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GENNAIO-FEBBRAIO 2004

EDITORIALE

A R I M I N V M5

SOMMARIO

Hanno collaboratoAdriano Cecchini, Federico Compatangelo (foto),

Italo Cucci, Gerardo Filiberto Dasi,Lara Fabbri, Ivo Gigli, Silvana Giugli,

Aldo Magnani, Arturo Menghi Sartorio,Amedeo Montemaggi, Arnaldo Pedrazzi,

Enzo Pirroni, Sandro Piscaglia,Luigi Prioli (foto), Romano Ricciotti,Maria Antonietta Ricotti Sorrentino,

Gaetano Rossi, Emiliana Stella,Emilia Maria Urbinati,

Guido ZangheriDirezione e Segreteria

Via Destra del Porto, 61/B - 47900 RiminiTel. e Fax 0541 52374 - E-mail: [email protected]

(Redazione: Park Hotel)Editore

Tipolitografia GarattoniAmministratore

Giampiero GarattoniRegistrazione

Tribunale di Rimini n. 12 del 16/6/1994Collaborazione

La collaborazione ad Ariminum è a titolo gratuito

Bimestrale di storia, arte e cultura della provincia di RiminiFondato dal Rotary Club Rimini

Anno XI - N. 1 (58) Gennaio - Febbraio 2004DIRETTORE

Manlio MasiniDiffusione

Questo numero di Ariminumè stato stampato in 7.000 copie

e distribuito gratuitamente ai soci del Rotary,della Round Table, del Rotaract, dell’Inner Wheel,del Soroptimist, del Ladies Circle della Romagna

e di San Marino e ad un ampio ventaglio di categorie di professionisti

della provincia di RiminiPer il pubblico

Ariminum è reperibile gratuitamente presso il Museo Comunale di Rimini (Via Tonini)

e la Libreria Luisè (Corso d’Augusto, 76,Antico palazzo Ferrari, ora Carli, Rimini)

PubblicitàPromozione & Comunicazione

Tel. 0541.28234 - Fax 0541.28555Stampa

Tipolitografia Garattoni, Via A. Grandi, 25,Viserba di RiminiTel. 0541.732112 - Fax 0541.732259

FotocomposizioneMagiComp - Tel. 0541.678872 Villa Verucchio

E-mail: [email protected] copertina: Fabio Rispoli

ASPETTANDO RIMINICreativa e sorniona, maliarda e un po’ cialtrona. Ecco, in sintesi, il ritratto ine-

dito e disincantato della nostra città, così come traspare dal libro aspettando Rimini(Luisè Editore). Il volume, che sbircia i luoghi della memoria e dell’effimero e presentauna curiosa carrellata di personaggi da tribuna e da baraccone nei loro attimi di quie-te e di follia, offre un’icona di Rimini molto diversa da quella stereotipata che siamo abi-tuati a vedere.

E proprio per questa sua “originalità”, so di alcuni indigeni di nobile lignaggioche non si sono riconosciuti in quelle pagine e davanti a certe istantanee ritenute “vol-garotte” e impertinenti hanno addirittura storto il naso. Avrebbero preferito vedere lasolita Rimini truccata a festa per i turisti del mordi e fuggi, confezionata dagli espertidel marketing pubblicitario, tutta lustrini e paillettes e perennemente bagnata dai riflet-tori della notorietà.

Niente di tutto ciò. In aspettando Rimini, vale a dire negli scatti fotografici diNicola De Luigi e nei testi di Giuliano Ghirardelli e Giovanni Luisè, la città si presentacon l’abito di tutti i giorni. Quello, che le consente di coniugare la semplicità e l’autoironia con il calore umano; quello in grado di fornirle l’orgoglio di continuare ad esse-re se stessa, a dispetto di quanti vorrebbero cambiarle identità, immolandola sul frontedel bagnasciuga.

Piaccia o no, nelle immagini e nei commenti del libro c’è il nostro volto acqua esapone. E chi non si riconosce in esso si comporta, né più né meno, come quelle signo-re dalla puzza sotto il naso che hanno abbondantemente superato la cinquantina: quan-do si guardano allo specchio non vedono mai quello che in realtà sono, ma solo ciò vor-rebbero essere e di conseguenza si vestono e si muovono come se avessero ancora ven-t’anni. Salvo, poi, notare i guasti del tempo nelle rughe delle amiche.

M. M.

IN COPERTINA“Pomeriggio d’inverno”

di Federico CompatangeloARTE

Ricordando Luigi PasquiniMeditazioni di Ivo Gigli

Tessuti e colori6-10

PERSONAGGIMirro Antonini

12-13PAGINE DI STORIALa Campagna di RussiaDi Arcangelo Zavatta

14-17TRA CRONACA E STORIA

Riminesi nella bufera / Virgilio RicciottiNoterelle riminesi dell’Ottocento

Minghini, il “Carlino” ed io18-23

DENTRO LA STORIAL’arca di Anna degli Agolanti

26-31OSSERVATORIO

Impressioni sul “Mistero Buffo”32-33

POLVERE DI STELLEVoci e Volti / L’ultimo Principe

34-35STORIA E STORIE

Dal diario di una nobildonna36

LIBRI“Vita illustrata di Sigismondo Pandolfo

dei Malatesti”“Inchinati al bacio della Sacra

Porpora” / “Il Conscoop in Egitto”“Intercity” / “Le pietre di Rimini”

“Guida alla Rimini di Fellini”“Duemila e una luna”

37-43MUSICA

June Gallagher / Arabesque44/45MUSEI

Il Museo Etnografico di Valliano46

TEATRO DIALETTALEMej ch’ne gnint

47ROTARY NEWS

Di tutto un po’49/52

A R I M I N V M

Corte �

o

TEMPO

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al 10 gennaio al 4 feb-braio si è tenuta al

Palazzo del Podestà di Riminila mostra Luigi Pasquini1897-1977, abbinata all’espo-sizione delle opere vincitricidell’estemporanea di pittura Icolori della città, svoltasi il 18marzo 2003 nell’ambito delledomeniche ecologiche orga-nizzate dall’Assessorato allePolitiche Ambientali delComune di Rimini.L’estemporanea, alla suaseconda edizione, era appuntointitolata al noto pittore rimi-nese, al cui omaggio è statadedicata la mostra, promossadall’assessorato, realizzata daAnonima Talenti ed a cura diMichela Cesarini.Personaggio di spicco dellacultura riminese delNovecento, Luigi Pasquini ènoto per la sua attività pittori-ca, grafica, letteraria e giorna-listica. Dagli anni Venti finoalla morte ha partecipatointensamente alla vita cittadi-na, diventandone un punto diriferimento importante.Autore di apprezzati articolied elzeviri usciti sia su giorna-li locali che su quelli regiona-li e nazionali, ha pubblicatoromanzi e racconti a sfondoautobiografico, tra cui il piùcelebre è Il podere sulla lineagotica (1951). Apprezzatooratore, ha tenuto discorsi insvariate occasioni pubbliche,ha preso parte a commissionie delegazioni ed ha intrattenu-to una fitta corrispondenzacon personaggi ed artisti

importanti tra cui MarinoMoretti e Manara Valgimigli,Alberto Bianchi e PieroGuardigli Bagli.Della poliedrica attività artisti-ca di Pasquini è nota soprattut-to quella pittorica, che si è

