capacità che, inoltre, potrebbero essere molto utili anche per l’inserimento dei giovani nel mondo lavorativo.Per supportare questa interpretazione delle politiche di attivazione dei soggetti, una delle possibili soluzioni è l’introduzione di un’assicurazione sulla partecipazione, capace di incoraggiare l’accesso ad attività che permettano di essere utili agli altri e di mettere in atto le proprie capacità, uniche vie per ottenere un reale riconoscimento. E dare vita, così, veramente ad uno stato sociale attivante (Vanderborght 2002). Un’assicurazione sul modello di quella per la disoccupazione ma che non copra solo le situazioni di perdita di un lavoro remunerato ma tutte le forme di partecipazione sociale, anche non remunerate, purché socialmente utili. Con questa espressione si possono intendere, in una versione radicale, le attività formative, le attività famigliari e le attività direttamente utili per la collettività. In una versione ristretta di “utilità sociale”, solo quelle comprese nella terza opzione (Van Parijs e Vanderborght 2006).Una proposta analoga è stata formulata anche da Atkinson che ha parlato di “reddito di partecipazione” (ibidem), intendendolo in un’accezione più ampia (che coinvolgerebbe cioè un maggior numero di persone) ma meno “generosa” ed incisiva.Queste proposte appaiono come possibili vie per supportare un concetto di attivazione che, allo stesso modo del programma CIVIS attuato in Francia, sia incentrato sulla valorizzazione

43 In questi casi è sempre utile ricordare l'art. 3 della Costituzione Italiana che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'eguaglianza dei cittadini.

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delle specifiche situazioni e capacità personali e biografiche e che sia rivolto a supportare l’empowerment dei giovani (ibidem). Lo scopo di una politica di attivazione intesa in questo senso è quello di trasformare la “flessibilità subita”, in “flessibilità agita”, non più fonte di insicurezza e crisi, ma creatrice di spazi di libertà (Regione Lazio 2006); una flessibilità che permetta cioè di favorire l’autonomia dei percorsi sociali, occupazionali e formativi (anche grazie a politiche simili a quelle francesi o dell’Unione Europea di riconoscimento e valorizzazione delle competenze, cfr. 4.4.3) e che, così facendo, renda il posto fisso una costrizione invece di essere come oggi, l’unica possibile soluzione per evitare la precarietà lavorativa. Una flessibilità agita che, una volta superata la schiavitù del salario immediato e la paura di rimanere invischiati ai margini del mercato del lavoro o in mansioni lontane da capacità e vocazione, permetta da un lato di valorizzare le diverse forme di partecipazione sociale (volontariato, percorsi formativi informali, lavoro di cura) e dall’altro di soddisfare la necessaria flessibilità, e il continuo apprendimento, che il capitalismo cognitivo richiede (Lerner 2000).Così facendo sarebbe, dunque, possibile restituire ai giovani il tempo e la possibilità di rischiare e di partecipare attivamente nella società, “riattivando”, così, una generazione che appare oggi sempre più bloccata, in “eterna” transizione verso la condizione di adulto. Una generazione che non riesce a dare il giusto contributo in termini di capacità, potenzialità e innovazione; come invece sarebbe sempre più necessario per la prosperità socio-economica dell’intero continente, come è stato più volte evidenziato anche dalla Commissione Europea (Commissione Europea 2007). Una maggior sicurezza economica, infatti, permetterebbe di intaccare quella che Lerner (2000) ha chiamato la mentalità da bunker, frutto della reazione alla paura e all’insicurezza generata dalla precarietà lavorativa. Avere una maggior sicurezza del reddito consentirebbe di esercitare il “diritto a prendere rischi”, senza avere la paura di rinunciare ad un salario (Tons 2000) o di perdere tutti i mezzi di sussistenza in caso di fallimento. Protetti dal welfare state, si può osare di più. E questo vale ancora di più per un Paese come l’Italia, demograficamente (e non solo) sempre più “vecchio”.

5. REDDITO DI CITTADINANZA E IMMIGRAZIONE

Dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso circa si assiste all’avvento di un nuovo modello migratorio su scala planetaria, caratterizzato da un’accelerazione e una globalizzazione delle migrazioni internazionali (Castles e Miller 2003), ossia da un rilevante aumento delle migrazioni in quanto tali, nonché dei paesi che sono sedi di migrazione/immigrazione o anche di tutti e due i fenomeni contemporaneamente (Colatrella 2001), tanto che all’alba del Secondo Millennio tutte le nazioni industrializzate del mondo sono divenute paesi di immigrazione, con un crescente protagonismo del continente europeo (Massey 2002). Si tratta dunque di un processo strutturale di portata storica, che sollecita un ripensamento dei sistemi politici ed economici occidentali alla luce della crescente presenza dei lavoratori migranti e del loro contributo alla vita economica (oltre che sociale) dei paesi di arrivo. Con riferimento al caso italiano, ad esempio, recenti ricerche hanno messo in luce come negli ultimi anni l’apporto dei lavoratori stranieri sia diventato sempre più importante, non solo sul versante produttivo, ma anche su quello fiscale, contributivo e dei consumi. La relazione annuale della Banca d’Italia relativa al 2008 stimava infatti che nel 2006 gli stranieri, che rappresentavano circa il 5% della popolazione residente, contribuivano per circa il 4% alle

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entrate derivanti dall’imposta personale sul reddito44, dall’IVA e dalle accise, dai contributi sociali e dall’IRAP sul settore privato (complessivamente oltre il 70% del totale delle entrate) e assorbivano circa il 2,5% della spesa per istruzione, prestazioni pensionistiche, sanitarie e a sostegno del reddito (complessivamente pari a circa il 60% della spesa primaria) (Banca d’Italia 2009). Un contributo al welfare, dunque, quasi doppio rispetto ai benefici ricevuti. Anche da un recente studio della Caritas sul tema emerge l’impatto positivo della presenza immigrata sul sistema fiscale italiano, analizzato rispetto al lavoro dipendente e autonomo e all’acquisto e mantenimento di un’abitazione. Le stime dello studio, seppur parziali (non sono state ricomprese l’IRAP e l’IVA), danno un totale di imposte generate dalla presenza immigrata pari a più di 3,6 mld di euro. Fonti accreditate, quale il Rapporto 2007 della Unioncamere, inoltre, hanno valutato il “PIL degli stranieri” nella misura dell’8,8% del valore aggiunto italiano, in continua e costante crescita rispetto all’anno precedente (in cui si attestava al 6,1%). La conclusione a cui pervengono gli autori della ricerca Caritas, dunque, è che gli immigrati, oltre ad essere una preziosa ed irrinunciabile risorsa nel mercato del lavoro, si “pagano”, tramite le entrate fiscali che assicurano allo Stato, i servizi a loro rivolti, e molto probabilmente risultano anche a credito (Catania e Pavolini 2008, p. 312).La crescente presenza dei migranti nei paesi occidentali, cittadini dunque di fatto dal punto di vista economico anche se spesso non ancora pienamente dal punto di vista giuridico e politico, è all’origine del recente sviluppo di una serie di contributi che, all’interno della letteratura internazionale sul reddito di cittadinanza, pongono la questione della necessità di inclusione degli immigrati in misure di questo tipo (si tratta soprattutto dei lavori di Dore 2002, Pioch 2002, Ramji 2002, Boso et al. 2006, Howard 2006). Attraverso una rassegna di tali lavori, ma anche di altri contributi che analizzano la più ampia questione del rapporto tra immigrazione e welfare state, questo paragrafo analizzerà le principali tematiche affrontate dalla letteratura su reddito di cittadinanza e immigrazione45: se il possesso della cittadinanza formale debba essere o meno una discriminante nell’accesso al reddito di cittadinanza, se il reddito di cittadinanza debba essere istituito a livello nazionale, europeo o mondiale, se l’istituzione del reddito di cittadinanza e più in generale di misure di reddito di base a livello nazionale o europeo causino o meno un “effetto magnete” nei confronti dei migranti, e, più in generale, se l’immigrazione sia un fenomeno negativo o positivo per il welfare state.

5.1. Reddito di cittadinanza per quali cittadini?

Il reddito di cittadinanza è, lo dice la parola stessa, un reddito che dovrebbe spettare a chi è “cittadino”. Ma, in un’epoca di grandi migrazioni internazionali, è esattamente sulla definizione di cittadinanza che si gioca la partita fondamentale dei criteri di inclusione all’interno di una società e della necessaria operazione di ridefinizione degli stessi in un periodo di rilevanti cambiamenti.La cittadinanza è una nozione strategica per chi voglia studiare il funzionamento delle istituzioni democratiche (Zolo 1994), poiché si tratta di una categoria fondamentale sia dell’analisi giuridica, che guarda alla titolarità di diritti e doveri, che di quella socio-politica, che si concentra sulle ragioni pregiuridiche dell’appartenenza o dell’esclusione dal contesto

44 Il più basso livello dei redditi dei migranti rispetto agli autoctoni, che si traduce in un minor gettito fiscale, viene compensato da una struttura del welfare italiano orientata prevalentemente (circa all’80% della spesa) verso le prestazioni previdenziali e i servizi socio-sanitari per gli anziani: di questa struttura, gli immigrati beneficiano oggi solo in minima parte, anche perché la normativa in vigore permette loro il pensionamento soltanto al compimento dei 65 anni (Stuppini 2009).45 Le letteratura in questione si focalizza infatti per lo più sul reddito di cittadinanza, e solo marginalmente su misure più ampie di reddito di base.

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politico (Pricolo 2002). Il concetto di cittadinanza ha infatti prevalentemente due accezioni: il legame con uno Stato (nationality o cittadinanza formale) e l’insieme di diritti e doveri connessi alla cittadinanza formale, come il diritto di voto, il rispetto delle leggi, ecc. (citizenship o cittadinanza sostanziale) (Bauböck 1994). La cittadinanza sostanziale andrebbe poi ulteriormente distinta nelle sue due accezioni di status (titolarità di diritti e doveri) e di pratica, azione (i modi di impegno quotidiano in pratiche sociali) (Neveu 1993), ossia quelle che Gerard Delanty chiama rispettivamente la cittadinanza legalistica e quella democratica (Delanty 2000). La cittadinanza, dunque, è composta di diverse dimensioni, sintetizzabili in «diritti, doveri, partecipazione e identità» (Delanty 2000, p. 4). Ebbene, questa “spia” della qualità delle nostre democrazie ultimamente si è accesa. Da una quindicina d’anni a questa parte, infatti, il tema della cittadinanza è riemerso con forza al centro del dibattito teorico e politico sulle società occidentali. Dietro a questa riscoperta vi sono numerose ragioni, tutte in qualche modo legate al fatto che la cittadinanza, e quindi l’insieme dei meccanismi di redistribuzione, riconoscimento e partecipazione che costituiscono le basi della coesione sociale e dell’appartenenza esistenti fino ad ora nelle democrazie occidentali, è attualmente messa in discussione da una serie di trasformazioni in atto. L’impennata che ha caratterizzato la mondializzazione dell’economia a partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, l’aumento dell’esclusione e della povertà, l’incremento delle migrazioni internazionali e l’integrazione europea sono alcune di queste trasformazioni, peraltro strettamente intrecciate (Kazepov e Procacci 1998) 46. I processi di globalizzazione, in particolare, stanno rendendo obsoleta la sovrapposizione tra nazionalità e cittadinanza (sovrapposizione che costituisce un elemento fondante della cittadinanza moderna sin dalla sua nascita, alla fine del Settecento). Essi infatti minano lo Stato-nazione e il welfare state su due “fronti”: sovranazionale, per il sempre maggior numero di questioni che sfuggono all’autorità dei vertici politici dello Stato, e infranazionale, per il moltiplicarsi di “non cittadini” all’interno dei confini degli Stati europei (dato che l’attuale aumento delle migrazioni internazionali è connesso con i processi di globalizzazione). L’aumento degli immigrati all’interno delle democrazie europee sta infatti contribuendo a minare la legittimità delle istituzioni politiche e, in un ultima analisi, della sovrapposizione cittadinanza formale - cittadinanza sostanziale. In un volume di fondamentale importanza, pubblicato nel 2000, così Stephen Castles e Alastair Davidson formulavano i termini principali della questione:

Milioni di persone sono private di diritti poiché non possono divenire cittadini del Paese in cui risiedono. Ancora più numerosi, tuttavia, sono coloro che hanno lo status formale di membri dello Stato nazionale ma mancano di molti dei diritti che si è soliti pensare discendano da questa condizione. Confini porosi e identità multiple erodono le linee di appartenenza culturale che costituiscono il necessario accompagnamento dell’appartenenza politica. Ci sono sempre più cittadini che non appartengono, e questa circostanza mina a sua volta la base dello Stato nazionale come luogo centrale della democrazia (Castles e Davidson 2000, p. VIII).

La crescente presenza di migranti è all’origine di due fattori che, secondo Donati (1994), stanno accentuando la crisi del welfare state: 1) il processo di una progressiva inclusione statuale manifesta effetti perversi: la cittadinanza può diventare un privilegio se vincoliamo le prestazioni dello Stato assistenziale alla cittadinanza intesa in senso classico, data la sempre maggior percentuale di non-cittadini in questa accezione;2) l’affermarsi di una nuova società multietnica e multiculturale mette in discussione la standardizzazione delle prestazioni di cittadinanza.

