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DOTT. MAURO COPPA 29 MAGGIO 2014 - MODULO DISABILITA’ GRAVE.

“IN CLASSE CON UN ALUNNO CON DISABILITA’ GRAVE – LE BUONE PRATICHE”

Cercherò di fare una lezione molto pratica, operativa, cercando di rimandarvi quelle che sono le strategie che sono state utilizzate nelle problematiche di disabilità grave a tutti i livelli e la possibilità anche di fare domande. Vi racconto delle storie, delle procedure di intervento legate alle problematiche varie che vanno dall’inserimento scolastico all’educazione prosociale, alla gestione comportamenti problematici gravi, è un po’ un cercare di dare delle informazioni che poi possano essere spese all’interno della professionalità di ciascuno.

Vedremo che cosa si può fare quando la problematica è connessa a una serie di difficoltà che incontriamo e che determina una situazione di impasse. Quali sono le problematiche maggiori quando abbiamo un alunno che presenta questo tipo di disabilità e che purtroppo vengono insieme, cioè una disabilità intellettiva grave unita anche a delle difficoltà di apprendimento, unita anche al deficit di comunicazione. Parleremo anche di CA, di procedure di comunicazione aumentativa alternativa usando ausili tecnologici poveri, quelli cioè che sono comunque alla portata delle famiglie e delle scuole, dei programmi che possono essere utilizzati anche con alunni che hanno deficit dal punto di vista psicofisico, che non utilizzano le mani, che fanno difficoltà ad usare il linguaggio verbale e così via.

Sicuramente una delle problematiche che troviamo è la difficoltà dal punto di vista comunicativo; generalmente le abilità di linguaggio verbale sono fortemente limitate. Se sono presenti, guardate nel bambino autistico o nel bambino non vedente con disabilità intellettiva, la forma verbale è di tipo ecolalico, cioè utilizza la parola o la frase non per fini comunicativi, ma molto spesso è la modalità utilizzata per interagire con le persone, per poter richiamare l’attenzione utilizzando una forma che non ha finalità di tipo comunicativo. Le problematiche, nella disabilità grave, le abbiamo sulle due componenti:

- quella recettiva, la capacità di comprendere il messaggio, quindi se utilizziamo il linguaggio verbale non sempre, comunque, è compreso, a meno che non sia fortemente contestuale,(sta seduto, gli dico “Alzati” e gli porgo la mano per alzarsi e lo accompagno ad una comunicazione verbale, il ragazzino svolge l’indicazione che gli ho dato, molto spesso perché è contestuale, perché lui decodifica una serie di informazioni, non necessariamente quella verbale). Quando un genitore viene e vi dice che il bambino capisce tutto e che lui gli parla continuamente, è da valutare che cosa effettivamente gli arriva in termini di comprensione. Non è detto che l’aumento delle interazioni verbali, questo arricchimento lessicale che cerca il genitore di poter fare per stabilire una interazione “normale”, arrivi e venga compresa e decodificata.

- L’aspetto più problematico lo abbiamo nella comunicazione produttiva, nella necessità di poter esprimere bisogni, in quel contesto, di fare delle richieste perché non sempre una forma comunicativa comprensibile. Utilizzano molto spesso delle parole che comunque sono state apprese quando erano piccoli e rimangono in un vocabolario molto limitato. Molto spesso, qui grazie alla Comunicazione Aumentativa, cerchiamo di integrare le forme presenti di comunicazione con altre che possono essere di tipo pittografico, quando si usano le immagini, le foto per poter interpretare quello che sta dicendo, dei gesti naturali oppure altre forme oggettuali che hanno la capacità di rendere molto pratico, molto operativo, molto concreto il messaggio.

I limiti nella comunicazione sono direttamente correlati con i disturbi del comportamento, c’è sempre una grossa correlazione tra la difficoltà di esprimere quello che io voglio e poterlo esprimere attraverso modalità

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disadattive che possono essere forme di aggressività, sia dirette verso gli oggetti o le persone, i coetanei, oppure forme di aggressività dirette contro se stessi, autolesionismo, e sono forme estreme. Molto spesso la presenza dell’aggressività per dire “Voglio quella cosa” non potendola dire in altro modo, il bambino impara che nella sua vita la forma aggressiva è quella che determina la possibilità di ottenere quello che sta chiedendo in una forma non adeguata e se non interveniamo precocemente con una modalità comunicativa che sostituisca in alternativa quella problematica, sicuramente potremo avere delle problematiche che si uniscono e si abbinano al di là delle problematiche intellettive.

Condizioni neuromotorie gravi che determinano sia passività che dipendenza: una grossa dipendenza nell’esprimere i propri bisogni, una grossa dipendenza dalla persona che fa un accudimento rispetto i contenuti curricolari

Ridotta possibilità di interazione e selezione delle scelte: vedrete nei filmati che cerchiamo di poter sviluppare dei programmi con l’educazione prosociale. Abbiamo creato un programma che si chiama “Guarda che faccia”, un programma che ha cercato di mettere sullo stesso piano dal punto di vista comunicativo una ragazzina che problematiche del tipo sia comunicativo verbale che psicofisico (una forte spasticità)e la possibilità di incidere, di interagire con gli altri attraverso il codice non verbale, attraverso le espressioni, quella che viene chiamata educazione emotiva razionale, quindi la possibilità di esprimere contenuti attraverso le varie espressioni che corrispondono a stati emotivi.

Rilevante difficoltà di apprendimento: sicuramente questo è un altro problema. Sicuramento le procedure classiche di insegnamento della letto scrittura, del calcolo, sono procedure che hanno forti limitazioni. Arriviamo quando mi chiamano nelle scuole superiori ad un ragazzino che riesce a dire poche parole, leggere quattro o cinque parole come lettura globale, e quando gliene mettiamo una simile tra mamma e mare comincia ad avere delle difficoltà perché le componenti letterarie presentano delle similitudini, la possibilità di contare come catena verbale fino a 7/8 ma fa fatica ad associare il numero alla quantità e viceversa e questo è quello che possono sviluppare in termini di apprendimento accademico. Sicuramente le difficoltà sono enormi: per insegnare una risposta nuova devo comunque applicare delle procedure molto reiterate nel tempo, perché comunque la memoria a breve termine è una memoria molto limitata, non ritiene più di 2 massimo 3 unità di memoria e questo diventa un grosso problema per insegnare cose nuove dal punto di vista dell’apprendimento scolastico.