avvalsa quasi esclusivamentedell’acquerello, impiegato conmaestria e preferito in quantoconsentiva una pittura lumino-sa, lucente e sbrigativa, piùvera delle altre perché nonammette pentimenti.La natia Rimini è stato uno deitemi importanti della sua pit-tura. Non c’è angolo dellacittà che non sia stato immor-talato varie volte dal Pasquininel corso della sessantennaleattività. Non solo le principalipiazze ed i suoi monumentipiù noti rivivono con metico-losa verità nei suoi grandifogli acquerellati, composti darapidi tocchi dalle brillanti

cromie. Anche le piccole piaz-ze ed i vicoli del nativo BorgoSan Giuliano e soprattutto ilporto, con il faro e le scompar-se bilance da pesca sono i pro-tagonisti delle sue vedute, chemostrano zone suggestiveanche di altre località, spessoluoghi in cui l’artista ha lavo-rato, come la Repubblica diSan Marino e Spoleto.Altro tema preponderantedella sua pittura è stata la casacolonica ed il podere diVergiano, divenuto nel dopo-guerra il luogo privilegiato incui trascorrere l’estate immer-so nella lettura, nella scrittura,ricevere gli amici ed i perso-naggi importanti che gli face-vano visita.Paesaggi della Valle delMarecchia, con le aspre cimefortificate e le strade che siinerpicano fra gli alberi, oppu-re della dolce campagna roma-gnola, con gli assolati campicoltivali, i covoni e le aie con

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ARTE

A R I M I N V M

RICORDANDO LUIGI PASQUINI /LA MOSTRA

PITTORE E GRAFICO ROMAGNOLOMichela Cesarini

6

D “Non c’è angolo

della città

che non sia stato

immortalato

da Pasquini

nel corso

della sua sessantennale

attività”Pasquini dipinge la casa Pascoli

a San Mauro, 1955, Archivio fotografico

della Biblioteca Gambalunga.

Piazza Cavour,acquerello, anni ‘60, collezione privata.

Bagnanti a Rimini, acquerello, 1969 circa,

collezione privata.

“La mostra allestita

negli ampi spazi

del Palazzo

del Podestà

ha inteso documentare

sia la nota attività

pittorica del Pasquini...

...sia la sua feconda

attività grafica,

attraverso fotografie

del tempo,

disegni autografi,

cartoline postali

ed incisioni”

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gli animali in libertà, manife-stano il forte attaccamentodell’artista alla tradizioneruralista. Fonte di ispirazionedi questa pittura è innegabil-mente quella del verucchieseNorberto Pazzini (1858-1937), uno dei primi a dipin-gere en plain air con senti-mento, influenzando la gene-razione successiva dei pittoridel territorio riminese.Fedele agli stessi temi figura-tivi della veduta urbana e delpaesaggio per tutta la lunga eprolifica attività dalla metàdegli anni Dieci alla fine deglianni Settanta, Pasquini è statouno degli artisti più conserva-tori del Novecento riminese.Ostinatamente contrario all’a-strattismo, ha espresso attra-verso la stampa severi quantoanacronistici giudizi.Facilmente comprensibile neitemi ed accattivante nei colorismaglianti, la sua manierafigurativa ha da sempre riscos-so un notevole successo, comedimostrano le numerosemostre personali da lui orga-nizzate, fin dagli esordi dellasua carriera, in diverse cittàitaliane (Rimini, San Marino,San Mauro Pascoli, Riccione,Milano, Pavia, Verona eSpoleto). Le mostre furono inalcuni casi personali ed inaltre collettive, al fianco diimportati artisti riminesi eromagnoli, da Elio Morri aEmo Curugnani, da AnacletoMargotti a Luigi Servolini a,soprattutto, Edoardo Pazzini.La mostra allestita negli ampispazi del Palazzo del Podestàha inteso documentare sia lanota attività pittorica delPasquini, gelosamente custo-dita e mostrata con orgoglio innumerose abitazioni riminesi,sia la sua feconda attività gra-fica, attraverso fotografie deltempo, disegni autografi, car-toline postali ed incisioni.Note sono le xilografie dedi-cate a Rimini ed in particolareai suoi monumenti, dall’Arcod’Augusto al Ponte di Tiberio,al Tempio Malatestiano, allaFontana della Pigna, utilizzate

quali copertine ed illustrazionidi “La Piè”, “Ariminum” edalcune riviste balneari. A que-ste incisioni di grandi dimen-sioni si affiancano gli ex libris,le cartoline pubblicitarie e gliannunci di nascita e di matri-monio. Numerose le xilografiededicate a San Marino, com-piute durante la sua residenzanella Repubblica per svolgere

l’incarico di insegnante didisegno al Ginnasio-LiceoGovernativo.Abile disegnatore, soprattuttonegli anni Venti e TrentaPasquini si è dedicato ancheall’illustrazione di libri, fra cuiquello di Guglielmo BilancioniA buon cantor buon citarista(1932).Attratto dalla vita mondana e

cosmopolita della Rimini bal-neare ante seconda guerramondiale, ha collaborato conalcune delle numerose rivistebalneari che uscirono in queglianni. Fra i disegni autografi ivipubblicati e presenti in mostra,parte del cospicuo fondo dellaBiblioteca Gambalunga intito-lato all’artista grazie alladonazione della moglieFelicina Perilli nel 1991, siricordano quelli a china, quasifotografici, degli alberghidella marina e la gustosa cari-catura di Addo Cupi del 1922,che fa il verso al noto manife-sto di Dudovich per la stagio-ne di quell’anno.La mostra è corredata da uncatalogo che raccoglie, oltreal saggio critico ed alla bio-grafia dell’ autore, le fotogra-fie a colori delle opere espo-ste, prestate da collezionistiprivati, da istituti bancari e daimportanti istituzioni cultura-li, quali la BibliotecaGambalunga ed il Museodella Città di Rimini, il Museodi Stato e la Galleria d’ArteModerna e Contemporaneadella Repubblica di SanMarino, la FondazioneDomus Pascoli di San Mauro.

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ARTE

A R I M I N V M

Bar Albergo Ostenda, china su carta, 1927,

Biblioteca Gambalunga.

7

1973. Mostra del pittore Magnanelli al Circolo Filatelico di Rimini. Pasquini al centro della foto inconversazione con Cumo.

Tempietto di Sant’ Antonio, xilografia, 1929,

collezione privata..

La tettoia e i fiori (Vergiano),acquerello, collezione privata.