46 Su questa tematica si vedano anche le riflessioni fatte nel par. 3.

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Ecco che allora “cittadinanza” non fa più rima con inclusione, ma con esclusione. La cittadinanza, però, è incompatibile con il privilegio: fino a quando ci sono individui che non hanno diritti di partecipazione sociale e politica, i diritti dei pochi che ne fruiscono non possono considerarsi legittimi (Dahrendorf 1995, pp. 33-34).Sono riflessioni di questo tipo che guidano i ragionamenti degli autori che si interrogano su quali criteri debbano essere adottati per l’attribuzione del reddito di cittadinanza in un’era di mobilità internazionale della forza lavoro. Roswitha Pioch, ad esempio, afferma che la questione del reddito di cittadinanza va riconsiderata in un periodo, come quello attuale, in cui lo Stato nazione è sottoposto a crescenti vincoli internazionali. La sua tesi è che in un’epoca in cui i welfare state nazionali perdono controllo sui loro confini nazionali, i criteri che definiscono chi ha diritto ad un reddito di cittadinanza sono divenuti discutibili. L’autrice si domanda di conseguenza: «alla luce delle migrazioni internazionali, la cittadinanza costituisce ancora un criterio adeguato per l’attribuzione di un reddito di cittadinanza? Chi dovrebbe avere diritto al reddito di cittadinanza in tempi di crescente mobilità internazionale, in cui un consistente numero di persone non soddisfa i requisiti per la cittadinanza?» (Pioch 2002, p. 2). La sua risposta, in parte implicita già nella domanda, è che nell’era della globalizzazione e dell’aumento delle migrazioni internazionali il possesso della cittadinanza formale non può più essere un criterio dirimente per l’attribuzione dei diritti sociali in generale e del reddito di cittadinanza in particolare. Questa consapevolezza, secondo l’autrice, apre il problema di capire quali altri criteri possano essere utilizzati per individuare chi può essere destinatario di un reddito di cittadinanza. Pioch accenna a questo proposito al concetto di denizen, introdotto da Thomas Hammar (1990) con riferimento alla condizione degli immigrati che, in possesso della residenza e di un titolo di soggiorno, sono titolari di una sorta di “cittadinanza a metà” che attribuisce loro un numero limitato di diritti civili, politici e sociali. Sostenere che debbano essere titolari del reddito di cittadinanza anche i migranti residenti ci pone però a sua volta innanzi al problema che esistono diversi status tra tali immigrati: come regolarsi ad esempio con i rifugiati o i richiedenti asilo? La studiosa pone la questione ma non dà indicazioni precise a riguardo, limitandosi a concludere il suo contributo con l’affermazione che in tempi di mobilità internazionale le proposte di reddito di cittadinanza devono includere non solo i cittadini ma anche i migranti che risiedono nei welfare state nazionali. A sostegno di tale posizione, l’autrice riporta un’affermazione di Guy Standing: un lavoro dignitoso richiede una sicurezza basilare, o la vera libertà è negata; un lavoro dignitoso si sviluppa solo se le persone comuni hanno la capacità di dire “no” (Standing 2002), cosa che secondo Pioch «dev’essere vera anche per i lavoratori migranti» (Pioch 2002, p.8). Secondo la studiosa, infatti, il reddito di cittadinanza è uno strumento per colmare il gap tra esclusi ed inclusi nel mercato del lavoro in un’epoca in cui il pieno impiego si sta riducendo, e gli Stati che lo introducono anche per gli immigrati sono maggiormente preparati ad evitare l’esclusione sociale delle minoranze etniche. Anche gli altri lavori che affrontano specificatamente la questione dell’opportunità di limitare o meno l’accesso al reddito di cittadinanza ai soli cittadini in senso formale propendono decisamente per la seconda ipotesi. Alex Boso, Irkus Larrinaga e Mihalea Vancea, con argomentazioni del tutto simili a quelle già riportate all’inizio di questo sottoparagrafo (5.1.), sostengono che l’aumento delle migrazioni internazionali, la globalizzazione e soprattutto l’incremento delle disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri sfidano il modello convenzionale di cittadinanza nazionale, e che molti dei cosiddetti “problemi degli immigrati” svanirebbero se i requisiti formali di appartenenza ad uno Stato-nazione fossero estesi tramite criteri di inclusione sociologicamente più sostanziali (Boso et al. 2006). Secondo gli autori, nella discussione sulla cittadinanza bisogna pensare all’introduzione di nuovi diritti economici e sociali che diano una risposta alla situazione di vulnerabilità e dipendenza degli immigrati, e

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un reddito di cittadinanza che garantisca l’esistenza materiale sarebbe un primo passo in questa direzione (Boso et al. 2006, p. 12). La conclusione è dunque che il reddito di cittadinanza dev’essere esteso anche agli immigrati in possesso di regolari titoli di soggiorno, compresi coloro che vengono invocando quello che nel linguaggio repubblicano si chiamerebbe il “diritto di ospitalità” 47 (rifugiati politici, titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ecc.), anche perché «escludere gli immigrati, i quali contribuiscono in modo consistente a mantenere il sistema dei servizi sociali, sarebbe riprovevole secondo qualsiasi criterio di giustizia distributiva» (Boso et al. 2006, p. 14). Lo statunitense Michael W. Howard (2006) integra le argomentazioni a favore dell’estensione del reddito di cittadinanza ai migranti. Innanzitutto, secondo l’autore, limitare il reddito di cittadinanza solo ai titolari della cittadinanza formale avrebbe in parte solo l’effetto di spostare il problema: ad esempio quando Clinton, nel 1996, ha varato una riforma del welfare che restringeva l’accesso ad alcune previdenze sociali federali solo ai cittadini, si è assistito ad un ingente incremento delle domande di cittadinanza da parte degli immigrati. In secondo luogo (e qui l’argomentazione dell’autore si situa in continuità con i contributi precedenti) restringere il reddito di cittadinanza solo ai cittadini è una soluzione non etica e non fattibile, poiché a persone che sono state legalmente ammesse, autorizzate a risiedere e a lavorare e a cui spesso è richiesto di pagare le tasse, non si possono negare i benefici di una piena membership, anche se non sono cittadini (Howard 2006). Non solo, ma sarebbe anche una soluzione difficilmente praticabile: se negli USA i tentativi di restringere i diritti sociali nei confronti dei migranti hanno incontrato difficoltà di vario tipo, negli Stati appartenenti all’Unione europea riservare un ipotetico reddito di cittadinanza solo ai cittadini sarebbe praticamente impossibile, poiché il frame legislativo comunitario garantisce già una serie di diritti sociali ai migranti, quantomeno a coloro che provengono da un altro Stato membro (cfr. sottopar. 5.2). Restringere l’accesso al reddito di cittadinanza ai soli cittadini, infine, secondo l’autore avrebbe anche degli effetti negativi sul mercato del lavoro. Lo stipendio di alcuni lavori diminuirebbe, poiché i destinatari del reddito di cittadinanza sarebbero disposti a svolgerli anche prendendo una paga minore, dato che sommandola al reddito di cittadinanza avrebbero comunque un reddito sufficiente al proprio mantenimento. Allo stesso modo, diventerebbero accessibili ai titolari del reddito di cittadinanza alcuni impieghi part-time, che in assenza del reddito di cittadinanza non sarebbero stati sufficienti a garantire loro un introito adeguato. Contemporaneamente, però, gli stipendi per i lavori peggiori (meno pagati, pericolosi, insalubri) potrebbero salire, dato che i destinatari del reddito di cittadinanza sarebbero maggiormente in condizione di rifiutarli. Tutto questo avrebbe delle conseguenze negative per i lavoratori immigrati, costretti o ad accettare lavori con salari molto più bassi di quelli che avrebbero trovato se non fosse stato istituito il reddito di cittadinanza per i cittadini, o a svolgere lavori pagati bene ma caratterizzati da condizioni fortemente penalizzanti. I lavoratori migranti, dunque, si troverebbero ancora più segregati di quanto siano attualmente nelle mansioni più sgradite: si creerebbe in definitiva un mercato del lavoro a due livelli che non potrebbe che risolversi in condizioni di lavoro peggiori per coloro che non usufruirebbero del reddito di cittadinanza. I lavoratori immigrati sarebbero di fatto sfruttati a beneficio dei destinatari del reddito di cittadinanza, una situazione per la quale non vi sarebbe alcuna

47 Il concetto repubblicano del “diritto di ospitalità”, a cui si riferiscono gli autori, è affermato da Immanuel Kant nel suo saggio “Per la pace perpetua”, pubblicato nel 1795, in cui il filosofo enuncia tre principi necessari per conseguire la pace tra le nazioni. Il “diritto di ospitalità”, enunciato nel terzo principio, sostiene che ogni straniero deve avere diritto ad un soggiorno quantomeno temporaneo nel Paese di arrivo, se il rifiuto di tale ospitalità metterebbe in pericolo la sua vita: ed è proprio questa, secondo gli autori, la situazione di molti migranti economici nell’era attuale, che nel loro Paese non avrebbero di che vivere. L’idea kantiana del diritto di ospitalità è stata ripresa anche da studiosi come Jacques Derrida, Zygmunt Bauman, Ulrich Beck e Seyla Benhabib.

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giustificazione (Howard 2006).Anche un recente lavoro di Gorka Moreno Màrquez conferma che, nel dibattito internazionale sul reddito di cittadinanza, alla questione relativa al diritto o meno degli immigrati di ricevere il reddito di cittadinanza la maggioranza delle proposte (per non dire tutte) rispondono affermativamente, sostenendo che, poiché i migranti pagano le tasse e collaborano alla creazione di ricchezza all’interno di un Paese, non vi è alcun impedimento pratico o morale al fatto che possano essere destinatari di questa prestazione o di qualsiasi altra in questo ambito. Un’altra questione, per lo studioso basco, è invece quella delle migrazioni irregolari: in questo caso il dibattito è più conflittuale, ed è difficile che possano essere messi in piedi meccanismi adeguati per questo proposito. In ogni caso, il dibattito relativo al trattamento dei migranti irregolari non è circoscritto solo al reddito di cittadinanza bensì ha una portata molto più vasta, dunque non è il caso di approfondirlo dettagliatamente in un contributo focalizzato prevalentemente sulla misura del reddito di cittadinanza (Moreno 2008).

5.2. L’unità di distribuzione del reddito di cittadinanza

Gli elementi di crisi e di cambiamento che stanno interessando la configurazione nazionale della cittadinanza a causa di elementi come la globalizzazione, l’integrazione europea e le migrazioni internazionali, investono ovviamente anche una della sue dimensioni più specifiche, ossia la cittadinanza sociale. Un’altra questione affrontata dagli studiosi che analizzano il rapporto tra reddito di cittadinanza e immigrazione è dunque la seguente: «alla luce dei vincoli internazionali, i welfare state nazionali si possono ancora considerare l’unità [territoriale] di distribuzione più adeguata» (Pioch 2002, p. 2), o bisogna piuttosto individuare altri livelli, come quello europeo o addirittura mondiale?Si tratta di una questione di indubbio rilievo, considerando che importanti studiosi della cittadinanza sociale e dei sistemi di welfare mettono in luce come i confini del welfare state nazionale siano effettivamente minati dall’emergere di nuovi livelli di regolazione, come quello rappresentato dall’Unione europea (Ferrera 2004, Roche 2002). Secondo Maurizio Ferrera, a partire dalla prima metà degli anni ’70 il processo di integrazione europea ha operato nella direzione di assottigliare e indebolire i confini territoriali della cittadinanza, con implicazioni significative per i diritti sociali. Attraverso direttive, regolamenti e sentenze della Corte, i diritti sociali (e le corrispettive obbligazioni fiscali e contributive) sono stati progressivamente disgiunti dal possesso della nazionalità relativa al Paese di fruizione e collegati semplicemente allo status di lavoratore o di residente. L’adozione del Regolamento 1408/71 sul coordinamento dei regimi di sicurezza sociali ha costituito il punto di partenza di questo processo, che ha registrato una sensibile accelerazione dopo l’Atto unico europeo del 1987. I cittadini di qualsiasi Paese membro che si trasferiscano in un altro Paese membro non possono essere discriminati in quanto stranieri e devono ricevere lo stesso trattamento riservato ai nazionali per quanto riguarda i diritti sociali (Ferrera 2004, pp. 106-107). Per ciò che concerne i migranti extracomunitari, un passo in avanti è stato fatto con l’introduzione del principio della non discriminazione sul terreno dei diritti sociali per i cittadini di paesi terzi nel maggio 2003, attraverso un emendamento del Regolamento 1408/71. In tema di lavoro e protezione sociale, dunque, i migranti extracomunitari che si trovano all’interno dell’Unione godono ora degli stessi diritti (e doveri) riconosciuti ai cittadini Ue, purché siano legalmente residenti in uno dei paesi membri48. E’ da notare, 48 In Italia, ad esempio, il Testo Unico sull’immigrazione del 1998 (peraltro precedente all’emendamento del 2003) afferma che «Gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i