Infine i disturbi del comportamento che sono fortemente correlati alla prima cosa che abbiamo detto: molto spesso c’è un’ipotesi comunicazionale nei comportamenti problemi e vedremo un filmato di un caso di un disturbo pervasivo dello sviluppo con forti comportamenti di aggressività che utilizzava il comportamento come sostituto di tutte quelle che potevano essere i bisogni (l’essere stanco, bisogno di interagire, ecc.). questo è il quadro entro cui ci muoveremo.

Cercherò di mettere le strategie che nel tempo, sia nei programmi di inclusione scolastiche, sia nelle consulenze fatte in giro per l’Italia, quali possono essere i fattori che ci possono aiutare in questo percorso.

Vedremo che cosa significa didattica inclusiva al di là delle parole, al di là delle etichette con cui molto spesso ci si riempie la bocca, bisogna però vedere come si applica, perché diventa molto difficile fare didattica inclusiva quando si ha un ragazzo con problematiche neuromotorie, problematiche comportamentali. Non parla, sta in carrozzina, è anche difficile trovare delle forme comuni di curriculi integrati nel contesto in cui è inserito.

Vedremo come è importante l’alleanza scuola-famiglia, la Comunicazione Aumentativa, sia nel contesto scolastico che nel contesto riabilitativo, forme di interazione sociale (l’apprendimento cooperativo, l’utilizzo

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di tutori per poter sviluppare forme di interazione), l’educazione prosociale, ma anche due aspetti assolutamente importanti come le risorse tecnologiche e le problematiche comportamentali.

La tecnologia come entra nella scuola? Quando vai a vedere come i ragazzi comunicano con il computer, in realtà non comunicano con il computer, ma con i giochi del computer che non sono una forma di comunicazione che sta dentro il computer, che è una cosa completamente diversa. Adesso funzionano molto bene i tablet, facciamo dei programmi anche con bambini con grosse disabilità, utilizzando dei menù con cui loro ci dicono che cosa vogliono e cliccando sulla finestrella dei giochi escono fuori delle possibilità e quindi il tablet se lo portano dietro. Abbiamo un programma MULTITASKING in cui a ragazzini con residui visivo viene messo il tablet sulla carrozzina e se lo portano dietro anche in contesti diversi dalla classe o a casa, generalizzando l’abilità anche fuori del contesto scolastico: a casa, in interazione con i coetanei, ecc. tutto va a far parte del progetto di vita.

Un aspetto a cui vengo chiamato spesso è per problematiche comportamentali, che vanno espandendosi anche in bambini che non hanno disabilità gravi, eppure incidono moltissimo sui processi di didattica inclusiva. Vedremo quali possono essere delle strategie molto semplici che abbiamo utilizzato nella gestione di problematiche diverse.

Uno degli aspetti che mi piace dire è, fondamentalmente, se quando ci viene segnalato un caso ci dobbiamo, noi che ci occupiamo della disabilità grave, rapportare all’immutabilità della disabilità vista come destino. Ci sono dei vincoli che non possiamo superare perché sono dei vincoli legati a tutte le difficoltà che abbiamo visto, ma ci sono anche delle possibilità. Molto spesso però i vincoli sono talmente forti, talmente pesanti che facciamo fatica a vedere quelle che sono le possibilità di interazione, perché comunque spaventa ed evoca dei vissuti di impotenza. Che cosa posso fare se mi arriva un ragazzino che non ha sviluppato competenze comunicative, presenta comportamenti problematici, non ha la capacità di interazione con gli altri, giunto ad una certa età, alla soglia della scuola secondaria di I grado, quali possono essere le possibilità che io ho per incidere e insegnare delle cose.

Molto spesso ci lamentiamo perché abbiamo tante altre problematiche, oltre a quelle che ci vengono assegnate dal caso, che diventa difficile poter vedere quali sono le possibilità. E molto spesso anche i servizi di rete, perché questo è un lavoro di rete, questo intervento non finisce nella scuola ma prosegue con l’insegnante domiciliare. Molto spesso però non c’è continuità tra quello che facciamo a scuola e quello che deve essere portato a casa. Un programma di interazione a scuola poi deve essere trasportato a casa, istruendo i genitori su come applicare a casa il contratto educativo, con un educatore che ha avviato il programma con insegnanti e genitori e questo funziona perché abbiamo visto che ci sono risultati. Al di là dell’indicazione che restano lì e creano frustrazione ; abbiamo superato il concetto di Tata Lucia con la figura del tutor, il Coach, che ha competenza nella modalità applicativa dei contratti comportamentali sia a scuola, dove si mette al fianco delle insegnanti e non le lascia, con delle verifiche finché non vediamo dei risultati, ma fa anche gli stessi interventi a casa cercando di creare una continuità spendibile in termini di risultati.

Domanda: Senza la famiglia, senza la continuità scuola-casa si hanno risultati o non lo si hanno a prescindere?

Pensiamo al controllo sfinterico: una delle problematiche è che se a casa la mamma non lo porta in bagno sistematicamente ogni mezz’ora non possiamo avviare il controllo sfinterico. Prima di tutto il ragazzino discrimina i contesti, quella che è la relazione a scuola e a casa. Possiamo avviare dei programmi di insegnamento a scuola se ancora i genitori non sono consapevoli no riescono a mettersi in discussione, non ti seguono, hanno delle difficoltà e così via. Si possono avviare dei programmi a scuola: pensiamo al controllo sfinterico si può passare dagli orari che mettiamo come etero controllo allo sviluppo dell’autocontrollo in

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attesa che i genitori vengano dietro. I genitori non ne vogliono sapere, continuano a mettere il pannolino, ma questo non interferisce, non ha una interferenza retroattiva con il lavoro svolto a scuola. Certo, quando parliamo di collaborazione scuola famiglia, il patto di corresponsabilità, cerchiamo di portarceli dietro per vedere le cose condivise che possiamo fare.

Nei disturbi del comportamento sono i genitori per primi che ti dico dammi una mano, quindi già partiamo da una richiesta motivazionale molto forte. Loro non sanno come gestirlo a casa quindi posso presumere che comunque loro siano molto disponibili a poter seguire, non prendendo indicazioni perché pensiamo che i genitori fanno altri mestieri oltre l’insegnante o il terapeuta, dobbiamo essere noi a guidarli, far vedere loro come intervengono e cercare di correggerli, creando continuità tra quello che facciamo a scuola e quello che fanno a casa. Se aspettiamo che i genitori divengano consapevoli non partiamo mai; certo che la collaborazione con i genitori funziona ,ma dall’altra parte i tempi di maturazione e consapevolezza viaggiano su percorsi molto diversi. Ciò non significa che non ce li dobbiamo portare dietro, perché quando vedono che funziona soprattutto quando si parla di problemi comportamentali ti seguono sempre.