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medeo carissimo, vani-tà delle vanità, ecco la

copia della lettera di cui ti hoparlato per telefono. Mettilafra le tue carte per il giorno delGran Viaggio e perché certunisappiano che non sono statodel tutto pataca nel giudiziodegli altri. A te ed alla tuasposa, ad Andrea ed a Luca, ilsaluto del tuo Gigino”. Cosìmi scriveva l’amico fidatissi-mo Luigi (Gigino) Pasquini il14 gennaio 1971, quando ilmio terzo figlio Marco non eraancora nato ed il suo “GranViaggio” era ancora distantesette anni. La lettera a cuiGigino alludeva con tantoorgoglio era di AlbertoGiovannini direttore de “IlGiornale d’Italia” che definivala collaborazione di Pasquinicome “un privilegio a cui nonintendo rinunciare”, una lette-ra simile alle tante altre checostellano la biografia delfamoso artista concittadinoparticolarmente ricca di rico-noscimenti ed onori, fra cuipiace ricordare la Presidenzadella Associazione Giornalistie Scrittori Riminesi (AGESR)che segnò l’apice dell’autono-mia e autorità degli scrittorilocali. Negli ultimi vent’annidella sua vita Gigino, fuggen-do l’invidia bolognese avevatrovato nella mia redazioneriminese de “Il Resto delCarlino” la sua famiglia diestimatori e di amici. Quandostava nella sua casa di città (aVergiano aveva il famosopodere sulla Linea Gotica)ogni mattina passava da noi asfogarsi con me nella libertàd’espressione più assolutaAndavamo molto d’accordoperché anch’io ero nato nelBorgo S. Giuliano, borgo dianarchici e socialisti umanitaridi cui egli aveva delineato leluci e le ombre, modellandolecon il sorriso. Mescolava ildolce dei suoi successi con

l’amaro degli amici del CaffèVecchi, noto come “caffè dellamenopausa”, che ostentavanonei suoi confronti la solitaindifferenza riminese. D’altraparte non era un suo parentequell’Elio Pasquini, ‘e Nin’,che al Fellini fresco vincitoredell’Oscar chiedeva: “Oh

Federico, cosa fai adesso?” Edio stesso posso testimoniareche ad una grande festa alGrand Hotel, quando Federicodalla sua suite scese nella hall,nessun riminese lo guardò,con grande stupore del criticodel Carlino che mi accompa-gnava. “Ma non sanno che èFellini?” Potei solo risponder-gli. “Lo sanno. Quando saràmorto tutti si vanteranno diessere stati suoi amici”.Lo stile fresco e spontaneo diGigino, illuminato dalle diva-gazioni e dalle associazioni diidee più brillanti (e dai com-

plimenti più simpatici ed abil-mente accattivanti), risaltavaparticolarmente nelle brevinote con cui accompagnava ipezzi che mi portava in reda-zione. Una breve antologiapuò cominciare dal luglio1961. Presentandomi un arti-colo ed una foto sul Morgan ‘sPaint mi consigliava di accen-nare ai numerosi ospiti che glistavano d’attorno quandodipingeva, ecc, e concludevaelogiandomi per i miei pezzisul “Carlino” e sul “Corrieredella sera”, definendomi“bravo e tempestivo” per ladifesa del nostro turismo alpunto di meritare una meda-glia d’oro. Nel giugno 1965, inviandomiuna variazione sull’incendiodi Sant’Agostino (durante ilquale fra l’altro rimase distrut-to il famoso “organo dei bido-ni” costruito nel 1945 daitedeschi prigionieri nel lagerdell’aeroporto) mi scriveva “tiseguo gran lavoratore speciesui servizi antincendio sulCorriere e sulla Stampa”. Epiù tardi mi donò un suoacquerello della mia casa natiadel Borgo S. Giuliano, dedi-candolo ai miei figli perchèsapessero che il loro papà, l’a-mico carissimo Amedeo, eranato nella piazzetta Ortaggi.Quel quadro l’ho sempre con-siderato il diploma della miainvestitura ideale a “borghi-giano dell’Ordine del BorgoSan Giuliano” dal suo GranMaestro.Nel 1976, in occasione dellaPrima Comunione di Luca, miscrisse le parole che non homai dimenticato. “La ‘Sua’Prima Comunione ! Se benricordo è lui - Luca, fraAndrea e Marco - che diecianni fa veniva al mondo men-tre io stavo per andarmene. Eforse è stato egli stesso chenella clinica Villa Maria, dalpiano di sotto, volgendo gliocchi verso il piano di sopradove agonizzavo io, ha invoca-to da Dio la decennale prorogache si sta consumando tuttora.

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ARTE

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RICORDANDO LUIGI PASQUINI / L’UOMO E IL LETTERATO

IL MIO AMICO GIGINOAmedeo Montemaggi

8

A“ Piccola antologiadi scritti

di Pasquiniindirizzati

al capopagina riminesedel “Carlino”

Vergiano, Villa Pasquini. La redazione del “Carlino” negli anni ‘60 sul “Podere della Linea Gotica”. Da sinistra Dino Minghini, Edda e Amedeo Montemaggi, Felicina Pasquini, Duilio Cavalli e Luigi Pasquini.

Rimini, 1962. Inaugurazionedella Mostra del Film

d’Animazione. La redazione de“Il Resto del Carlino”.

Da destra Luigi Pasquini,Amedeo ed Edda Montemaggi,

Duilio Cavalli, Gianni Bezzi(seminascosto) e Dino Minghini.

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Immagina, dunque, tu e tuamoglie, e Andrea e Marco, conquale intima gioia io partecipia questa festa di Luca; e comeinsieme a mia moglie, sia pre-sente fra voi in spirito. Uncaro abbraccio.” Superato ilgrave pericolo Gigino si rimi-se al lavoro, ben sorvegliatodalla premurosa Felicina, perricordarmi il comune amico,l’anarchico Oberdan DeGiovanni nel trigesimo dellamorte. Nel gennaio 1967 miscriveva “E’ un freddo cane. Timando questa nota per un gio-vane meritevole. E’ il regalodella Befana”. E il 31, invian-domi un pezzo osservava:“Vedi i frutti dell’ozio?Trovaci tu un titolo ironicoche leghi insieme i PromessiSposi ed i consiglieri (aspiran-ti) dell’Azienda diSoggiorno”. Riferendosi agli“asterischi” che mi inviavaannotava. “C’è dentro di tutto,ma il tutto mi sembra vivo,attuale quotidiano, com’è lavita del giornale che vive ungiorno”. Poi a dicembre miinviava un pezzo in difesadella identità del Borgo S.Giuliano minacciato da unassurdo Piano Regolatore cheintendeva distruggere il bimil-lenario borgo celtico stipando-ne gli abitanti in una specie distia di polli d’allevamento. “Tiunisco la foto dello ‘squero’ e

gli appunti. Di essi serviticome se io te li avessi detti avoce. Ma poi fa come credi efarai, come sempre, bene”.Nel novembre 1968 interveni-va contro il Circolo Maritainche aveva scritto una letteraalla Domenica del Corriere(pubblicata da padre Fabretti)per stigmatizzare il Papa cheaveva ricevuto il presidenteamericano Johnson ed erastato zitto quanto il Ponteficeaveva ricevuto il russoPodgorni.Il 5 luglio 1970, “imboscato aVergiano dove me la passodipingendo, leggendo, ozian-do” mi mandava un pezzo di

“rievocazione del nostroBruno, all’anagrafe BrunoMarosi, scomparso in questigiorni, che dell’arte del buonmangiare fece il capolavorodella propria esistenza”. Nelmaggio 1973 mi scriveva chedalla vigilia di Pasqua si trova-va in ospedale. “Questa voltanon è il cuore a dar noia ma ilfegato, con complicazioni

epatiche. Te lo dico sottovoceperché desidero che rimangafra noi. Sono notizie questeche è bene non entrino in cir-colo”. Nel giugno successivosperava di poter tornare aVergiano per telefonare agliamici e intanto mi raccoman-dava un altro pezzo ironico,“Divieto di sosta o di buonsen-so”, raccomandandomi difarlo precedere dalla nota“scritto durante gli ozi forzatiai quali è costretto dall’ospe-dale civile”. Il 21 giugno1973, San Luigi, mi scriveva“Volevo farti telefonare da miamoglie per mandarti a diretutta la mia contentezza per ilpezzo ben centrato e con i tito-li straordinariamente indovi-nati, ma poi mi sono detto: quila mia riconoscenza per il mioAmedeo deve essere scritta.”Le lettere di Gigino continua-no per tutto il 1974, nel 1975,quando io lasciai il giornale, enel 1976 fino al 19 dicembrequando mandò gli auguri ame, a mia moglie ed ai mieifiglioli, “tenendomi stretto adessi ed alla loro infanzia e gio-vinezza, mentre con l’annoche viene io volgo all’occaso,al varco dei ‘quattro venti’”.Era un presagio. Il suo GranViaggio arriverà il 20 marzo1977, proprio al traguardo dei“quattro venti”.

