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1 Marilena Gala IL CONTROLLO DEGLI ARMAMENTI E L’EQUILIBRIO DI POTENZA DURANTE LA GUERRA FREDDA Il controllo degli armamenti ha rappresentato una vera e propria ossessione del secolo appena trascorso. Nel contesto attuale esso ha perso gran parte del significato che l’ha caratterizzato nei quasi cinquant’anni di contrapposizione est-ovest, ma non per questo il fenomeno che ne ha prodotto la necessità – ovvero la capacità di sfruttamento militare del nucleare – è divenuto meno insidioso e destabilizzante. Al contrario: di fronte agli eventi più recenti (basti pensare ai programmi della Corea del nord, dell’India e del Pakistan, o alle ambizioni iraniane nel settore), occorre interrogarsi sul passato a noi più prossimo per comprendere se e quanto il sistema adottato dalle due grandi potenze avversarie per contenere la diffusione nucleare e mantenere la stabilità internazionale durante la guerra fredda sia ancora potenzialmente valido ed efficace, o costituisca piuttosto l’espressione di un momento storico che ci siamo definitivamente lasciati alle spalle. La nozione di controllo degli armamenti contiene in sé almeno un paio di elementi caratterizzanti sui quali è necessario soffermarsi prima di affrontarne l’evoluzione nelle sue tappe determinanti. Anzitutto bisogna sottolineare che tale processo è legato in maniera inscindibile all’esistenza degli ordigni di distruzione di massa e, di conseguenza, dell’uso militare dell’energia atomica. In secondo luogo, occorre mettere in evidenza che l’idea insita nella nozione di arms control non è quella dell’eliminazione, immediata o progressiva, di certi sistemi d’arma – che vale nel caso del disarmo – quanto di contenere entro limiti condivisi l’entità o il numero degli arsenali allo scopo di ottenere un effetto normativo e stabilizzante 1 . Questa doppia connotazione è essenziale soprattutto nel momento in cui ci si voglia interrogare sull’origine e sul significato politico del processo che stiamo esaminando. Dal monopolio atomico americano all’equilibrio del terrore Per capire quando nasce il controllo degli armamenti e il significato che ha assunto negli anni della contrapposizione est-ovest è necessario tornare al momento in cui, con la II guerra mondiale ancora in corso, soprattutto fra gli scienziati americani si rafforzò l’opinione che fosse arrivato il momento di riconoscere un ruolo centrale all’approccio razionalistico della scienza nella 1 Vedi a questo proposito K. KRAUSE and A. LATHAM, «Constructing Non-Proliferation Control: The Norms of Western Practice», in K. KRAUSE (edited by), Culture and Security. Multilateralism, Arms Control and Security Building, Frank Cass, London, 1999, in particolare pp. 26-27.

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Marilena Gala

IL CONTROLLO DEGLI ARMAMENTI E L’EQUILIBRIO DI POTENZA DURANTE LA

GUERRA FREDDA

Il controllo degli armamenti ha rappresentato una vera e propria ossessione del secolo

appena trascorso. Nel contesto attuale esso ha perso gran parte del significato che l’ha caratterizzato

nei quasi cinquant’anni di contrapposizione est-ovest, ma non per questo il fenomeno che ne ha

prodotto la necessità – ovvero la capacità di sfruttamento militare del nucleare – è divenuto meno

insidioso e destabilizzante. Al contrario: di fronte agli eventi più recenti (basti pensare ai

programmi della Corea del nord, dell’India e del Pakistan, o alle ambizioni iraniane nel settore),

occorre interrogarsi sul passato a noi più prossimo per comprendere se e quanto il sistema adottato

dalle due grandi potenze avversarie per contenere la diffusione nucleare e mantenere la stabilità

internazionale durante la guerra fredda sia ancora potenzialmente valido ed efficace, o costituisca

piuttosto l’espressione di un momento storico che ci siamo definitivamente lasciati alle spalle.

La nozione di controllo degli armamenti contiene in sé almeno un paio di elementi

caratterizzanti sui quali è necessario soffermarsi prima di affrontarne l’evoluzione nelle sue tappe

determinanti. Anzitutto bisogna sottolineare che tale processo è legato in maniera inscindibile

all’esistenza degli ordigni di distruzione di massa e, di conseguenza, dell’uso militare dell’energia

atomica. In secondo luogo, occorre mettere in evidenza che l’idea insita nella nozione di arms

control non è quella dell’eliminazione, immediata o progressiva, di certi sistemi d’arma – che vale

nel caso del disarmo – quanto di contenere entro limiti condivisi l’entità o il numero degli arsenali

allo scopo di ottenere un effetto normativo e stabilizzante1. Questa doppia connotazione è essenziale

soprattutto nel momento in cui ci si voglia interrogare sull’origine e sul significato politico del

processo che stiamo esaminando.

Dal monopolio atomico americano all’equilibrio del terrore

Per capire quando nasce il controllo degli armamenti e il significato che ha assunto negli

anni della contrapposizione est-ovest è necessario tornare al momento in cui, con la II guerra

mondiale ancora in corso, soprattutto fra gli scienziati americani si rafforzò l’opinione che fosse

arrivato il momento di riconoscere un ruolo centrale all’approccio razionalistico della scienza nella

1 Vedi a questo proposito K. KRAUSE and A. LATHAM, «Constructing Non-Proliferation Control: The Norms of Western

Practice», in K. KRAUSE (edited by), Culture and Security. Multilateralism, Arms Control and Security Building, Frank

Cass, London, 1999, in particolare pp. 26-27.

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regolamentazione dei destini dell’umanità. Le scoperte scientifiche avevano dimostrato - a maggior

ragione dopo la messa a punto del processo di fissione dell’atomo - quanto la vita dell’uomo potesse

esserne trasformata e questo attribuiva alla scienza e ai suoi sacerdoti una responsabilità che aveva

inevitabilmente una valenza politica2. La dimensione etica di tale osservazione non può essere

oggetto di una riflessione che si pone altri obiettivi, ma ciò non impedisce di partire proprio da

questa considerazione per ricostruire il clima nel quale, rispetto allo sfruttamento dell’energia

atomica e alle sue potenzialità in ambito civile e militare, la grande maggioranza degli scienziati

coinvolti nel progetto Manhattan si esprimeva per la più ampia e immediata diffusione delle

conoscenze messe a punto nei laboratori di Los Alamos3.

In tal senso, fu fondamentale l’influenza del fisico Niels Bohr4 che già nel 1944 rivolse un

appello al primo ministro Churchill e al presidente Roosevelt perché le scoperte fatte in campo

atomico venissero rese note anche all’Unione Sovietica, alleata nella guerra contro le potenze

dell’Asse. In particolare, Bohr era convinto che le potenzialità legate alla fissione dell’atomo

offrissero alla comunità internazionale l’occasione di trasformare la natura dei rapporti fra i soggetti

del sistema, nel senso di far prevalere la cooperazione rispetto alla competizione e agli equilibri di

potenza5. In altri termini, i benefici, così come i pericoli derivanti dallo sfruttamento dell’energia

atomica, presentavano un innegabile carattere dirompente e per questo foriero di mutamenti che

potevano essere indirizzati verso la fondazione di una nuova convivenza internazionale proprio

attraverso la diffusione della conoscenza in materia. Declinata con accenti diversi, questa divenne in

sostanza la posizione di quanti, nella comunità scientifica, si appellavano al razionalismo e

all’universalismo sui quali dovevano essere riformulate le regole dei rapporti internazionali,

attraverso una sorta di processo costituente, la cui occasione era offerta appunto dalle scoperte sugli

isotopi di uranio. Oltretutto, tali scoperte rappresentavano anche una sfida sul piano più

squisitamente domestico della politica di Washington, visto che le modalità attraverso le quali

sarebbe stato assicurato il futuro della ricerca nel settore promettevano di influire in maniera

2 Sull’importanza e l’articolazione del dibattito apertosi fra la comunità scientifica e quella politica dopo la seconda

guerra mondiale, specie negli Stati Uniti, cfr.: J. MANZIONE, “Amusing and Amazing and Practical and Military”: The

Legacy of Scientific Internationalism in American Foreign Policy, 1945-1963, «Diplomatic History», Vol. 24, No. 1

Winter 2000, pp. 21-55. 3 Sulla questione etica legata alle prime importanti ricerche messe a punto in ambito atomico, vedi: S. S. SCHWEBER, In

the Shadow of the Bomb: Oppenheimer, Bethe, and the Moral Responsibility of the Scientist, Princeton University

Press, Princeton and Oxford, 2000. Sull’uso militare dell’energia atomica e la costruzione della bomba, cfr.: R. RHODES,

The Making of the Atomic Bomb, Penguin Books, London, 1988. 4 A. PAIS, Niels Bohr’s Times: In Physics, Philosophy and Polity, Clarendon Press, Oxford and New York, 1993.

5 Sul ruolo di Bohr in queste prime fasi di discussione che coinvolsero soprattutto gli scienziati del progetto Manhattan,

cfr.: J. E. SIMS, Icarus Restrained. An Intellectual History of Nuclear Arms Control, 1945-1960, Westview Press,

Boulder, San Francisco, Oxford, 1990, pp. 85-87.

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pesante sull’assetto post-bellico della società americana, nel senso del mantenimento del modello di

società aperta, lontano dall’insidia della segretezza garantita dall’apparato militare6.

A tale proposito, vale comunque la pena di sottolineare che nel contesto politico americano

questo appello alla rifondazione della convivenza internazionale non poteva che suscitare una

attenzione speciale, almeno da parte di alcuni esponenti dell’establishment. Non si può infatti

dimenticare che la rivendicazione di una certa vocazione messianica è parte integrante della politica

estera degli Stati Uniti, tanto più nel momento in cui, con la fine del secondo conflitto mondiale,

Washington era destinata a diventare protagonista del processo di ricostruzione post-bellica7. Era

perciò naturale che ci si interrogasse su che tipo di mondo si potesse e dovesse ricostruire. Su

questo interrogativo si innestavano inevitabilmente visioni e interpretazioni diverse che

alimentarono il dibattito politico degli anni immediatamente successivi alla fine della guerra.

Accanto e in opposizione al razionalismo e all’universalismo difesi soprattutto dalla comunità degli

scienziati, preoccupati del pericolo atomico, infatti, si alzò sempre più forte la voce dei cosiddetti

realisti che invece ponevano l’accento sull’interesse nazionale e sulla difesa dell’esclusività del

controllo di uno strumento che poteva essere considerato il simbolo dell’esercizio di potere per

antonomasia8.

Del resto, il dibattito in questione fu ben presto immerso nel contesto di rapporti

progressivamente più difficili con l’Unione Sovietica, con la quale la collaborazione nell’attuazione

degli accordi di massima presi durante il conflitto si rivelava fonte di ostacoli e insidie. Di pari

passo con l’aumentare dei dissidi con Mosca cresceva perciò lo scetticismo rispetto alla possibilità

di avviare un processo di rifondazione delle regole del sistema internazionale che potessero essere

condivise con un partner verso il quale la fiducia – ammesso e non concesso che tale elemento fosse

stato davvero presente lungo tutta la durata della alleanza di guerra – oramai faceva evidentemente

difetto.

Questo non significa che le potenze anglosassoni, che avevano collaborato alla costruzione

della prima bomba atomica, non avessero cercato la strada dell’autorità internazionale. Esse, infatti,

dopo l’incontro di Washington del novembre 1945, avevano concordato una dichiarazione

congiunta con la quale sollecitavano la costituzione di una commissione che, nell’ambito delle

Nazioni Unite, si occupasse di elaborare le regole capaci di scongiurare il pericolo dell’uso

6 Ivi, cap. III.

7 Sul ruolo degli Stati Uniti nel dopoguerra si veda: M. H. HUNT, Ideology and US Foreign Policy, Yale University

Press, New Haven, 1987. 8 Uno dei più importanti protagonisti del dibattito fu certamente Hans Morgenthau, che nel 1946 pubblicò un volume

nel quale l’Autore contestava l’idea che la scienza potesse offrire una nuova chiave di lettura dei problemi dell’uomo in

quanto essere sociale; cfr.: H. J. MORGENTHAU, Scientific Man vs. Power Politics, University of Chicago Press,

Chicago, 1946.

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dell’energia atomica con scopi aggressivi9. Tale dichiarazione era destinata a diventare la

risoluzione I dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella quale si stabiliva, in accordo con i

sovietici, la creazione e le regole di funzionamento dell’Atomic Energy Commission (Aec)10.

Tuttavia, dopo che la prima riunione dell’Assemblea generale aveva sancito l’apparente coincidenza

di vedute, l’atmosfera mutò. Il cambiamento era determinato dalla difficoltà di trovare un terreno

comune sul quale costruire nel concreto le regole in questione. Una volta stabilito il principio della

necessità di un’autorità internazionale che mettesse al sicuro l’umanità dal pericolo del nucleare

militare, rimaneva infatti la difficoltà di ipotizzare le modalità di esercizio del controllo stesso.

Negli Stati Uniti il confronto fra la comunità scientifica e i responsabili politici era approdato a un

compromesso con il rapporto redatto da David Lilienthal e Dean Acheson11. In esso avevano

trovato una sintesi, inevitabilmente fragile, due ordini di preoccupazioni e dunque di priorità: da una

parte quelle di quanti volevano cogliere l’occasione della regolamentazione dell’uso dell’energia

atomica per indurre una maggiore apertura nell’Unione Sovietica e disinnescare il pericolo di un

sistema internazionale attraversato da tensioni e diffidenze reciproche; dall’altra i timori e gli intenti

di coloro che guardavano al monopolio tecnologico americano in campo nucleare come

all’opportunità da non sprecare per acquisire la necessaria leva di pressione nei confronti di una

potenza come l’Unione Sovietica, con la quale, finito il conflitto, le differenze e i possibili elementi

di contrasto apparivano con crescente evidenza. La capacità di riassumere in un unico approccio

posizioni intrinsecamente antitetiche era anche il risultato del contributo di Robert Oppenheimer

(precedente direttore dei laboratori di Los Alamos e membro del comitato di consulenti affiancato

ad Acheson), che si era prodigato per stemperare l’aspetto normativo e censorio del progetto, a

favore della collaborazione multilaterale nell’ambito della tecnologia nucleare12.

Quando il rapporto dovette essere trasformato nel piano del governo americano da

presentare alle Nazioni Unite, il compito venne affidato a un anziano e stimato senatore, Bernard

9 D. BOURANTONIS, The United Nations and the Quest for Nuclear Disarmament, Dartmouth Publishing Co., Aldershot,

1993, p. 9. In particolare la dichiarazione congiunta stabiliva: «In order to obtain the most effective means of entirely

eliminating the use of the atomic energy for destructive purposes we are of the opinion that at the earliest practical

date, a Commission should be set up under the UN to prepare recommendations to the organization. The Commission

should be instructed to proceed with the outmost dispatch and should be authorised to submit recommendations dealing

with separate phases of its work». 10 Ivi, p. 12. La risoluzione dell’Assemblea Generale stabiliva che: «A Commission is hereby established by the General

Assembly with the terms of reference set out under Section V below». Tale sezione, a sua volta, prevedeva che: «The

Commission shall proceed with the utmost dispatch and inquire into all phases of the problem, and make such

recommendations from time to time with respect to them as it finds possible». Quanto al rapporto fra l’Aec e gli organi

delle Nazioni Unite, la risoluzione era chiara nel definirne i contorni: «The Commission shall submit its reports and

recommendations to the Security Council, and such reports and recommendations shall be made public unless the

Security Council, in the interests of peace and security, otherwise directs». 11 David Lilienthal, quando fu nominato membro del panel incaricato di formulare il piano americano per il controllo

internazionale del nucleare, era a capo della Tennessee Valley Authority. Dean Acheson, personaggio politico fra i più

importanti a Washington nei primi decenni dopo la II guerra mondiale, all’epoca dell’elaborazione del piano era vice-

segretario di Stato. 12 J. E. SIMS, Icarus Restrained, cit., pp. 92-106.