Chi garantisce continuità sono gli assistenti scolastici e domiciliari, che conoscono il ragazzino da quando aveva tre anni e lo ha portato fino alle scuole superiori, quindi un investimento in termini di competenze dobbiamo fare forte per quel che riguarda queste figure. Sicuramente abbiamo delle possibilità di poter fare; abbiamo dei vincoli legati alla disabilità grave, ma abbiamo anche delle possibilità e possiamo fare qualcosa. Non è detto che se i genitori non mi vengono dietro non possa comunque avviare un controllo sfinterico o la gestione di comportamenti problema oppure se non ho la collaborazione degli insegnanti di classe, non possa avviare un programma con un ragazzino per poter sviluppare la lettura funzionale, la comunicazione aumentativa, ecc. Molto spesso mancano le buone pratiche che funzionano (del tipo A.B.A., tecnica comportamentista stimolo risposta rinforzo. riformulazione di tecniche comportamentiste, attraverso condizionamento operante). Noi abbiamo delle competenze per insegnare al bambino con disturbo pervasivo dello sviluppo anche se non abbiamo la certificazione. Sono le pratiche didattiche evidence based, cioè quelle che hanno portato dei risultati. L’educazione prosociale, cioè insegnare ai ragazzini a dare una mano al bambino in carrozzella è investimento sugli altri, perché sviluppa comportamenti non aggressivi e di interazione, di empatia con gli altri, è una pratica basata sull’evidenza perché ci sono dati che ci riportano che c’è una crescita dell’abilità di interazione non aggressive, non egocentriche, non centrate su se stesso, di cui beneficia non solo il ragazzino per cui abbiamo fatto il programma ma anche tutti gli altri e questo è evidence based, cioè che hanno dimostrato che producono dei risultati positivi.

DOMANDA: a proposito della tecnica ABA, non ho capito se è qualcosa che non è utile o non è niente di nuovo. Ha degli effetti positivi o è una cosa limitativa?

È una riformulazione di tecniche comportamentiste perché la base dell’insegnamento viene prodotta attraverso un condizionamento operante. Funziona in termini di sequenze di apprendimenti operanti che vengono utilizzati nelle procedure di condizionamento. Hanno visto che sono evidence based, che funzionano non soltanto con i bambini con disabilità gravi, ma anche con i bambini autistici, perché produce dei risultati in termini di apprendimento di skils, cioè in termini di apprendimento di abilità. Ora noi abbiamo visto negli anni che la procedura di condizionamento operante deve essere comunque essere integrata attraverso forme di interazione, attraverso la relazione, attraverso il riconoscimento delle emozioni, ecc. però la base dell’insegnamento è quella. Penso che non sia limitativa perché viene utilizzata adesso con tantissime problematiche. Pensate Contratto Educativo: è una modalità di gestione delle problematiche comportamentali oppure di incremento delle abilità che io voglio fare. Cioè do degli smile per quello che riguarda comportamenti positivi, tolgo lo smile quando ci sono comportamenti negativi. Questa modalità è una modalità operante, perché io comunque devo gratificare il comportamento quando viene espresso nella

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modalità positiva o negativa. Sono procedure di insegnamento che hanno comunque rilevanza in termini scientifici e che producono dei risultati.

Sicuramente cerchiamo di migliorare la qualità. Quali possono essere delle buone pratiche:

1. Educazione prosociale: insegnare a tutti i bambini della classe la possibilità comunque di sviluppare atti di incoraggiamento, di aiuto fisico, di condivisione emotiva verso bambini che hanno delle difficoltà. Il comportamento prosociale è dentro i nostri neuroni, perché Rizzolato l’ha scoperti come neuroni a specchio. Noi siamo potenzialmente naturalmente orientati poi l’educazione ci devia verso la chiusura in noi stessi, ecc. Verso i due anni il bambino è portato ad essere naturalmente empatico, cioè naturalmente portato a pensare che quel bambino che sta piangendo perché gli si è bucata la ruota della bicicletta, naturalmente va lì e cerca di consolarlo e questo avviene. Dopodiché è una abilità che viene recuperata; Roche, negli anni, è stato quello che ha recuperato questo concetto di educazione prosociale, è una delle pratiche che nel gestire problematiche comportamentale con tutta la classe, è uno di quegli esempi di curricolo integrato che vanno bene, perché lo posso fare con i bambini di scuola dell’infanzia, primaria e secondaria e che produce comunque risultati molto evidenti di incremento delle abilità sociali.

2. Apprendimento cooperativo: poter sviluppare di fronte al compito utilizzare e sviluppare tutte le risorse che abbiamo a disposizione. Se c’è un ragazzino dislessico, che non riesce a leggere in termini di rapidità e accuratezza ma è molto bravo nella competenza tecnica, l’apprendimento cooperativo serve come elemento compensativo, cerca di compensare la frustrazione che lui ha quando legge davanti agli altri con un rafforzamento nel gruppo cooperativo della sua capacità di poter essere bravo con le mani e dare un contributo nel lavoro di gruppo.

3. Mappe concettuali: serve come schema di apprendimento perché diventa un apprendimento semplificato, ridotto all’osso per chi ha una disabilità intellettiva medio grave, perché ha la possibilità di poter semplificare dei concetti. Bisogna comunque imparare come farle le mappe, favoriscono la memorizzazione non soltanto nei DSA, quelli che hanno difficoltà dal punto di vista della memoria breve, ma soprattutto in quelli che hanno disabilità intellettive, quelli che fanno fatica a parlare, perché lo schema della mappa concettuale diventa una traccia che facilita anche l’espressione orale. Questo è un altro esempio di come si possa fare didattica inclusiva utilizzando delle modalità che vanno bene per tutti.

4. Sintesi vocale che viene data per ragazzini dislessici che utilizzano non la via visiva ma la via uditiva è utile anche per un ragazzino ipovedente o non vedente perché comunque meda le informazioni visive con quelle uditive.

Sono alcuni esempi di come praticamente si possano utilizzare delle strategie che vanno bene un po’ per tutti. Vi mostro un video di un’insegnante e un genitore su che cosa significa per loro la didattica inclusiva, su come interpretavano da punti di vista diversi quelle che potevano essere soluzioni e difficoltà in un approccio come questo.