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ARTE

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Borgo S. Giuliano (1972). Acquerello di Luigi Pasquini.

La casa natale di Amedeo Montemaggi

al centro, abbinata a alla casa Giolitto

ed alla casa di Pippo Ghinelli(il popolare pescatore Pipoun).

MEDITAZIONI di Ivo GigliARMIDO DELLA BARTOLA

Onda nel portoE’ una Rimini che trova nellamarina selvaggia di onde ner-vose, nel delirio del vento, nelleaccensioni di bianche spume,nel verde mare che acceca imoli in un lavacro possente ilsuo urlo liberante; l’onda frantache i solitari guardano negliinverni lunghi come un rito anti-co, sempre nuovo, sempre ecci-tante.

“Negli ultimi vent’anni

della sua vita Gigino,

fuggendo

l’invidia bolognese,

aveva trovato...

...nella mia redazione

riminese

de Il Resto del Carlino

la sua famiglia

di estimatori e di amici”

“Andavamo molto d’accordo,

perché anch’io ero nato nel Borgo S. Giuliano,

borgo di anarchici e socialisti umanitari

di cui egli aveva delineato le luci e le ombre,

modellandole con il sorriso”

“Lo stile

fresco e spontaneo

di Gigino,

illuminato

dalle divagazioni

e dalle associazioni

di idee più brillanti...

...risaltava

particolarmente

nelle brevi note

con cui accompagnava

i pezzi

che mi portava

in redazione”

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llo Showroom Giovagnoli Collezionidi via Strepponi 13, è stata allestita

una originale quanto suggestiva mostrache coniuga il tessuto con le più impor-tanti opere pittoriche di tutti i tempi. Sulletracce di Matisse, Chagal, Picasso ed altriartisti famosi sono stati realizzati ed espo-sti “quadri” di seta, lana e cotone: compo-sizioni che con i loro colori creano atmo-sfere pittoriche, suscitano emozioni e nelcontempo forniscono idee per la propriacasa, per rinnovare e trasformare il pro-prio ambiente, fino a farlo diventare quel-lo dei nostri sogni.Un gioco di seduzione, dunque, fattoattraverso l’utilizzo di tessuti, damaschi,broccati, tappeti. Protagonista di questa

fantasiosa mostra, aperta al pubblico tuttii giorni (festivi esclusi) dalle ore 9,00 alle12,30 e dalle 15,30 alle 19,30, è il colorenelle sue “proposte” classiche e moderne.Hanno contribuito alla rassegna ChristianFischbacher, Creation Baumann, CreationMetaphores, Castello del Barro, DecortexFirenze, Dedar, Designers Guild, Etro,Lisio, Mann 6 Rossi, Nobilis,NyaNordiska, Pierre Frey, Rubelli, SahcoHesslein, Creazioni Jab, Verel de Belval.Nelle immagini (Foto Bove) alcuni scorcidella mostra “Tessuti e Colori” e dellagiornata inaugurale (22 novembre 2003).

GENNAIO-FEBBRAIO 2004

ARTE

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ALLO SHOWROOM GIOVAGNOLI MOSTRA DI “TESSUTI E COLORI”

SUGGESTIONI PITTORICHEUN ORIGINALE VIAGGIO TRA DAMASCHI, BROCCATI E TAPPETI

Emiliana Stella

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A

MEDITAZIONI di Ivo GigliSILVANO D’AMBROSIO

Senza titolo, 1993Emergono dalle tenebre come lemu-ri immobili ed esitanti le cose nellastanza di D’Ambrosio; sorgono,appaiono attoniti alla luce larvaleche li tocca con estremo tatto, impre-gnati ancora di buio, il tavolo, latovaglia, il piatto, lo specchio in altosul muro e, ancor più impalpabili elabili, anche un mobile e un quadroalla parete. Sono personaggi taciti,ammutoliti, non si sa se spenti ormaidopo passate vicende o ancoraindugianti prima di entrare nellavita.

“Sulle tracce di Matisse, Chagal,Picasso ed altri artisti famosisono stati realizzati “quadri”

di seta, lana e cotone...

...composizioni che con i loro colori creano atmosfere pittoriche,suscitano emozioni”

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l pittore Mirro Antonini sispense in una lattiginosa

giornata invernale il 17 gen-naio 1998. L’avevo conosciutotanto tempo prima, penso fos-sero i primi anni sessanta.L’incontro avvenne per caso aRiccione. Si era appena con-clusa una corsa ciclistica.Niente di importante, si tratta-va di una garettina di paesealle quale avevo partecipato.In un finale caotico, mentre inun arlecchinesco guazzabugliodeflagravano poveri, irruenticonflitti, ero riuscito, sicura-mente in maniera ranciosa esbircia, a mettere la mia ruotadavanti a tutte le altre. Stavoricevendo, sull’improvvisatopalco, il premio spettante alvincitore, quand’ecco, irrom-pere una sorta di zampanò dabettola, il quale, in preda aduna folle ipercinesia, vomitan-do un fiotto feccioso di volga-rità, di bestemmie, di arruffa-te, incongrue intimidazioni, siappellava ai giudici, minac-ciandoli quasi, affinché invali-dassero la mia vittoria: ”Iaa’ho vest tott! E nomer disetl’ha tnut per la maia e curidorcl’è arvat sgond! Al duvìsqualifichè!” Andò a finireche, dopo un frenetico conci-liabolo, la giuria mi declassò.Fu in quell’occasione che feciconoscenza con questo ignivo-mo pittore di Secchiano, chenei mesi estivi, diguazzandosvogliatamente con pennelli e

colori, taverneggiava, dispu-tando con affannosa loquacitàsu qualsiasi argomento, in unaRiccione ignorante ed assetatadi guadagno.Diventammo amici. Il perso-naggio mi incuriosiva. Daisuoi racconti emergeva unagiovinezza indocile, il noma-dismo, la trasgressione, inol-tre, per un irrefrenabile biso-gno di protagonismo, Mirro,era portato a formulare giudiziparadossali, spesso diverten-tissimi, altre volte decisamen-te dissacratori oltre che bizzar-ri. A codeste peculiarità Mirro,aggiungeva un’enorme caricaumana ed una straripantegenerosità. Ero giovane ed ilpersonaggio mi affascinò. Lasua casa, a Secchiano, un pae-sino a pochi chilometri daNovafeltria, divenne un miocostante riferimento. In segui-to, fui ammesso a parteciparedel suo lavoro, della sua arte.Con ritrosia, Mirro, mi feceentrare nello studio e uno allavolta mi mostrò i suoi quadri,i suoi disegni, i suoi abbozzi. Itemi erano sempre gli stessi: ilfiume (il suo Marecchia), uncasolare abbarbicato su ungreppo, nature morte conoggetti umilissimi, alberi tor-mentati che si perdevano ininformi macchie di colore,agglomerati urbani fitti comealveari. Mirro, per tutta la vitasi è nutrito di questi soggettied in ogni sua creazione aleg-giava una poesia struggente,un lirismo essenziale che miha sempre fatto pensare a