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Baruch, che ne cambiò sostanzialmente l’impostazione. Egli infatti accentuò il ruolo delle ispezioni

rispetto allo sviluppo della cooperazione internazionale; rese evidente il principio della gradualità

nel mettere a disposizione le conoscenze acquisite e nell’azzerare il monopolio militare americano

(da condizionare perciò all’ottemperanza degli impegni richiesti agli altri paesi, ovvero all’Urss); e,

infine, eliminò il diritto di veto rispetto alle decisioni del Consiglio di sicurezza - organo deliberante

dell’Onu anche in materia nucleare13. Dopo queste importanti modifiche, l’impianto originario

rimaneva solo apparentemente intatto, nel senso di lasciare a un’autorità internazionale il compito di

affrontare la difficile questione della disponibilità di una fonte di energia che era anche un nuovo e

terribile strumento di morte. In realtà, proprio la rilevanza dei compiti affidati all’International

Atomic Development Authority (Iada), insieme all’idea di impedire il ricorso al veto nel Consiglio di

sicurezza dell’Onu, se da una parte potevano confortare politici e scienziati che negli Stati Uniti

guardavano con favore alla possibilità di cercare soluzioni multilaterali a un problema universale,

dall’altra provocarono la reazione di chiusura sul fronte dei rapporti coi sovietici rispetto a ogni

possibile serio tentativo di escogitare una formula condivisa14.

La risposta del Cremlino, infatti, arrivò il 19 giugno 1946 con la controproposta presentata

alla stessa commissione dell’Onu dall’allora ambasciatore sovietico presso la neo-costituita

organizzazione, Andrei Gromyko. Questi in buona sostanza rovesciò i termini del problema,

sottolineando che «la situazione esistente, determinata dalla scoperta di applicazioni dell’energia

atomica rivolte alla produzione di armi, preclude[va] la possibilità di una normale collaborazione

scientifica fra gli stati del mondo. Alla base di tale situazione, caratterizzata dall’assenza di ogni

limite rispetto alla produzione e all’impiego di armi atomiche, ci [erano] ragioni che po[tevano]

solo accrescere il sospetto di alcuni paesi nei confronti di altri e originare instabilità politica». Di

conseguenza, l’Unione Sovietica proponeva la conclusione di una convenzione internazionale che

proibisse la produzione e l’impiego di armi basate sull’uso dell’energia atomica, stabilisse la

13 T. N. DUPUY and G. M. HAMMERMAN (edited by), Documentary History of Arms Control and Disarmament, Bowker,

New York, 1973, documento n. 75, The Baruch Plan, June 14, 1946, pp. 300-308. In particolare, il Senatore Baruch,

durante il discorso pronunciato davanti alla Commissione per l’energia atomica delle Nazioni Unite, aveva specificato

che: «The United States proposes the creation of an International Atomic Development Authority, to whch should be

entrusted all phases of the development and use of atomic energy starting with the raw material, including: 1)

managerial control or ownership of all atomic energy activities potentially dangerous to world security; 2) power to

control, inspect, and license all other atomic activities; 3) the duty of fostering the beneficial uses of atomic energy; 4)

research and development responsibilities of an affirmative character intended to put the Authority in the forefront of

atomic knowledge». Quanto alla fine del monopolio americano, il piano voluto da Washington stabiliva: «When an

adequate system for control of atomic energy, including the renunciation of the bomb as a weapon, has been agreed

upon and put into effective operation and condign punishments set up for violations of the rules of control which are to

be stigmatized as international crimes, we propose that: 1) manufacture of atomic bombs shall stop; 2) existing bombs

shall be disposed of pursuant to the terms of the treaty; and 3) the Authority shall be in possession of full information as

to the know-how for the production of atomic energy». 14 D. BOURANTONIS, The United Nations, cit., p. 16.

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distruzione degli stock esistenti e condannasse ogni attività svolta in violazione della convenzione

stessa15.

Senza dubbio la risposta fornita dal Cremlino, decisamente meno articolata e completa

rispetto alla formula americana - oltre che orientata a colpire soprattutto il monopolio nucleare

militare degli Stati Uniti - giocò a favore di quanti diffidavano dell’Urss e preferivano indirizzare la

politica di Washington verso un progressivo rafforzamento della potenza americana, da perseguire

anche attraverso la preservazione del vantaggio acquisito proprio nell’ambito dello sfruttamento

dell’atomo. Tuttavia, questa posizione soffriva di una debolezza intrinseca: il vantaggio di cui

godevano in quel momento gli americani era destinato a dissolversi con l’avanzare del progresso

scientifico e tecnologico ricercato dagli stessi sovietici. Non si può infatti dimenticare che il

programma nucleare di Mosca era diventato uno sforzo sistematico a partire dal 1943, anno in cui,

nonostante un certo ritardo tecnologico e le ristrettezze finanziarie di un paese impegnato a

ricacciare il nemico oltre i propri confini, Stalin aveva deciso che l’URSS non sarebbe rimasta

esclusa da un ambito di ricerca strategico, sul quale gli alleati occidentali stavano già investendo da

anni16. In altri termini, l’ipotesi di utilizzare le nuove conoscenze acquisite come l’occasione per

favorire l’apertura del sistema sovietico e aumentare le possibilità di avere una comunità

internazionale che funzionasse secondo regole condivise era rimasta valida per un lasso di tempo

relativamente breve. Senza dubbio, l’approssimarsi della fine del monopolio atomico americano

determinò l’accantonamento definitivo di ogni ipotesi di questo tipo e, anzi, accentuò il senso di

diffidenza reciproca e la tensione fra ex alleati di guerra, che molte altre questioni già avevano

concorso a creare.

E’ su questo sfondo che gradualmente prese forma l’incubo del terrore nucleare che, con fasi

alterne, avrebbe caratterizzato i rapporti fra le due superpotenze nella seconda metà del ‘900. Il

materializzarsi del cosiddetto equilibrio del terrore, tuttavia, non portò immediatamente al controllo

degli armamenti. Questa soluzione, infatti, è stata il prodotto di un faticoso percorso segnato dalla

volontà di stabilizzazione manifestata da entrambi i contendenti della guerra fredda.

15 T. N. DUPUY and G. M. HAMMERMAN (edited by), Documentary History, cit., documento n. 76, The Soviet

Alternative, June 19 1946, pp. 308-312. L’articolo I della convenzione internazionale ipotizzata da Mosca stabiliva:

«The high contracting parties solemnly declare that they are unanimously resolved to prohibit the production and

employment of weapons based on the use of atomic energy, and for this purpose assume the following obligations: a)

not to use atomic weapons in any circumstances whatsoever; b) to prohibit the production and storing of weapons

based on the use of atomic energy; c) to destroy, within a period of three months from the day of the entry into force of

the present convention, all stocks of atomic energy weapons whether in a finished or unfinished condition». 16 Sull’avvio del programma nucleare sovietico la trattazione più esaustiva rimane ancora quella di D. HOLLOWAY,

Stalin and the Bomb. The Soviet Union and the Atomic Energy, 1939-1956, Yale University Press, New York and

London, 1994. Quanto al contributo fornito dall’intelligence sovietica al programma nucleare avviato da Stalin, cfr.: A.

SUDOPLATOV and P. SUDOPLATOV, with J. L. SCHECTER and L. SCHECTER, Special Tasks: The Memoirs of an

Unwwanted Witness, a Soviet Spymaster, Little, Brown, Boston, 1995.

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A questo punto si impone una precisazione necessaria per definire con maggiore chiarezza

l’ambito di questo saggio: il controllo degli armamenti può essere a mio parere considerato tale solo

nel momento in cui l’intento normativo raggiunga l’obiettivo di produrre un accordo e di

conseguenza di stabilire regole accettate e rispettate dai sottoscrittori dell’accordo stesso. Di

conseguenza, difficilmente possono essere inclusi nel periodo in cui ha avuto vigore l’arms control

gli anni durante i quali americani e sovietici non riuscirono, nonostante i numerosi tentativi, a

concludere un’intesa per evitare sul nascere la corsa agli armamenti.

Gli anni della “propaganda” sul disarmo

Il fallimento del tentativo di porre sotto il controllo internazionale lo sfruttamento delle

potenzialità dell’atomo, a Washington, ben presto confluì nello sforzo di elaborare una linea di

condotta verso l’Unione Sovietica che partisse dal presupposto di doversi confrontare con una

potenza intenzionata ad espandersi, portatrice di valori e interessi antitetici rispetto a quelli

americani e, per questo, pericolosa per la sicurezza degli Stati Uniti. La cosiddetta dottrina del

containment, infatti, prefigurava la necessità di opporre una resistenza economica, politica e poi

anche militare al percepito espansionismo di Mosca. La disponibilità di uno strumento come la

bomba atomica rendeva più credibile la capacità americana di opporsi, se necessario, all’avversario

e quindi più forte l’appello della Casa bianca verso l’occidente, perché rimanesse compatto nei

confronti della minaccia sovietica. Non solo; tutto ciò avveniva in un clima in cui gli Stati Uniti

avevano definitivamente perso lo “stigma” della responsabilità legato al primo utilizzo della bomba

atomica. La tensione crescente con il Cremino, insieme alla fine del monopolio americano,

decretata dal successo del primo esperimento sovietico del 29 agosto 1949, avevano mutato i

termini della questione nucleare nel senso di metterne in sordina l’aspetto più squisitamente etico

per enfatizzarne invece il carattere militare-strategico17.

Non a caso, il dibattito sulla scelta di sviluppare ulteriormente l’arsenale di distruzione di

massa in possesso degli Stati Uniti tornò ancora di attualità proprio a cavallo fra il 1949 e il 1950,

quando il presidente Truman si trovò di fronte alla scelta di avviare o meno il nuovo programma per

la costruzione di un ordigno ancora più potente, perché in grado di produrre molta più energia

distruttiva, grazie al processo di fusione degli isotopi di uranio18. Con la cosiddetta bomba

all’idrogeno si apriva, inesorabile, la fase dell’equilibrio del terrore, caratterizzata dalla corsa agli

17 J. E. SIMS, Icarus Restrained, cit., pp. 106-107.

18 Sul progetto di costruzione della bomba all’idrogeno, messo a punto da entrambe le superpotenze nei primi anni

cinquanta, cfr.: R. RHODES, Dark Sun: The Making of the Hydrogen Bomb, Simon & Schuster, New York, 1995.

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armamenti fra le due maggiori potenze mondiali19. Si trattò in effetti di una decisione difficile da

adottare, ma al contempo già scritta nell’approccio che il governo di Washington aveva assunto nei

confronti del Cremlino, le cui mosse sembravano confermare a ogni occasione le intenzioni

aggressive di Stalin. Furono questi gli anni in cui il sistema internazionale divenne espressione della

contrapposizione ideologica fra il cosiddetto mondo libero e il blocco comunista e perciò fra le due

potenze leader dei rispettivi schieramenti, in grado di esercitare questa loro preminenza proprio

grazie alla disponibilità e al continuo incremento di arsenali di distruzione di massa.

La valenza simbolica e militare acquisita dalle armi nucleari nella determinazione dei nuovi

equilibri di potenza propri della guerra fredda non inibì la prosecuzione del dibattito avviato in seno

alle Nazioni Unite per tentare la strada della loro regolamentazione. Del resto, con la risoluzione

dell’Assemblea generale del gennaio 1946 era stato messo in moto un meccanismo che venne

interrotto solo di fronte alla manifesta impossibilità di trovare una formula di compromesso fra la

posizione dell’Unione Sovietica e quella degli Stati Uniti. L’accantonamento dell’ipotesi del

controllo internazionale sulla ricerca e sviluppo dell’energia atomica affidato alla Iada divenne

inevitabile nel settembre del 1949, anche se formalmente la Commissione per l’energia atomica

dell’Onu fu sciolta soltanto nel 195220. Nel frattempo, infatti, era stato creato il Comitato dei dodici

(composto dagli stati membri del Consiglio di sicurezza, con l’aggiunta del Canada), che, nato con

il compito di coordinare il lavoro della Aec e della Commissione per l’armamento convenzionale,

finì per suggerire proprio lo scioglimento dell’Atomic Energy Commission.

Questa decisione era il chiaro segnale di un mutamento di rotta che si era progressivamente

consolidato fra le maggiori potenze impegnate negli estenuanti negoziati alle Nazioni Unite e che

portava solo in apparenza verso la difficile strada delle trattative sul disarmo. In realtà, invece, tale

cambiamento si arrestava davanti alla preoccupazione di trovare e fissare un equilibrio militare e

strategico che muovesse dal presupposto della inalienabilità degli arsenali atomici e convenzionali

nel frattempo sviluppati. Al tentativo di controllo internazionale sul nucleare, perciò, si sostituì la

promozione del disarmo generale21. Fu un’alternativa formalmente perseguita per alcuni anni, quasi

a voler testimoniare la sensibilità delle grandi potenze di fronte al pericolo delle nuove armi che,

intanto, erano diventate oggetto di una produzione crescente anche grazie alla loro progressiva

miniaturizzazione che ne rendeva più “semplice” l’utilizzo.

19 Sul significato politico della decisione adottata da entrambi i principali contendenti della guerra fredda in merito agli

arsenali nucleari, cfr.: M. BUNDY, Danger and Survival. Choises About the Bomb in the First Fifty Years, Random

House, New York, 1988; R. RHODES, Arsenals of Folly: The Making of the Nuclear Arms Race, Alfred A. Knopf, New

York, 2007. 20 DEPARTMENT OF POLITICAL AND SECURITY COUNCIL AFFAIRS, The United Nations and Disarmament, 1945-1970,

United Nations, New York, 1970, pp. 41-44. 21 Le trattative svoltesi in sede Onu sullo scioglimento dell’Atomic energy commission e sulla proposta di creazione,

attraverso la risoluzione n. 502 del 1952, della Commissione sul disarmo sono efficacemente descritte in: D.

BOURANTONIS, The United Nations, cit., pp. 24-28.

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Si trattava certamente di uno sforzo di propaganda al quale entrambi, occidentali e sovietici,

non esitarono a ricorrere di fronte a un’opinione pubblica sempre più preoccupata della stabilità e

del mantenimento della pace. Tuttavia, dal punto di vista occidentale, come da quello sovietico, era

stata rilevata anche l’opportunità di unire in un’unica discussione aspetti differenti del nuovo

equilibrio militare per tentarne una compensazione in un programma complessivo. Specie in

Europa, dove il contatto fra gli opposti blocchi era più diretto, appariva netta, infatti, la preminenza

delle capacità convenzionali sovietiche rispetto a quelle dell’Alleanza atlantica, mentre quest’ultima

disponeva di basi della Nato dalle quali era possibile raggiungere il territorio nemico22.

Questo non significa che le scelte compiute dai governi di Washington e Mosca nella prima

metà degli anni cinquanta fossero esclusivamente il risultato di valutazioni ciniche e

opportunistiche. In effetti, nell’aprile del 1952, l’amministrazione Truman, per iniziativa dell’allora

segretario di Stato Acheson, dette vita a un comitato con il compito di affiancare l’esecutivo sulla

spinosa questione del disarmo. Il rapporto preparato dal gruppo, del quale fu chiamato a fare parte

anche Robert Oppenheimer, promosse un cambiamento cruciale nella politica nucleare degli Stati

Uniti. Muovendo dal presupposto del complesso contesto politico internazionale – la guerra in

Corea era iniziata nel giugno del 1950 - e dalla prospettiva di una tecnologia in continua

evoluzione, il comitato riconosceva esplicitamente la necessità di mantenere l’arsenale atomico con

l’intento di ridurre le probabilità di subire un attacco a sorpresa e quindi di un conflitto. Con questo

parere, il gruppo di consulenti voluto da Acheson non suggeriva solo di prendere le distanze dalle

trattative sul disarmo, ma evidenziava un nesso essenziale fra la politica nucleare - in tal caso degli

Stati Uniti - e la stabilità internazionale, che poteva essere riassunto nel principio di deterrenza23.