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tuttavia, che gli extracomunitari non godono del diritto di libera circolazione, poiché i singoli paesi membri controllano ancora in pieno le norme di residenza legale sul proprio territorio da parte dei migranti non comunitari49, cosa che rende gli extracomunitari «denizens di serie B» (Ferrera 2004, p. 118). Un segnale positivo, secondo Ferrera, è rappresentato dalla tendenza verso la piena costituzionalizzazione dei diritti di cittadinanza a livello europeo, testimoniata ad esempio dal fatto che il Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000 ha adottato una Carta dei diritti fondamentali, significativamente riconosciuti a tutti gli individui (dunque non necessariamente ai cittadini) che si trovano legalmente residenti entro il territorio dell’Ue. Inoltre, il progetto del Trattato costituzionale elaborato nel corso del 2003 dalla Convenzione sul futuro dell’Unione europea istituisce anche un nuovo “diritto di libera residenza” per i cittadini Ue, che, secondo l’autore, potrebbe dare il colpo di grazia a quelle prerogative nazionali in materia che ancora operano a difesa del sancta sanctorum della solidarietà sociale nazionale, ossia l’assistenza. Ferrera arriva ad affermare che l’ancoramento del diritto di residenza in capo all’Ue, e non più alle autorità dello Stato-nazione, avrebbe un forte potere destrutturante, ma potrebbe, proprio per questo, anche creare un quadro di opportunità per l’istituzione di un qualche primo schema solidaristico su scala continentale: ad esempio uno schema di reddito minimo garantito contro la povertà e l’esclusione, secondo quanto auspicato e proposto da alcuni (come Schmitter e Bauer 2001). Un simile scenario potrebbe trovare alimento normativo anche dall’art. 34 comma 3 della Carta di Nizza50, soprattutto nel caso in cui quest’ultima diventasse parte integrante della nuova Costituzione (Ferrera 2004, p. 123)51. Ciò a cui ci troviamo di fronte in questo momento, comunque, secondo Ferrera, non è l’affermazione di un’improbabile cittadinanza sociale post-statuale o post-nazionale (anche perché i paesi membri mantengono notevoli prerogative circa la definizione e le modalità di funzionamento operativo dei diritti sociali entro i propri confini), quanto piuttosto un’emergente configurazione di diritti sociali “aperti” e “multilivello”. La consapevolezza che il problema politico di oggi è come forgiare un modello alternativo, post-industriale di cittadinanza sociale e uguaglianza (Esping-Andersen 1996), e che i processi di rinnovamento della cittadinanza sociale a livello nazionale nelle società europee all’inizio del Ventunesimo secolo necessiteranno sempre più di tenere in conto il livello transazionale europeo di cittadinanza (Roche 2002), dunque, non deve far dimenticare come per ora lo Stato nazionale detenga ancora un significativo potere in materia. I ragionamenti dei teorici del reddito di cittadinanza sono coerenti con quanto detto finora: la tesi dominante tra chi si interroga sul rapporto tra reddito di cittadinanza e migrazioni è che l’istituzione di un reddito di cittadinanza a scala mondiale (o, in seconda battuta, europea) sarebbe la cosa migliore e anche più giusta, ma che, almeno per ora, l’istituzione a livello nazionale pare la più realistica. L’istituzione di un reddito di cittadinanza su scala globale avrebbe senz’altro un effetto benefico sui migranti internazionali o potenziali tali, poiché renderebbe tale fascia di

sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti» (art. 41 del T.U. 286/98). Non sempre però questi principi vengono rispettati, dato che ad esempio la legge 448 del 1998 limita la previsione di un assegno familiare ai nuclei con almeno tre figli ai soli cittadini italiani (art. 65). 49 Nel caso di cittadini di altri paesi Ue la discrezionalità esiste ancora, ma è stata fortemente limitata: la libertà di circolazione a scopi di lavoro in seno al territorio dell’Unione è protetta dai Trattati e sorvegliata dalle autorità sopranazionali, soprattutto la Corte.50 L’art. 34, comma 3 della Carta di Nizza recita: “Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa, volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali”. 51 Come noto, a seguito del fallimento del progetto di Costituzione europea, è stato successivamente deciso di redigere un nuovo Trattato semplificato, privo di connotati costituzionali e da approvare solo per via parlamentare: il Trattato di Lisbona, firmato dai capi di Stato e di Governo il 13 dicembre 2007.

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popolazione meno ricattabile e meno vulnerabile, sia nei confronti dello sfruttamento lavorativo nei paesi di arrivo, sia (per i potenziali migranti) nei confronti di migrazioni forzate indotte dalla situazione di indigenza. Vidya Ramji (2002) illustra bene il secondo punto con riferimento alle donne, spesso caratterizzate da un basso capitale umano, che migrano del Kerala (India) nei paesi del Golfo per fornire soprattutto lavori di cura. Emerge una differenza quando ad emigrare sono donne che dispongono di una buona sicurezza economica: mentre queste riescono a portare a termine il loro progetto migratorio con successo, infatti, le donne che non dispongono di mezzi economici entrano in un circolo vizioso di sfruttamento e indebitamento, oltre che di disgregazione della famiglia di origine. Esse sono infatti costrette ad indebitarsi per partire, ma i loro datori di lavoro nei paesi del Golfo spesso non rispettano le condizioni contrattuali pattuite, impedendo loro di ripagare il debito contratto. Nel frattempo, il più delle volte nella loro famiglia di origine sorgono problemi (alcolismo del marito, figli che interrompono il percorso scolastico, ecc.) che le spingono a ritornare, trovandosi in condizioni economiche peggiori di quelle di partenza, che a un certo punto le costringono a ripartire. Per Ramji, dunque, il reddito di cittadinanza servirebbe a tutelare questa fascia debole di persone da abusi e ricatti, riconoscendo inoltre il valore economico del loro lavoro di cura anche nel Paese di origine: «la sicurezza di un reddito fa la differenza nella vita delle persone. Ogni welfare state deve soddisfare i bisogni dei suoi membri vulnerabili, e le donne migranti sono tra questi» (Ramji 2002, pp. 15-16). Per l’autrice l’optimum sarebbe che, oltre a garantire un reddito minimo a queste donne, lo Stato le aiutasse anche ad accrescere il loro capitale umano, in modo da aumentare le possibilità che riescano a reperire un’attività economica nel Paese di origine, posizione del tutto in sintonia con le riflessioni di Amartya Sen sull’importanza delle capabilities (Sen 2000). Le riflessioni di Ramji sulle donne del Kerala valgono ovviamente anche per le donne migranti, provenienti per lo più dai paesi dell’Est Europa, che vengono impiegate nel lavoro di cura in Italia e in altri paesi dell’Europa occidentale (sul caso veneto si veda ad esempio Mazzacurati 2006).Sebbene da un punto di vista teorico l’istituzione del reddito di cittadinanza a livello mondiale sarebbe effettivamente adatta a fornire risposte alle migrazioni internazionali e al problema della povertà (Boso et al. 2006), diminuendo così anche la paura di una welfare immigration (Pioch 2002), istituire un reddito di cittadinanza a livello planetario, secondo la maggioranza degli autori considerati, appare impraticabile politicamente (Boso et al. 2006) e di fatto poco realistico, poiché non esistono al momento istituzioni a livello mondiale in grado di raccogliere gli introiti fiscali e di amministrare un reddito di cittadinanza, e non vi è neppure un accordo globale su un principio di redistribuzione del reddito (Howard 2006). Considerazioni analoghe valgono per un’eventuale attivazione del reddito di cittadinanza a livello europeo (opzione che pare invece sostenuta da Maurizio Ferrera, come abbiamo visto), poiché la programmazione e gestione delle politiche sociali ha luogo ancora prevalentemente a livello nazionale (Boso et al. 2006, p.13) e perché la diversità economica e istituzionale degli Stati membri rende poco realistica un’armonizzazione delle politiche, costituendo un impedimento al raggiungimento di un accordo su come implementare un reddito di cittadinanza su scala europea (Pioch 2002). Pioch aggiunge però anche che, se uno stato dell’Ue introduce il reddito di cittadinanza, sarebbe bene che anche tutti gli altri stati membri lo facessero, se sono disposti ad accordarsi su uno standard sociale minimo. Questo perché il diritto alla mobilità della forza lavoro garantito dalle normative Ue ai migranti comunitari farebbe sì che uno Stato che introduce il reddito di cittadinanza debba necessariamente estenderlo anche ai migranti comunitari, cosa che potrebbe ingenerare un “effetto magnete” (affronteremo questa problematica nel prossimo sottoparagrafo). Howard (2006), per lo stesso motivo, suggerisce di abbinare l’introduzione di un reddito di cittadinanza a livello nazionale con la previsione di una forma minore di reddito di cittadinanza a livello europeo. Se il futuro della cittadinanza in generale e della cittadinanza sociale in particolare appare

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quello di una progressiva rilevanza dei livelli sovranazionali di governo per la garanzia di determinati diritti, dunque, il presente ci impone di prendere in considerazione il più realistico livello nazionale per la sperimentazione dei progetti relativi al reddito di cittadinanza. A maggior ragione, un altro livello possibile di sperimentazione (non a caso molto praticato) è quello locale, tanto più che la tendenza emergente in molti paesi va nella direzione di una sempre più accentuata regionalizzazione (o addirittura municipalizzazione) delle politiche di welfare concernenti l’assistenza sociale (Ferrera 2004, Howard 2006), ossia quelle che, a differenza delle prestazioni assicurative, sono finanziate attraverso il gettito fiscale, come appunto il reddito di cittadinanza.

5.3. L’ “effetto magnete”

La letteratura di riferimento, come abbiamo illustrato nei due paragrafi precedenti, è concorde nell’affermare che un progetto di reddito di cittadinanza debba includere anche gli immigrati regolarmente presenti, e che, almeno per ora, l’ipotesi più realistica sia la sua introduzione a livello nazionale. Tutto ciò, però, secondo alcuni autori apre immediatamente quello che viene definito un «dilemma» tra politiche generose di welfare a livello nazionale o anche europeo (tra la quali si inserisce appunto il reddito di cittadinanza) e politiche migratorie di controllo52

caratterizzate da apertura (Galston 2000, Pioch 2002, Howard 2006). L’introduzione del reddito di cittadinanza all’interno di un Paese, infatti, eserciterebbe un “effetto magnete” nei confronti dei migranti, che, in presenza di una politica di open borders, si recherebbero massicciamente nel Paese in questione, con la possibilità di minare la tenuta del sistema di welfare. Sulla scorta di queste considerazioni, Michael Howard (2006) afferma che i sostenitori del reddito di cittadinanza possono giustificare politiche migratorie di controllo restrittive e/o un periodo di attesa degli immigrati per l’accesso al reddito di cittadinanza, ma solo nella misura necessaria a prevenire il peggioramento delle condizioni degli autoctoni più svantaggiati, e solo se tali provvedimenti sono concepiti come temporanei e collocati all’interno di un percorso volto al raggiungimento della giustizia globale (il punto di arrivo, infatti, secondo l’autore, dovrebbe essere quello dell’instaurazione di un reddito di cittadinanza su scala planetaria). Howard aggiunge inoltre che intervenire sulle politiche di controllo delle migrazioni è più difficile che agire sulla temporanea restrizione del diritto all’ottenimento del reddito di cittadinanza nei confronti degli immigrati: negli USA, ad esempio, in seguito al rafforzamento del controllo ai confini col Messico le immigrazioni non sono diminuite, bensì sono continuate attraverso vie più pericolose, con maggiori rischi per i migranti. Se si agisce solo applicando un rigido controllo dei confini, conclude l’autore, si paga un prezzo elevato, in vite umane ma anche in denaro, e si può avere un esito controproduttivo, poiché gli immigrati già all’interno del Paese sono disincentivati a tornare a casa (Howard 2006, p. 10). Pioch (2002) affronta la questione con riferimento all’Unione europea: secondo l’autrice, il processo di integrazione europea, e, in particolare, l’adozione del già citato Regolamento 1408/71 (cfr. sottopar. 5.2.), minano la fattibilità di un’introduzione del reddito di cittadinanza su scala nazionale all’interno di un Paese membro, perché l’attribuzione di diritti sociali ai lavoratori comunitari comporterebbe l’obbligo per tale Paese di estendere il reddito di

52 Con l’espressione “politiche migratorie” si intendono due tipi di politiche: 1) politiche di controllo, ossia il sistema di norme e pratiche volte alla gestione dell’ingresso e della permanenza degli stranieri in quanto stranieri; 2) politiche dell’integrazione e della cittadinanza, ossia il complesso di norme e pratiche che regola il passaggio (o meno) degli stranieri all’interno del circuito di controllo generalizzato che vige per i cittadini dello Stato (Sciortino 2000).

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cittadinanza anche agli immigrati provenienti dagli altri paesi UE. Questo scenario appare all’autrice aggravato dal fatto che tra i paesi occidentali dell’Unione e i nuovi ingressi dell’Est Europa (che quando Pioch scrive erano in programma ma non ancora realizzati) esiste un rilevante gap per ciò che concerne i rispettivi sistemi di welfare, che causa nelle persone la paura di una welfare migration e le porterebbe ad osteggiare la proposta di un’introduzione del reddito di cittadinanza. L’autrice, però, non porta mai dati concreti a sostegno dell’ipotesi che tale “effetto magnete” si realizzerebbe veramente (né che sarebbe dannoso per il welfare), anzi, afferma che tutti i modelli economici (come Brücker - Boeri 2000, Commissione Europea, 2001) sostengono che le migrazioni dall’Europa orientale all’Europa occidentale sono in genere altamente sovrastimate (Pioch 2002, p. 5). La studiosa pare dunque suggerire che l’introduzione di tale misura sarebbe fattibile economicamente ma non politicamente (Howard 2006). I timori degli effetti che l’allargamento a Est dell’Unione europea avrebbe prodotto sui welfare dei paesi occidentali si sono effettivamente rivelati infondati: il primo bilancio ufficiale sulle migrazioni post-allargamento (diffuso dalla Commissione Europea nella sua relazione dell’8 febbraio 2006) ha mostrato che, anche nei paesi ove era possibile entrare liberamente per lavoro, i flussi sono stati relativamente contenuti (e persino inferiori alle aspettative). Soprattutto, la mobilità dei lavoratori provenienti dagli Stati membri dell’Europa centrale e orientale verso l’UE15 ha avuto nel complesso effetti economici largamente positivi. Nei paesi che dopo il maggio 2004 non hanno applicato restrizioni (Regno Unito, Irlanda e Svezia) si è infatti registrata una forte crescita economica ed un aumento dell’occupazione complessiva. Nei paesi che sono invece ricorsi a disposizioni transitorie per limitare il diritto al lavoro degli immigrati provenienti dai nuovi paesi membri, i lavoratori si sono inseriti senza difficoltà nel mercato del lavoro laddove sono riusciti ad accedervi legalmente, ma si sono avuti effetti collaterali indesiderabili in altri comparti, con l’intensificazione dei livelli di occupazione irregolare e del lavoro autonomo fittizio. Il rapporto della Commissione, in altri termini, ha mostrato come non sia tanto la presenza di formali restrizioni all’ingresso a condizionare i flussi di lavoratori stranieri, quanto la naturale interazione tra domanda e offerta di lavoro, concludendo che la piena libertà di circolazione e lavoro all’interno dell’UE allargata appare quanto mai necessaria (INPS 2007, p. 11-12). Secondo Van Oorschot, da una rassegna degli studi condotti sull’”effetto magnete” emerge effettivamente che l’ipotesi che gli immigrati tendano a scegliere i paesi con la migliore “offerta” di welfare è scarsamente suffragata dalla ricerca empirica (Van Oorschot 2008, p. 9). I risultati delle ricerche condotte in Europa su questo tema (di per sé poco numerose) hanno infatti prodotto risultati contraddittori. Da uno studio longitudinale, che ha messo a confronto l’incremento percentuale dell’immigrazione nei Paesi dell’Europa a quindici (nell’arco di tempo 1970-2000), ad esempio, non è emersa alcuna specifica correlazione con i diversi sistemi nazionali di welfare, e nemmeno con i livelli di spesa sociale (Menz 2004). Un’altra ricerca, che ha impiegato i dati del 1999 dello European Community Household Panel, conclude invece che i Paesi con i sussidi di disoccupazione e con i contributi assistenziali più generosi presentano un numero relativamente più alto di immigrati (De Giorgi e Pellizzari 2003).Analoghi risultati contrastanti sono presenti con riferimento ad altri contesti territoriali. Nel caso delle migrazioni interne agli Stati Uniti, ad esempio, mentre alcuni studi concludono che non vi sono dati che dimostrino l’esistenza di una welfare migration tra Stati che hanno differenze significative per ciò che concerne la generosità della cittadinanza sociale garantita, altri sostengono che tale diversa generosità ha invece degli effetti, per quanto modesti, sulla scelta del Paese di immigrazione (McKinnish 2005). Le differenze nei livelli di welfare tra gli Stati USA sono però meno rilevanti rispetto alle differenze che si riscontrano tra i primi e il Messico: in quest’ultimo caso, dunque, ci si