Dino Campana. Era, quella delpittore di Secchiano, una pit-tura che non offriva mai unasensazione di appagamento, diintelligibilità immediata maera aspra, inquieta, sanguigna,umorale, a metà strada, tral’innocenza perduta e il disin-canto. Nel 2000, l’editore rimineseWalter Raffaelli, pubblicò uninteressantissimo libro suMirro. Codesto volume, cura-to da Luca Cesari, ha messo,senz’altro ordine nella caotica,magmatica produzione del-l’artista. Nel saggio introdutti-vo, Luca Cesari, aveva scritto:“Per l’affetto che gli abbiamoportato in anni di amicizia,terremo qui un discorso che, adifferenza del passato, vuolerinunziare –almeno per quelloche può– al tema concomitan-te dell’uomo, per affrontarecon franchezza solo quellodella pittura”. Per parte mia,ritengo che volendo analizzarela pittura di Mirro, sia impos-sibile non parlare dell’uomo.Nella sua continua, furiosa,addirittura patetica fuga dal-l’ordinario, dal normaleMirro, giunse all’espressavalorizzazione del diverso,dell’eccentrico (dipingere sufogli di giornale), immettendonelle proprie opere un indele-bile, imprescindibile inter-mezzo autobiografico, dalquale è obbligatorio partireper qualsivoglia opération àrebours. “Ero pittore, mi con-sideravano poco più di unimbianchino”, aveva dettoMirro a Walter Raffaelli chel’aveva intervistato per il setti-manale diocesano “Il ponte”.Nonostante il suo apparireispido, rabbuffato, scostante,Mirro, ha sempre desideratoessere accettato. C’era in luiuna necessità di affetto che loportava, quasi in un freudianoregressus ad uterum, a dipin-gere un reticolo sinuoso di

case sbilenche, le une addos-sate alle altre, come volessecercar rifugio nella malcerta,pencolante, ma sicuramenteprotettiva, architettura di un“ghetto”. In questa ottica sispiega anche il di lui “comuni-smo” che non era certamenteun’adesione ortodossa all’i-deologia marxista. Il suo esse-re comunista lo portava inevi-tabilmente a mischiare Stalincon Bakunin, il cristianesimodi don Zeno col trotszkismo,la statura intellettuale diGramsci con il magistero didon Milani. Certo, Mirrocome Vittorini, nella “lettera aTogliatti”, avrebbe potutodire: “Non aderii ad una filo-sofia iscrivendomi al P.C.I.Aderii ad una lotta e a degliuomini... ho voluto entrare nelPartito Comunista per esserecon i soli che fossero buoni einsieme coraggiosi e nondisperati, non avviliti, nonaridi, non vuoti”. Demos

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PERSONAGGI

A R I M I N V M

MIRRO ANTONINI

IL PITTORE DI SECCHIANOEnzo Pirroni

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I

Mirro Antonini

“Mirro era

‘un cattolico integralista

che bestemmiava’...

...Nessuno meglio di lui

sapeva parlare

di pittori

e di artisti del passato”

“Dai suoi racconti

emergeva

una giovinezza indocile,

il nomadismo,

la trasgressione,

inoltre,

per un irrefrenabile

bisogno

di protagonismo,...

...Mirro,

era portato

a formulare giudizi

paradossali,

spesso divertentissimi,

altre volte

decisamente

dissacratori

oltre che bizzarri”

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Bonini, che pure lo amava estimava soleva dire, con lasolita caustica, sferzante iro-nia, che Mirro era “un cattoli-co integralista che bestemmia-va”. Il nostro artista, per tuttal’esistenza, ha cercato di col-mare il vuoto dei fati calami-tosi con una sorta di furia pit-torica. Quanto più il disagio,l’orrore, la delusione politica,gli crescevano d’intorno, tantopiù avvertiva il bisogno di tra-sformare in atto creativo la suaesasperante tensione, come setutte le minacce che da ognidove la storia gli lanciava con-tro, altro non producessero inlui che un nuovo stimolo perdipingere. Per questa ragionele strade battute, nel corsodella sua lunga vicenda esi-stenziale, sono state parecchie,pervenendo, soltanto alla finedegli anni sessanta, ad un pro-dotto pittorico che andavaoltre la dicotomia tra figura-zione ed astrazione. I suoipennelli, ma anche i temi sierano fatti aspri, inquieti.Credo che in lui fosse soprag-giunta la certezza che la pittu-ra non avrebbe potuto cambia-re di una virgola il mondo. Lapittura, ormai ne era certo, nonconteneva l’essenza dell’elle-boro per debellare la pazziadegli uomini. Si spiegavano,dunque, quei “paesaggi scon-tornati da miraggi musicali”,le “sequenze livide e scabretra svogliatezze e sospensio-ni”, la scontrosa solitudine,l’isolamento, il lungo, pertina-ce silenzio. Ormai, dipingevasenza più orpelli, né appiglisocio-politici. Schiacciato dalpeso della sconfitta, dopo ledispersive, quanto necessarieestati riccionesi, (gli avevadetto quell’ignorantissimobagnino: Mirro, t’at tsi sbajè.Us scriv GABINA. Te t’è screttCABINA. Ved ad curregg !) neilunghi inverni in cui “la nevesi posava come una pezzafredda sul borgo indolenzito”,rovistava con smagato pudoretra i ricordi (l’esperienza ligu-re nel ’43, i Festival deL’Unità in tutt’Italia, le Fiere

Campionarie a Milano, leriunioni in pista alVigorelli…) e cominciava araccontare… Lo so per espe-rienza diretta: i poveri, chehanno avuto poche occasionidi viaggiare, che del mondohanno visto soltanto ciò chec’è oltre la porta di casa, sannoessere dei raccontieri insupe-rabili. La concezione narrativadi Mirro lasciava poco spazioall’infimo piacere della identi-ficazione, all’ottusa virtù dellaverità. Come per tutti i grandiaffabulatori, anche per Mirro,la materia prima dell’arte nar-rativa era la fantasia. Avevascritto Vladimir Nabokov:“Definire una storia una storiavera è un insulto all’arte e allaverità. Ogni grande scrittore èun grande imbroglione”. Hosempre saputo che la ricerca diuna vita reale, di persone reali