Il possesso di un arsenale atomico, insieme alle modalità del suo eventuale utilizzo,

divenivano così l’elemento principale del mantenimento della pace in un mondo caratterizzato dalle

forti contrapposizioni di valori e di interessi fra sovietici e americani. Tuttavia, la centralità del

rapporto bipolare, seppure sancita da elementi concreti della realtà internazionale, impiegò qualche

tempo prima di emergere pienamente e condizionare anche l’ambito negoziale aperto alle Nazioni

Unite. Qui, infatti, il dibattito continuò a dipanarsi intorno alle proposte alternative di disarmo

generale e completo che, sino al 1955, per entrambe le superpotenze finirono per avere la funzione

di dimostrare la cattiva fede della controparte e, di conseguenza, la necessità di portare avanti i

programmi di sviluppo dei relativi arsenali, a garanzia della sicurezza nazionale24. Non sfuggiva a

questa logica neppure la proposta avanzata davanti all’Assemblea generale dell’Onu dal presidente

22 Per una ricognizione esaustiva dell’entità delle forze dei due sistemi di alleanza, cfr.: F. J. MEEHAN, NATO and the

Warsaw Pact. A Guide to Military Forces and Strategies, Westview Press, New York, 1988. 23 J. E. SIMS, Icarus Restrained, cit., pp. 111-112.

24 Sulle proposte alternative presentate dai due schieramenti contrapposti della guerra fredda e sulla loro natura

prevalentemente propagandistica, cfr.: D. BOURANTONIS, The United Nations, cit., pp. 30-47.

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Eisenhower, nel dicembre 1953, quando il leader americano presentò l’idea di creare l’Agenzia

internazionale per l’energia atomica con l’intento di mettere a disposizione della comunità

internazionale, che ne volesse fare un uso pacifico, le conoscenze accumulate nei paesi “nucleari” e

consentire a tutte le nazioni di beneficiare così delle potenzialità dell’atomo25.

Nel 1955, però, il rappresentante dell’Unione Sovietica all’Onu lanciò un’ipotesi che per la

prima volta accoglieva buona parte delle richieste che i più importanti paesi occidentali avevano

reiterato negli ultimi tre o quattro anni: in particolare, il Cremlino ammetteva la possibilità di

promuovere il disarmo nucleare in seguito alla riduzione del 75% delle forze e degli arsenali

convenzionali esistenti; accettava di portare il livello di forze armate di Stati Uniti, Urss e Cina

popolare a un numero compreso fra un milione e un milione e mezzo di uomini; accoglieva il

principio della verifica, specie per l’arsenale atomico; ma chiedeva anche l’interruzione degli

esperimenti per la costruzione di ordigni nucleari e l’eliminazione di tutte le basi militari

all’estero26. La reazione americana a questa articolata proposta sovietica, che si era «tanto, tanto

avvicinata alle posizioni occidentali» fu di qualche imbarazzo perché, nel frattempo, Washington

sapeva di non essere pronta a rilanciare la partita diplomatica con una contro offerta che potesse

accogliere le condizioni poste dal Cremlino e mantenere compatto il fronte del cosiddetto mondo

libero27. Del resto, come faceva osservare Harold Stassen, assistente speciale di Eisenhower per il

disarmo, era difficile contemplare un compromesso che prevedesse il progressivo smantellamento

delle basi militari americane in Europa, insieme alla sospensione dei test nucleari, senza un diverso

clima internazionale, oltre che un adeguato sistema di controllo e ispezioni28.

25 T. N. DUPUY and G. M. HAMMERMAN (edited by), Documentary History, cit., documento n. 91, Atoms for Peace,

December 8, 1953, pp. 358-364. Fra i passaggi con cui il presidente intendeva evidentemente attribuire un ruolo

positivo al proprio paese, nonostante l’iniziale monopolio nucleare, vale la pena riportare la conclusione del discorso

pronunciato da Eisenhower di fronte all’Assemblea generale: «To the making of these fateful decisions, the United

States pledges before you – and therefore before the world – its determination to help solve the fearful atomic dilemma

– to devote its entire heart and mind to find the way by which the miraculous inventiveness of man shall not be

dedicated to his death, but consecrated to his life»; cfr.: I. CHERNUS, Eisenohwer’s Atom for Peace, Texas A & M

University Press, 2002. 26 T. N. DUPUY and G. M. HAMMERMAN (edited by), Documentary History, cit., documento n. 94, A Comprehensive

Soviet Proposal, May 10, 1955, pp. 373-378. 27 Foreign Relations of the United States (Frus), 1955-1957, Vol. XX, Regulation of Armaments and Atomic Energy,

United States Government Printing Office, Washington DC, 1990, documento n. 26, Letter from the Deputy

Representative on the United Nations Disarmament Commission (Wadsworth) to the Representative at the United

Nations (Lodge), London, May 11 1955, pp. 78-81. Il vice di Lodge sollecitava il proprio superiore a spingere il

governo verso una presa di posizione; in particolare, scriveva: «I fully realize the dangers of staying here and exposing

lack of US policy. At the same time, I think we must recognize that when you take away all the non-essentials of the

latest Russian proposal, you must admit that they have made tremendous concessions compared to the position which

Malik was strenuously defending as recently as last Thursday». 28 Frus, ibid., documento n. 33, Progress Report Prepared by the President’s Special Assistano (Stassen), Washington,

May 26 1955, pp. 93-109. In realtà, il rapporto redatto da Stassen andava nella direzione di escludere l’opportunità di

negoziare con i sovietici misure che andassero oltre una limitazione degli armamenti. Soprattutto Stassen osservava che:

«A major worldwide program should be launched to develop understanding and conviction of the United States

objective to prevent war and establish peace and that it is not possible or sound to ban modern weapons or to become

weak when a diverse and evil ideology like communism is centered in a major nation».

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Sebbene dopo la morte di Stalin del 1953 e il temporaneo consolidamento della dirigenza

collegiale al Cremlino i rapporti fra le due superpotenze si fossero in parte distesi, la prima di tali

condizioni era evidentemente difficile da accogliere per i paesi dell’Alleanza atlantica, perché

avrebbe significato ritirare tutte le truppe dalla Germania proprio nell’anno in cui la Repubblica

federale tedesca era entrata a fare parte dell’Unione europea occidentale e quindi della Nato.

Quanto all’interruzione degli esperimenti di ordigni di distruzione di massa, l’opinione prevalente

nell’amministrazione Eisenhower era che si trattasse di una misura che poteva rivelarsi vantaggiosa

per i sovietici, mentre sarebbe stata pericolosa per gli interessi americani29. Ciò che invece premeva

di più al governo di Washington era creare le condizioni per scongiurare il pericolo di un attacco a

sorpresa da parte sovietica. Trascurando tutta la questione dell’importante condizionamento

esercitato delle percezioni prevalenti sui due opposti fronti della cortina di ferro nel corso della

guerra fredda, qui vale la pena mettere in evidenza che la “risposta” della Casa bianca venne infine

formulata seguendo le indicazioni fornite da Stassen. L’assistente speciale del presidente per il

disarmo riteneva che «la politica degli Stati Uniti non doveva più proporre l’eliminazione degli

ordigni nucleari come parte integrante di un sistema per il controllo degli armamenti»; al contrario,

era utile chiedersi se «nella proposta americana [..] valesse o meno la pena di spostare l’accento sui

vettori, al fine di eliminare la possibilità di un attacco a sorpresa»30.

Appare dunque evidente che l’ipotesi presentata da Eisenhower alla conferenza di Ginevra

del luglio 1955 – il cosiddetto programma open skies31 – con il suo intento di promuovere la

reciprocità dell’ispezione aerea non faceva che confermare quel cortocircuito politico-diplomatico,

intervenuto dopo il consolidamento della contrapposizione fra sovietici e americani, che aveva tolto

ogni efficacia all’accordo in materia nucleare quale strumento per costruire un rapporto di

collaborazione fra le due maggiori potenze del dopoguerra. Nel frattempo, infatti, era diventato vero

il contrario: non esisteva più la possibilità di trovare un’intesa su una questione tanto delicata se

prima Washington e Mosca non fossero riuscite a sviluppare qualche forma di confidence building

attraverso cui avviare un processo costruttivo. Non è un caso che tale osservazione fosse fatta

proprio dall’allora primo ministro sovietico, maresciallo Nikolaj Bulganin, durante lo stesso summit

di Ginevra in cui l’Unione Sovietica aveva respinto la proposta di Eisenhower come un tentativo da

parte americana di legittimare lo spionaggio32.

29 M. EVANGELISTA, Unarmed Forces. The Transnational Movement to End the Cold War, Cornell University Press,

Ithaca and London, 1999, pp. 50-51. 30 Frus, ibid., documento n. 34, Memorandum of Discussion at the 250th Meeting of the National Security Council,

Washington, May 26 1955, pp. 109-113. 31 T. N. DUPUY and G. M. HAMMERMAN (edited by), Documentary Histor, cit., documento n. 95, Open Skies, July 21

1955, pp. 379-381. 32 D. BOURANTONIS, The United Nations,cit., pp. 49-51.

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Nonostante le evidenti difficoltà per entrambe le superpotenze a tradurre in azione l’intento

di accrescere la fiducia reciproca, il 1955 segnò comunque un momento di svolta in tal senso. Lo

sforzo diretto a rivedere i meccanismi consolidati delle percezioni e delle diffidenze reciproche fu in

qualche modo favorito anche dalla trasformazione intervenuta nella composizione dell’Onu, dove

furono ammessi, proprio in quell’anno, sedici nuovi membri33. Questo era il riflesso di un

cambiamento più vasto appena iniziato nel sistema internazionale, che si arricchiva di nuovi

soggetti in conseguenza del pieno sviluppo del processo di decolonizzazione. Si trattava, nella

maggioranza dei casi, di stati di recente indipendenza che, entro alcuni anni, sarebbero confluiti in

buona parte nel gruppo dei paesi non allineati. Anche per questo essi erano intenzionati a fare

pressione sui due maggiori contendenti della guerra fredda, affinché Mosca e Washington si

impegnassero a contenere gli elementi di pericolo e tensione della contrapposizione bipolare.

Era in qualche modo scontato, perciò, che una delle questioni sulle quali i cosiddetti non

allineati si sarebbero sentiti chiamati a svolgere un ruolo significativo fosse il problema del

disarmo. Del resto, la funzione di mediazione fra i due blocchi, che tali paesi progressivamente

assunsero nell’ambito dei negoziati in questione, fu anche il risultato di un preciso interesse del

governo sovietico che, finalmente, trovava in questo nuovo raggruppamento una sponda per

contrastare la maggioranza favorevole alla posizione americana, dominante l’Assemblea generale e

il Consiglio di sicurezza fin dalla costituzione dell’Onu. Nonostante la novità rappresentata dal

messaggio politico di cui tali paesi erano portatori, le trattative sul disarmo finirono per scomparire,

anche se non ufficialmente, dall’agenda delle Nazioni Unite. In tale ambito, infatti, rimase ancora in

carica la Commissione per il disarmo (allargata a tutti gli stati aderenti all’organizzazione a partire

dal 1958, secondo una risoluzione proposta dall’Urss); ma, dal 1960, il suo ruolo fu svuotato dalla

creazione del Ten Nation Disarmament Committee – poi ampliato con l’Eighteen Nation

Disarmament Committee (Endc). Entrambi i comitati in questione – operanti al di fuori della

formale giurisdizione dell’Onu - erano il risultato della decisione delle grandi potenze in favore di

un foro di discussione “libero” dai vincoli presenti nel più vasto consesso internazionale34. Anche

grazie a tale libertà, una volta che le due superpotenze convennero sulla opportunità di

provvedimenti parziali, i paesi non allineati riuscirono a far sentire il loro peso all’interno

dell’Endc, nelle trattative che sovietici e americani avviarono proprio dalla fine degli anni cinquanta

su misure di controllo, appunto, e non di eliminazione degli armamenti35.

33 Una delle più recenti ricostruzioni della storia delle Nazioni Unite durante la guerra fredda è contenuta in: S.

MEISLER, United Nations: The First Fifty Years, Atlantic Monthly Press, 2000. 34 D. BOURANTONIS, The United Nations, cit., pp. 61-63.

35 Ivi, pp. 72-77.

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Gli anni ’60 e il timore della diffusione nucleare: il controllo orizzontale

La seconda metà degli anni cinquanta segnò una tappa fondamentale nel consolidamento

degli equilibri internazionali usciti dall’ultimo conflitto mondiale per ragioni ben diverse da quelle

legate allo sforzo per il disarmo. Tale periodo determinò infatti la definitiva consacrazione

dell’elemento nucleare quale fattore cruciale nei rapporti di potenza, oltre che componente

essenziale del ruolo di leader nei rispettivi sistemi di alleanza per Stati Uniti e Unione Sovietica.

Seppure seguendo percorsi diversi, gli apparati politici e militari, a Mosca come a Washington,

avevano finito per dare un peso crescente al potere di inibire le mosse aggressive della controparte

grazie all’arsenale atomico, ovvero alla capacità di deterrenza. Da questo punto di vista,

l’elaborazione concettuale americana aveva preceduto quella sovietica, più lenta e cauta

nell’inglobare gli ordigni di distruzione di massa nella propria dottrina militare, anche perché

condizionata dalla subordinazione all’ideologia comunista 36.

Sul piano della stabilità dell’intero sistema, questa evoluzione comportava però una

complicazione aggiuntiva rispetto alle incognite già esistenti. Nel momento in cui il principio di

deterrenza era diventato un elemento regolatore nei rapporti bipolari, esso aveva acquisito una

valenza cruciale anche nelle relazioni all’interno di ciascuno schieramento, la cui solidità aveva un

riflesso diretto sulla conservazione dell’equilibrio globale. Tutto ciò determinava, nel caso di una

scelta verso la regolamentazione dell’elemento nucleare, la necessità di riconoscere e affrontare due

ordini di problemi: in primo luogo, la sovrapposizione di due ambiti in cui si esplicava il potere

militare e politico dell’atomica; in secondo, il fatto che l’entità e il numero degli arsenali nucleari

presenti nel sistema era destinato a rimanere una componente in divenire e per questo instabile, una

volta falliti i tentativi di regolamentazione internazionale dell’uso dell’energia atomica. Di fronte a

una doppia sfida come questa, la scelta che gradualmente prese forma nei due principali contendenti

della guerra fredda fu di perseguire anzitutto una politica anti-proliferatoria, nell’intento di

controllare la diffusione, fra le nazioni del mondo, delle capacità nucleari suscettibili di essere

riversate negli apparati militari.

L’avvio di questo processo, che potrebbe essere definito di controllo orizzontale, fu quindi

determinato da una concomitanza di fattori che operarono su entrambi i fronti contrapposti, anche

se con tempi e caratteristiche differenti. Per quel che riguarda l’Alleanza atlantica, essa aveva

adottato con il documento MC 48 la strategia della risposta massiccia, nell’intento di ottenere il

36 Sull’evoluzione della dottrina strategica delle due maggiori potenze nei primi decenni della guerra fredda, cfr.: L.

FREEDMAN, The Evolution of Nuclear Strategy, St. Martin’s Press, New York, 1981; D. M. GLANTZ, The Military

Strategy of the Soviet Union. A History”, Frank Cass, London, 1992; D. HOLLOWAY, L’Unione Sovietica e la corsa agli

armamenti, Il Mulino, Bologna,1984.

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massimo effetto inibitorio sull’Unione Sovietica, percepita, almeno fino al 1957, come direttamente

pericolosa soprattutto per i membri europei della Nato, in virtù della contiguità territoriale fra le due

alleanze militari avversarie37. In questo modo, gli europei potevano essere protetti da Washington,

nonostante la supremazia convenzionale di cui godeva il Patto di Varsavia nel vecchio continente;

allo stesso tempo, la scelta del containment veniva confermata e, di conseguenza, la tenuta

dell’alleanza ribadita nella sostanziale coincidenza fra sicurezza dell’Europa occidentale e sicurezza

degli Stati Uniti. Tale ricetta, però, presentava controindicazioni importanti, specie agli occhi delle

nazioni del vecchio continente che invece avrebbe dovuto rassicurare, perché dal punto di vista

europeo si trattava di accettare l’olocausto nucleare in caso di conflitto. Quando poi divenne dubbia

la stessa volontà di reazione da parte dell’alleato d’oltreoceano, la crisi della deterrenza estesa al

resto dell’alleanza produsse un dibattito interno allo schieramento occidentale che accelerò un

processo già in atto con i programmi nucleari di Gran Bretagna e Francia38.