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potrebbe attendere un “effetto magnete” più visibile. A questo proposito, uno studio di Borjas (1999) mette in luce come le prove a favore di una funzione attrattiva esercitata dai paesi con livelli di welfare più alto sono modeste, ma si nota comunque una certa concentrazione di immigrati negli Stati più “generosi”. Borjas afferma inoltre che, anche se la presenza di sostanziose previdenze sociali non rappresenta in genere il motivo dell’immigrazione, essa può scoraggiare dal ritornare nel proprio Paese chi si imbatte nella disoccupazione, poiché nel Paese di arrivo può contare su un sostegno. Da questa rassegna delle ricerche statunitensi Howard conclude comunque che la maggior parte degli immigrati arrivano alla ricerca di un lavoro e non di servizi di welfare (Howard 2006, p. 6), ipotesi condivisa anche da Tito Boeri, il quale afferma che i dati dello European Community Household Panel (ECHP) indicano che i migranti reagiscono a differenze nei tassi di disoccupazione e nei salari più che a differenze nei livelli di generosità del welfare (La Voce 2003). Tali affermazioni appaiono condivisibili anche alla luce delle argomentazioni portate dallo studioso basco Gorka Moreno Màrquez, autore di un recente volume sul reddito di cittadinanza (Moreno 2008). Secondo l’autore, il fatto che i migranti sono attratti molti più dai bisogni del mercato del lavoro che dalla generosità delle politiche sociali è evidente se si guarda al caso spagnolo: in Spagna, la presenza immigrata si concentra soprattutto nelle aree che necessitano di forza lavoro immigrata nell’agricoltura, nel settore edile e nel turismo (Valencia, Cataluña, Andalucia, Madrid). In tali zone, la percentuale di immigrati si attesta intorno al 20%. Al contrario, nei Paesi Baschi, dove la domanda di lavoro straniero in tali settori è molto minore, gli immigrati sono solo il 6,1%. Nei Paesi Baschi dunque la percentuale di immigrati è tra le più basse del Paese, nonostante qui siano presenti le più avanzate politiche sociali della Spagna: i Paesi Baschi hanno addirittura introdotto un programma di reddito di cittadinanza53, di cui possono beneficiare anche i migranti che abbiano almeno un anno di residenza, e di cui di fatto beneficiano anche i migranti irregolari54. Le riflessioni degli autori che si interrogano su reddito di cittadinanza e immigrazione vanno comunque al di là della verifica dell’esistenza o meno di “prove” di un effetto magnete del welfare. Alcuni fanno notare, ad esempio, che affermare che l’introduzione del reddito di cittadinanza possa ingenerare un effetto attrattivo nei confronti dei migranti equivale ad ammettere che anche tutte le altre misure volte a migliorare le condizioni di vita all’interno di un Paese possano provocare un tale effetto. A ben poche persone, però, verrebbe per questo in mente di sostenere che per scongiurare l’ “effetto magnete” si debba evitare di migliorare e consolidare le attuali politiche sociali nei paesi occidentali (Moreno 2008, Boso et al. 2006). Le migrazioni internazionali, inoltre, come abbiamo già visto dipendono principalmente da fattori di tipo strutturale, e dunque in questo quadro attribuire troppa importanza al reddito di cittadinanza appare quantomeno eccessivo (Moreno 2008, p. 148). Tanto più che i sostenitori della tesi di un rilevante effetto attrattivo dei migranti esercitato dal reddito di cittadinanza si ispirano, più o meno consciamente, alle teorie dell’economia neoclassica, le quali, come ha dimostrato la sociologia delle migrazioni, presentano molti limiti e sono in gran parte infondate (Boso et al. 2006). Le spiegazioni del fenomeno migratorio basate sulla teoria economica neoclassica presuppongono infatti una visione dell’uomo (in questo caso del migrante) come un essere razionale, mosso esclusivamente dalla ricerca della soddisfazione del proprio benessere personale, che sceglie tra tutte le opzioni possibili quella che massimizza il rapporto costi-benefici. Moltiplicando la produttività del proprio capitale umano per la probabilità di trovare un impiego nella nuova destinazione e sottraendo i costi

53 Cfr. il contributo di Alessio Surian (La Renta Basica: modelli e pratiche di intervento verso il reddito di cittadinanza in Spagna e nel Paese Basco, relazione commissionata da Veneto Lavoro, 2009).54 Informazioni tratte da una comunicazione personale via e-mail con Gorka Moreno Màrquez (23 Luglio 2009).

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economici, sociali e psicologici dell’espatrio (ammettendo dunque che siano quantificabili), l’attore economico è supposto in grado di stimare il rendimento atteso dalla scelta d’emigrare, che sarà messa in atto se il rendimento risulta positivo (Zanfrini 2004). Come notano Boso et al., però, concepire i migranti come individui freddi e calcolatori, con tutte le informazioni di cui necessitano a portata di mano e totale libertà di mettere in pratica la loro decisione razionale, è sociologicamente non sostenibile (Boso et al. 2006, p. 15). L’economia neoclassica propone infatti un modello esplicativo a-storico, che trascura il complesso di vincoli e di opportunità che discendono dal contesto sociale e istituzionale, ossia la natura sociale delle azioni individuali, e riduce inoltre le motivazioni dell’agire umano alla sola dimensione economica (si parla infatti di homo œconomicus). Il risultato è che molti fenomeni non vengono spiegati, come il fatto che emigra solo un numero molto più piccolo di coloro che ne trarrebbero un obiettivo vantaggio economico; che, nel valutare le possibili mete, i migranti spesso non scelgono le destinazioni più ricche di opportunità di lavoro e guadagno; che le migrazioni tendono a durare nel tempo, anche quando mutano le condizioni che in origine facevano apparire conveniente la decisione di emigrare. Questo perché, in realtà, sono anche e soprattutto altri i fattori che condizionano l’agire dei migranti, come le dinamiche familiari e comunitarie, la presenza di informazioni scarse e contraddittorie, l’importanza dei network sociali e culturali nell’emigrazione. Per questo, l’idea che introdurre il reddito di cittadinanza in un Paese ricco comporterebbe un rilevante aumento dell’immigrazione non sembra fondata poiché non tiene in conto l’insieme dei fattori che sottostanno alla decisione di emigrare, e anche la possibilità stessa di emigrare (Boso et al. 2006). Inoltre, anche accettando i postulati delle teorie neoclassiche, si possono fare altre due considerazioni. In primo luogo, in un quadro in cui presupponiamo appunto che la mera esistenza di disuguaglianze economiche tra differenti aree sia sufficiente a provocare una rilevante immigrazione, l’influenza dell’introduzione di un (modesto) reddito di cittadinanza sui cosiddetti pull factors (fattori di “attrazione”) dev’essere misurata in termini relativi. Le disuguaglianze economiche, sociali e politiche tra paesi ricchi e poveri costituiscono infatti più push factors (fattori di “spinta”) che pull factors. In secondo luogo, se, come sostengono i teorici dell’economia neoclassica, col passar del tempo i livelli occupazionali e retributivi tra il Paese di provenienza e quello di arrivo dei migranti sono destinati ad appiattirsi, portando all’estinzione del flusso migratorio, l’introduzione di un reddito di cittadinanza nel Paese di arrivo, aumentando le rimesse dei migranti, non farebbe altro che accelerare questo processo, conseguenza che non può che essere considerata positiva da chi teme eccessivi ingressi di immigrati (Boso et al. 2006).La riflessione sull’ “effetto magnete” del welfare necessita di prendere in considerazione anche un altra aspetto, ad essa strettamente legato (e infatti chiamato in causa da quasi tutti gli autori che discutono la questione): il rapporto tra immigrazione e welfare. Chi teme l’effetto attrattivo che un welfare generoso può esercitare nei confronti dei migranti, infatti, più o meno esplicitamente sostiene che l’immigrazione (per lo meno in numeri consistenti) abbia un effetto negativo sulla sostenibilità dei sistemi di welfare dei paesi di arrivo. Si tratta di una convinzione che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso (in concomitanza con la svolta restrittiva delle politiche migratorie di controllo), si è piuttosto radicata nel senso comune e nel discorso pubblico delle società europee (Sciortino 2004), e i cui fondamenti meritano dunque di essere sondati.

5.4. Migranti e welfare state

Sono fondamentalmente due, nel discorso comune, le ragioni per cui l’immigrazione costituirebbe un problema per la sostenibilità dei regimi di welfare europei: una ragione sociologica ed una economica. Sul versante sociologico, l’ipotesi di un rapporto problematico tra immigrazione e sostenibilità del welfare nasce dalla convinzione che la crescente presenza

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di stranieri eroda la legittimità sociale di uno Stato sociale universalistico. La diversità etnica, linguistica e culturale che l’immigrazione porta con sé metterebbe in crisi l’identità omogenea e il senso di solidarietà ad ampio raggio, che rendono possibile un assetto di welfare inclusivo. Sul versante economico, l’argomento verte sull’impatto dell’immigrazione sulla spesa sociale, che potrebbe mettere a rischio (nel lungo periodo) gli equilibri fiscali alla base dello Stato sociale. Gli immigrati potrebbero rappresentare un onere eccessivo sulla fiscalità generale, nella misura in cui sono sovrarappresentati tra gli utenti del welfare, tanto più se si indirizzano verso Paesi con un sistema di welfare ben sviluppato (Van Oorschot 2008).

5.4.1. Coesione sociale

Concentriamoci innanzitutto sulla prima argomentazione, che vede i migranti come una minaccia alla coesione sociale e culturale della comunità politica. Si tratta di un’ipotesi ventilata anche da alcuni autori che si interrogano su reddito di cittadinanza e immigrazione, come Ron Dore, secondo cui è ragionevole supporre che ci sia una connessione tra diversità/omogeneità culturale, rafforzamento di un senso di identità nazionale e solidarietà sociale (Dore 2002, p. 1), o anche Roswitha Pioch, preoccupata che l’inclusione dei migranti tra i beneficiari del reddito di cittadinanza possa delegittimare il welfare state agli occhi degli autoctoni, data l’origine strettamente legata allo Stato-nazione del primo (Pioch 2002, p. 6). Insomma, l’immigrazione chiama immediatamente in causa la tematica della coesione e solidarietà nazionale, che è un presupposto per l’instaurazione di un reddito di cittadinanza e che secondo questi autori potrebbe essere minata dalla “diversità” che i migranti portano con sé. Tra gli autori che analizzano il rapporto tra reddito di cittadinanza e immigrazione, però, c’è anche chi fa notare che non sappiamo quanto lontano la solidarietà delle persone si possa spingere. Essa si è storicamente estesa dai clan agli Stati, e da piccole città-stato a nazioni, dunque cosa esclude l’eventuale emergere di un senso di giustizia globale? (Howard 2006, p. 14). Il punto, qui, è che la crisi della configurazione nazionale della cittadinanza, provocata dai processi di globalizzazione e dalle migrazioni internazionali (cfr. sottopar. 5.1), richiede il ripensamento dei criteri di inclusione e di appartenenza all’interno della comunità politica. E’ vero infatti che il welfare state è storicamente nato all’interno dello Stato-nazione moderno, e che i confini dei diritti sociali hanno dunque coinciso per molto tempo coi confini della comunità nazionale, ma ora la configurazione nazionale del welfare state è in crisi, minata non solo dall’immigrazione ma anche dai processi di integrazione europea, che stanno già disconnettendo i diritti sociali dalla dimensione territoriale e identitaria nazionale (cfr. sottopar. 5.2). Vi è un’ampia letteratura che si interroga dunque su quale potrebbe essere il nuovo “cemento” sociale delle società complesse e multiculturali, e un numero crescente di studiosi lo vede proprio nella valorizzazione delle differenze55.Secondo Will Kymlicka, infatti, ci sono ben poche prove che la “diversità” culturale e/o etnica mini il sostegno alla redistribuzione. Al contrario, i risultati delle ricerche suggeriscono che il multiculturalismo spesso accresce, invece che erodere, l’unità sociale. Ad esempio, i casi del Canada e dell’Australia (i due paesi che per primi hanno adottato politiche multiculturali) contraddicono vigorosamente l’affermazione che la presenza di immigrati e minoranze etniche promuova un’apatia o un’instabilità politica, o una reciproca ostilità tra gruppi etnici. Questi due paesi, infatti, portano avanti un lavoro migliore di ogni altro Paese al mondo nell’integrare gli immigrati nelle istituzioni civili e politiche, e peraltro entrambi hanno assistito ad un rilevante aumento di relazioni etniche positive e di matrimoni interetnici. Non c’è dunque alcuna prova che perseguire più eque condizioni di integrazione dei migranti mini la stabilità democratica (Kymlicka 2002, pp. 367-368).