in un racconto è un’operazio-ne inutile, pertanto mi lasciavotrasportare dalle rievocazionidel mio amico. Riassaporavole emozioni di quella Milano-Sanremo del 1951, allorchéMirro mi raccontava di comeLuison Bobet e PierreBarbotin, suo fedele valletnella “Stella” di Nantes, unicifrancesi al via, perduti nelventre di un gruppo di 182corridori, si fossero liberati ditutti gli avversari sulle rampedel Capo Berta, a trenta chilo-metri dall’arrivo e si fosseroavviati, in solitudine verso iltraguardo e di come, dopoaver scollinato, prima di get-tarsi nella breve, tortuosadiscesa, Pierre Barbotin aves-se forato. La crevaison eraavvenuta a poca distanza daMirro, il quale non esitò unattimo a togliere dalla propriabicicletta (l’aveva costruitaGuido Paolucci, meccanico diNovafeltria, morto da poco) laruota posteriore per passarlaallo sfortunato Pierre, il quale,grazie a quell’intervento prov-videnziale riuscì a concluderela Classicissima di Primaveraal secondo posto, alle spalle diLuison Bobet. Da quel tipooriginale che era Mirro, sape-va inserire, con sublime impu-denza, nella struttura dei suoiracconti personaggi ed azionireali, verosimili o inventate. Inme restava il piacevole traumadella finzione artistica ed

incantato ne accettavo le rego-le, le convenzioni, la fascinosasimulazione. Nessuno megliodi lui sapeva parlare di pittorie di artisti del passato.Ascoltarlo significava dissol-vere le sepolcrali cupezze conle quali i critici sono solitiavviluppare le loro erudite,stucchevoli storie, significavafar risuscitare da una catalessidi tomba personaggi e figure.Era capace, con pochi tratti direpentina chiarezza, di resu-scitare antiche e gloriose cittàrinascimentali, per le vie dellequali, la tetra, stortignaccolasiluetta di Michelagnolo riap-pariva, per incanto, avvolta inun nero mantello, quasi rievo-cata da una bokliniana “isoladei morti”. Con lui, forando lenebbie del tempo, dense comesugna, era possibile entrarenella bottega di PietroPerugino, e tra tele raffiguran-ti languide madonne, stucchiornamentali, studi, cartoni, erapossibile perdersi in “piacevo-li conversari” con Giovanni daUdine, Giulio Romano,Pierino del Vaga, Pellegrino daModana, Polidoro daCaravaggio, Vincenzio da SanGimignano, tanta era la fami-liarità con la quale Mirromaneggiava la storia dell’artee i ferri del proprio mestiere.(Per questo e non soltanto perquesto, starei molto attentoprima di parlare di Mirrocome di un pittore incolto,barbaro, naive). Credo se nesia andato incazzato come erasempre vissuto. Ad ogni inizio di primavera,allorché, ubbidendo più ad unrichiamo che ad una realenecessità, passo in biciclettadavanti alla sua casa, propriosulla via Marecchiese, gettan-do lo sguardo a quella scala dilegno sovrastata dal noce fron-doso, mi vengono in mente iversi di una poesia di GregoryCorso: No sign, of Spring! Nosign! / Ah, Botticelli opens thedoor of is studio. La portadello studio di Mirro si èormai chiusa per sempre.

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PERSONAGGI

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MEDITAZIONI di Ivo GigliLUIGI POIAGHI

Interpunzione, 1993Un messaggio forse, forse unacondanna o uno scherzo singo-lare la netta apparizione perni-ciosa, non annunciata, sinistrae pura dalla punta acuminatis-sima che termina all’infinito; illungo labirintico giro esatto efatale del bianco nastro chel’ha generata è su di uno sfon-do sanguigno in perfetto accor-do con l’aculeo che ci feriscesubdolamente.

Mirro, Paesaggio, 1976 (olio su tela) cm. 30x40

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e dopo i calori della tra-scorsa estate si riesce

anche vagamente ad immagi-nare la rovente vampa del soleche in quella soffocante estatedel 1942 aveva tormentato ilnostro Corpo di spedizione inAfrica Settentrionale, è moltopiù arduo figurarsi come siastato possibile, per i nostri sol-dati, riuscire a sopportare tuttoquello che Giulio Bedeschi –ilTenente Serri di “Centomilagavette di ghiaccio”, un libroche tutti dovrebbero leggere- èriuscito a descrivere con tantasemplicità, umanità e crudez-za in quello splendido diarioche descrive giorno dopo gior-no l’epopea ed il dramma diuna compagnia di artiglieriada montagna appartenente allamitica divisione Julia nel qua-dro delle vicende del nostrocorpo di spedizione sul fronteorientale. Riesce infatti diffici-le credere come dei ragazzipoco più che ventenni, degliuomini, persone come noi,insomma, abbiano potuto sop-portare con il loro inadeguatoequipaggiamento un clima tal-mente duro (durante l’inverno1942-1943, il termometrotoccò quasi costantementetemperature fino ad oltre 40gradi sotto zero) dovendoanche combattere per mesi, digiorno e di notte, attaccandocon successo dapprima edifendendosi con disperatoaccanimento poi, prima chel’impari armamento, la spro-porzione incolmabile con leinesauribili e soverchiantiforze nemiche li costringesse-ro a ripiegare. Né la “ritirata”fu meno eroica, visto che lenostre truppe, inseguite, mar-toriate, pressoché prive dimunizioni e di appoggio, deci-mate dal gelo e dallo sforzodisumano del cammino inin-terrotto nella neve e nel ghiac-

cio, senza riposo né riparo,senza cibo, riuscirono a sfon-dare per ben undici volte gliimpietosi sbarramenti avver-sari sino a raggiungere esau-ste, decimate, la nuova lineadel fronte a più di 1.000 chilo-metri dal Don dopo settantagiorni di marcia. Si capirebbe,così, quanto meritarono, quan-to patirono e quanto sia statoingiusto dimenticare, per tantotempo, il ricordo dei lorosacrifici. Nel quadro dellanostra ricerca non potevaquindi mancare il racconto diun testimone di quegli eventi,riuscito ad uscire vivo da quel-l’inferno.Arcangelo Zavatta mi accoglienella “hall” dell’albergoMirage, di Bellaria, che gesti-sce con la famiglia, come nellamigliore delle tradizioni dellanostra riviera. Occhi vivaci,baffetti alla Clark Gable,ricordi vivissimi –solo un po’di difficoltà per quelle impro-nunziabili località russe chesegnarono la storia del VIBersaglieri nel quale con

orgoglio si picca di aver mili-tato-, tanta voglia di parlare evisibile soddisfazione peresser finalmente ascoltato dachi ha tutta l’intenzione di rac-contare la sua vicenda.Arruolato il 25 gennaio del1940 -avevo vent’anni, bellaetà!- fui inviato alla caserma”Manara” di Bologna per losmistamento e fui assegnato alXIII Battaglione, 13°Compagnia del VI ReggimentoBersaglieri; Bersaglieri cicli-sti intendo. Sa come era unabicicletta da bersagliere?Sellino di cuoio rigido,gomma piena, scatto fisso,forcella porta fucile, duracome un sasso; e con quelladovevamo fare decine e decinedi chilometri, spesso se nonsempre, su strade impervie edaccidentate, quando andavabene. Pensi che alla primadestinazione –San Cataldo, inSicilia- fu messa in palio unalicenza per il primo che fossearrivato fino a Caltanissetta,con ordine, però, di tornare apiedi. Caltanissetta è altacirca 700 metri ed io arrivaiprimo (arrivammo solo in tre,fra tutti), ma scesi in sella alla