Anche in questo caso la tecnologia ebbe un ruolo cruciale perché a partire dall’ottobre del

1957 – ovvero da quando fu reso noto che i sovietici avevano lanciato un satellite nello spazio,

usando un missile di gittata intercontinentale (Intercontinental Ballistic Missile, Icbm) – il bisogno

di rassicurazioni circa l’impegno strategico americano a difesa dei paesi alleati crebbe notevolmente

di intensità39. La crisi di credibilità nei confronti della protezione offerta dagli Stati Uniti, sottoposti

per la prima volta a una minaccia diretta sul loro territorio, fu l’origine di un lungo e frammentato

processo decisionale che impegnò le capitali occidentali soprattutto nel corso del decennio

successivo, quando la questione del nuclear sharing rimase il punto sul quale far convergere

impegni e sforzi progressivamente inconciliabili40. Tale inconciliabilità derivava in particolare dalla

contraddizione insita nell’appartenenza della Germania federale alla Nato, grazie alla quale un ex

nemico – comune ai due blocchi - del passato conflitto acquisiva, almeno in linea teorica, gli stessi

37 La MC 48 venne adottata dalla Nato nel dicembre 1954. Essa faceva seguito al documento Nsc 162/2 del Consiglio

per la sicurezza nazionale, approvato come dottrina strategica degli Stati Uniti nell’ottobre dell’anno precedente. In

sostanza la dottrina della rappresaglia massiccia, voluta dall’amministrazione Eisenhower – in carica dal gennaio 1953 -

ipotizzava il ricorso all’arsenale nucleare anche nel caso in cui l’aggressione fosse stata di tipo convenzionale. Sulle

scelte strategiche dell’amministrazione Eisenhower, cfr.: R. R. BOWIE and R. H. IMMERMAN, Waging Peace. How

Eisenhower Shaped an Enduring Cold War Strategy, Oxford University Press, 1998; S. DOCKRILL, Eisenhower’s New

Look National Security Policy, 1953-1961, St. Martin’s Press, London, 1996. 38 La Gran Bretagna esplose il suo primo ordigno atomico nel 1952, mentre la Francia raggiunse tale risultato nel 1960.

Sul significato e la realizzazione dei programmi nucleari britannico e francese cfr.: I. CLARK, Nuclear Diplomacy and

the Special Relationship: Britain’s Deterrent and America 1957-1962, Clarendon Press, Oxford, 1994; B. HEUSER,

NATO, Britain,France, and the FRG. Nuclear Strategies and Forces for Europe, 1949-2000, Macmillan, London ,

1997; M. VAISSE, La France et l’atome: Etudes d’histoire nucléaire, Bruylant, Bruxelles, 1994. 39 Sui progressi messi a segno dalla tecnologia missilistica sovietica rispetto a quella americana alla fine degli anni

cinquanta, cfr.: R. A. DIVINE, The Sputnik Challenge. Eisenhower’s Response to the Soviet Satellite, Oxford University

Press, New York, 1993. 40 Per comprendere appieno la temetica del nuclear sharing (ovvero della condivisione da parte americana di

conoscenze e armi nucleari con gli alleati atlantici) legata alla questione tedesca, una delle monografie più esaustive

rimane quella di M. TRACHTENBERG, A Constructed Peace. The Making of European Settlement, 1945-1963, Princeton

University Press, Princeton,1999.

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diritti riconosciuti agli altri membri del Patto. Ciò significava che, se non fosse stata trovata una

soluzione alternativa allo sviluppo di capacità nucleari nazionali – misura già adottata da Gran

Bretagna e Francia – anche la Rfg si sarebbe avviata lungo quel cammino41. Oltretutto, la necessità

di escogitare una linea che scongiurasse tale epilogo, per le amministrazioni che nel periodo

considerato si succedettero alla Casa bianca, divenne molto presto anche la condizione necessaria

per mantenere aperto un dialogo con Mosca. Questa era un’esigenza che non poteva essere

trascurata dai responsabili politici di Washington, proprio per l’entità e quindi la pericolosità che i

rispettivi arsenali nucleari avevano raggiunto, come del resto dimostrarono le due maggiori crisi che

scossero il sistema internazionale a cavallo fra gli anni cinquanta e i sessanta: la seconda crisi di

Berlino e quella di Cuba.

Il momento di grande tensione rappresentato da quest’ultimo episodio, vista la relativa

facilità con cui Urss e Usa si erano avvicinati alla soglia del conflitto globale, fu in realtà un monito

importante anche per il Cremlino, dove evidentemente vennero fatte valutazioni molto simili a

quelle dell’avversario circa la pericolosità di un sistema internazionale nel quale il numero dei paesi

in possesso di arsenali atomici crescesse fuori da ogni controllo. E questo era un pericolo quanto

mai reale, data l’importanza che l’elemento nucleare aveva acquisito nelle relazioni internazionali

anche al fine di distinguere le potenze di primo rango da tutte le altre. Non a caso, la stessa Unione

Sovietica che, in una prima fase di rapporti con la Cina popolare – alleato ancora di grande

importanza all’indomani della morte di Stalin - aveva siglato una serie di accordi volti a dare

sostegno allo sviluppo tecnologico cinese anche in campo atomico42, finì col cercare di ostacolare il

programma di Pechino, quando le relazioni fra i due paesi comunisti mostrarono i primi segnali di

contrasto. All’interno del blocco orientale, infatti, specie a partire dal 1958, i motivi di dissidio fra

la dirigenza sovietica e quella cinese crebbero in maniera esponenziale, allargandosi dalle questioni

ideologiche a quelle propriamente politiche, che riguardavano perciò i rapporti fra paesi cosiddetti

fratelli, ma anche quelli con il comune avversario della guerra fredda, e con le nazioni di recente

indipendenza, verso le quali la Cina popolare gradualmente sviluppò un’azione alternativa rispetto a

quella dell’Urss43. Uno dei più importanti progetti di cooperazione – se non il più importante - fra le

41 Anche se si tratta di un volume un po’ datato, il dibattito interno alla Germania federale circa il significato e

l’opportunità di un arsenale atomico negli anni cinquanta e sessanta è raccontato in modo esaustivo in: C. M.

KELLEHER, Germany and the Politics of Nuclear Weapons, Columbia University Press, New York, 1975. 42 In particolare, dopo aver concluso, fra il gennaio 1955 e il dicembre 1956, una serie di quattro accordi sull’estrazione

dell’uranio e il suo arricchimento, sovietici e cinesi firmarono nell’ottobre 1957 il New Defense Technology Agreement

che prevedeva, fra le altre cose, la cessione da parte dell’Urss di un prototipo di bomba atomica all’Istituto di ricerca

sulle armi nucleari di Pechino; cfr.: M. KRAMER, The USSR Foreign Ministry’s Appraisal of Sino-Soviet Relations on

the Eve of the Split, September 1959, in «Cold War International History Project Bulletin», Issue 6-7, Winter 1995-

1996, p. 175. 43 Un’ottima ricostruzione dei rapporti fra Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese dalla nascita di quest’ultima

ai primi anni settanta è contenuta in: CHEN JIAN, Mao’s China and the Cold War, The University of North Carolina

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due repubbliche socialiste, che fece le spese di questo deterioramento dei rapporti, fu proprio

l’accordo siglato nel 1957 in materia di tecnologia nucleare, che venne formalmente revocato dal

Cremlino con una lettera del giugno del 195944.

La decisione del Pcus di sottrarre ogni aiuto al programma nucleare di Pechino giungeva in

un momento di relativa tensione nelle relazioni fra le due superpotenze, visto che la crisi aperta da

Chruscev su Berlino era in pieno svolgimento. Ciononostante – e questo è indice dell’interesse che

accomunava i due maggiori contendenti della guerra fredda - fra Mosca e Washington era stato

anche avviato un dialogo importante che avrebbe determinato il primo passo concreto nella

direzione del controllo della diffusione degli arsenali atomici. Si trattava dei primi negoziati, in

corso a Ginevra, per la messa al bando degli esperimenti nucleari, iniziati a fine ottobre del 1958,

dopo che il presidente Eisenhower aveva accettato di sospendere i test, accogliendo la proposta

lanciata da Chruscev nel marzo precedente. L’avvio delle discussioni testimoniava il superamento

da parte occidentale della condizione con la quale gli americani – insieme ai britannici – fino ad

allora avevano accolto le ipotesi fatte dai sovietici di abbandonare l’idea di un disarmo generale per

impegnarsi su misure parziali. Con la decisione del 1958 la Casa Bianca aveva optato per una

soluzione che prometteva di rispondere a diverse esigenze. Non c’era infatti solo da dare ascolto

all’opinione pubblica mondiale, allarmata per le conseguenze delle ricadute radioattive prodotte

dagli esperimenti nell’atmosfera45; l’amministrazione Eisenhower aveva anche rilevato

l’opportunità di costringere l’interlocutore sovietico ad accettare di parlare di un sistema di verifica.

Più di ogni altra cosa, comunque, i negoziati di Ginevra rappresentavano la speranza di mettere al

bando un’attività che non era più indispensabile per creare l’arsenale delle potenze già nucleari,

mentre era obbligata per qualsiasi altro paese che avesse voluto dotarsi di tali capacità militari. E’

su questo plausibile risultato che alla fine confluirono gli interessi di Stati Uniti e Unione

Sovietica46.

Le trattative sul test ban proseguirono per alcuni anni con alterne vicende, determinate non

tanto dall’avvicendamento alla Casa bianca, dove nel 1961 si insediò la nuova amministrazione di

John F. Kennedy47, quanto dalla difficoltà di trovare un compromesso fra le esigenze di Mosca, da

Press, Chapel Hill and London, 2001; O. A. WESTAD (edited by), Brothers in Arms: The Rise and Fall of Sino-Soviet

Alliance, 1945-1963, Woodrow Wilson Center Press, Washington, DC, 1998. 44 M. KRAMER, The USSR Foreign Ministry’s Appraisal, cit., p. 175.

45 M. EVANGELISTA, Unarmed Forces, cit., pp. 54-58, dove l’autore descrive in maniera efficace l’influenza

dell’opinione pubblica sulle scelte sovietiche, e poi americane, in favore della sospensione degli esperimenti atomici. 46 Sulle ragioni che indussero americani e sovietici a impegnarsi nel negoziato per la messa al bando degli esperimenti

nucleari, cfr.: M. GALA, Il paradosso nucleare. Il Limited Test Ban Treaty come primo passo verso la distensione,

Polistampa, Firenze, 2002; sulle ragioni e il ruolo rivestito dalla Gran Bretagna, cfr.: K. OLIVER, Kennedy, Macmillan

and the Nuclear Test Ban Debate, 1961-1963, Macmillan, London,1998. 47 Il Presidente Kennedy, comunque, sin dall’inizio del proprio mandato mostrò una sensibilità maggiore verso il

problema della proliferazione di quanto non avesse fatto il suo predecessore e questo a cominciare dal contesto

atlantico, dove le ambizioni di de Gaulle entrarono presto in contrasto con i programmi della nuova amministrazione

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una parte, e Washington e Londra dall’altra, che consentisse di siglare un’intesa di messa al bando

totale degli esperimenti. Questo era infatti l’obiettivo che i tre governi in questione si erano

prefissati sin dall’inizio dei colloqui di Ginevra e che, non a caso, avrebbe presto incontrato

l’opposizione della Francia e della Cina popolare, entrambe impegnate in un programma nucleare

nazionale, in aperta polemica con le indicazioni che giungevano dai rispettivi maggiori alleati48. Lo

scoglio più importante, sul quale reiteratamente si infransero le speranze di arrivare con una certa

rapidità alla firma del trattato, era costituito dal sistema di verifica del rispetto degli accordi

sottoscritti. Gli occidentali, infatti, ritenevano indispensabile affiancare a una struttura di

monitoraggio, che consentisse di rilevare eventuali variazioni di radioattività nell’atmosfera, o

movimenti tellurici legati ad esplosioni nel sottosuolo, un sistema di ispezioni sul posto, capaci di

fugare ogni dubbio qualora i dati rilevati dagli strumenti preposti non avessero fornito indicazioni

chiare sull’eventuale violazione avvenuta. I sovietici, dal canto loro, seppure stemperando nel corso

dei negoziati l’innata ritrosia ad accettare i controlli, in linea di massima rifiutavano l’idea che il

loro territorio potesse essere sottoposto a ispezioni troppo frequenti e per questo ritenute invasive49.

Fu la crisi di Cuba, come già sottolineato, che determinò nei responsabili politici di Mosca e

Washington la volontà di uscire definitivamente dall’impasse diplomatica durata sino al 1962. Già a

partire dal marzo di quell’anno, i colloqui di Ginevra, che fino ad allora si erano svolti fra le tre

potenze direttamente coinvolte dalla messa al bando degli esperimenti, erano stati allargati a una

serie di altri stati chiamati a fare parte dell’Eighteen Nation Disarmament Committee. In questa

sede i paesi non allineati, pur senza risparmiarsi nello sforzo di cercare un punto di incontro fra le

opposte esigenze di sovietici e occidentali, non erano riusciti a trovare la formula che potesse

conciliare le condizioni poste da questi ultimi sul sistema di verifica con l’esigenza perseguita

dall’Urss di concludere un test ban totale. La quadratura del cerchio divenne possibile solo quando

l’ipotesi della messa al bando parziale fu accettata, a inizio luglio del 1963, anche dal Cremlino.

Chruscev aveva reiteratamente escluso tale soluzione per non offrire alla controparte americana

l’opportunità di avvantaggiarsi della tecnologia più sofisticata di cui gli Stati Uniti disponevano per

gli esperimenti nel sottosuolo. In questo modo, però, le due superpotenze rischiavano di rimanere

senza un trattato che invece prometteva, nella più rosea delle ipotesi, di ostacolare la realizzazione

del programma nucleare delle medie o piccole potenze che non avevano gli strumenti per fare

esperimenti sotterranei; altrimenti, nel caso di rifiuto ad aderirvi, l’accordo parziale poteva creare le

democratica. Sul dissidio franco-americano legato alla presenza di de Gaulle al potere, cfr.: F. BOZO, Deux Stratégies

pour l’Europe. De Gaulle, les Etas Unis et L’Alliance Atlantique, 1958-1969, Plon, Paris,1996. 48 M. GALA, Il paradosso nucleare, cit., pp.27-28, dove sono riportate le reazioni francese e cinese alla firma del

Limited Test Ban Treaty. 49 Il resoconto più dettagliato di queste estenuanti trattative è contenuto in: G. T. SEABORG, Kennedy Khrushchev, and

the Test Ban, Berkeley, University of California Press, 1981.

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condizioni migliori per isolare quello o quei paesi che avessero deciso di continuare con i loro

programmi atomici nazionali, come era prevedibile che facesse la Cina50.

La messa al bando limitata (all’atmosfera, allo spazio e all’ambiente sottomarino) degli

esperimenti venne firmato a Mosca il 5 agosto del 1963. Questo significava che non veniva posto

alcun ostacolo alla cosiddetta corsa agli armamenti, nella quale le due superpotenze avrebbero

continuato a lungo a investire risorse, comprese quelle destinate a proseguire con i rispettivi

programmi di esperimenti sotterranei. Tuttavia, in cambio di questa loro libertà di migliorare le

capacità distruttive degli arsenali di cui disponevano, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica

avevano sottoscritto l’impegno, contenuto nel preambolo del Limited Test Ban Treaty, a dare

priorità «al raggiungimento di un accordo sul disarmo generale e completo, sotto lo stretto controllo

internazionale, in ottemperanza con gli obiettivi delle Nazioni Unite, che ponga fine alla corsa agli

armamenti ed elimini l’incentivo alla produzione e alla sperimentazione di tutti i tipi di armi».