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Domanda Insegnante genitoreDisabilità intellettiva: la prima cosa che viene in mente

Comunicazione La scarsa possibilità di socializzare

Il termine inclusione che cosa ti fa pensare

A un sistema scolastico che si organizza e si struttura attorno ai bisogni educativi speciali di un bambino

Raccoglie dentro di e quindi accoglie, direi un termine positivo

Quali vantaggi per la classe in presenza di un bambino con disabilità

I vantaggi sono di varia natura, di ordine cognitivo, culturale, emotivo, relazionale, è comunque un arricchimento e una crescita per tutti

Il vantaggio principale sia essere educati alla cura dell’altro, all’altruismo e credo che questo sia molto importante per la crescita di una persona

Quali svantaggi Non vedo svantaggi nell’integrazione stessa, ma nella cattiva programmazione dell’integrazione

Svantaggi credo non ce ne siano, forse qualche piccolo sacrificio, ma svantaggi no

Le qualità necessarie agli operatori della scuola per creare una buona inclusione

Una buona competenza, ottime capacità relazionali, la capacità di saper lavorare in equipe

L’amore per il proprio lavoro, l’umiltà di apprendere nuove pratiche educative e un po’ di creatività

Quale ruolo ha l’insegnante di classe nei confronti dell’inclusione

Ha un ruolo importante. Nella scuola primaria è un modello per i bambini e quindi funge da punto di riferimento

Deve essere un insegnante che segue il processo educativo del bambino anche disabile e faccia parte attiva della sua crescita

Il docente di sostegno: punti di forza e di debolezza

Punti di forza la sua specializzazione in più rispetto ai docenti curricolari. Punti di debolezza il fatto che spesso ci dimentichiamo del nostro sapere e non lo trasformiamo in un saper fare e un saper essere e troppo spesso siamo condizionati dallo stereotipo di insegnante di serie B e ci comportiamo da insegnanti di serie B

È una ricchezza per la classe, un aiuto, ma non deve essere considerato l’insegnante del bambino disabile.

Quali sono i principali bisogni educativi speciali di un bambino con disabilità

Ha dei bisogni educativi speciali, ma soprattutto ha dei bisogni educativi e quindi non mi sento di fare una gerarchia dei bisogni che ha. H ai bisogni di tutti i bambini: bisogni di appartenenza, conoscenza, di essere valorizzato

La comunicazione, la relazione, l’apprendimento delle autonomie personali.

La scuola come risponde a questi bisogni

Risponde ancora in modo parziale e disomogenea, soprattutto sul territorio nazionale

Non sempre risponde positivamente, soprattutto quando ci sono i casi di ragazzi con disabilità cognitive gravi

Quale ruolo dovrebbe avere la famiglia rispetto alla situazione attuale

Ruolo da protagonista in sintonia con il lavoro che viene fatto a scuola. La famiglia è comunque il motore che dirige il progetto di vita sul ragazzo e serve una collaborazione continua e un atto di fiducia nei confronti degli operatori che lavorano nella scuola

Un ruolo importante: la famiglia deve essere messa in grado di sostenere il proprio figlio anche all’interno della scuola per cui sarebbe necessario avere un sostegno da parte della scuola con corsi di formazione genitoriale

Dovendo definire i tre livelli essenziali di qualità dell’inclusione quali prenderesti

I livelli minimi sono difficili da definire, sicuramente una buona formazione, un buon livello organizzativo, sia all’organizzazione delle strutture che umane e finanziarie, un buon rapporto tra docente specializzato e ragazzi.

La formazione degli insegnanti, sia curricolari che di sostegno, la formazione e il sostegno alle famiglie e la continuità scolastica dell’insegnante di sostegno

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Vediamo quali possono essere PROTOCOLLI operativi per studenti con disabilità intellettive gravi e problematiche

Le basi su cui poggiare gli interventi con studenti con disabilità grave sono basi di tipo scientifico ed imprescindibili da qualsiasi programma e sono di tipo operativo molto importanti. Il primo aspetto è quello dell’osservazione del comportamento. Prima di fare un intervento dobbiamo capire quali possono essere le situazioni collegate a quel comportamento. Pensiamo ad un comportamento problema dentro la classe: un ragazzino che ha comportamenti di aggressività nei confronti degli oggetti o di disturbo o comunque che crea delle situazioni di difficoltà nella gestione. Un aspetto importante è quello di poter applicare una modalità osservativa che si chiama ANALISI FUNZIONALE. Io non faccio interventi riabilitativi se prima gli insegnanti non hanno fatto osservazione; vado in classe quando le insegnanti hanno prodotto osservazioni su quello che è contesto in cui si verifica quel determinato comportamento. Se è un comportamento di aggressività: cosa sta facendo il ragazzino, quali sono i comportamenti attraverso cui esprime l’aggressività, la situazione conseguente, che cosa succede dopo. Che cosa fate, che cosa fanno i compagni quando c’è il comportamento? Perché l’osservazione del comportamento ci dice quali sono gli ambiti su cui dobbiamo intervenire. Può essere una situazione che scatena il suo comportamento aggressivo: è stanco? E quindi vediamo dalle osservazioni che il comportamento di aggressività si sviluppa alla fine della giornata, oppure vediamo che vuole creare una richiesta di attenzione e vediamo che c’è una ridondanza nelle situazioni precedenti quando lui partecipa dentro la classe a delle lezioni di cui non comprende il significato. Oppure c’è un nostro intervento che piuttosto che produrre un blocco del comportamento lo incentiva di più per cui se lui è aggressivo la prima cosa che facciamo lo portiamo fuori. Questo va bene perché interrompe una situazione di disagio ma determina subito un apprendimento: la modalità per poter uscire dalla classe è quella di utilizzare un comportamento aggressivo, quindi c’è il rischio che possa diventare funzionale e utilizzare l’aggressività come comportamento di evitamento o fuga dalle situazioni non piacevoli. Vedete quanto è importante l’osservazione perché ci dà la misura, l’entità del comportamento, ma anche se ci sono delle variabili di tipo ambientale che sostengono il comportamento stesso.