mia bicicletta disobbedendo aquell’ordine. Per di più loscatto fisso mi tradì e finiiquasi per investire ilColonnello, che mi stracciò lalicenza sotto il naso! Poivenne il 10 giugno e l’entratain guerra. Prima destinazioneoperativa, Fiume: l’italianis-sima Fiume ripresa agli slaviin soli quattro giorni di com-battimenti. Per congratularsied ispezionare le truppe ed iterritori riconquistati venneaddirittura il Re che passò conuna bella berlina scoperta difianco al nostro Reggimento,mentre stava sfilando in bici-cletta. Non ci crederà: fratanti che eravamo, fece cennoproprio a me di avvicinarmialla macchina, facendone ral-lentare l’andatura; manovrache subito eseguii, tenendomipoi attaccato allo sportello epercorrendo, così, un tratto distrada fra lo stupore del miodiretto superiore, il TenenteSega, che mi gridò che miavrebbe punito; ma il Re, chemi stava chiedendo della vitadi noi soldati semplici, midisse: “Non preoccuparti, cipenso io!” E infatti nessunoosò punirmi! Questo TenenteSega (poi pluridecorato) par-lava tedesco e sloveno. Unavolta eravamo di pattuglia maci ritrovammo circondati daun numero assai superiore dicivili apparentemente ostili.Sega li convinse a lasciarciandare sostenendo che ci era-vamo perduti e che non aveva-

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A R I M I N V M

PER NON DIMENTICARE / LA CAMPAGNA DI RUSSIA

“QUEL GELO CHE NON CI DAVA TREGUA”ARCANGELO ZAVATTA RICORDA LA SUA AVVENTURA NELL’ARMIR

Gaetano Rossi

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S

Campagna di Russia. Foto ricordo

di un gruppo di Bersaglieri del VI Reggimentoin “libera uscita”.

Il bersagliere Arcangelo Zavatta.

“Venivo dal fronte

ed ero

appena 35 chili

contro gli 80

della partenza”

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mo compiti offensivi. Finironoaddirittura per spiegarci lastrada! D’altronde, almenoall’inizio, per quanto ne so,anche noi eravamo compren-sivi. Io, per esempio, ricordoche ai posti di controllo nontrattenevamo mai le donneanche quando sapevamo cheportavano viveri ai partigiani.Dopo circa dieci mesi vennel’ordine di rientro in Italia equello di partenza per laRussia, dove saremmo andatia rilevare un settore difeso daiTedeschi (Il 25 gennaio del1942, trasformato da ciclista areggimento autocarrato, il VIBersaglieri partì per la Russiasu nove convogli ferroviariper confluire nella IIIDivisione Celere, compostadal III –prevalentemente lom-bardi-, dal VI Reg.to.Bersaglieri -prevalentementeromagnoli- e dal 120° Reg.to.Artiglieria a Cavallo Carriveloci “San Giorgio”, condestinazione al settore centra-le dell’offensiva, fra le divi-sioni Torino e Sforzesca, earrivo alla stazione di Uman,in Ucraina). Appena scendem-mo dal treno, riordinate lefile, ci spedirono subito alfronte. La prima notte –ero diguardia con il mio amico AldoGarattoni, di Santarcangelo,tuttora vivente- saranno statele due, vedemmo muoversimolte sagome oltre le primedifese, a poche decine di metrida noi; demmo l’allarme ealla luce dei bengala vedem-mo per la prima volta i russi.A gruppi venivano in avanticoi “pepescià” (mitra) a tra-colla, tagliando i fili del gro-viglio di reticolati che proteg-geva la prima linea. Scoperti,iniziarono un fuoco d’infernoed io, con il mio amico Aldo,rimanemmo isolati. Cosapotevamo fare con i nostrimoschetti ’91? Ci abbrac-ciammo vedendo prossima lanostra fine, mentre i russi,incuranti di quanti di loromorivano, continuavano concalma a tagliare con le pinze ifili spinati. Ci vedevamo già

finiti quando, assordante,arrivò la prima salva dellanostra artiglieria che conmiracolosa precisione finì suirussi delle prime file, seppel-lendoci di neve ed aprendo deinotevoli vuoti fra loro. Il con-trattacco che ne seguì imme-diato, li mise in fuga e fummosalvi. Dopo questo “benvenu-to” ci spostammo in avanticon i camion (erano i FIAT626, progettati per l’Africa)partecipando alla conquistadi Ivanowka e passando ilfiume Dnieper (Nipro, venivachiamato dai soldati) dopoasprissimi combattimentidurante i quali riuscii anche afare alcuni prigionieri: dodici,per la precisione. Noi e i tede-schi avevamo grande difficoltàcon le armi. Il gelo ne blocca-va il funzionamento (in effettiil gelo fu il peggiore nemicodei nostri soldati: temperatureche, durante i mesi invernali,raggiungevano ordinariamentei 20-30 gradi sotto zero in queimesi giunsero, di notte, sino a

45-47 gradi tanto che persinomolti cavalli e muli morironoassiderati; spesso i soldati ave-vano solo una coperta perripararsi e una manciata dipaglia per dormire sulla neve;anche minestrone e vino veni-vano distribuiti in blocchighiacciati); invece quelle deirussi, più rozze e più semplici,funzionavano sempre.Imparammo che le lubrifica-vano con la vodka mentre noi,con l’olio, credendo di farbene facevamo peggio.Finimmo a volte per tentare discaldarle con... l’urina, maera in rimedio che duravapoco, visto il freddo. Oltre aisoldati russi poi, avevamoanche il problema dei parti-giani che non facevano prigio-nieri. Spesso trovammo bersa-glieri impiccati e spessoavemmo scontri diretti, ancheall’arma bianca. Sa, una cosaè sparare su qualcuno che tista sparando addosso magari

da lontano, ma una cosa è ilcombattimento con la baionet-ta, quando vedi negli occhiquello che vuole ucciderti edevi esser più veloce di lui.Non è un’esperienza piacevolema la legge di sopravvivenzain quei momenti ha la preva-lenza su qualunque altro senti-mento. E ci capitò più volte;una volta, in particolare,dovemmo lottare attorno adun cannone che i russi voleva-no portarci via. Campidelli,mio amico, a cavalcioni delcannone nonostante avesse lacanna rovente per gli spariravvicinati ad alzo zero, tenta-va disperatamente di infilarela spina che collegava l’affu-sto al trattore (il camion chetraina il cannone) per potercisganciare da quell’attacco;ma qualcuno dei loro, lottan-do, riusciva a toglierla; noiriuscivamo a sopraffarlo, sirimetteva la spina e così via,più volte, finché riuscimmo asganciarci da quella criticasituazione. Il fatto è che loroerano tanti e pareva che perloro la vita non valesse granche. Mandavano avanti le fan-terie fino a formare cataste dicadaveri prima di far arrivarei loro enormi ed indistruttibilicarri armati contro i qualinulla potevano i nostri anti-carro. Spesso erano asiatici: lidistinguevamo dagli occhi amandorla e il colore olivastro.Fatto è che erano inesauribili(i russi utilizzarono con estre-mo disprezzo per la loro vita,truppe richiamate dalle pro-vince orientali e caucasiche,per la sorte delle quali nutriva-no la massima indifferenza). Etanti ne vidi quella notte didicembre sul Don, a centinaia,sempre con il loro mitra a tra-colla quando ci accorgemmoche si avvicinavano e lan-ciammo i bengala, dando l’al-larme (la notte del 12 dicem-bre 1942 due intere Armate -laI e la VI – e ben tre Corpid’Armata corazzati -il rappor-to con le nostre DivisioniCossèria Ravenna Pasubio,

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Campagna di Russia.Bersaglieri del VI Reggimento.