In realtà, nonostante l’intento solennemente enunciato, i tre governi sottoscrittori originari si

guardarono bene dall’abbandonare la strada della politica di un arms control orizzontale. Anzi; già

dai colloqui svoltisi alla stretta finale delle trattative di Mosca, nel luglio del 1963, era emerso

chiaramente l’interesse condiviso a proseguire con la linea d’azione anti-proliferatoria, nell’intento

di completare un disegno di sostanziale stabilizzazione che il Limited Test Ban Treaty aveva solo

cominciato. Nelle valutazioni della Casa bianca come del Cremlino, infatti, prevaleva la volontà di

perseverare nella competizione di modelli politici ed economici, mantenendo fermo il punto sulla

necessità primaria della sicurezza nazionale, che significava anche garantire la tenuta dei rispettivi

sistemi di alleanza. In tale ambito, la metà degli anni sessanta rappresentò un momento critico su

entrambi i fronti della guerra fredda51.

Il piano del rapporto bipolare, con il relativo equilibrio di deterrenza, rimaneva dunque

intrecciato a quello delle relazioni fra alleati, ai quali tale effetto si estendeva. Per questo motivo, e

prima ancora di occuparsi di misurare accuratamente l’ordine di grandezza dei rispettivi arsenali, le

due superpotenze riconobbero la necessità di “neutralizzare” la variabile suscettibile di creare

instabilità, attraverso un vero e proprio trattato di non proliferazione.

L’accordo firmato il I luglio 1968 da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica poneva

infatti le premesse per la costituzione di due gruppi distinti di paesi: quelli che possedevano un

arsenale nucleare (i Nuclear Weapon States – o Nws) e quelli che invece vi rinunciavano (i Non

Nuclear Weapon States – o Nnws). Con l’articolo I, gli Nws si impegnavano a «non trasferire a

50 M. GALA, Il paradosso nucleare, cit., pp. 104-115.

51 Per una ricostruzione della questione della sicurezza europea e dei rapporti fra gli Stati Uniti e l’Europa durante la

presidenza Johnson, cfr.: T. A. SCHWRTZ, Lyndon Johnson and Europe. In the Shadow of Vietnam, Harvard University

Press, Cambridge, 2003; H. HAFTENDORN, NATO and the Nuclear Revolution. A Crisis of Credibility, 1966-1967,

Clarendon Press, Oxford, 1996.

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qualsiasi destinatario armi nucleari o altri congegni esplosivi, ovvero il controllo su tali armi o

congegni esplosivi direttamente o indirettamente»52; il secondo articolo conteneva invece l’impegno

che l’altra categoria di paesi contraenti doveva ottemperare, astenendosi dallo sforzo esattamente

speculare, finalizzato a procurarsi ordigni attraverso trasferimenti diretti o indiretti, oppure

ricorrendo alla loro fabbricazione con l’assistenza di altre potenze. In sostanza, perciò, il Trattato di

non proliferazione nucleare, se universalmente sottoscritto, avrebbe contribuito in misura

determinante a chiudere la porta di accesso al club delle potenze di primo rango e a sancire la

divisione della comunità internazionale in due distinte categorie, sulla base della qualità del loro

potere militare. Sul piano dello sfruttamento per scopi pacifici, rimaneva aperta invece la possibilità

alle parti contraenti di procedere con la relativa ricerca e sviluppo, così come sancito dall’articolo

IV del trattato, che escludeva esplicitamente ogni intento discriminatorio rispetto all’uso civile

dell’energia atomica.

In un contesto bloccato come quello bipolare, dove ciascuna superpotenza subiva ed

esercitava la deterrenza sull’avversario - e grazie a essa garantiva la sicurezza dei rispettivi alleati -,

l’effetto discriminante del Trattato di non proliferazione poteva essere più facilmente accettato; ma

è altrettanto innegabile che l’efficacia del Non Proliferation Treaty (Npt) dipendeva dalle adesioni

che esso avrebbe raccolto, soprattutto fra i paesi alleati di Stati Uniti e Unione Sovietica, per una

parte dei quali era stata più forte la tentazione di possedere un arsenale atomico indipendente. Non a

caso, fu proprio nell’ambito dei rispettivi sistemi di alleanza che i governi di Washington e Mosca

trovarono i maggiori incentivi e i più seri ostacoli alla positiva conclusione dei negoziati sull’Npt.

In effetti, l’esplosione del primo ordigno atomico, messo a punto dalla Cina popolare nel

196453, non confermò solo il Cremlino nei propositi di negoziato per arrivare al vero e proprio

trattato di non proliferazione. Anche la Casa bianca divenne più sensibile rispetto alla necessità di

stringere i tempi verso un’intesa che potesse bloccare la diffusione dello sfruttamento militare del

nucleare, nonostante il dibattito ancora in corso nell’Alleanza atlantica su come realizzare una

qualche forma di nuclear sharing54. Dopo l’arrivo al potere del presidente Kennedy, e soprattutto a

partire dalla primavera del 1963, il governo americano aveva cercato di dare una fisionomia più

precisa alla questione della maggiore partecipazione degli alleati europei alle decisioni riguardanti il

deterrente strategico della Nato, attraverso la proposta di multilateral force (Mlf), o forza

52 Il testo del Trattato usato in questa citazione è contenuto in: Circolo di Studi Diplomatici, «Dialoghi diplomatici», Il

Trattato di Non Proliferazione Nucleare, 9/1968. 53 Sul programma nucleare che consentì alla Cina di costruire il suo primo ordigno atomico, cfr.: JOHN W. LEWIS and X.

LITAI, China Builds the Bomb, Stanford University Press, Stanford,1988. 54 Una documentata ricostruzione del dibattito interno all’amministrazione americana circa la necessità di dare priorità

alla politica anti-proliferatoria è contenuta in: F. J. GAVIN, Blasts from the Past. Proliferation Lessons from the 1960s,

in «International Security», Vol. 29, No. 3, Winter 2004-2005, pp. 100-135.

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multilaterale55. Questa era un’idea abbozzata per la prima volta nell’estate del 1960, e poi messa a

punto dal dipartimento di Stato americano, nell’intento di creare una capacità nucleare militare che,

per il suo carattere multinazionale, avrebbe scongiurato il rischio di veder crescere il numero di

paesi europei occidentali in possesso di un arsenale nazionale e, rispetto alla cui eventualità, il

pericolo maggiore era individuato nelle possibili ambizioni della Germania federale. Queste

discussioni in ambito atlantico provocarono un’immediata levata di scudi da parte sovietica, poiché

a Mosca non esisteva alcuna disponibilità a contemplare una qualsiasi forma di nuclearizzazione

della difesa tedesco-occidentale, per quanto “indiretta” essa potesse essere. A niente servirono i

tentativi americani di rassicurare l’avversario circa la volontà di mantenere un controllo

centralizzato sul deterrente dell’Alleanza. Al contrario; il composito, anche se univoco, interesse

degli Stati Uniti verso la non diffusione degli arsenali atomici, dentro e fuori della Nato, offrì al

Cremlino l’opportunità di giocare per alcuni anni una partita volta a creare dissidio in seno al fronte

occidentale. E infatti la formulazione definitiva del Trattato fu il risultato di uno sforzo diplomatico

che divenne produttivo solo a cominciare dal 1967, per concludersi poi nella prima metà del 1968,

quando, appunto, venne chiusa la partita legata ai futuri assetti della difesa europea56. La politica di

sicurezza della Nato, in effetti, dopo un approfondito dibattito, era stata rielaborata nel senso di

attribuire molta più enfasi all’obiettivo del contenimento piuttosto che del possesso degli

armamenti. Del resto, entro il 1967, l’Alleanza atlantica aveva accettato la costituzione del

cosiddetto Nuclear Planning Group, con il compito di consentire alla gran parte dei paesi europei di

essere maggiormente coinvolti nell’elaborazione dei piani e nella scelta degli obiettivi strategici

predisposti per l’eventualità di uno scontro con l’Unione Sovietica, senza bisogno di entrare in

possesso dell’hardware; contemporaneamente, con l’approvazione del rapporto Harmel, la

distensione – ovvero il dialogo con il blocco avversario su cui fondare la sicurezza comune - era

diventata una priorità per l’intera Alleanza57.

Fu questo il passaggio cruciale – perché sottintendeva un profondo cambio di prospettiva nei

rapporti con l’Unione Sovietica – che permise agli Stati Uniti di acconsentire a introdurre

nell’articolo I dell’Npt il divieto per gli stati militarmente nucleari di trasferire armi atomiche o altri

congegni esplosivi a singoli paesi, o indirettamente, a organizzazioni di carattere difensivo, come

appunto la Nato. La firma del Trattato di non proliferazione nucleare mostrava una chiara

55 Una esaustiva spiegazione delle presunte modalità di realizzazione della Mlf è contenuta nella seconda parte del

volume: J. D. STEINBRUNER, The Cybernetic Theory of Decision: New Dimentions of Political Analysis, Princeton

University Press, Princeton, 1974. 56 Per una particolareggiata ricostruzione dei negoziati per il Trattato di Non Proliferazione, cfr.: G. T. SEABORG,

Stemming the Tide. Arms Control in the Johnson Years, Lexington Books, Lexington and Toronto, 1986. 57 Sul cosiddetto Harmel report, cfr.: A. WENGER, Nato’s Transformation in the 1960s and the Ensuing Political Order

in Europe, in: A. WENGER, C. NUENLIST, A. LOCHER (edited by), Transforming Nato in the Cold War: Challenges

Beyond Deterrence in the 1960s, Routledge, London, 2007, pp. 235-237.

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inversione di rotta nei rapporti fra i due blocchi che non sarebbe stata possibile senza una completa

rielaborazione, da parte occidentale, delle prospettive di collaborazione con il Cremlino. Altrettanto

innegabile, tuttavia, appare la centralità del ruolo della Repubblica federale tedesca nel rendere

perfettamente praticabile la svolta verso il dialogo. Soltanto nel momento in cui il governo di Bonn

avesse autonomamente optato per reimpostare i rapporti con Mosca sulla base dell’abbandono della

cosiddetta dottrina Hallstein (il primo passo verso l’adozione della Ostpolitik), la Germania avrebbe

potuto firmare il Non Proliferation Treaty, senza temere di pregiudicare la tutela futura della

propria sicurezza e dei propri interessi.

A completare il quadro dell’intento condiviso dalle due superpotenze di continuare lungo il

cammino dell’arms control, così come veniva chiesto loro dal resto della comunità internazionale,

questa volta non solo il preambolo, ma l’articolo VI dell’Npt conteneva l’espressa dichiarazione in

cui «Ciascuna delle Parti del presente Trattato si impegna a condurre negoziati in buona fede su

efficaci misure relative alla cessazione della corsa alle armi nucleari ad una data prossima, e al

disarmo nucleare, e su un Trattato di disarmo generale e completo sotto un rigoroso ed efficace

controllo internazionale»58.

L’obiettivo del controllo verticale: gli anni della mancata stabilizzazione

La firma del Trattato di non proliferazione, con la sottoscrizione inequivocabile della

promessa di imminenti negoziati riservati alle potenze nucleari, apriva una fase nuova del dialogo

fra Mosca e Washington. Le superpotenze che avevano ottenuto dalla maggioranza dei rispettivi

alleati – e non solo – la disponibilità ad accettare una condizione di inferiorità militare, e perciò

politica, avevano in cambio manifestato la volontà di operare affinché tale condizione non

rimanesse immutata nel tempo. Da parte di americani e sovietici tutto ciò significava riconoscere

che a questo punto la responsabilità del mantenimento della pace e della stabilità internazionale

richiedeva uno sviluppo ulteriore dell’arms control, possibile soltanto ai due più importanti

contendenti della guerra fredda.

Questa presa di coscienza, in ogni caso, muoveva da un elemento quantitativo concreto,

ovvero dal significativo aumento delle capacità strategiche dell’Unione Sovietica, che alla fine degli

anni sessanta aveva decretato il raggiungimento di una sostanziale parità con gli Stati Uniti59. La

58 Circolo di studi diplomatici, «Dialoghi Diplomatici», cit..

59 Nello specifico, nel 1969, l’Unione Sovietica aveva ormai superato gli Stati Uniti nel numero di missili

intercontinentali installati a terra; stava accrescendo rapidamente il numero di vettori di lancio da sottomarino, anche se

la tecnologia in tale settore non aveva raggiunto quella americana, così come risultava relativamente meno sviluppata la

tecnologia sovietica nel campo dei missili cosiddetti MIRVed (Multiple Independently Reentry Vehicle, ovvero a

testata multipla, ciascuna orientabile su un obiettivo diverso).

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perdita della supremazia non convenzionale da parte americana era un dato con il quale la politica e

la dottrina strategica di Washington dovevano fare i conti, tanto che nel 1967 il segretario alla

Difesa, McNamara, aveva parlato per la prima volta di Mad, ovvero di Mutual assured destruction,

per definire la dimensione assoluta (e assurda) che aveva acquisito il rapporto di forza, e dunque

l’effetto di deterrenza, esistente fra i due protagonisti del bipolarismo. In altri termini, le armi

accumulate erano tali e tante da immaginare una reciproca capacità di distruzione che non lasciava

scampo ad alcuna tentazione di attacco a sorpresa, perché i due contendenti potevano in teoria già

annientare più volte la rispettiva popolazione. L’equilibrio che ne derivava, accantonando l’ipotesi

che gli Stati Uniti volessero tornare a una netta supremazia militare sull’Urss, apriva la strada a un

negoziato che, definendo meglio i contorni dell’elemento nucleare strategico, assumeva un

significato politico di rifondazione, quasi, del rapporto bipolare sulla base di una raggiunta

condivisione di alcune regole essenziali del sistema internazionale. In altri termini, cominciare a

discutere dell’entità e delle caratteristiche dei rispettivi arsenali, allo scopo di sancirne ufficialmente

la sostanziale uguaglianza, era al contempo origine e conseguenza di un rapporto fra le due

superpotenze che aveva perso una parte importante della connotazione precedente, fatta di paura

delle presunte intenzioni aggressive del nemico, per acquisire invece la percezione di un avversario

con il quale era necessario e opportuno, prima ancora che possibile, condividere il peso della

complessità degli impegni globali.

In questo senso, il controllo degli armamenti perseguito negli anni settanta espresse, e

coincise con, la parabola della distensione fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, nella quale i primi

cercavano anche un difficile recupero di identità e immagine, dopo il trauma della guerra del

Vietnam, mentre i secondi tentavano, fra l’altro, di contenere la pressione economica su un sistema

in evidente affanno rispetto alla volontà di cogliere le sfide interne ed esterne al blocco comunista.

Sebbene a Washington il mutamento nella percezione dell’avversario si fosse sostanzialmente già

consolidato negli anni della presidenza Johnson, l’amministrazione che dette pieno sviluppo al

processo di distensione fu quella successiva, nella quale il Presidente Nixon attribuì al proprio

consigliere per la sicurezza nazionale, Kissinger, un ruolo essenziale nella formulazione della

politica estera americana60.

I negoziati che impegnarono la Casa bianca e il Cremlino per un intero decennio – i

cosiddetti Salt o Strategic Arms Limitation Talks, o Treaty, al momento della firma – dovevano

cominciare il 30 settembre 1968, secondo un calendario concordato dalle due superpotenze fra il

60 Sul ruolo e l’attività di Kissinger a fianco del Presidente Nixon si vedano in particolare: H. KISSINGER, White House

Years, Weidenfeld & Nicholson, London,1979; J. HANHIMAKI, The Flawed Architect. Henry Kissinger and American

Foreign Policy, Oxford University Press, New York, 2004; R DALLEK, Nixon and Kissinger. Partners in Power, Allen

Lane, London, 2007.