Le motivazioni personali: la motivazione è la molla dell’apprendimento, non insegnate niente se non create delle motivazioni che possono essere sia legate al tipo di attività che propongo, per cui se il ragazzino sviluppa la coordinazione visuo motoria e inserisco dei giochi in cui lui possa colorare degli spazi e viene poi fuori la figura di un animale conosciuto che gli piace che porta a casa e attacca in camera, quella è una motivazione importante e si chiama motivazione intrinseca. Cioè l’attività stessa, in cui io sviluppo un’abilità di attenzione visiva nel tempo, è già motivante perché comunque fa una attività che gli piace. Molto spesso non si trovano situazioni così motivanti e dobbiamo trovarlo dall’esterno e qui il riciclo dell’ABA che ci dice il rinforzo come modalità per poter confermare, sostenere e nel tempo riprodurre un comportamento diventa basilare. Se non c’è motivazione difficilmente un alunno con disabilità grave riuscirà ad imparare una risposta, anzi il fatto di dare una gratifica gli da la conferma, il feedback, che quella risposta è quella che io voglio e tenderà, sia perché mi ha fatto contento (variabile di tipo emotivo, sia perché mi viene confermata quella, mentre le altre non mi vengono gratificate, posso in qualche modo garantirmi che lui continuerà a sviluppare attenzione a comportamenti positivi.

Ci sono delle forme che contribuiscono a sostenere il comportamento dando dei tokens ( gratifica per l’assenza di comportamenti problema) e alla fine della giornata, messe tutte in fila se completano la sequenza può ottenere il premio finale, come la cioccolata o una merenda particolare. Al di là della parte alimentare, che sembra un addestramento animalesco, la motivazione nel suo fondamento di sostenere la disponibilità al compito è fondamentale. Se non c’è motivazione anche noi difficilmente ci dedichiamo a

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qualcosa o impariamo qualcosa. La motivazione regola l’apprendimento e spesso ce lo dimentichiamo proprio con chi ha più bisogno di motivazione e che dobbiamo motivare con delle gratifiche. Questo è un elemento di enfatizzazione e La motivazione diventa elemento fondamentale dell’apprendimento

Incrementare i prerequisiti dell’apprendimento: i prerequisiti dell‘apprendimento sono attenzione, continuità e motivazione al compito. Attenzione e continuità sono direttamente correlati alla motivazione. Sicuramente l’attenzione sostenuta, quella su cui lavora l’ABA con i bambini autistici, creando attenzione sostenuta al compito, attenzione che si sviluppa nel tempo e non intermittente, viene comunque determinata molto dall’elemento della motivazione che comunque garantisce una continuità nei meccanismi dell’attenzione.

Utilizzare strategie di insegnamento individualizzato: questo è il compito più difficile perché se non sappiamo quale è lo stile di apprendimento del ragazzino difficilmente riusciremo ad insegnare qualcosa. Ci sono ragazzi che hanno stili di apprendimento che privilegiano dei tempi brevi di attenzione e delle sessioni ripetute nel tempo, perché le sessioni ripetute favoriscono l’apprendimento. Ci sono altri, invece, che hanno tempi di attenzione più lunga, per cui possiamo fare sessioni di apprendimento sull’abilità che gli stiamo insegnando più lunghe con brevi pause, perché se le facciamo lunghe poi ci perdiamo l’attenzione e la continuità. Vedremo attraverso cose molto pratiche come definire ed individuare gli stili di apprendimento e poi sviluppare percorsi di apprendimento individualizzati. Le motivazioni sono completamente diverse per cui dobbiamo assolutamente individualizzare i processi di insegnamento in base alle competenze.

Garantire alta motivazione al compito: una delle modalità di insegnamento è quella di garantire l’apprendimento attraverso una motivazione sostenuta. Nostro compito è garantire alta motivazione in base a quella che è la condizione motivazionale di quel momento.

Quando insegnate una cosa (una parola, abilità funzionali,) aumentate le prove di insegnamento. Fate aumentare le prove di insegnamento in un breve periodo di tempo perché lavora nella memoria a breve termine. Quando insegnate qualcosa, abilità funzionali (es. riconoscimento del proprio nome, ) aumentate le prove di insegnamento: cercate di far ripetere l’abilità più volte in un arco di tempo molto ristretto perché questo facilita l’apprendimento, perché lavora sulla memoria a breve termine. La memoria a breve termine comunque viene sollecitata dalle prove reiterate di apprendimento, quindi per qualsiasi apprendimento un’altra strategia funzionale è quella di aumentare le prove di insegnamento.

Poi l’aspetto della verifica: una delle cose su cui mi batto è poter avere degli strumenti di valutazione che siano coerenti. Se ci si porta dietro uno strumento di valutazione che è una check list, cioè vedere che cosa fa un bambino normalmente a quell’età e cercare di vedere se il nostro alunno con disabilità grave ci è arrivato, quello è uno strumento molto funzionale, perché ci permette di tarare l’obiettivo e di fare un confronto con lo sviluppo normale. Ma non è possibile che l’anno successivo, perché ha fatto corso con il test BAB, che è una batteria di prove per la disabilità grave, si inserisce con un altro strumento di verifica, perché poi diventa veramente difficile capire se quello studente ha fatto o no dei progressi. La programmazione delle verifiche deve essere su una modalità costante, ma su uno strumento che comunque permane nel tempo, in modo che le verifiche che io faccio non cambiano a secondo dello strumento, ma diventano uno strumento affidabile che mi permette di stabilire se quegli obiettivi sono stati raggiunti in qualche modo.

Registrare i dati e formalizzare sui grafici: compito dell’insegnante è di monitorare l’apprendimento. Come faccio a inserire un’altra parola da leggere o da scrivere, o un’altra immagine da inserire nella C.A., se non ho raggiunto quello che è il livello di apprendimento, cioè se l’apprendimento non è stato raggiunto. Voi sapete che l’apprendimento è raggiunto se c’è almeno il 90% delle risposte positive. Se io non faccio un monitoraggio o una registrazione di questo genere, come faccio a modulare l’apprendimento andando

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veloce, se l’apprendimento si è verificato, oppure cercando di rivedere la procedura se non ho un monitoraggio dei dati, che vi permette di capire quanto l’apprendimento è andato avanti.

Prevedere generalizzazioni e mantenimento: chi lavora con la disabilità e a mensa ha insegnato ad utilizzare le posate, un livello di generalizzazione è il poterlo trasferire anche con l’assistente scolastica, e far vedere poi al genitore, in presenza o con un piccolo video, come si è impostata quella modalità di apprendimento. Una delle cose che ci disturba molto è quando i genitori non ci seguono, specie nella C.A.: abbiamo inserito delle immagini per comunicare delle cose e la madre dice che a casa non le usa perché comunque lei capisce e diventa una modalità superflua. Molte volte la generalizzazione è il trasferimento dell’abilità in un contesto normale. Se il ragazzino ha l’abitudine, a casa, di prendersi da solo la merenda, è inutile che io lo obbligo ad usare la generalizzazione in contesti dove la necessità l’ha già superata. Mentre diventa importante la generalizzazione quando lui non sa chiedermi cosa vuole, cioè la scelta della merenda. Allora io gli metto davanti due immagini e gli insegno a scegliere tra una cosa che gli piace di più e una di meno, lo faccio vedere anche al genitore, in modo che trasferisca l’abilità, e questo si chiama generalizzazione dell’abilità. Sicuramente quando l’avremo generalizzata in contesti diversi è importante che la manteniamo, cioè che comunque al ragazzino gli venga richiesta periodicamente.