55 Cfr. rassegna in Mantovan 2007, pp. 32-34.

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Tali affermazioni sono confermate anche da una ricerca, svolta dallo studioso olandese Wim Van Oorschot (2008), che ha analizzato gli orientamenti alla solidarietà informale verso gli immigrati in Europa56. Dallo studio emerge che la crescente diversità culturale non ha eroso le fondamenta del modello sociale europeo, e che anzi si dimostrano più solidali i cittadini di paesi diversificati al proprio interno sul piano culturale. I dati evidenziano infatti che le differenze nei tassi nazionali di immigrazione non influiscono sulla solidarietà della popolazione verso gli immigrati, e che, al contrario, percentuali più elevate di cittadini nati all’estero si possono perfino accompagnare a una maggiore solidarietà nei loro confronti. La correlazione statistica più significativa, rispetto al grado di solidarietà informale con gli immigrati, è quella con la molteplicità di lingue che si parlano in un Paese: una tradizione consolidata di multilinguismo (come in Belgio o Svizzera) crea condizioni favorevoli ad attenuare la distinzione tra la solidarietà verso i gruppi vulnerabili tradizionali e quella indirizzata agli immigrati. L’autore ipotizza dunque che una forte diversità culturale insegni alle persone a comprendere di più gli “altri” e ad abituarsi a convivere con loro senza avvertirli come una minaccia né dal punto di vista culturale né da quello economico, tesi in linea con le riflessioni di Zygmun Bauman sull’importanza di coltivare nei cittadini sentimenti di “mixofilia” favorendo il contatto tra “diversi” (Bauman 2005). Van Oorschot, inoltre, sottolinea come uno dei pochi studiosi che ha analizzato il rapporto tra i vari modelli di Stato sociale (con riferimento alle tipologie individuate da Esping-Andersen) e gli orientamenti della popolazione verso gli immigrati ha concluso che il regime di welfare social-democratico e quello corporativo hanno realizzato con più efficacia l’integrazione degli immigrati, senza pregiudicare il sostegno dell’opinione pubblica allo Stato sociale. Viceversa, nei Paesi in cui il welfare è tradizionalmente meno sviluppato, e si basa di più su misure legate all’accertamento del reddito, le nuove diversità culturali hanno tendenzialmente indebolito l’appoggio dell’opinione pubblica al principio della redistribuzione, o a programmi sociali orientati in senso inclusivo (Banting 2000, p. 25). Tale risultanza è in linea con quanto affermato da Maurice Roche (anche se in questo caso con riferimento più alla tematica della sostenibilità economica che del consenso sociale): a dispetto della retorica dominante relativa all’ “ineluttabilità” dei tagli al welfare sulla scorta delle pressioni economiche globali, il modello social-democratico continua ad essere il migliore, non solo dal punto di vista della riduzione delle disuguaglianze, della promozione dell’autonomia individuale e della stabilità e integrazione sociale, ma anche per ciò che concerne il mantenimento dell’efficienza economica, come dimostrano numerose ricerche comparative (tra cui Goodin et al. 1999). Questo porta a mettere in discussione la retorica neoliberale secondo cui gli Stati si troverebbero di fronte a una scelta a somma zero tra obiettivi economici e obiettivi sociali (Roche 2002, p. 78). La politica, insomma, conta ancora, come ammette anche Pioch, quando afferma che i welfare state sono sì sottoposti a vincoli internazionali, ma la dimensione dei diritti sociali e l’estensione della redistribuzione rimane una questione di scelta politica, tanto che vi sono ad esempio rilevanti differenze tra Stati per ciò che concerne l’integrazione e i diritti politici e di cittadinanza degli immigrati. A questo proposito, secondo l’autrice, i Paesi Bassi sono più preparati della Germania ad introdurre il reddito di cittadinanza perché hanno istituzionalizzato diritti politici per i migranti, oltre ad avere un sistema di welfare già in parte finanziato dalle imposte progressive57 (Pioch 2002). C’è, infine, anche chi suggerisce che

56 L’autore ha attinto ai dati dell’European Values Study (EVS) del 1999/2000, una survey condotta simultaneamente in 33 Paesi europei (www.europeanvalues.nl). L’analisi è però limitata ai 18 Paesi per i quali van Oorschot disponeva, al momento della rilevazione, di adeguati dati aggiuntivi di tipo aggregato: Francia, Regno Unito, Germania, Austria, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Svezia, Finlandia, Irlanda, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. 57 Secondo la studiosa, i welfare state finanziati con un sistema di imposte progressive sono meglio preparati ad adattarsi ai cambiamenti provocati dai processi di divisione internazionale del lavoro rispetto ai welfare state

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l’introduzione di un reddito di base possa servire proprio a ristabilire la vitalità dei legami sociali, indeboliti da un diritto alla partecipazione sociale ridotto alla sola partecipazione alla sfera del mercato (Regione Lazio 2006). Si tratta di una questione fondamentale, già affrontata nel par. 3, relativa al fatto che il reddito di cittadinanza può incidere sul senso di appartenenza ad una comunità politica, e in particolare sulle basi materiali che la determinano, in un periodo in cui i tradizionali criteri di inclusione sono in crisi.

5.4.2. Dimensione economica

Gli effetti delle migrazioni sul sistema economico del Paese di destinazione sono stati analizzati in letteratura con riferimento a cinque principali tematiche (Strozza 2000): 1) l’impatto sulla crescita economica; 2) la concorrenza o la complementarità degli stranieri rispetto ai lavoratori nazionali; 3) l’assimilazione salariale degli stranieri; 4) l’impatto sulla spesa sociale; 5) il contributo alla stabilizzazione dei sistemi di sicurezza sociale.Prima di concentrarci sugli ultimi due, che riguardano più strettamente la tematica di nostro interesse, è utile accennare anche ai primi tre, affrontando brevemente la questione del rapporto tra immigrazione e mercato del lavoro, con riferimento soprattutto al caso italiano. Stando all’ultimo rapporto INPS su immigrati e previdenza, il quadro della presenza dei lavoratori stranieri nel mercato del lavoro italiano presenta le seguenti caratteristiche: tassi di attività più alti degli autoctoni, tassi di disoccupazione relativamente contenuti e non troppo dissimili da quelli generali, se non per la componente femminile, maggiormente in difficoltà, forte inserimento nei settori principali dell’economia italiana (circa il 6,5% degli occupati è straniero), che assicura il mantenimento di buone performance ad un segmento rilevante di questi ultimi e contribuisce dunque in misura consistente alla crescita economica58. L’inserimento della manodopera immigrata nel nostro mercato del lavoro si è inoltre a lungo qualificato per la non concorrenzialità con la forza lavoro italiana, e ha permesso di fornire in parte una soluzione al fenomeno crescente del mismatch (non corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro). Il rapporto mette in luce anche una serie di fenomeni che vengono definiti «preoccupanti»: da quelli di prospettiva di breve-medio periodo (gli immigrati, soprattutto maschi, sono fortemente coinvolti in segmenti del settore industriale a rischio nei prossimi anni, a seguito dei processi di globalizzazione e competizione internazionale), a quelli riguardanti lo spreco di conoscenze, la dequalificazione professionale, la segregazione in certi comparti e le differenze retributive con gli autoctoni. Il confronto internazionale ha permesso solo in parte di relativizzare questi problemi, mettendo spesso in mostra come essi siano presenti anche in altri paesi dell’Europa occidentale, ma confermando spesso comunque una specificità italiana (e frequentemente sud-europea), in particolare per quanto riguarda le difficoltà di inserimento, quantitativo e qualitativo, della forza lavoro femminile straniera (INPS 2009). Lo spreco di conoscenze (il cd. brain waste), in particolare, che porta molti lavoratori immigrati, in possesso di titoli di istruzione medio-alti, a svolgere lavori che richiedono qualifiche basse o nulle (anche a causa delle difficoltà di riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero), appare preoccupante anche alla luce delle riflessioni di alcuni autori sull’importanza di una valorizzazione del capitale umano (Visco 2008, Banca d’Italia 2009, Accetturo e Infante 2008). L’associazione positiva tra il tasso di crescita o il livello del PIL pro capite e il capitale umano è stata infatti ampiamente documentata dalla letteratura, e per questo sia la società sia i singoli devono investire nella sua accumulazione. Questo è ancor più rilevante alla luce della tendenza alla riduzione della quantità di lavoro: anche da questo punto di vista l’immigrazione può essere una risorsa importante se accompagnata da adeguate finanziati da prelievi sui redditi da lavoro (Pioch 2002).58 Il rapporto Caritas/Migrantes sull’immigrazione del 2008 mette infatti in luce che nel 2007 circa i due terzi dell’aumento complessivo degli occupati (234mila persone) è rappresentato da stranieri.

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politiche di istruzione e formazione (Visco 2008, p. 3). Non c’è dubbio che da questo punto di vista l’introduzione del reddito di cittadinanza anche per i lavoratori migranti avrebbe una ricaduta positiva sull’accrescimento del loro capitale umano: rendendoli meno soggetti ad accettare qualsiasi lavoro pur di sopravvivere, permetterebbe loro di far maggiormente fruttare le proprie competenze, con una ricaduta positiva per l’intera società.Passiamo ora ad analizzare gli ultimi due punti, relativi a quanto gli immigrati contribuiscono e quanto ricevono dal welfare state. Secondo Giuseppe Sciortino (2004), le ricerche su questa tematica presentano risultati convergenti, che sfatano decisamente l’ipotesi di un aggravio dei migranti sui sistemi di welfare. Uno studio condotto nel Regno Unito, ad esempio, ha indicato che il contributo della popolazione nata all’estero all’erario dello Stato è del 10% maggiore a quanto essi ricevono come beneficiari di spesa sociale (Glover et al. 2001). Risultati analoghi sono emersi in Germania, dove gli immigrati contribuiscono all’economia in modo molto maggiore di quanto non ricevano in benefici economici diretti (Spencer 1994). Le ricerche tedesche mostrano anche che non ci sono significative differenze tra la welfare dependency (il livello di dipendenza dai servizi sociali) della popolazione autoctona e quella straniera (Riphahn 1998). Studi svolti in Svezia e Danimarca, dove invece si assiste ad una rilevante dipendenza degli stranieri dal welfare, hanno dimostrato che tale dipendenza è però da ricondurre alla politica migratoria dei due paesi, poiché viene autorizzato l’ingresso quasi solo ai rifugiati e richiedenti asilo, il cui accesso al mercato del lavoro è ristretto per legge (Hansen e Lofstrom 1999). Massimo Strozza, autore di una rassegna della letteratura internazionale sul tema, afferma ugualmente che la gran parte degli studi che hanno analizzato l’impatto dell’immigrazione sulla spesa sociale è pervenuta a stime che indicano un effetto netto degli immigrati sui nativi che è positivo o neutro (Strozza 2000, p. 2), come dimostrano anche i dati sul caso italiano, riportati nell’introduzione. Il contributo positivo dei migranti all’economia e al welfare dei paesi di arrivo, in quanto lavoratori ma anche consumatori di beni e servizi, si è palesato in modo evidente all’inizio del 2008 in Arizona, quando lo Stato americano ha introdotto una serie di misure restrittive verso l’immigrazione che hanno spinto molti ad andarsene, provocando il fallimento di numerose attività economiche e spingendo i politici a prendere delle contromisure (Holland 2008). I benefici dell’immigrazione al welfare sono particolarmente evidenti quando si analizza l’andamento demografico delle società dell’Europa occidentale, caratterizzato da un progressivo invecchiamento, come sottolineano vigorosamente pressoché tutti gli autori che hanno trattato la questione. Secondo uno studio delle Nazioni Unite, il numero di immigrati che servirebbero per mantenere l’attuale rapporto tra popolazione in età lavorativa e anziani nei paesi europei è decisamente elevato: si dovrebbe trattare di vari milioni di nuovi ingressi annuali e ciò darebbe vita a una presenza di immigrati di gran lunga maggiore di quella attuale (UN 2000). Per ciò che concerne l’Italia, sulla base delle nuove previsioni ISTAT, pubblicate nel 2008, la popolazione italiana residente salirebbe a oltre 61 milioni nel 2051. La quota di residenti con 65 anni e più passerebbe dal 20% nel 2007 al 33% nel 2051, mentre diminuirebbe di 10 punti, attestandosi al 27%, quella dei residenti con età compresa tra i 25 anni e i 49 anni (Visco 2008). Queste previsioni tengono già conto dei flussi migratori, che l’ISTAT stima in oltre 200mila persone all’anno, e che porterebbero la quota di stranieri residenti in Italia dal 6% circa del 2007 a oltre il 17% nel 2051. Per ciò che concerne il Veneto, nonostante una previsione di aumento dei migranti in 30 anni (2007-2037) che porterà la percentuale degli stranieri in questa regione al 22% circa (naturalizzati esclusi), gli over 64 aumenteranno e diminuirà la popolazione in età attiva (15-64 anni) (Anastasia 2009). L’immigrazione svolge dunque una preziosissima funzione (parzialmente) compensativa

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rispetto al declino della componente italiana in età da lavoro59: lungi dall’essere una minaccia al welfare, dovrebbe invece aumentare ulteriormente per far fronte al processo di invecchiamento della società occidentale, questo sì un rilevante elemento di destabilizzazione del welfare, come sostiene anche l’economista Tito Boeri (La Voce 2003). Gli studi fin qui presentati, come afferma Sciortino, sono senz’altro importanti per una visione dei fatti più realistica, ma hanno un limite: prendono per buono il policy framework dominante, restringendo lo studio del rapporto tra sistema migratorio e regimi di welfare alla sola questione della welfare dependency: i migranti, in altre parole, sono visti solo come utenti o contribuenti del welfare. Per l’autore, invece, la migrazione gioca un ruolo molto più ampio nel funzionamento dei sistemi di welfare europei. La configurazione di molti regimi di welfare dell’Europa occidentale è la maggiore causa strutturale della domanda di lavoro straniero dequalificato, ed è sorprendente che siano state condotte pochissime ricerche che analizzano la migrazione come il principale meccanismo di funzionamento dei sistemi di welfare (Sciortino 2004, p. 113). L’autore dimostra quanto appena detto con riferimento ai sistemi “mediterranei” di welfare, come l’Italia. Fino a tempi recentissimi, in questi paesi il welfare era basato, piuttosto che sulla fornitura di servizi assistenziali diretti da parte dello Stato, sul ruolo centrale della famiglia e sul trasferimento diretto di risorse economiche. Una serie di fattori, quale il sempre più elevato tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro e il già citato invecchiamento della popolazione, hanno fatto “saltare” questo modello, rendendo praticamente indispensabile l’apporto dei lavoratori domestici stranieri. Il fatto che gran parte di essi sia costretto ad operare in modo irregolare rappresenta un ulteriore contraddizione nell’approccio europeo a questi fenomeni (Sciortino 2004).