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luglio e l’agosto di quell’anno. Quando l’Urss, insieme ad altri stati del Patto di Varsavia,

intervenne a reprimere la “Primavera di Praga”, l’inizio delle discussioni venne rinviato al 17

novembre del 1969, data in cui, a Helsinki, ufficialmente presero avvio i negoziati che avrebbero

coinvolto soltanto i due paesi leader degli schieramenti avversi, per tentare di attribuire una

dimensione numerica alla parità raggiunta in termini di capacità strategiche. Perseguendo, almeno

nella fase iniziale delle trattative, la logica della “sufficienza” di ciascun arsenale rispetto alla

necessità di inibire un’eventuale intenzione aggressiva della controparte, le discussioni che si

conclusero con il Salt I ruotarono intorno alle modalità secondo le quali stabilire la sostanziale

equiparabilità fra le rispettive capacità strategiche. Da questo punto di vista esistevano almeno due

tipi di difficoltà: da una parte, quella di quantificare la parità fra due arsenali dalla composizione

molto diversa61; dall’altra, la necessità di definire l’aggettivo “strategico” che, per i sovietici,

contrariamente a quanto sostenuto a Washington, coincideva con qualsiasi sistema d’arma in grado

di colpire il territorio dell’Urss con una bomba nucleare, a prescindere da dove fosse collocata la

base di partenza (senza distinzione perciò fra l’America e l’Europa). Questo secondo ostacolo venne

momentaneamente superato accogliendo l’accezione voluta dagli Stati Uniti, per i quali il negoziato

doveva concentrarsi sui vettori di portata intercontinentale, escludendo invece quei sistemi di lancio

installati sul territorio del vecchio continente, che, nell’ottica dell’Alleanza atlantica, rimanevano la

garanzia dell’estensione agli alleati europei dell’ombrello nucleare americano. Quanto al primo

problema, esso venne aggirato ricorrendo ad un accordo provvisorio che si limitava a congelare

l’entità di forze esistente su entrambi i fronti, con l’esclusione dei sistemi d’arma (in questo caso i

bombardieri strategici e i missili intercontinentali a base mobile) che potevano presentare maggiori

difficoltà di compromesso62.

61 A questo proposito va ricordato che gli Stati Uniti avevano sviluppato, nel corso dei decenni precedenti una “triade”

di sistemi d’arma che affiancava alle forze intercontinentali di terra (i vettori Minuteman ne costituivano l’ultima

generazione) quelle installate su sottomarini, oltre ai bombardieri strategici. Oltretutto, grazie alla tecnologia più

sofisticata messa a punto dagli americani nei sistemi di guida e nella miniaturizzazione, i missili di cui disponevano gli

Usa erano più piccoli – e quindi con una minore capacità in termini di peso delle testate – rispetto a quelli sovietici.

L’Urss, infatti, per la stessa collocazione geografica del proprio territorio, aveva investito molto di più sui vettori

intercontinentali, settore nel quale superava in numero e potenza di carico l’entità dell’arsenale dell’avversario, mentre

le forze non convenzionali navali e aeree restavano relativamente meno sviluppate. Per ulteriori dettagli sulla

composizione e l’entità delle forze nucleari di USA e URSS, cfr.: T. B. COCHRAN, W. M. ARKIN, M. M. HOENIG,

Nuclear Weapons Databook, voll. I e II, Balinger Publishing Company, Cambridge,1984; R. S. NORRIS, S. M. KOSIAK,

and S. I. SCHWARTZ, Deploying the Bomb, in: S. I. SCHWARTZ, (edited by), Atomic Audit. The Cost and Consequences

of US Nuclear Weapons since 1940, Brookings Institution Press, Washington, DC, 1998, pp. 105-195; N. POLMAR,

Strategic Weapons: An Introduction, Macdonald & Jane’s, London, 1976. 62 In realtà, l’accordo ad interim in questione stabiliva semplicemente un limite alla gara in atto fra le due superpotenze

nell’ambito delle rispettive capacità strategiche. L’intesa prevedeva un tetto aggregato di sistemi di lancio da terra o da

sottomarini che congelava, per entrambi i sottoscrittori, il numero dei missili intercontinentali o installati su sottomarini

a quelli già operativi o in via di costruzione, fatta salva la possibilità per la seconda categoria menzionata, di

aumentarne il numero fino ad una quota concordata nell’accordo, se un corrispondente numero di vettori dell’uno o

dell’altro tipo fosse stato smantellato o distrutto. Nello specifico, mentre gli Stati Uniti avevano 1054 missili

intercontinentali installati a terra, l’Unione Sovietica chiudeva l’accordo con 1618 vettori della stessa categoria, già

operativi o in costruzione; quanto ai missili installati su sottomarini, esisteva un apparente squilibrio numerico

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Tuttavia, le armi offensive non furono il solo oggetto di trattativa fra Mosca e Washington

nei quasi tre anni che precedettero la firma degli accordi Salt I. Parte integrante del pacchetto e,

anzi, con un obiettivo di maggior rilievo, perché più chiaramente definito rispetto al problema della

stabilizzazione del rapporto di forza fra americani e sovietici, era l’intesa sui sistemi di difesa

antimissile, o trattato Abm (Anti-Ballistic Missile Systems). Entrambi gli accordi vennero firmati a

Mosca il 26 maggio 1972, dal Presidente Nixon e dal Segretario generale del Pcus, Breznev. Mentre

l’intesa interinale – quella sulle armi offensive – rappresentava semplicemente un primo passo

verso un accordo definitivo da negoziare entro i cinque anni successivi, il secondo aveva un dettato

compiutamente normativo, sia rispetto all’individuazione delle componenti di un apparato difensivo

Abm, sia sul piano del limite numerico dei sistemi che le due superpotenze stabilivano di voler

installare. A questo proposito, il trattato in questione consentiva il dispiegamento di due soli sistemi

di difesa antimissile per ciascuna delle parti contraenti, che concordavano anche di limitare le

rispettive possibilità di sperimentazione futura, con l’intento evidente di conservare l’equilibrio

raggiunto. Questo era infatti l’obiettivo prioritario di uno sforzo diplomatico che non poteva certo

trascurare l’elemento di instabilità nel rapporto bipolare che sarebbe derivato dal lasciare uno dei

due contendenti libero di compiere maggiori progressi nel settore della tecnologia antibalistica,

poiché l’effetto di deterrenza dell’arsenale avversario ne sarebbe stato indebolito, fino a rendere

plausibile l’ipotesi di un attacco di sorpresa.

Del resto, già l’accordo interinale sulle armi offensive, quando venne presentato al

Congresso per la ratifica, sollevò i dubbi di quanti, come il senatore Henry Jackson, volevano essere

certi che i futuri negoziati non avrebbero condotto la Casa bianca ad accettare in alcun modo che le

capacità strategiche degli Stati Uniti potessero risultare inferiori rispetto a quelle dell’Unione

Sovietica63. Emergeva, con questi primi segnali di cautela mostrati dal potere legislativo americano,

l’approccio che poi guidò le successive trattative verso l’accordo firmato a Vladivostok da Gerald

Ford e Leonid Breznev, nel novembre del 1974. In questa seconda fase di negoziato, infatti,

l’obiettivo perseguito dal governo di Washington fu di mantenere una parità simmetrica fra i due

arsenali strategici, che significava, in sostanza, stabilire un limite comune procedendo per gruppi di

ordigni. Venne perciò concordato il tetto complessivo di 2400 sistemi di arma strategici

equiparabile (710 contro 950, secondo il tetto massimo previsto, ma non ancora raggiunto). In entrambi i casi, la

ragione della differenza numerica risiedeva principalmente nella prossima installazione da parte americana di vettori a

testata multipla (Mirv) che i sovietici invece non avevano ancora pienamente sviluppato. Il testo in inglese di tutti gli

accordi Salt, utilizzati per questo contributo, è tratto dall’appendice di: COMMITTEE ON INTERNATIONAL SECURITY AND

ARMS CONTROL, NATIONAL ACADEMY OF SCIENCES, Nuclear Arms Control. Background and Issues, National

Academy Press, Washington, DC, 1985. 63 Il potente Senatore democratico ottenne che il Congresso approvasse l’accordo interinale con la seguente richiesta

fatta al Presidente: “to seek a future treaty that inter alia would not limit the United States to levels of intercontinental

strategic forces inferior to the limits provided for the Soviet Union”; passaggio citato in: : COMMITTEE ON

INTERNATIONAL SECURITY AND ARMS CONTROL, NATIONAL ACADEMY OF SCIENCES, op. cit., p. 30.

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(comprendenti missili lanciati da terra, da sottomarino e bombardieri) per ciascuna delle parti,

nell’ambito del quale esisteva un limite numerico condiviso, pari a 1320, relativo ai sistemi dotati di

testata multipla a rientro indipendente (MIRVed)64.

Quando a Ginevra, all’inizio del 1975, ripresero le discussioni per l’accordo definitivo sulle

armi offensive, nonostante l’ottimismo del segretario di Stato, Kissinger, altre nuvole giunsero a

oscurare la prospettiva di una rapida conclusione delle trattative. In effetti, per quanto il clima di

dialogo sembrasse destinato a trionfare con la fase finale della prima Conferenza sulla sicurezza e la

cooperazione in europa (Csce), negli Stati Uniti erano diventate più forti, e quindi più difficili da

ignorare, le voci critiche verso la prosecuzione dei negoziati Salt secondo la linea indicata

dall’amministrazione repubblicana. Non si trattava soltanto della riluttanza a legittimare un nemico

ideologico, così come la distensione e la conseguente sanzione dell’assetto europeo uscito dalla

seconda guerra mondiale parevano significare; agli occhi di coloro che non condividevano l’intero

impianto liberal e internazionalista della politica americana del secondo dopo-guerra, gli accordi in

materia di arsenali strategici erano la dimostrazione del fallimento e della pericolosità di un corso

d’azione che, invece di fare pressione sull’avversario e combatterlo, promuoveva il containment e

rimaneva aggrappata al principio della deterrenza, mettendo così a repentaglio la sicurezza

nazionale65. Non a caso, la “resistenza” alla politica di controllo degli armamenti perseguita dalla

Casa bianca si organizzò in un gruppo che prese il nome di Committee on Present Danger, dove

esperti e diplomatici di lungo corso come Paul Nitze operarono a fianco di giovani ambiziosi come

Richard Perle, nell’intento di mobilitare l’opinione pubblica e cambiare la linea del governo sui

negoziati Salt66.

L’intesa raggiunta nel maggio del 1972 e poi precisata con il vertice di Vladivostok si

fondava sulla convinzione che il rapporto di forza fra le due superpotenze potesse essere

quantificato, per agevolare la definizione della parità e, di conseguenza, della stabilità. In realtà,

questa logica soffriva di una debolezza intrinseca, legata al fatto che il numero dei mezzi di lancio

rischiava di essere fuorviante in termini di capacità distruttiva ed efficacia, nel momento in cui

l’arsenale poteva essere modernizzato e l’uguaglianza numerica contraddetta da elementi

64 L’accordo di Vladivostok conteneva anche: la conferma della messa al bando della costruzione di nuovi missili

intercontinentali installati a terra; il riferimento a misure di verifica previste già nell’accordo interinale; e l’inclusione,

nel limite massimo di 2400 mezzi di lancio, di missili a base mobile e vettori lanciati da aerei. 65 Sulla genesi del fronte opposto alla distensione, emerso negli Stati Uniti già nella prima metà degli anni ’70, si veda

l’efficace sintesi contenuta soprattutto nel IV cap. del volume: M. DEL PERO, Henry Kissinger e l’ascesa dei

neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Laterza, Roma-Bari, 2006. 66 Paul Nitze era stato a più riprese una personalità di primo piano nell’elaborazione della politica americana verso

l’Unione Sovietica, a partire dal 1950. Per quanto riguarda il suo ruolo nei negoziati sul controllo degli armamenti, a

cominciare dai Salt, cfr.: S. TALBOTT, The Master of the Game: Paul Nitze and the Nuclear Peace, Vintage Books, New

York, 1989. R. Perle, invece, all’epoca della sua partecipazione al comitato in questione era ancora un membro dello

staff del senatore Jackson, in qualità di esperto in questioni strategiche. Nel 1981 sarebbe entrato a far parte

dell’amministrazione Reagan come assistente del segretario alla Difesa.

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qualitativi. Rispetto alla questione della modernizzazione, infatti, i trattati Salt già sottoscritti ne

eludevano una vera regolamentazione. Questo significava che le differenze nella composizione

degli arsenali americano e sovietico erano suscettibili di ulteriori approfondimenti e di porre più

importanti ostacoli sulla strada di un accordo di lungo periodo. In particolare, ciò che divenne fonte

di maggiore preoccupazione negli Stati Uniti era il presunto vantaggio di cui godeva l’avversario

nel settore degli Icbm, sui quali il Cremlino aveva cominciato a montare testate multiple (fino a

dieci) e che rischiava di creare instabilità per il fatto che missili così potenti erano in grado di

mettere in scacco il deterrente nucleare americano. A Washington, infatti, era stata mantenuta la

scelta in favore vettori intercontinentali con minore “potenza di lancio”, mentre molto era stato

investito nello sviluppo di missili guidati (i cruise), che non a caso costituivano la fonte di maggiore

apprensione per Mosca, visto che la versatilità nell’installazione e la precisione con la quale

potevano raggiungere l’obiettivo ne faceva un sistema d’arma quanto mai efficace.

Di fronte alla accresciuta asimmetricità dei rispettivi arsenali potenziati dal processo di

modernizzazione, americani e sovietici finirono per accentuare ulteriormente la difficoltà a

proseguire nel dialogo sull’arms control, a causa della divergenza sulle modalità di definizione

dell’equilibrio. Anche in questo frangente riemergeva il diverso livello di sofisticazione della

dottrina elaborata a Washington, rispetto a quella accolta a Mosca: mentre per la leadership

comunista il criterio quantitativo rimaneva garante di stabilità, per l’amministrazione Carter, che nel

1976 raccolse la difficile eredità dei negoziati da concludere, il concetto sul quale fare perno era

semmai quello della crisis stability, che poneva in secondo piano il rapporto quantitativo per dare

enfasi a una distribuzione di forze capace di scoraggiare qualsiasi tentazione verso un attacco a

sorpresa.

In effetti, quando il nuovo inquilino della Casa bianca riprese il dialogo con la controparte

sovietica, la proposta sulla quale, nel marzo del 1977, il Cremlino fu chiamato a rispondere

conteneva modifiche importanti rispetto all’ipotesi di intesa che era stata concordata con

l’amministrazione precedente. Il presidente democratico, accogliendo in linea di massima le critiche

che erano state mosse alla bozza negoziata da Kissinger, proponeva in sostanza di ridimensionare

ampiamente il numero degli Icbm, e in particolare quelli più pesanti in possesso dei sovietici, in

modo da ricostituire un equilibrio di deterrenza secondo l’accezione americana. La risposta di

Mosca non si fece attendere. L’Urss infatti non esitò a puntare il dito contro i missili cruise e le basi

americane all’estero, quali elementi che a quel punto era diventato necessario inserire nelle

trattative67.

67 Una delle migliori ricostruzioni dei negoziati legati agli accordi SALT II rimane quella contenuta nel volume di S.

TALBOTT, Endgame: The Inside Story of SALT II, Harper & Row, New York, 1979.

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Del resto, il clima internazionale era già in fase di deterioramento e il contesto in cui si

svolgevano i negoziati fra le due superpotenze era mutato a causa della volontà di espansione

mostrata, agli occhi degli occidentali, dai sovietici in Africa, ma anche in seguito allo sforzo di

modernizzazione attuato dalla superpotenza comunista in Europa, a partire dal 1976, attraverso la

sostituzione di missili SS-4 e SS-5, con vettori SS-20, di portata ugualmente intermedia ma molto

più efficaci68. In altri termini, a cominciare dalla seconda metà degli anni settanta tutte le mosse

compiute da Mosca sembravano confermare l’allarme di quanti, specie negli Stati Uniti,

contestavano la scelta della distensione come funzionale soltanto agli interessi sovietici, che,

evidentemente, non interpretavano in senso restrittivo per la loro battaglia ideologica la

stabilizzazione del rapporto bipolare, sancito attraverso i negoziati Salt69. Oltretutto, la decisione di

modernizzare le forze di teatro puntate verso i membri europei del Patto atlantico apriva un nuovo

fronte di crisi per la politica americana. Gli alleati del vecchio continente, che avevano accettato che

la loro sicurezza venisse strettamente legata al processo di controllo – anzitutto orizzontale – degli

armamenti e attendevano adesso la conclusione delle trattative sugli arsenali strategici, non

potevano essere lasciati senza una risposta che rinsaldasse la solidità del sistema atlantico,

ribadendo la credibilità della protezione americana.