Secondo video: GUARDA CHE FACCIA è un programma fatto a scuola e si chiamava CIAO IN TUTTE LE LINGUE DEL MONDO cioè trovare un codice comune e condiviso tra ragazzini che hanno difficoltà di comunicazione verbale e la possibilità di utilizzare degli elementi in termini di espressione delle emozioni, quelle principali, attraverso forme di comunicazione. Prima di avviare questo lavoro con l’ultima classe della scuola dell’infanzia, replicabile con età successive, siccome avevamo ragazzini ipovedenti oppure di udito, o con problemi motori che stavano in carrozzina, abbiamo avviato il laboratorio di sensibilizzazione alle differenze. Che cosa succede con un ragazzo ipovedente che ha difficoltà a percepire visivamente gli stimoli? Una delle modalità, delle strategie educative efficace è quella di fare le simulazioni, cioè per far capire che cosa significa stare sulla sedia a rotelle, far sperimentar ai ragazzini l’essere spostati e fare la merenda sulla sedia a rotelle e fare poi un circle time sulle emozioni provate ( quale era la cosa che ha aiutato di più – quello che mi spostava senza farmi sbattere; cosa ha mandato di più in ansia – l’essere dipendente dagli altri). Questa cosa te la raccontano in circle time sia quando fanno la simulazione sulla sedia a rotelle sia quando si mettono la benda, perché ti dicono che la cosa che li ha aiutati di più è stata la voce ed il contatto umano della persona, la cosa che li ha mandati fuori di testa è stato primo il rumore ambientale, cioè tutti gli altri che facevano casino, perché non permettevano di riconoscere la voce della persona che stava vicino che orientava all’interno di un percorso e secondo il disordine ambientale: i ragazzini durante la merenda spostano le sedie e le lasciano scostate e il bambino ciecato ci inciampa. Se io devo deambulare ed orientarmi in uno spazio in sicurezza devo comunque avere un controllo dell’ambiente ma soprattutto gli altri devono essere educati e rimettere a posto le sedie perché quello è un ostacolo imprevisto che determina la possibilità che io ci urti e limita la mia autonomia.

Filmato: laboratorio guarda che faccia: lo slogan è “tutti sorridono nella stessa lingua” tutti possono esprimere emozioni attraverso le immagini e la mimica facciale. L’espressione mimica è propria sia del ragazzino con disabilità che in quello normato, e al di là dell’espressione mimica c’è sempre associato un contenuto che magari il bambino con disabilità grave non riesce ad esprimere l’espressività è sempre legata ad un contenuto espressivo e comunicativo. Il linguaggio delle emozioni è un linguaggio condiviso, è un linguaggio che comunque crea delle possibilità di curricoli integrati.

Filmato : affrontiamo sempre il tema delle emozioni nell’apprendimento che fondamentale: qui guardate viene formato un gruppo di teatro. Il gruppo teatrale dove viene inserito un ragazzino con disabilità grave, di

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solito nelle scuole, permette a lui di usare una modalità espressiva che non è quella classica di sviluppo “Dimmi come ti senti”, ma è un modo più coinvolgente stando anche insieme agli altri.

Un’altra modalità importante nei processi di apprendimento quando ci viene assegnato un ragazzino è quella di capire la modalità in cui comunica. Generalmente ci hanno insegnato come si usa la comunicazione aumentativa, che sono modalità che servono per aumentare l’espressione ma bisogna partire sempre da un punto: come ha sviluppato la comunicazione fino a quel momento? Qual è il livello da cui parte? È una comunicazione che prevede un linguaggio verbale, per cui ha interagito con la madre, i familiari, attraverso delle parole; utilizza oltre alle parole anche dei gesti? Dobbiamo partire, se vogliamo sviluppare comunicazione aumentativa con gli studenti con disabilità grave, anche dal livello iniziale, cioè come loro, in maniera del tutto naturale, esprimono le emozioni. Nel centro di riabilitazione, ma viene fatto anche con i genitori con interviste, chiediamo quali sono le modalità per esprimere delle modalità comunicative. Da quella modalità espressiva segnalata dal genitore (filmato), cerchiamo in funzione della comunicazione aumentativa di replicare quella modalità perché è quella che in quel momento è più adatta e naturale per sviluppare interazioni.

Uno dei prerequisiti per l’interazione sociale è il contatto oculare, che è base per lo sviluppo della comunicazione. Che cosa facciamo? Quando dico cercate di individuare le motivazioni per poter agganciare comunque la relazione, è passare attraverso il gioco più motivante (filmato del cucù) e che ci garantisce l’aggancio in termini relazionali, coinvolgendo in un gioco comunicativo di interazione, garantendo che abbia una motivazione tale che ci imita il comportamento e voi sapete che l’imitazione, per la disabilità grave è la base per lo sviluppo della comunicazione anche attiva.

Ogni caso è a sé e per ogni caso devi individuare un percorso di riuscita definendo obiettivi. Io non vado a fare un discorso di valutazione sommativa, abbiamo comunque raggiunto degli obiettivi. Ma se io mi pongo di incrementare la capacità di comunicazione attraverso le immagini oppure voglio ridurre la frequenza di comportamenti problematici, oppure voglio aumentare la capacità di leggere e parole, la lettura globale intera e quindi da 10 passiamo a 20/30, la modalità di misurare il successo è data dall’incremento delle abilità. Noi operatori, insegnanti, abbiamo bisogno di avere degli indicatori, perché se no altrimenti come misuriamo la nostra capacità di essere insegnanti e di essere efficaci e di interagire. Non possiamo dire quali sono le percentuali di successo , sono in grado di dire, di fronte ad un obiettivo se lo abbiamo raggiunto o no, ma soprattutto perché non lo abbiamo raggiunto. È importante che noi abbiamo come strumentalità nostra di persone, insegnanti che lavorano nella riabilitazione, definire una modalità di lavoro che preveda obiettivi, la verifica attraverso degli indicatori. Gli indicatori sono importanti: quando chiedo se interagisce con gli altri e mi rispondono che è carino, bravino, nella riabilitazione non va. Abbiamo bisogno di individuare un obiettivo concreto e di misurarlo. Al termine dell’anno devo poter dire che nell’area di interazione riesce ad interagire attivamente da 0, stava da solo, adesso chiede agli altri di giocare. Questo è un indicatore chiaro di un obiettivo che mi ero posto. Dal punto di vista cognitivo è passato da una valutazione che non riusciva a leggere 3 parole ad un vocabolario di 50 parole è un indicatore chiaro di tipo quantitativo: ho aumentato la sua capacità di leggere parole. Nella presenza di comportamenti problema : durante la mensa aveva comportamenti di aggressività nei confronti degli oggetti e delle cose, circa dieci al giorno; fatto il trattamento si sono ridotti a 3, quello è un indicatore obiettivo chiaro.