5.5. Conclusioni. Il reddito di cittadinanza come elemento di attualizzazione dei diritti di fronte alle migrazioni internazionali

La presenza di lavoratori migranti nelle società occidentali in generale e in Europa in particolare è ormai un fenomeno strutturale, strettamente collegato alle caratteristiche del mercato del lavoro e del welfare state nei paesi di arrivo. Per ciò che concerne l’Italia, ad esempio, buona parte delle performance del mercato del lavoro ed in particolare di quelle, positive, relative a trend di tassi di attività e di occupazione è da ascrivere ad una forza lavoro straniera in crescita, in grado quindi di svolgere un ruolo rilevante e consistente rispetto al funzionamento generale del mercato del lavoro italiano (INPS 2009).Non solo il timore di uno spiazzamento dei lavoratori autoctoni da parte degli stranieri è generalmente infondato, in Italia come altrove60, ma la loro presenza contribuisce a sostenere, in modo cruciale, i tassi di attività della popolazione autoctona, in particolare di quella femminile, facilitando la risoluzione dei problemi di conciliazione fra responsabilità familiari e lavoro per molte donne italiane61. Emerge infatti una correlazione robusta della crescita dell’occupazione femminile e di quella dei segmenti più istruiti della popolazione italiana con

59 L’indice di vecchiaia della popolazione italiana è quasi dodici volte superiore a quello della popolazione straniera (INPS 2009).60 Le evidenze disponibili, in larga parte riferite ai paesi anglosassoni, suggeriscono che gli effetti negativi sulle opportunità occupazionali dei cittadini di un Paese dovuti a una maggiore presenza straniera sono generalmente contenuti e limitati ai segmenti della popolazione meno istruiti, dove è più alta la sostituibilità di lavoratori autoctoni con lavoratori immigrati (Visco 2008). 61 Riguardo a questo aspetto valgono comunque le considerazioni critiche (in parte accennate alla fine del sottoparagrafo precedente) riguardo ad una struttura di welfare, come quella italiana, che, con il parziale processo di sostituzione delle donne italiane con quelle straniere nei lavori di cura, continua a considerare tale lavoro una questione privata (e in particolare femminile) invece che pubblica, incentivando inoltre la segregazione delle donne straniere in questo tipo di mansioni (su questi temi cfr. Ehrenreich e Russel Hochschild 2004).

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la presenza straniera nel mercato locale, evidenziando come la manodopera straniera si collochi in un rapporto di complementarietà con quella italiana, piuttosto che di sostituibilità. La presenza degli immigrati ha inoltre un effetto positivo sul comportamento di investimento delle imprese, provocando tra le altre cose un aumento dei tassi di investimento delle imprese manifatturiere, soprattutto nelle nuove tecnologie (Visco 2008, INPS 2009).Il ruolo positivo dei lavoratori migranti nel mercato del lavoro delle società occidentali si rivela tale anche con riferimento al loro contributo al welfare state. A dispetto della retorica dominante nel senso comune e nel discorso pubblico delle società europee a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, infatti, gli immigrati costituiscono una risorsa per lo stato sociale sia dal punto di vista economico che dal punto di vista culturale. Con riferimento al primo aspetto, la maggioranza delle ricerche che hanno analizzato l’impatto dell’immigrazione sulla spesa sociale è pervenuta a stime che indicano un effetto netto degli immigrati sui nativi che è positivo o neutro (cfr. sottopar. 5.4). I benefici dell’immigrazione al welfare sono particolarmente evidenti quando si analizza l’andamento demografico delle società dell’Europa occidentale, caratterizzato da un preoccupante invecchiamento della popolazione che la presenza dei migranti contribuisce ad attenuare. Con riferimento al secondo aspetto, sia studi svolti in Canada e in Australia sia ricerche concernenti il contesto europeo hanno dimostrato che la presenza di “diversità” culturali e linguistiche non erode la coesione sociale, anzi spesso l’accresce, specialmente in presenza di politiche sociali lungimiranti (Kymlicka 2002, Van Oorschot 2008). Gli Stati che hanno portato avanti un efficace lavoro di inclusione dei migranti nelle istituzioni civili e politiche, infatti, hanno spesso avuto risultati positivi anche in termini di consenso sociale. In particolare, il regime di welfare social-democratico e quello corporativo, rispetto a modelli di welfare meno sviluppato e più condizionato come quello liberale62, hanno realizzato con più efficacia l’integrazione degli immigrati, senza pregiudicare il sostegno dell’opinione pubblica allo Stato sociale. Queste ultime considerazioni dimostrano come anche un’altra retorica attualmente dominante sia scarsamente fondata: quella che descrive l’esistenza di un gioco a somma zero tra economia e società, affermando che le ristrutturazioni economiche globali imporrebbero agli Stati cospicui tagli alle spese sociali per mantenere una sostenibilità economica. Al contrario, la politica nazionale e locale possono giocare tuttora un ruolo centrale, in particolare con riferimento ad una questione cruciale: la necessità di ristrutturare la cittadinanza sociale adattandola ai cambiamenti in atto nelle società occidentali. Fenomeni come la globalizzazione, l’aumento delle migrazioni internazionali e l’integrazione europea stanno infatti rendendo obsoleta la sovrapposizione tra nazionalità e cittadinanza, spingendo ad un ripensamento della categoria della cittadinanza in generale e della cittadinanza sociale in particolare (cfr. sottopar. 5.1. e 5.2.). In questa operazione di ridefinizione dei diritti sociali, l’introduzione di un reddito di cittadinanza che abbia come destinatari anche i lavoratori migranti appare rispondere adeguatamente a molte delle sfide in atto. Il primo luogo, infatti, promuoverebbe la libertà dei migranti sfidando il persistente legame tra cittadinanza e diritti (Boso et al. 2006), inadeguato a rappresentare una realtà sociale in cui, come già esplicitato, la presenza degli immigrati è divenuta una dato strutturale, e in cui la crescente mobilità internazionale richiede di garantire nuovi diritti sociali ed economici anche ai non cittadini in senso formale. Si tratterebbe dunque di un riconoscimento del ruolo che i lavoratori migranti di fatto già svolgono nelle società e nelle economie di destinazione, che avrebbe delle utili implicazioni economiche ma anche sociali e culturali: andrebbe ad incidere positivamente sul senso di appartenenza dei migranti alla comunità politica italiana, dato lo stretto legame esistente tra risorse materiali, partecipazione e cittadinanza.

62 Ci si riferisce qui alla tipologia di regimi di welfare individuata da Esping-Andersen (2000).

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In secondo luogo, è stato notato che il reddito di cittadinanza, slegando lavoro e diritto ad un reddito garantito, contribuisce a colmare il gap tra esclusi ed inclusi nel mercato del lavoro in un’epoca in cui il pieno impiego si sta riducendo; da questo punto di vista può dunque essere concepito come un “diritto di esistenza” nelle società contemporanee (Boso et al. 2006, Howard 2006, Pioch 2002). Questo è particolarmente vero per i lavoratori migranti, che costituiscono uno degli anelli più deboli del sistema occupazionale, essendo maggiormente esposti alle conseguenze negative dei processi di ristrutturazione del sistema secondario in atto e della recente crisi economica e finanziaria mondiale. Le caratteristiche della presenza immigrata nel mercato del lavoro italiano, infatti, come un’occupazione fortemente sbilanciata nel settore industriale e, in particolare, delle costruzioni, e una sovrarappresentazione negli impieghi a minore qualificazione e nei lavori meno stabili (tanto in termini contrattuali che di anzianità aziendale), ne fanno le prime vittime dell’attuale aumento della disoccupazione (INPS 2009, Fincati, Gambuzza e Savini 2009, Gambuzza e Rasera 2009). Se a questo si aggiunge che in Italia la disoccupazione delle donne migranti è particolarmente elevata e che si prevede che i migranti, a causa dei redditi generalmente poco elevati, percepiranno in futuro pensioni particolarmente basse, si comprende come l’estensione del reddito di cittadinanza ai migranti sia cruciale per evitare nel prossimo futuro il manifestarsi di significativi processi di esclusione sociale di questa categoria di cittadini e di lavoratori, considerazione valida con riferimento all’Italia ma anche alle società europee e occidentali in generale (Pioch 2002). In terzo luogo, attribuire il reddito di cittadinanza ai migranti darebbe loro la possibilità di investire maggiormente nel proprio capitale umano. Ed è stato messo in luce da studi della Banca d’Italia come proprio l’accrescimento del capitale umano sia di cruciale importanza per far fronte alla già citata tendenza contemporanea alla riduzione della quantità di lavoro. Il capitale umano è infatti un fondamentale motore della crescita di lungo periodo, nella sua duplice funzione di fattore produttivo e fonte di duraturo sviluppo dell’efficienza produttiva, ma la qualità e la quantità del capitale umano di cui è dotata l’Italia sono basse, in assoluto e nel confronto internazionale, a causa di fattori come la forte dipendenza dei risultati dalle condizioni iniziali (reddito e livello di istruzione dei genitori), che dimostra l’esistenza di vincoli all’ingresso per le fasce di popolazione più svantaggiate (tra cui i migranti). Mettere i lavoratori migranti, che costituiscono una presenza sempre più rilevante nelle economie occidentali, nelle condizioni di investire maggiormente nell’accrescimento delle proprie competenze professionali e umane perché liberi da pressanti esigenze materiali, dunque, avrebbe degli effetti positivi per la società nel suo complesso (Visco 2008, Banca d’Italia 2009, Accetturo e Infante 2008).

6. IL REDDITO DI CITTADINANZA DI FRONTE ALLE CRISI DELLE POLITICHE SOCIALI.

Una serie di crisi interrelate contraddistinguono le politiche sociali e sono state recentemente descritte da Standing (2002). Di fronte a queste crisi, l’introduzione del RdC si pone sia come un elemento di innovazione di tipo culturale e politico, sia come uno strumento pratico per il miglioramento delle politiche di welfare. In un articolo recente apparso su un quotidiano nazionale e ripreso da BIN Italia (www.bin-italia.org), Luciano Gallino mostra che le “ricerche condotte su casi locali attestano che il reddito base non conduce affatto alla formazione di masse crescenti di oziosi, né che esso - quando il suo ammontare sia congruo - favorisce l'offerta di bassi salari da parte delle imprese. Calcoli approfonditi mostrano inoltre come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un' aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore - da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità - che costano comunque miliardi l' anno”. Il RdC è quindi una risposta alle

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otto emergenze non più eludibili descritte da Standing (2002): l’introduzione di misure di reddito di cittadinanza presenta un potenziale impatto significativo e positivo in merito ad ognuna di queste crisi e, quindi, complessivamente, per le politiche di welfare e cittadinanza.

6.1 La crisi fiscale

L’introduzione di un RdC universale e incondizionato permetterebbe di evitare gli enormi costi di sorveglianza e di gestione richiesti oggi dalle nuove politiche selettive. Inoltre, la natura incondizionata di tale intervento, permetterebbe di aggirare i rischi di clientelismo, corruzione e di inefficienza della burocrazia (particolarmente elevati nel caso italiano).A partire dagli anni '80 del secolo scorso si è assistito alla progressiva riduzione delle tutele dello stato sociale così come si era sviluppato nel secondo dopoguerra. La giustificazione maggiormente utilizzata è la crisi fiscale e la necessità di osservare uno stretto controllo del debito pubblico. Per sostenere la riduzione delle prestazioni dello stato sociale si è propugnata l'insostenibilità dei costi dello stato sociale e in particolare la necessità di non favorire i cosiddetti “poveri immeritevoli” e la “cultura della dipendenza”.In merito al primo tema, l’insostenibilità dei costi dello stato sociale, va rilevata la crisi fiscale del sistema di welfare accentuata, da un lato, dalla progressiva crescita della domanda di interventi, dovuta sia ad un' “insaziabile” richiesta di migliori cure per la salute, sia al crescente invecchiamento della popolazione; dall'altro, dalla messa in crisi della base contributiva dei sistemi di protezione sociale, frutto del ritorno della disoccupazione di massa, della diffusione del lavoro part-time e dell’occupazione sommersa e di tassi di crescita sempre più bassi. Tutto questo ha fatto sì che vi sia stata una crescita dell'incidenza di tasse e contributi sul reddito.Per quanto riguarda la retorica sui “poveri immeritevoli” e sulla “cultura della dipendenza”, va sottolineato che è in funzione di un discorso volto a mettere in primo piano la rappresentazione della crisi fiscale del sistema di welfare che si è progressivamente sottolineato come gli interventi di protezione sociale comportino anche il rischio di provocare la cosiddetta “trappola della povertà o della disoccupazione” che spingerebbe molti beneficiari, di fronte all'alternativa tra ricevere un sussidio o essere impegnati in lavori sottopagati, a rimanere al di fuori del mercato del lavoro.Questo ha fatto sì che si sia affermata l'idea che aiutare alcune categorie sociali costituisse un eccessivo onere per l'economia, in quanto provocherebbe soltanto una crescita artificiale della disoccupazione (Arcarons et al. 2005). Standing (2002) ha messo in evidenza che, sebbene i cambiamenti del mercato del lavoro abbiano comportato una riduzione della base contributiva, un fattore fondamentale di crisi fiscale nei paesi occidentali è stato il maggior potere e la crescente mobilità che hanno acquisito i grandi capitali, sempre meno intenzionati a contribuire al finanziamento di sistemi solidaristici. Indipendentemente da quali siano stati i fattori di crisi, è importante notare che le risposte dei governi sono state quasi ovunque omogenee e hanno comportato tagli alle prestazioni sociali con gravi ripercussioni sulla distribuzione e sulla sicurezza del reddito. Questa “soluzione” al problema è stata fortemente sostenuta dall' “ortodossia economica” (Standing 2002). Questi tagli sono stati inoltre accompagnati da un duplice processo, di crescente selettività degli interventi, da un lato, e di privatizzazione della protezione sociale, dall'altro.La crescente selettività degli interventi (means-testing, behaviour-testing, asset-testing, innalzamento del livello e della durata dei contributi richiesti) ha avuto conseguenze gravi soprattutto sui lavoratori flessibili. Si è avuto cioè un passaggio da un sistema di welfare universale, fondato sul diritto di cittadinanza e sui diritti del lavoro, ad uno condizionato