Il 1979 fu l’anno in cui la scelta della stabilizzazione del bipolarismo attraverso una

regolamentazione congiunta del rapporto di forze esistente fra Stati Uniti e Unione Sovietica venne

definitivamente abbandonata, nonostante la firma, il 18 giugno 1979, dell’accordo Salt II70 e la

decisione assunta in ambito Nato di installare, sul territorio dei paesi europei occidentali, missili

Pershing2 e Cruise, qualora fossero fallite le trattative per lo smantellamento degli SS-20 (la

cosiddetta doppia decisione Nato)71. Il fallimento del disegno perseguito negli anni della presidenza

Nixon e poi Ford non era semplicemente il risultato scontato di un deterioramento di rapporti fra le

due superpotenze, culminato nell’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel dicembre del 1979. La

fine della distensione – ovvero di un processo di controllo degli armamenti concordato fra la Casa

bianca e il Cremlino – era in realtà il prodotto di un mutamento profondo avvenuto in particolare

68 Sulla genesi e lo sviluppo della decisione sovietica di installare gli SS-20, cfr.: J. HASLAM, The Soviet Union and the

Politics of Nuclear Weapons in Europe, 1968-87, Cornell University Press, Ithaca, 1990, cap. IV. 69 Per una chiave di lettura del rapporto bipolare che ponga in primo piano la componente ideologica della competizione

e ne ricostruisca gli effetti negli anni settanta e ottanta, cfr.: O. A. WESTAD, The Global Cold War, Cambridge

University Press, New York, 2005. 70 Il Salt II si componeva di tre parti: 1) un trattato, valido fino al 1985, che stabiliva uguali limiti per gruppi aggregati

di armi (riguardanti questa volta non solo gli Icbm e i missili lanciati da sottomarini, ma anche i bombardieri armati con

missili cruise), oltre a fissare un numero massimo di testate da poter montare su vettori Mirv, pari a 10 o 14, a seconda

che fossero vettori lanciati da terra o da sottomarino; 2) un protocollo che indicava le limitazioni previste per i missili

cruise e per quelli a base mobile fino al 1981; 3) una serie di principi guida delle future trattative. 71 Sulla genesi e la formulazione della cosiddetta dual track decision, cfr.: R. L. GARTHOFF, Détente and Confrontation.

American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, The Brookings Institution, Washington, DC, 1985, pp. 860-866; J.

DEAN, Watershed in Europe. Dismantling the East-West Military Confrontation, Lexington Books, Lexington, Mass.,

1987, pp. 115-122.

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nella società americana e che aveva assunto la veste politica di un conservatorismo capace di farsi

maggioranza nel paese, dopo i decenni in cui era rimasto ai margini del potere di Washington72.

Fine della centralità dell’equilibrio di deterrenza? Dal controllo alla riduzione degli armamenti

Il Salt II non giunse mai ad essere ratificato dal Congresso americano. Tuttavia, la risposta

politica decisa da Carter con il ritiro dell’accordo dal dibattito in Senato, dopo l’arrivo delle truppe

sovietiche a Kabul, offrì soltanto un motivo contingente a un rifiuto che riguardava l’essenza stessa

del rapporto bipolare, così come questo si era sviluppato all’ombra del containment e della sancita

parità strategica. L’elezione di Ronald Reagan alla Casa bianca, nel novembre del 1980,

preannunciava infatti l’avvio di una nuova fase della politica degli Stati Uniti e, in particolare, di

quella verso l’Unione Sovietica73. L’amministrazione repubblicana appena insediatasi si distingueva

non tanto e non solo da quella democratica precedente, ma si presentava al cospetto del mondo con

l’obiettivo di prendere decisamente le distanze anche dal governo che con Kissinger aveva espresso

la propria continuità. L’inquilino della Casa bianca succeduto a Carter non era certo un outsider

della politica, visto che aveva governato la California (uno dei più importanti Stati del paese) per

due mandati; era però promotore di un progetto che fino a quel momento non aveva trovato

sostegno nella Washington del secondo dopo-guerra74.

L’esecutivo che si insediò nel gennaio del 1981 era costituito, in buona parte dei posti

chiave, da collaboratori del presidente che lo avevano seguito nella capitale federale, dopo aver

condiviso l’esperienza californiana75. Per quanto la scommessa di rinnovamento della politica

americana abbracciasse praticamente tutti gli ambiti di azione del governo di Washington – anzi, in

qualche modo era proprio la dimensione assunta da tale concentrazione di potere l’obiettivo

dichiarato della svolta propagandata da Reagan – i risultati più eclatanti per il futuro assetto del

sistema internazionale dovevano arrivare dal diverso atteggiamento assunto dalla nuova

amministrazione nei confronti dei sovietici. La distensione veniva infatti definitivamente

72 Una utile sintesi delle trasformazioni sociali e politiche avvenute negli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni

sessanta è contenuta in: M. SCHALLER, The Right Turn. American Life in the Reagan-Bush Era, 1980-1992, Oxford,

Oxford University Press, 2007, cap. II. 73 Per una interpretazione, forse un po’ troppo schematica, della politica estera del Presidente Reagan, nel tentativo di

leggerla attraverso le quattro tradizionali tendenze dell’approccio americano agli affari esteri (quella di Washington,

Hamilton, Jefferson o Wilson), cfr.: J.ARQUILLA, The Reagan Imprint. Ideas in American Foreign Policy from the

Collapse of Communism to the War on Terror, Ivan R. Dee, Chicago, 2006, cap.I, in particolare. 74 Una delle biografie più equilibrate e complete di Ronald Reagan rimane quella di L. CANNON, President Reagan. The

Role of a Lifetime, Public Affairs, New York,1991; per una lettura interessante ed esaustiva della sua presidenza,

invece, cfr.: W. ELLIOT BROWNLEE and HUGH D. GRAHAM, The Reagan Presidency. Pragmatic Conservatisi and Its

Legacies, University Press of Kansas, Lawrence, 2003. 75 L’eccezione più importante in tal senso era rappresentata dal segretario di Stato Haig, che aveva ottenuto vari

importanti incarichi durante la presidenza Nixon, fra i quali, dal 1970 al 1973, la carica di vice-consigliere per la

sicurezza nazionale.

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accantonata non tanto sulla base delle difficoltà degli ultimi anni, ovvero per elementi contingenti,

quanto in virtù di una valutazione di principio. In altri termini, era il dialogo con il nemico

ideologico ad essere contestato, prima ancora della bontà dei risultati da esso derivanti.

Se questo, per il governo di Washington, era l’approccio ideale che la potenza leader del

mondo libero doveva assumere nel contesto del confronto bipolare (tanto che nella storiografia del

periodo i primi anni dell’amministrazione Reagan sono comunemente indicati come la “nuova

guerra fredda”), è anche vero che gli Stati Uniti rimanevano una potenza con responsabilità e

impegni globali che non era facile ridurre a una dimensione manichea, neanche per quanti erano

poco avvezzi o propensi ad assecondare le troppe sfumature dell’agire politico. Per la Casa bianca

questo significava non poter rifiutare in termini assoluti la ripresa delle trattative con il Cremlino –

che dovevano riguardare sia l’arsenale strategico, sia le cosiddette forze di teatro in Europa – ma

almeno tentare di procrastinarle fino a quando la supremazia strategica – o la parità, secondo le

valutazioni dei “falchi” dell’amministrazione – con l’Unione Sovietica non fosse stata ristabilita. E

in effetti, una delle prime importanti decisioni assunte dal presidente Reagan fu di aumentare

ulteriormente le risorse destinate alla Difesa, dopo che già il suo predecessore aveva avviato un

imponente programma di modernizzazione di tutte le forze americane76. In sostanza, perciò, se un

dialogo fosse stato ripreso questo sarebbe stato condotto dalla superpotenza occidentale da una

posizione di forza che implicava, evidentemente, anche la volontà di rimettere in discussione la

“legittimità” del riconoscimento all’Unione Sovietica di un posto di pari importanza nel contesto

internazionale. Nei primi tre anni della presidenza Reagan non vi furono infatti incontri al vertice

con i maggiori esponenti della nomenklatura del Cremlino e le stesse visite presso il dipartimento di

Stato da parte dell’ambasciatore sovietico a Washington, Dobrynin, cessarono di svolgersi fuori dal

più stretto cerimoniale, come invece era accaduto negli anni precedenti.

Tuttavia, neanche al nuovo e trionfalmente eletto presidente sarebbe stato possibile ignorare

a lungo le pressioni degli alleati atlantici che insistevano perché le trattative sulle forze di teatro in

Europa fossero riprese al più presto. Secondo la cosiddetta doppia decisione, che il nuovo esecutivo

si era impegnato a rispettare nel corso del Consiglio atlantico del maggio 1981, il dispiegamento

della ultima generazione di vettori Pershing2 e di Cruise poteva essere realizzato solo dopo il

chiaro fallimento dei negoziati volti allo smantellamento degli SS-20 installati oltre cortina. Di

76 Uno degli esempi più evidenti di un processo di modernizzazione, e quindi di incremento di investimenti

nell’arsenale americano, portato già avanti dalla presidenza Carter, è rappresentato dal missile intercontinentale MX, il

cui progetto venne infatti ampiamente sostenuto proprio dall’amministrazione democratica; cfr.: H. KARLSSON,

Bureaucratic Politics and Weapons Acquisition. The Case of the MX ICBM Program, Vol. I, Department of Political

Science, Stockholm University, Edsbruk, Akademitryck AB, 2002. Una valutazione critica dell’aumento del bilancio

per la Difesa, per la sostanziale incoerenza che ne contraddistinse soprattutto i primi anni è contenuta in: A. FURST,

Military Buildup Without a Strategy: The Defense Policy of the Reagan Administration and the Response by Congress,

in H. HAFTENDORN and J. SCHISSLER (edited by), The Reagan Administration: A Reconstruction of American Strength?,

Walter de Gruyter, Berlin and New York, 1988, pp. 127-142.

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conseguenza, l’avvio dei negoziati era un passaggio obbligato, anche per quanti al Pentagono

puntavano soprattutto a riequilibrare il rapporto di forza con l’Urss attraverso la modernizzazione

dell’arsenale della Nato. L’elemento davvero decisivo era semmai il contenuto della proposta di

negoziato da sottoporre alla controparte, perché la sua plausibilità avrebbe ovviamente determinato

l’andamento delle discussioni fra le due superpotenze, poi avviate nel novembre del 198177. La

scelta a favore della cosiddetta opzione zero78, che puntava a scambiare la promessa di non

installare i vettori sul territorio dei paesi della Nato, disponibili ad accoglierli, con lo

smantellamento di tutti gli SS-20 fu infatti respinta dall’Unione Sovietica come un’ipotesi

inaccettabile. Le richieste avanzate da Washington non sembravano soltanto troppo lontane dalle

posizioni di Mosca; erano anche rigide e volutamente preservate da ogni seria modifica, tanto che il

possibile compromesso, tentato nell’estate del 1982 dal negoziatore Paul Nitze, venne respinto in

patria prima ancora di essere scartato dal Cremlino.

Se la tendenza al compromesso faceva difetto all’amministrazione Reagan, rispetto ai

negoziati sui missili a raggio intermedio (Intermediate-range Nuclear Force, o Inf) in Europa, in

merito all’arsenale strategico il governo americano non poteva che essere almeno altrettanto

inflessibile. In questo caso, le discussioni ripresero più tardi rispetto a quelle sull’Inf, anche perché

il nuovo inquilino della Casa bianca volle concedersi il tempo necessario a elaborare una posizione

che riformulasse completamente l’impianto dei negoziati, che erano stati condotti nel corso del

decennio precedente. Quando a fine marzo del 1982 Reagan invitò pubblicamente il governo

sovietico a tornare al tavolo delle trattative, la questione sulla quale discutere non era più la

limitazione ma, come egli stesso sottolineò, la riduzione degli armamenti strategici. Si trattava

perciò di cominciare un percorso diverso dalla sanzione formale della parità fra le forze non

convenzionali dei due massimi avversari della guerra fredda. Questo nuovo approccio era basato

sulla convinzione che gli accordi Salt avessero creato – nel linguaggio degli addetti ai lavori - una

window of vulnerability nella sicurezza americana, e favorito l’Unione Sovietica, che aveva potuto

dispiegare vettori più potenti79 e in grado di raggiungere l’obiettivo con una maggiore capacità

77 Una delle più esaustive ricostruzioni dei negoziati sui missili di teatro in Europa, o euromissili, negli anni compresi

fra il 1981 e il 1983, è contenuta in: S. TALBOTT, Deadly Gambits The Reagan Administration and the Stalemate in

Nuclear Arms Control, Alfred A. Knopf, New York, 1984, parte I. 78 L’idea di azzerare il dispiegamento di missili a raggio intermedio in Europa era stata originariamente elaborata in

Germania federale, all’interno del Partito socialdemocratico. Paradossalmente, il paese che aveva generato tale proposta

fu poi uno degli alleati Nato che più la contestarono. Sulle origini della “opzione zero”, cfr.: T. RISSE-KAPPEN, The Zero

Option. INR, West Germany, and Arms Control, Westview Press, Boulder and London, 1988. 79 In particolare, essi erano gli SS-18 che potevano montare fino a 14 testate orientabili su obiettivi diversi (MIRVed).

La questione che si era aperta con questo tipo di sistema d’arma era quella del throw-weight (ovvero della potenza di

lancio di tali vettori), ritenuta fondamentale perché lo squilibrio in tale ambito fra le forze delle due superpotenze, a

parere di buona parte degli esperti americani dell’epoca, avrebbe potuto mettere in pericolo il deterrente degli Stati

Uniti, perché la maggiore capacità di sferrare un primo colpo decisivo da parte dell’URSS stava nella difficoltà di

difendere le basi missilistiche americane dalla potenza distruttiva di tali vettori.

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distruttiva. Di conseguenza, esso voleva operare un riequilibrio proponendo appunto di

ridimensionare il deterrente strategico a cominciare dalla categoria di Icbm nella quale l’Urss

godeva di una supremazia, evidentemente considerata destabilizzante e inaccettabile80.

I particolari dell’ipotesi avanzata dalla Casa Bianca furono resi noti nel maggio del 1982 e le

discussioni bilaterali cominciarono alla fine del giugno successivo. L’obiettivo “qualitativo” che si

era data l’amministrazione americana veniva perseguito puntando l’attenzione non più sui vettori di

lancio, come era stato per i Salt, ma sul numero delle testate consentite a ciascuna parte, associato a

un limite piuttosto basso, rispetto agli accordi precedenti, di missili balistici da mantenere

dispiegati. Così come accadeva nelle trattative sull’Inf, anche i negoziati Start stentavano a

decollare verso una reale possibilità di compromesso. La risposta del Cremlino, infatti, fu di

contestare l’opinione prevalente a Washington che le intese precedenti avessero favorito l’Urss,

rifiutando, di conseguenza, che il cosiddetto throw-weight potesse diventare il parametro di

riferimento nella definizione dell’equilibrio strategico bipolare. Non solo; per i sovietici era

altrettanto inaccettabile la netta distinzione, con il relativo conteggio in aggregati quantitativi

separati, fra vettori di lancio in grado di colpire l’obiettivo con estrema velocità – gli Icbm, appunto

– e i bombardieri dotati di missili cruise, più lenti e dunque meno pericolosi, così come perorato

dall’amministrazione Reagan. Nonostante il tentativo di elaborare una posizione di compromesso, i

negoziati vennero interrotti dal governo di Mosca, subito dopo la sospensione di quelli sulle forze di

teatro in Europa, proprio perché, seguendo la tabella di marcia concordata in ambito Nato, l’avvio

del dispiegamento dei pershing e cruise sul vecchio continente apriva una fase nuova; secondo il

Cremlino, esso infatti «modifica[va] la situazione strategica globale e rende[va] necessaria da parte

sovietica riesaminare tutti i problemi in discussione»81.