Noi abbiamo assoluta necessità di un indicatore quantitativo chiaro, perché se non ho la strumentalità non posso nemmeno valutare se il mio intervento è stato positivo. La metodologia che cerco di rimandarvi è una metodologia che comunque ci riporta ad indicatori di tipo quantitativo, di qualunque tipo.

Ci sono indicatori di tipo emotivo, gli indici di felicità: se faccio un programma di educazione prosociale ed il bambino si mette ad interagire con gli altri durante la merenda e diventa attivo, nel senso che chiede delle

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cose e i bambini gli rispondono, e vedo che mentre gioca con loro è contento perché esprime emotività positiva, quello è un indicatore; durante quel gioco esprime indicatori di felicità in maniera rilevante rispetto ad altre situazioni. È importante quanto quello quantitativo.

Prendete il gioco del cucù del video: da uno stimolo dell’insegnante diventa lei stessa parte attiva, è lei che produce e promuove una interazione verso l’insegnante cosa che non riusciamo mai a fare. Siamo sempre noi che comunque proponiamo le cose e lo studente diventa passivo di fronte alle proposte. Il gioco del cucù è qualcosa che aggancia la bambina, aumenta il contatto oculare nel tempo, e garantisce imitazione.

La variabile tempo: un aspetto della metodologia fondamentale è la definizione degli obiettivi a breve, medio, lungo termine. Devo misurare l’intervento che faccio e variare l’intensità a seconda dell’obiettivo che mi sono dato. Ad esempio, nell’interazione sociale, un obiettivo a medio termine che inizio a settembre, per ottobre novembre: possa mantenere contatto oculare nel gioco senza interferire, cioè senza interagire in prima persona. Nell’obiettivo a medio termine: oltre a guardare i bambini che giocano proponga almeno un gioco. Obiettivo a lungo termine per la fine dell’anno: che comunque interagisca non soltanto che accetti il gioco ma proponga dei giochi significativi per lui. Mi sono dato delle categorie temporali definite in base alla segmentazione dell’intervento educativo che prevede obiettivi a breve, medio e lungo termine. Variabile tempo è molto legata all’obiettivo che mi do, ma comunque per l’obiettivo a lungo termine, inizialmente mi accontenterò di una risposta parziale, che non è quella finale.

Quando fate programmazione prevedete degli obiettivi che saranno raggiunti alla fine dell’anno, ma che durante l’anno devono prevedere delle tappe intermedie verificabili con indicatori quantitativi. Io mi pongo un obiettivo considerando quante sessioni posso fare al giorno, quanto tempo posso dedicare a quella cosa, quali sono le abilità di partenza, che poi posso tarare, una stima la posso fare in funzione di una valutazione iniziale. Si chiama valutazione iniziale delle abilità che deve essere fatta sempre perché altrimenti come posso tarare in funzione delle abilità che ha un ragazzino, con degli obiettivi che possono essere graduati nel tempo.

Domanda: come si può conciliare una attività così tanto individualizzata e portare avanti la didattica della classe?

Se il punto di partenza è condiviso, se la programmazione viene fatta insieme, non è necessario mediare l’intervento didattico. C’è uno scambio naturale tra insegnante di classe e di sostegno. È un presupposto di tipo metodologico.

Domanda: la didattica inclusiva è accettata dai genitori?

Vi faccio un esempio di educazione prosociale, fatto in una scuola di Osimo: due volte a settimana, avevamo inserito un programma di educazione prosociale che prevedeva una valutazione delle abilità, intese come atteggiamenti di interazione spontanea e naturale con gli altri, in cui prevedeva una valutazione degli alunni all’inizio e alla fine. Quando ho proposto questa cosa alle insegnanti l’ho fatto mostrandola come una possibilità per superare delle problematiche di relazione. Lo abbiamo proposto a tutti i genitori come un programma di sviluppo delle abilità e i dati ci dicono che ragazzini che lavorano sulle abilità prosociali svilupperanno abilità ed atteggiamenti di relazione sociale rispetto agli altri, avranno le insegnanti maggiore capacità di gestione delle problematiche, perché non vengono insegnati atteggiamenti di aggressività o di egocentrismo, ma di interazione attraverso situazioni pratiche, condivisione, supporto emotivo ed affettivo. Abbiamo fatto un patto di corresponsabilità con i genitori: oltre a gratificare il bambino quando porta a casa il quadernino delle buone azioni con gli smile, gli date 20 centesimi che ci servono per portare a scuola e poi

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alla fine ci facevano una adozione a distanza. E non c’è stato un genitore contrario. È stato un programma che ha portato dei benefici a tutti e ha creato un patto di collaborazione con i genitori.

Parliamo di Comunicazione aumentativa: la possibilità di sviluppare negli alunni modalità comunicative positive. Se lui impara a comunicare in modo positivo, riduce la possibilità che comunichi con modalità aggressive e non adeguate. Il problema è che noi l’applichiamo quando il ragazzo è ormai grande ed ha consolidato modalità non adeguate, perché se cominciamo a farlo dalla scuola primaria allenandolo a chiedere attraverso modalità adeguate, abbiamo sicuramente la riduzione se non l’assenza di comportamenti problematici. L’aggressività è una delle forme comunicative più efficaci, perché immediatamente richiama l’attenzione. Lui che non sa inserisci nella modalità cognitiva ha così la possibilità di richiamare l’attenzione attraverso una modalità non adeguata. Quando i comportamenti sono consolidati è difficile tornare indietro. La comunicazione aumentativa cerca di aumentare le abilità già presenti, che possono essere di tipo comunicativo comportamentale come indicare. L’indicare è un comportamento comunicativo di grande rilevanza, se non ti so dire che voglio quella cosa la indico, con la mano, con lo sguardo.