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incentrato sul dovere del lavoro, che ha spostato le responsabilità dai datori di lavoro pubblici e privati ai lavoratori.Così facendo, inoltre, mentre si diceva di voler alleggerire la pressione sul sistema fiscale rendendolo più efficiente, si è optato per programmi sempre più selettivi che richiedono sempre maggior complessità e sempre più livelli decisionali. Tutto questo non ha fatto altro che produrre l’aumento dei costi di sorveglianza e di gestione. In questo senso la frammentazione del sistema degli ammortizzatori sociali non ha giovato né ai lavoratori né alle istituzioni pubbliche: i primi hanno subito gli effetti negativi della differenziazione dei trattamenti erogati sulla base della tipologia contrattuale e dei contributi versati, i secondi, invece, hanno dovuto investire maggiori risorse nel controllo amministrativo e di gestione dei sussidi e delle indennità erogate. Inoltre, la privatizzazione degli interventi di welfare e di intermediazione nel mercato del lavoro ha finito per differenziare fortemente i servizi e per far lievitare il costo pagato dai destinatari degli interventi. Questo modo di reagire alla crisi fiscale del welfare state ha inoltre fortemente accentuato le altre crisi di cui si parlerà da qui in avanti.

6.2 La crisi morale

In primis, l’introduzione del RdC permette di intervenire alla radice sui temi dell’insicurezza e della paura, quella che è stata definita da alcuni “la mentalità da bunker” che contraddistingue sempre di più la società, bloccando letteralmente alcune categorie sociali, come per esempio i giovani, tradizionalmente motori di innovazione e creatività.In secondo luogo, la creazione di uno strumento di cittadinanza così significativo intaccherebbe la crescente lontananza dalle istituzioni, uno dei fattori principali della crisi morale e fattore che incide in maniera più rilevante su tale crisi rispetto alla presenza di una quota di, cosiddetti,”poveri immeritevoli”.Inoltre, tale intervento, non più stigmatizzante, ma fondato sul diritto di cittadinanza, permetterebbe di favorire l’inclusione anche di categorie sempre più numerose e sempre più esposte al rischio di esclusione socio-economica (basti vedere alcuni Paesi europei), come quella dei figli degli immigrati.A partire dagli anni '80 del secolo scorso si è progressivamente fatta strada la convinzione che gli interventi di protezione sociale abbiano incoraggiato comportamenti e situazioni di sfruttamento e di “azzardo morale”, vale a dire di selezione negativa. Questa rappresentazione, che soprattutto in ambito anglosassone è stata chiamata “crisi morale”, appare funzionale al discorso dei fautori di una maggior selettività e condizionalità degli interventi di welfare. Va rilevato che tali trasformazioni, però, non hanno fatto altro che generare nuovi azzardi morali come, per esempio, le cosiddette “trappole della povertà”: è il caso di soggetti che si trovano di fronte a lavori con redditi talmente bassi da preferire la sussistenza attraverso i sussidi sociali rispetto all’inserimento lavorativo, anche perché la tassazione sul reddito da lavoro comporterebbe una decurtazione insostenibile del reddito. Standing (2002) ha messo in luce come la crisi morale rappresenta il segno della volontà di dividere i potenziali beneficiari del welfare in tre categorie:

i “poveri meritevoli” ai quali è offerta una rete sociale residuale attraverso sussidi collegati all’accertamento del reddito;

i “poveri immeritevoli” ai quali è offerta una politica del bastone e della carota; i “poveri che trasgrediscono” che vengono governati solo con politiche di ordine

pubblico.Appare evidente che fondare il welfare state su una categorizzazione così grossolana, arbitraria e iniqua, comporta solo una crescente insicurezza del reddito per coloro che sono ai margini della società.

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6.3 La crisi di legittimazione

L’introduzione di un reddito di cittadinanza permetterebbe di restituire una forte legittimazione alle politiche sociali, rimettendo al centro il ruolo del welfare state e, in particolare, il tema dell’inclusione sociale come uno dei pilastri sui quali si reggono le democrazie occidentali. Si tratta di un ambito di crisi che mette in discussione le premesse stesse dei sistemi di welfare state. Inizialmente, la crisi è stata sottolineata da coloro che hanno manifestato preoccupazione per il paternalismo che caratterizzerebbe il welfare state e che indurrebbe “comportamenti non responsabili”, ma è stata ripresa anche da coloro che hanno lamentato il fatto che il sistema di protezione sociale non sia stato in grado di mantenere le promesse di proteggere contro i diversi rischi che i soggetti si trovano ad affrontare lungo l’intero arco della vita. A partire dalla fine degli anni '70 del secolo scorso, si è gradualmente affermata l’idea (sostenuta dall’interesse di potenti lobby) che il welfare state non potesse più essere sostenibile: si è creata, cioè, un'immagine dello stato sociale come di un fardello che impedirebbe la crescita economica e l'occupazione.A questo si deve aggiunge il fatto che le nuove dinamiche del sistema capitalistico hanno portato al forte ridimensionamento della classe operaia fordista che rappresentava un perno della legittimazione del sistema di welfare.Inoltre, un altro fattore di crisi di legittimazione è stato il cosiddetto “modello dell'elettore medio”: indipendentemente dal fatto che esista o meno, il solo fatto che per gran parte dei politici l'elettore medio richieda la riduzione delle tasse e della spesa pubblica, ha fatto sì che la legittimazione del sistema di welfare state venisse gradualmente erosa.

6.4 La crisi della giustizia sociale

Il RdC consentirebbe di affrontare in maniera incisiva le più radicali situazioni di ingiustizia sociale, facendo in modo che, immediatamente, nessuno dei soggetti che ne ha diritto, rimanga senza un sostegno. Permetterebbe, perciò, di assolvere al compito principale del welfare che è quello di sostenere il reddito delle persone più vulnerabili della società. Ciò è ancor più significativo nel caso dell’Italia, uno dei Paesi europei senza alcuna forma nazionale di reddito di base.La questione principale che riguarda il sistema di protezione sociale è il fatto di non riuscire a fornire la prospettiva della sicurezza del reddito e della protezione sociale per i poveri e per i “quasi-poveri”. I cambiamenti degli ultimi anni nel sistema di protezione sociale non hanno fatto che approfondire questa difficoltà. Per esempio, lo spostamento di priorità da un'efficienza amministrativa orizzontale a una verticale ha comportato forti dubbi sull'equità raggiunta dalle politiche sociali. Perché è tutto da valutare se è più giusto che il 90% di coloro che ricevono un'indennità ne hanno realmente bisogno (ammettendo implicitamente che il 10% di essi non ne avrebbe in realtà la titolarità) oppure fare sì che solo l'80% di coloro che ne hanno bisogno ricevano un sussidio (e lasciando quindi senza sussidio il 20% di coloro che ne avrebbero diritto). Molti policy-maker sembrano dare per scontato che sia preferibile questa seconda opzione e che occorra, dunque, evitare che gli “immeritevoli” ricevano dei sussidi.L’enfatizzazione sulla selettività dei programmi ha anche fatto sì che non tutti coloro che ne hanno bisogno fanno domanda. E spesso non la fanno proprio coloro che più ne avrebbero necessità in quanto vivono in aree più svantaggiate o comunque fanno parte di gruppi strutturalmente svantaggiati (es. donne, minoranze etniche). Il fallimento nel raggiungere

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questi gruppi crea una sorta di “azzardo immorale”. Inoltre le procedure di selettività presuppongono un complesso sistema di identificazione che genera un'elevata discrezionalità, favorisce il clientelismo e la corruzione. Procedure di screening, di monitoraggio e di verifica sono per di più costose e spesso coprono percentuali anche vicine al 50% dell'ammontare previsto per uno specifico programma di protezione sociale. In più i sussidi basati sull’accertamento del reddito sono stigmatizzanti e degradanti e, dato che sono rivolti soprattutto ai senza voce e ai poveri, sono con più probabilità gradualmente ridimensionabili. Come già affermato da Titmuss (1958), “i sussidi se sono limitati ai poveri, saranno poveri sussidi”, con l’effetto di veder crescere il numero dei soggetti al di sotto della soglia di povertà e di aumentare l’esclusione dalle reti di protezione sociale.Da ultimo, la crescente privatizzazione dei servizi ha un forte impatto sulla disuguaglianza sociale in quanto i gruppi più ricchi in una logica di mercato, avranno maggiormente da guadagnare. Infatti la privatizzazione si risolve in un'individualizzazione che non fa che accrescere le disuguaglianze. Per esempio le persone con malattie croniche o i diversamente abili (ma anche coloro che vivono in una zona povera o coloro che hanno un lavoro precario) spesso si ritrovano a pagare di più per ottenere un'assicurazione privata. Mentre i gruppi sociali più ricchi potranno molto più facilmente strappare soluzioni privilegiate a basso costo.

6.5 La crisi del social dumping

Il RDC consentirebbe di interrompere la spirale del progressivo ridimensionamento del welfare state, fatto di tagli e di ridimensionamenti da un lato attraverso l’affermazione di una strategia di competizione fondata sulla valorizzazione delle capacità e degli specifici percorsi formativi e professionali. Dall’altro attraverso la smentita dell’effetto magnete.Con la globalizzazione vi è la tendenza da parte dei policy-maker ad assecondare una politica sociale che supporta la competitività tra aree produttive collocate in paesi che hanno diverse tutele e differenti protezioni sociali accordate al lavoro. In tale direzione la ristrutturazione delle imprese si è esercitata attraverso lo spostamento dell’attività di produzione o di servizio dai paesi con elevate tutele e diritti a paesi con minore protezione sociale e dell’occupazione. Tale processo di delocalizzazione ha prodotto una riduzione della base contributiva e di conseguenza ristretto la disponibilità di risorse da destinare alla redistribuzione in termini di servizi e di trasferimenti diretti. Si sta delineando, quindi, un modello di stato sociale che necessariamente comprime la spesa pubblica e che riorienta la strutturazione dei regimi di welfare dei paesi con maggiori protezioni sociali. Infatti la pressione imposta dalla competitività sta facendo convergere i vari sistemi di welfare verso un modello egemonico cosicché i paesi con una più ampia protezione sociale sono spinti a operare dei tagli e dei ridimensionamenti.

6.6 La crisi della governance

Attraverso l’implementazione regionale e locale il RDC consentirebbe di attuare una governance “situata” e sensibile alle caratteristiche territoriali ma all’interno di un quadro generale di diritti universali in grado di evitare che vengano approfondite sperequazioni regionali.I cambiamenti nella governance riflettono il desiderio di rendere i sistemi di governo più trasparenti e più efficienti. Una tendenza è quella di integrare le politiche per il lavoro e quelle per il welfare in un unico ministero ma così facendo si rischia di perdere di vista il compito principale del welfare che è quello di sostenere il reddito delle persone più vulnerabili della società.

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La più grande trasformazione di governance è stata però quella che riguarda il passaggio da una contrattazione nazionale tra governo, sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro a una contrattazione decentrata localizzata su base regionale, provinciale o aziendale. Passaggio favorito dalla perdita di rilevanza e di forza contrattuale dei lavoratori a tempo indeterminato e dal crescente indebolimento dei sindacati. Lo scardinamento della struttura contrattuale non ha valorizzato le specificità territoriali, facendo leva sulla formazione delle competenze e sulla specializzazione produttiva; esso ha, invece, comportato la mera riduzione del quadro di tutele collettive alla regolazione dell’organizzazione del lavoro all’interno dei singoli posti di lavoro o all’interno di alcune aree territoriali. La contrattazione decentrata comporta lo spostamento della governance dal livello nazionale a quello locale e ciò può avere forti effetti di disuguaglianza perché le regioni più ricche possono fornire ai loro residenti una più ampia protezione sociale e servizi migliori e non altrettanto possono fare le regioni più povere. Si rafforzano così le disuguaglianze regionali e si favorisce anche il clientelismo locale. La riduzione dei livelli salariali su base territoriale ha l’effetto di deprimere la domanda di beni e servizi e nel lungo periodo di costituire un elemento di ulteriore impoverimento delle aree interessate a tale fenomeno. Questo processo costituisce un ulteriore elemento di inasprimento delle disuguaglianze nei contesti nazionali che hanno al loro interno regioni e aree caratterizzate dal diverso sviluppo del tessuto economico. Da ultimo l'introduzione di criteri di efficienza nelle politiche di welfare sta avviando molti servizi verso la privatizzazione e ha comportato la trasformazione dei cittadini in clienti che si aspettano di comprare un servizio. La privatizzazione di molti servizi ha, inoltre, dato un crescente ruolo a una serie di organizzazioni del terzo settore che hanno alti livelli di discrezionalità e gradi modesti di assunzione di responsabilità.