Del resto, nel 1983, non fu tanto la scadenza prevista per l’installazione degli euromissili a

mutare profondamente il contesto politico e strategico nel quale le due superpotenze conducevano i

negoziati bilaterali. Ancora più incisivo, almeno sul piano della teoria della deterrenza, così come

su quello più marcatamente politico del rapporto bipolare, era stato l’annuncio fatto dal presidente

americano, con un discorso pronunciato il 23 marzo di quell’anno, di voler promuovere un

programma di lungo periodo per la ricerca e lo sviluppo di un sistema di difesa contro un attacco

missilistico nemico. Si trattava dell’Sdi, o Strategic Defense Iniziative, più comunemente

conosciuto come “scudo spaziale” - dalla semplificazione che i giornalisti dell’epoca fecero

dell’idea di dislocare “nello spazio” le postazioni destinate a colpire i missili balistici diretti contro

80 Anche per la fase iniziale dei negoziati Start (Strategic Arms Limitation Talks) si veda il puntuale resoconto

contenuto in: S. TALBOTT, Deadly Gambits, cit., parte II. 81 Ivi, p. 342.

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gli obiettivi americani82. In realtà, la decisione in favore di una comunicazione dal forte impatto, in

quella fase, era dovuta all’esigenza della Casa bianca di ottenere dal Congresso l’approvazione

all’incremento del bilancio della Difesa, al momento in discussione nell’assemblea legislativa, dove

permanevano molti dubbi circa l’opportunità di aumentare le risorse destinate al dispiegamento di

missili intercontinentali di ultima generazione (l’MX, o Peacekeeper), qualora le relative basi non

fossero state messe sufficientemente al sicuro. Questa però non fu la sola ragione all’origine della

risoluzione assunta dal presidente. Proprio Reagan era il più entusiasta sostenitore dell’ipotesi di

una difesa del territorio nazionale che consentisse di abbandonare definitivamente un principio,

quello della dissuasione reciproca, e perciò della minaccia dell’olocausto nucleare, della cui

immoralità egli era profondamente convinto83. Per quanto la realizzazione dell’ambizioso progetto

fosse lontana nel tempo, concettualmente essa offriva un’alternativa all’impostazione che aveva

dominato i precedenti decenni di guerra fredda e che era culminata nella distensione; ed era

un’alternativa decisamente allettante per chi, come l’inquilino della Casa bianca, non subiva il

fascino degli esercizi intellettuali condensati nelle dottrine strategiche, ma preferiva le ragioni

immediate di un sentire comune sempre più restio a comprendere la necessità di prolungare la corsa

agli armamenti. Tutto ciò, comunque, era solo in apparenza un paradosso. In effetti, così come

l’aumento delle spese militari volte alla modernizzazione dell’arsenale era destinato a riconquistare

una supremazia sull’Unione Sovietica e a tentare di scardinare il risultato dell’evoluzione di decenni

di bipolarismo, allo stesso modo la promozione del cosiddetto “scudo spaziale”, nell’interpretazione

del presidente, era rivolto a rompere l’equilibrio di deterrenza derivante da un’errata interpretazione

del rapporto con l’avversario ideologico.

Un messaggio di così radicale cambiamento doveva necessariamente avere ripercussioni

anche sul fronte dei rapporti interni all’Alleanza atlantica, che era poi l’altra faccia della divisione

in blocchi del sistema internazionale, perché ipotizzare di difendere il territorio degli Stati Uniti,

senza bisogno di ricorrere alla dissuasione metteva nuovamente in discussione - e con più forti

ragioni - la credibilità della protezione estesa al territorio europeo, qualora il vecchio continente

fosse rimasto fuori dall’ombrello dell’Sdi84. Questa trasformazione, ancora del tutto in prospettiva,

del rapporto fra la potenza protettrice e quelle protette non fu la sola ragione dei dissidi che, durante

il primo mandato della presidenza Reagan, si svilupparono fra le due sponde dell’Atlantico. Per

82 La ricostruzione più esaustiva dell’origine e delle ragioni politiche del progetto voluto dall’amministrazione Reagan è

contenuta in: F. FITZGERALD, Way Out There in the Blue. Reagan, Star Wars and the End of the Cold War, Touchstone,

New York, 2001. 83 Per comprendere quale fosse l’atteggiamento del presidente Reagan rispetto al pericolo nucleare è sicuramente utile

leggere le sue memorie e i suoi diari; R. REAGAN, An American Life, Simon and Schuster, New York, 1990; The

Reagan Diaries, (edited by D. Brinkley), HarperCollins Publishers, New York, 2007. 84 Una sintesi delle reazioni dei maggiori alleati europei al progetto americano Sdi è contenuta in: S. N. KALIC,

Reagan’s SDI Announcement and the European Reaction: Diplomacy in the Last Decade of the Cold War, in: L. NUTI

(edited by), Reheating the Cold War: From Vietnam to Gorbacev, 1975-1985, Routledge, London, 2008, pp. 99-110.

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quanto la preoccupazione sulle scelte di lungo periodo della Casa bianca accomunasse le maggiori

cancellerie europee, i paesi del vecchio continente erano soprattutto restii a seguire il governo di

Washington lungo la strada di una tensione costante con l’avversario sovietico. Non a caso, gli

europei in qualche modo subirono la scarsa volontà americana di cercare una soluzione di

compromesso sulle forze nucleari in Europa. Sul finire del 1983, come già ricordato, accettarono di

procedere complessivamente all’installazione dei previsti 108 pershing2 e 464 cruise, anche per

confermare di essere alleati affidabili, ma al prezzo di notevoli pressioni dell’opinione pubblica

interna, pronta a organizzarsi in manifestazioni di massa per fermare il dispiegamento85.

Gli ultimi mesi del 1983, in effetti, furono segnati dalla tensione caratterizzata da un

crescente anti-americanismo nella parte occidentale del vecchio continente, alla quale si

sovrapponeva l’incapacità di dialogo e il ritorno a una retorica da piena guerra fredda fra Mosca e

Washington. Tuttavia, proprio tale esasperazione dei toni doveva contribuire in misura determinante

a indurre la Casa bianca a intraprendere un percorso esattamente opposto al precedente, a

cominciare dal 1984. Sebbene non fosse il solo elemento a spingere l’amministrazione repubblicana

nella direzione dell’apertura di un tavolo delle trattative con il Cremlino, la paura che il clima di

contrapposizione crescente potesse sfociare in un conflitto armato dalle conseguenze irreparabili

sicuramente convinse il presidente Reagan a promuovere una svolta di centottanta gradi nelle

relazioni con l’avversario, prima ancora che Michail Gorbacev diventasse Segretario generale del

Pcus86. Il cambio di guardia al vertice della nomenklatura sovietica, poi, rese permanente

l’inversione di rotta che altrimenti sarebbe potuta rimanere potenziale.

L’arrivo al potere del nuovo leader, nel marzo del 1985, dopo un periodo di transizione in

Urss caratterizzato dalla presenza al timone del colosso comunista di uomini anziani e incapaci di

esprimere alcuna speranza di rinnovamento, rappresentò infatti il fattore cruciale della nuova

stagione di negoziati fra le due superpotenze, che venne confermata con la conferenza di Ginevra

del novembre dello stesso anno87. Fu un incontro importante non tanto per le decisioni assunte,

quanto per il clima di dialogo che immediatamente si instaurò fra i due protagonisti. Nonostante il

85 A questo proposito vale la pena di ricordare che il presidente francese Mitterand, in un discorso pronunciato davanti

al Bundestag, nel gennaio del 1983, esortò la Germania federale a non cedere alle pressioni esercitate dai sovietici,

anche attraverso i movimenti pacifisti, e a procedere all’installazione dei missili, così come previsto dagli accordi

interalleati; cfr.: H. VEDRINE, Les mondes de Francois Mitterrand. A l’Elysée, 1981-1995, Fayard, Paris, 1996, pp. 235-

237 86 Sulle presunte cause della inversione di rotta impressa alla politica americana verso l’Unione Sovietica dal presidente

Reagan già a partire dal 1984, fra le quali lo stato di allerta con cui i sovietici risposero, nel novembre del 1983,

all’esercitazione delle forze Nato, denominata Able Archer 83, cfr.: B. A. FISCHER, The Reagan Reversal: Foreign

Policy and the End of the Cold War, University of Missouri Press, 1997; B. B. FISCHER, A Cold War Conundrum: The

1983 Soviet War Scare, Center for the Study of Intelligence, Washington, DC, 1997. 87 Sull’avvicendamento della leadership alla guida dell’Unione Sovietica fino a Gorbacev, cfr.: V. M. ZUBOK, A Failed

Empire. The Soviet Union in the Cold War from Stalin to Krushchev, University of North Carolina Press, Chapel Hill,

2007.

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permanere di molti ostacoli, il maggiore dei quali era la volontà americana di proseguire con il

programma di ricerca e sviluppo del progetto di difesa anti-missile, dopo Ginevra, i due leader

tornarono nei rispettivi paesi convinti di condividere l’obiettivo ultimo di ridurre il pericolo di

conflitto nucleare, cominciando a ridimensionare, drasticamente, i rispettivi arsenali. Seppure in

virtù di ordini di priorità in parte diversi, i governi di Mosca e Washington erano oramai concordi

che la strada da intraprendere fosse quella della riduzione degli armamenti e con tale intento

affrontarono una stagione di negoziati che, dopo il periodo di relativo stallo nel 1986, produsse il

primo accordo sull’eliminazione in Europa di tutti i vettori della gittata compresa fra i 500 e i 5500

chilometri.

Il trattato sull’Inf, firmato a Mosca l’8 dicembre1987, se da una parte destò fra alcuni alleati

europei degli Stati Uniti una certa inquietudine per la disinvoltura con cui i due maggiori

contendenti della guerra fredda sembravano accantonare la centralità dell’elemento nucleare nella

difesa del vecchio continente88, dall’altra dimostrava che la questione del mantenimento – e quindi

della puntigliosa misurazione – della stabilità nella deterrenza reciproca era passata in secondo

piano rispetto all’opportunità di cogliere appieno la disponibilità al compromesso riscontrata nella

controparte. Infatti, anche il dissidio, che inizialmente era parso insuperabile, sul programma

americano Sdi venne accantonato in seguito alla decisione del Cremlino di rinunciare al suo valore

condizionante sul resto dei negoziati in materia di arsenali89. Questo non significa, ovviamente, che

i successivi accordi sulla riduzione degli armamenti strategici – gli Start I del 1991 e Start II,

dell’anno seguente – non tenessero conto della necessità di conservare una sostanziale parità fra le

rispettive capacità non convenzionali da ridurre del 50% per entrambe le parti; diventava semmai

evidente che l’ossessione verso le presunte intenzioni aggressive del nemico aveva lasciato il posto

alla volontà di ridimensionare un paradigma di potenza che troppo a lungo aveva catalizzato risorse,

senza per questo riuscire a interpretare in maniera convincente una nozione sostenibile di stabilità

del sistema internazionale90.

88 Uno dei leader europei più infastiditi da questo aspetto dei negoziati fra americani e sovietici fu sicuramente il

premier britannico Margaret Thatcher; crf.: MARGARET THATCHER, Gli anni di Downing Street, Milano, Sperling &

Kupfer, 1993, pp. 653-655; in ogni caso, la conclusione, nel 1990, del trattato sulla mutua e bilanciata riduzione delle

forze convenzionali in Europa ristabilì un equilibrio rassicurante in un’Europa nella quale i mutamenti politici in corso

stavano comunque sgomberando il campo dagli ultimi residui di guerra fredda. 89 In tal senso fu molto importante l’influenza esercitata da alcuni scienziati russi, come Andrei Sakharov, che

convinsero la leadership sovietica dell’inutilità di bloccare il possibile accordo sulla riduzione degli armamenti per

seguire gli Stati Uniti lungo la strada di una difesa antimissile la quale, con ogni probabilità, sarebbe stata comunque

vulnerabile a un massiccio attacco con missili balistici dell’avversario; cfr.: M. EVANGELISTA, Unarmed Forces, cit.,

pp. 322-330. 90 Per una trattazione esaustiva della fase finale delle trattative Start, cfr.: R. L. GARTHOFF, The Great Transition.

American-Soviet Relations and the End of the Cold War, The Brookings Institution, Washington, DC, 1994; R.

RHODES, Arsenals of Folly. The Making of the Nuclear Arms Race, Simon & Schuster, London & New York, 2007, in

particolare i cap. XI, XII e XIII.

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Conclusioni

Ripercorrere le tappe lungo le quali si è dipanata la storia del controllo degli armamenti, fino

al momento in cui tale processo negoziale ha apparentemente perso la priorità dell’urgenza

nell’agenda delle maggiori potenze, offre la possibilità di riflettere sulla trasformazione del sistema

internazionale nel corso dei decenni che ci hanno consegnato il contesto globale nel quale viviamo.

In tal senso, la prima considerazione da fare riguarda il ruolo, fondamentale più che in qualsiasi

altra epoca precedente, rivestito dalla tecnologia nel definire gli equilibri di potenza del mondo

contemporaneo. In questo caso, infatti, il progresso della scienza ha messo l’umanità di fronte alla

capacità di auto-distruggersi e i responsabili di governo a confronto con problemi politici e militari

inediti rispetto al passato.

Le potenzialità tecnologiche rimangono perciò il filo rosso che ha attraversato e reso diverso

l’intero periodo della storia più recente, contraddistinto dalla presenza, o dalla possibilità di

fabbricare ordigni atomici. All’inizio di questa nuova era, la scienza aveva saputo evocare la

rifondazione del sistema internazionale su basi nuove, caratterizzate dalla volontà di costruire un

futuro di cooperazione multilaterale, se non universale; poi, con la stessa intensità essa aveva

prodotto l’equilibrio del terrore, scaturito dalla scelta di considerare il nuovo strumento di morte

come il mezzo più efficace per garantire sicurezza e protezione per sé e i propri alleati. Erano

ancora le conoscenze tecnologiche – ed il pericolo legato alla loro eventuale diffusione - a creare le

premesse affinché le due superpotenze sviluppassero un comune interesse verso un controllo

orizzontale degli arsenali nucleari, e da lì verso la vera e propria distensione. Infine, sono state

nuovamente le ipotesi avveniristiche circa l’uso delle scoperte più recenti – come quella sulle

applicazioni del laser – a offrire al mondo l’illusione di liberarsi per sempre dell’incubo delle armi

atomiche, come accadeva con il lancio del programma Sdi, a metà degli anni ’80.

L’altra considerazione sulla quale soffermarsi riguarda invece la natura intrinseca della

tecnologia e della scienza che, come tutte le attività speculative dell’uomo, non possono che essere

in continuo divenire e, di conseguenza, offrire strumenti sempre nuovi destinati, nel caso degli

armamenti, a sottoporre questioni di volta in volta diverse all’attenzione della politica e dei

responsabili di governo. Tutti quanti i periodi esaminati mettono in evidenza che le capacità militari

nucleari, proprio per l’entità delle distruzioni di cui sono portatrici, hanno ingabbiato il sistema

internazionale in una struttura difficile da modellare, perché esse hanno rappresentato e

rappresentano un parametro di potenza assoluto e perciò stesso difficile da subordinare ad altri

interessi o ad altre considerazioni, se non a quello della ricerca della stabilità. Allo stesso tempo,

tale parametro rimane ineludibile, in quanto non è dato di immaginare il ritorno a una convivenza

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internazionale libera dalla ingombrante presenza degli ordigni di distruzione di massa.

Paradossalmente, la contrapposizione ideologica, con la relativa polarizzazione del sistema, che ha

contribuito all’inizio a far uscire il “genio” del nucleare dalla bottiglia, è stata poi anche la ragione

principale del relativo successo nel tenere “sotto controllo” il male del potere di autodistruzione

sviluppato dall’uomo con la bomba atomica. In questo caso l’equilibrio del sistema è stato il

risultato della volontà, da parte delle due superpotenze, di usare lo strumento nucleare come

garanzia della sopravvivenza del proprio ordine economico e sociale, in concorrenza con quello

dell’avversario. Nel contesto attuale, invece, l’impossibilità di ipotizzare un’autorità internazionale

capace di regolamentare l’uso del nucleare, per prevenirne le pericolose conseguenze in termini di

sicurezza e di pacifica convivenza, pone gli interrogativi più importanti e angosciosi proprio sulla

capacità del sistema uscito dalla guerra fredda di sviluppare e conservare una sostanziale stabilità.