Racchiude tutte le possibilità comunicative: la possibilità di utilizzare forme diverse di comunicazione, compresi gli ausili tecnologici che possono essere di grande utilità e di grande impatto.

Due obiettivi: stimolare l’iniziativa comunicativa attraverso situazioni motivanti e a promuovere la consapevolezza della possibilità di controllo di persone, stimoli ed interazioni a suo vantaggio per situazioni per lui significative. All’interno della comunicazione aumentativa le varie forme sono: comportamentali (indicare, guardare), comunicazione oggettuale (poter utilizzare anche l’oggetto naturale). Sono ragazzi che hanno forti limitazioni della memoria; se io gli dico adesso andiamo a mangiare, e se tra la comunicazione verbale e la situazione passa un tempo, loro se lo dimentica, ma se io invece gli do il sacchettino con le posate, quell’elemento diventa memoria permanente anche se non si ricorda più l’informazione verbale. Diventa quindi una comunicazione altamente significativa perché permane.

Linguaggio gestuale: la possibilità di usare gesti naturali o segni trasparenti, cioè che hanno molta somiglianza con l’oggetto a cui si fa riferimento, e sistemi di tipo pittografico, cioè la possibilità di usare foto, schemi, disegni per poter comunicare azioni, eventi, luoghi persone. Oggi posso utilizzare un tablet o uno smartphone dove metto tutte le immagini che il ragazzino può utilizzare in tutti i contesti e lui se le porta dietro e posso anche collegare l’immagine con l’espressione verbale ed è di grande impatto.

Noi utilizziamo un tastone, uno switch, un tasto a pressione facilitata e può essere dato all’interno del nomenclatore tariffario. È una tecnologia povera che può essere adattata ed utilizzata in tutti i contesti. La parte importante è quella dell’insegnamento, dell’addestramento. Abbiamo creato con lo switch una situazione di gioco dando la possibilità alla bambina di proporre il gioco e agli altri di giocare. (filmato mostra la possibilità di usare degli ausili molto semplici). Noi poi abbiamo sviluppato dei laboratori di comunicazione attraverso dei comunicatori, i VOCAL, dove puoi registrare un messaggio. L’obiettivo è quello di far scegliere alla bambina tra due attività: è un comunicatore vocale a due tasti dove vengono registrati messaggi relativi ai giochi e ai nomi dei compagni da scegliere. È un esempio di tecnologia semplice che ci può aiutare nei processi di insegnamento che abbiamo fatto in classe, ma anche in quelli di interazione e di inclusione.

Ora vorrei farvi vedere un’esperienza relativa alla gestione dei comportamenti problema, un’esperienza dove un bambino con disturbo pervasivo dello sviluppo, con tratti autistici marcati, a cu viene assegnata un’insegnante che stava frequentando corsi polivalenti. Lei ci ha sottoposto il caso portando dei filmati che venivano analizzati e venivano date indicazioni attuate poi nel programma con relativa verifica. È stata un insegnamento utile. La gestione dei comportamenti problema, una problematica in grossa diffusione, deve

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essere di tipo multi-sistemico, cioè non possiamo solo fare l’intervento su di lui, ma allargando l’intervento ai tutori, ai ragazzini che non gli rivolgevano attenzione o interazione quando lui era aggressivo. È un intervento, un programma che deve prevedere un coinvolgimento dei coetanei, insegnanti, famiglia, la possibilità che ci sia un’equipe o qualcuno in grado di gestire le problematiche in termini di tenere sotto controllo tutti gli interventi e di verificarli (filmato).Possiamo riassumere tante tecniche di intervento con quello che abbiamo fatto con questo ragazzino. Importante è la ricostruzione del percorso fatto fino a quel momento perché vediamo come comportamenti problematici che non vengono trattati, si presentano in forma molto lieve all’inizio e possono poi avere degli sviluppi successivi. In assenza di comunicazione i comportamenti problema diventano rilevanti: per esprimere una modalità di gioco ride e da i calci: come modalità di evitamento usa l’aggressività per poter regolare l’interazione con la terapista che cerca di mascherare questa aggressività dandole una connotazione di tipo ludico.

Nella prima fase di intervento, drammatica, si decide di tornare a delle attività molto semplici, piacevoli per il ragazzo, identificare un posto e mettendolo in una situazione altamente motivante: la musica e il gioco dei capelli e una gratifica per comportamenti di risposta comunque positivi, dove c’era assenza del comportamento problematico. La situazione piacevole (fare un appaiamento a campione con delle immagini conosciute), una mediazione sulla relazione basata sulla risposta emotiva affettiva (quanto sei bravo), ma molto gratificata quella alternativa alla situazione problematica, una situazione molto motivante dove la relazione con l’insegnante diventa quella su cui si basa poi il rapporto di fiducia. Creare una situazione positiva era stato l’obiettivo attraverso attività significative. Dopo aver stabilizzato i comportamenti, viene inserito un altro elemento problematico, la palestra, attraverso una tutor naturale e si vede che la relazione comincia a funzionare, il rapporto diventa esclusivamente positivo, evita di sottolineare l’errore perché l’errore era stato memorizzato come un elemento negativo e l’errore ripetuto creava frustrazione ed aggressività. Quindi l’insegnante punta sulle cose positive, anche minime, che fa.

Nell’ultima parte del trattamento abbiamo inserito i token, le monete, per cui le attività della giornata erano scandite con attività più o meno piacevoli, lui riusciva a tollerare anche quelle meno piacevoli e lui guadagnava delle monete da inserire su una tabella dove doveva riempire tutti gli spazi. La token economy, cioè il contratto educativo, veniva dato per l’assenza dei comportamenti problematici, con i soldini che aveva guadagnato andava a prendersi la cioccolata alla macchinetta. Abbiamo esteso l’autocontrollo da poche attività a tutta la giornata, ma anche esteso l’autocontrollo ad altre situazioni che prima non riusciva a gestire (attesa alla macchinetta).

Come non si riacquista l’interazione con gli altri? Portando a scuola dei giochi molto piacevoli, molto attraenti e lì, recuperiamo positivamente i bambini attraverso il gioco.

“Nati due volte”: questi bambini nascono due volte. A volte devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che sapete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato ma alla fine sarà anche poi voi una rinascita”.

Io credo che queste parole esprimano il senso più profondo del nostro lavoro.