6.7 La crisi del lavoro

Il RDC consentirebbe di ampliare il concetto di lavoro restituendo dignità e fornendo il giusto riconoscimento a forme di lavoro, oggi non riconosciute come tali, come il lavoro di cura, il lavoro famigliare o quello all’interno del mondo del volontariato. Riconoscimento che, tra le altre cose, permetterebbe anche di intervenire in “tradizionali” equilibri e divisioni di genere.Inoltre l’introduzione del RDC favorirebbe l’affermarsi di una domanda di lavoro part-time che avrebbe come uno degli effetti una migliore e più ampia distribuzione del lavoro.La tendenza a collegare la titolarità delle prestazioni sociali sempre di più alla condizione occupazionale ha creato un dilemma fondamentale. Cosa dovremmo intendere come “lavoro” per attribuire tale titolarità? Dovremmo ridurre tale definizione per allentare la pressione fiscale oppure ampliarla sino a includere attività tradizionalmente escluse come il lavoro di cura (di bambini, malati, diversamente abili e anziani), dato che stiamo assistendo ad un crescente “deficit di cura” a causa dell'invecchiamento della popolazione e all'indebolimento della reciprocità intergenerazionale? Come sottolinea Raventos (2007) il lavoro volontario, assieme a quello retribuito e a quello domestico è lavoro a tutti gli effetti e produce quindi valore d’uso per la collettività. Inoltre l’inadeguato riconoscimento del lavoro di cura ha prodotto la stereotipizzazione delle professioni e dei settori occupazionali, producendo una segregazione occupazionale tra i generi che rappresenta non solo un elemento restrittivo della partecipazione femminile al mercato del lavoro ma anche un fattore di contenimento dei tassi di occupazione. Il riconoscimento dei diversi ambiti di lavoro impone, perciò, il superamento della rappresentazione dell’idea di cittadinanza basata sul valore di scambio dei beni prodotti e dei servizi erogati ma anche dell’idea della cittadinanza fondata sulla posizione occupata nel

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mercato del lavoro. Quale identità lavorativa possono costruirsi i soggetti se non possono arricchirla di contenuti per la valorizzazione della propria persona?

6.8 La crisi linguistica

Il RDC consentirebbe di rimettere al centro dell’agenda politica il concetto inclusivo di cittadinanza, invertendo il progressivo slittamento semantico da cittadino a cliente, il cui riconoscimento è sempre meno fondato sulla carta d’identità e sempre di più sulla carta di credito. L’ultima crisi messa in luce da Standing (2002) è la crisi linguistica. Infatti il linguaggio di senso comune è sempre più caratterizzato dall'uso improprio di espressioni, di concetti, di metafore e di parole di moda che sono cariche di simbolismo ideologico. E le parole contano perché contribuiscono fortemente a definire la composizione dell’agenda (agenda setting). La rappresentazione dei fenomeni sociali che ne esce struttura infatti l’atteggiamento delle persone rispetto ai beni collettivi e orienta l’implementazione delle politiche pubbliche. Un esempio è rappresentato dall'espressione “rete di sicurezza sociale”. Perché opporsi ad una rete di sicurezza sociale? Ma più che una rete di sicurezza, ampia e confortevole, con questa espressione ci si riferisce a un programma selettivo e condizionato solitamente basato sull’accertamento del reddito e che raramente raggiunge chi ne ha bisogno (a causa dello stigma, dell'inefficienza amministrativa e della mancanza di risorse). Anche l'espressione “politiche attive per il mercato del lavoro” non si riferisce tanto a politiche per l'attivazione sociale, ma traduce, generalmente, la rivendicazione dello Stato ad obbligare i beneficiari degli interventi a rispettare determinate condizioni per ricevere modesti benefici. Altre espressioni comunemente usate, cariche di significati ideologici, sono “immeritevoli” oppure “volontariamente pigri” o “il fardello delle tasse”. Dunque anche il linguaggio e le metafore hanno contribuito al ridimensionamento dei benefici sociali.

6.9 Il RdC: oltre un rapporto a somma zero fra società e economia

Dalla griglia interpretativa elaborata da Standing (2002) emerge che di fronte alla crisi dell’impianto dello stato sociale, così come si è sviluppato a partire dal secondo dopoguerra, le politiche sociali attivate dai governi nazionali hanno limitato l’orizzonte di riferimento al contingente, nel tentativo di ridurre, quindi, gli effetti negativi causati dal rapido succedersi dei cicli economici e dai processi di divisione internazionale del lavoro. La regolazione politica ha necessariamente preferito osservare il rispetto dei vincoli di bilancio che supportare la cittadinanza attraverso una migliore redistribuzione delle risorse. Questa scelta ha inciso pesantemente: l’esito più prossimo è stato la difficoltà a collegare domanda e offerta di lavoro con il risultato di ridurre la specializzazione dei sistemi economici, aumentando il rischio di dover ricorrere, quindi, alla continua rincorsa alla riduzione del costo del lavoro.Sotto il profilo delle politiche sociali la riduzione della base contributiva riconducibile ai processi economici menzionati ha sollecitato il taglio delle prestazioni dello stato sociale e ha aumentato le situazioni di dipendenza dovute all’aumento della popolazione povera. In questa direzione sono necessariamente venute meno le risorse da destinare alla formazione e alla valorizzazione delle competenze con l’esito di aumentare, in questo caso, il numero dei lavoratori impoveriti. Il contributo di Standing evidenzia che il forte collegamento tra la condizione occupazionale e l’acquisizione della titolarità dei diritti di cittadinanza ha dato risultati fallimentari non solo in termini di aumento dell’esclusione sociale e del rischio povertà ma anche nella stessa legittimazione delle istituzioni politiche. La perdita di fiducia nelle istituzioni si traduce nella riduzione dei tassi di partecipazione al voto, che registrano dagli anni ’80 in tutta Europa una

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progressiva accentuazione e nella strutturazione di una maggiore distanza sociale che deprime la partecipazione e riduce, quindi, lo spazio decisionale. A dispetto della retorica dominante relativa all’ “ineluttabilità” dei tagli al welfare sulla scorta delle pressioni economiche globali, però, le evidenze mostrano che il modello di welfare social-democratico continua ad essere il migliore, non solo dal punto di vista della riduzione delle disuguaglianze, della promozione dell’autonomia individuale e della stabilità e integrazione sociale, ma anche per ciò che concerne il mantenimento dell’efficienza economica, come dimostrano numerose ricerche comparative (tra cui Godin et al. 1999). Questo porta a mettere in discussione la retorica neoliberale che descrive l’esistenza di un gioco a somma zero tra economia e società, affermando che le ristrutturazioni economiche globali imporrebbero agli Stati cospicui tagli alle spese sociali per mantenere una sostenibilità economica (Roche 2002). Al contrario, le politiche nazionali e locali possono giocare un ruolo centrale, in particolare in riferimento ad una questione cruciale: la necessità di ristrutturare la cittadinanza sociale adattandola ai cambiamenti in atto nelle società occidentali, introducendo ad esempio misure di reddito di base e favorendo l’apprendimento continuo durante l’intero ciclo di vita delle persone: la scelta di migliorare la propria formazione è spesso sprovvista di una copertura reddituale e impegna i soggetti che ne fruiscono con risorse personali, spesso a detrimento della continuità della contribuzione previdenziale. Questi aspetti appaiono particolarmente rilevanti per due gruppi di cittadini: immigrati e giovani.

6.10 Politiche di RdC e immigrazione

Per ciò che concerne specificatamente la questione dell’immigrazione, l’introduzione di un reddito di cittadinanza che abbia come destinatari anche i lavoratori migranti appare rispondere adeguatamente a molte delle sfide in atto. Questo, infatti, promuoverebbe la libertà dei migranti sfidando il persistente legame tra cittadinanza e diritti, inadeguato a rappresentare una realtà sociale in cui la presenza degli immigrati è divenuta una dato strutturale, e in cui la crescente mobilità internazionale richiede di garantire nuovi diritti sociali ed economici anche ai non cittadini in senso formale. Si tratterebbe dunque di un riconoscimento del ruolo che i lavoratori migranti di fatto già svolgono nelle società e nelle economie di destinazione, che avrebbe delle utili implicazioni economiche ma anche sociali e culturali: andrebbe ad incidere positivamente sul senso di appartenenza dei migranti alla comunità politica del nostro paese, dato lo stretto legame esistente tra risorse materiali, partecipazione e cittadinanza.E’ stato inoltre notato che il reddito di cittadinanza, slegando lavoro e diritto ad un reddito garantito, contribuisce a colmare il gap tra esclusi ed inclusi nel mercato del lavoro in un’epoca in cui il pieno impiego si sta riducendo. Questo è particolarmente vero per i lavoratori migranti, che costituiscono uno degli anelli più deboli del sistema occupazionale, essendo maggiormente esposti alle conseguenze negative dei processi di ristrutturazione del sistema secondario in atto e della recente crisi economica e finanziaria mondiale. Da questo punto di vista, dunque, l’estensione del reddito di cittadinanza ai migranti è cruciale per evitare nel prossimo futuro il manifestarsi di significativi processi di esclusione sociale di questa categoria di cittadini e di lavoratori. Infine, attribuire il reddito di cittadinanza ai migranti darebbe loro la possibilità di investire maggiormente nel proprio capitale umano. E poiché l’accrescimento del capitale umano è di cruciale importanza per far fronte alla tendenza contemporanea alla riduzione della quantità di lavoro, mettere i lavoratori migranti, che costituiscono una presenza sempre più rilevante nelle economie occidentali, nelle condizioni di investire maggiormente nell’accrescimento

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delle proprie competenze professionali e umane perché liberi da pressanti esigenze materiali, avrebbe degli effetti positivi per la società nel suo complesso.E’ importante notare come la retorica che sostiene che l’introduzione a livello nazionale o locale del reddito di cittadinanza e, più in generale, di misure di reddito di base che includano anche i migranti provocherebbe una massiccia immigrazione degli stessi è per lo più infondata. I contributi della letteratura internazionale analizzati hanno dimostrato infatti che il principale fattore di attrazione per gli immigrati è costituito dalle domande del mercato del lavoro, più che dalle politiche sociali dell’area di destinazione, sulle quali i migranti hanno solitamente informazioni ridotte. Il presunto “effetto magnete” esercitato da generose politiche di welfare nei confronti dei migranti è dunque un’altra retorica che non corrisponde a realtà, e pare inoltre sottintendere che la presenza dei migranti costituisca un aggravio per i sistemi di welfare, quando, al contrario, abbiamo visto come questa si riveli una risorsa sia dal punto di vista economico che sociale.

6.11 Politiche di RdC e giovani

I giovani, più di altri gruppi sociali, sono esposti ai rischi di povertà, basso reddito, disoccupazione e, a volte, intrappolamento nell’esclusione. Si parla, sempre più spesso, di capacità e responsabilità dei giovani ma, in mancanza dei mezzi materiali necessari per esercitarle, significa utilizzare parole vuote. Per questo diversi autori (Casassas 2007, Standing 2008) hanno sottolineato come occorra innanzitutto garantire maggior indipendenza materiale e dunque potere contrattuale a chi non ne ha; perché, come dice Frankman (2008), «il denaro non solo conta, ma comanda».In questo senso, uno dei modi che appaiono più efficaci, particolarmente in questa fase di grande precarietà lavorativa e reddituale dei giovani (e non solo), è quello di adottare misure di reddito di base, condizionate ad un concetto di attivazione più ampio e non ristretto all'accettazione immediata di qualsiasi lavoro. Negli ultimi anni, invece, gran parte dei paesi europei sembra convergere nell'adozione di politiche sanzionatorie di workfare che focalizzano l'attenzione sulle responsabilità dei giovani e sulla loro attivazione “forzosa”. Questo passaggio dai diritti del lavoro al dovere del lavoro, con la sua logica stigmatizzante, non sembra particolarmente adeguato, però, per attivare potenzialità e capacità dei soggetti, specie di quelli con maggiori difficoltà. Come ha mostrato il caso olandese, poi, tali politiche, non sono in grado di supportare proprio i più svantaggiati che anzi molto spesso hanno visto peggiorare le proprie condizioni e le proprie possibilità. Inoltre le politiche per l'attivazione, troppo spesso esclusivamente limitate all'integrazione lavorativa, presuppongono un concetto di attività troppo ristretto. Occorre infatti prendere atto che la nozione di attività non può essere ridotta al lavoro pagato in senso stretto, perché vi sono attività non pagate come il lavoro di cura, la formazione o il lavoro volontario che contribuiscono ad ampliare la ricchezza comune e la partecipazione attiva nella società (cosa che, peraltro, non fanno invece molti lavori pagati). Attività culturali o di volontariato, per esempio, contribuiscono a sostenere una cittadinanza attiva, a esprimere la propria energia creativa, a facilitare il dialogo interculturale e intergenerazionale, ad acquisire competenze extraformali e valori come dialogo e solidarietà. Capacità che, inoltre, potrebbero essere molto utili anche per l'inserimento dei giovani nel mondo lavorativo.Questa è una delle possibili vie per supportare un concetto di attivazione che, allo stesso modo del programma CIVIS attuato in Francia, sia incentrato sulla valorizzazione delle specifiche situazioni e capacità personali e biografiche e che sia rivolto a supportare l'empowerment dei giovani. Una politica di attivazione intesa in questo senso contribuirebbe a trasformare la “flessibilità subita”, in “flessibilità agita”, non più cioè fonte di insicurezza e crisi, ma creatrice di spazi di

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libertà (Regione Lazio 2006), favorendo così l'autonomia dei percorsi sociali, occupazionali e formativi (anche grazie a politiche simili a quelle francesi di riconoscimento e valorizzazione delle competenze, che si stanno affermando a livello europeo, cfr. 4.4.3). Una flessibilità agita che, una volta superata la schiavitù del salario immediato e la paura di rimanere invischiati ai margini del mercato del lavoro o in mansioni lontane da capacità e vocazione, permetta da un lato di valorizzare le diverse forme di partecipazione sociale (volontariato, percorsi formativi informali, lavoro di cura) e dall'altro di soddisfare la necessaria flessibilità, e il continuo apprendimento, che il capitalismo cognitivo richiede.Così facendo sarebbe, dunque, possibile restituire ai giovani il tempo e la possibilità di rischiare e di partecipare attivamente nella società, “riattivando”, così, una generazione, oggi sempre più bloccata, in perenne transizione verso la condizione di adulto e riattivando, di conseguenza, un Paese come l'Italia, demograficamente (e non solo) sempre più “vecchio”.

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