“...ci spostammo in avanti con i camion

partecipando alla conquista di Ivanowka

e passando il fiume Dnieper

dopo asprissimi combattimenti durante i quali

riuscii anche a fare alcuni prigionieri:

dodici, per la precisione”

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Torino, Celere e Sforzesca checostituivano in quel settore latenue linea del lunghissimofronte a ridosso della riva delDon era shiacciante a favoredei russi- superarono il fiumeghiacciato, investirono e tra-volsero le linee con un attaccoad ariete dapprima in corri-spondenza delle prime duedivisioni, dilagando poi allespalle dell’intero schieramen-to). Fui preso dal panico escappai. Il terrore è un senti-mento che non puoi dominare.Ma fui fermato dal mio capita-no (Capitano Battilani) cheimperiosamente, pistola allamano, mi gridò: “Bersagliere,dove vai? Vuol dire perdere laguerra!” Mi ripresi. Sparaiper aria con il moschetto perreazione nervosa e mi fermai.Gli ufficiali riuscirono ariprendere il controllo dellasituazione e fu possibile osta-colare l’attacco, giusto iltempo per consentire alColonnello Carloni, coman-dante del VI, di coordinarel’ormai inevitabile ripiega-mento. Ma non si poté fare dipiù. Ripiegammo finendo in unpaese di retrovia occupato datruppe rumene, nostre alleate.Si diceva che il fronte fossestato sfondato anche nel lorosettore e che solo il Corpod’Armata Alpino (Tridentina,Julia e Cuneense), alla sini-stra del nostro settore, avesse

tenuto (In effetti le divisionialpine tennero eroicamente estoicamente il settore loroassegnato, per oltre un mese,provocando l’ammirazione deitedeschi e degli stessi russiche citarono gli alpini italianicome le uniche truppe rimaste“imbattute sul suolo diRussia”). Mi ritrovai sbanda-to, senza sapere dove andare.Tentai di approfittare diun’ambulanza tedesca di pas-saggio aggrappandomi al suospecchietto laterale, ma un

maresciallo che sedeva accan-to all’autista cercò di colpirmicon un pugnale e mi dovettigettare nel fosso. I tedeschi ciritenevano responsabili dellosfondamento ed il rapportocon loro si era deterioratotanto che raggiungendo un vil-laggio -io ed un altro bersa-gliere, un tal Tortora, diNapoli, sbandato come me-avemmo paura di entrare inuna di quelle “isbe” dall’in-terno delle quali sentivamo illoro parlare. Ne individuam-

mo una ,isolata, e chiedemmodi entrare per trovare un po’dicalore ma la donna che aprì laporta, come ci vide, si mise agridare gettandomi in facciaun pugno di semi di girasoleche stava mangiando. In quelmomento sopraggiunse allenostre spalle un tedesco colos-sale, con un cane lupo che simise a ringhiare e poi adabbaiare furiosamente. Avevopiù paura del cane che deltedesco anche se questo miaveva puntato la pistola allatesta minacciando di sparar-mi. Ci portò subito alla stazio-ne ferroviaria, consegnandociad un ufficiale italiano perchévenissimo fucilati. L’ufficialeassicurò che lo avrebbe fattoma non appena il tedesco sene fu andato, rimproverandociperché in due non eravamostati capaci di far fuori lui e ilcane, ci fece salire in fretta suun treno che trasportavacavalli e che tornava verso ilfronte, destinazione Gomel(centro di raccolta degli sban-dati, per la riorganizzazione diun fronte di difesa), racco-mandandoci di scendere aKiev e di presentarci immedia-tamente al locale Comando diTappa per non passare perdisertori. Cosa che facemmo,ritrovandoci in tanti, smarriti,sconvolti ,infreddoliti. Venniscelto, insieme ad altri ed

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Campagna di Russia. Il riminese Oraldo Prioli,Bersagliere del VI Reggimento,in divisa primaverile.

Campagna di Russia. Il riminese Oraldo Prioli,

Bersagliere del VI Reggimento,in divisa invernale.

Le foto, a corredo dell’articolo, appartengono all’albumdi famiglia del dott. Luigi Prioli il cui padre, Oraldo, par-tecipò alla Campagna di Russia nel VI ReggimentoBersaglieri composto in gran parte da romagnoli. I rimi-nesi Prioli e Zavatta, entrambi del VI, erano inseriti indue diverse compagnie.

“Spesso avemmo scontri diretti,

anche all’arma bianca.

Una cosa è sparare su qualcuno

che ti sta sparando addosso magari da lontano,

ma una cosa è il combattimento con la baionetta,

quando vedi negli occhi quello che vuole ucciderti

e devi esser più veloce di lui”

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inviato, anzi che al fronte, aBrest Litowsk, ai confini dellaPolonia a prestare servizio inun centro di disinfestazione(ufficiali e soldati non avevanopossibilità di lavarsi in quelclima polare; moltissimi, presiprigionieri, morirono nell’as-soluto disinteresse dei russi,per epidemie di tifo petecchia-le). Dopo un paio di mesi mimandarono in licenza. Venivodal fronte ed ero appena 35chili contro gli 80 della par-tenza. L’8 settembre mi trova-vo a Brisighella, presso unreparto di bersaglieri dove erostato mandato in convalescen-za. La sera successiva il capi-tano ci riunì aggiornandocisull’accaduto ed avvertendociche l’indomani un tenente ci

avrebbe portati a metterci adisposizione dei tedeschi percontinuare a combattere conloro. Ci fece capire di regolar-ci come volevamo, durante iltrasferimento! E così fu. A uncerto punto molti si sbandaro-no prendendo ciascuno la pro-pria strada. Scappai per lacampagna ed un contadino minascose in un pagliaio e midette abiti civili. Nascostosotto un carro agricolo giunsipoi al mercato di Savignano edi lì a casa, dove attesi la finedella guerra. Ne avevo vistatroppa e troppo dura e poi…quel gelo inimmaginabile chenon dava tregua… Sa? Ancoralo sento dentro, fino nell’ani-ma.

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L’aggressione alla Russia nasce dalla fondata convinzionedello S.M. Germanico che, nonostante il patto di amiciziae non aggressione la Russia, dopo la spartizione dellaPolonia, si preparasse ad aggredire la Germania, avendoammassato alle frontiere del Reich una enorme massaoffensiva. Per prevenire l’attacco, Hitler e lo S.M. ritenneroche rapide manovre in profondità, portate a compimentoda micidiali divisioni corazzate e motorizzate sottratte adaltri fronti, avrebbero avuto rapidamente la meglio anchedell’esercito sovietico. L’attacco fu portato su tre direzionidivergenti e questo fu il grave errore che portò alla impos-sibilità di coordinare le masse di manovra tedesche, por-tandole alla sconfitta, unitamente alle difficoltà degliapprovvigionamenti ed al tremendo gelo, come era avve-nuto per la “Grand Armee” di Napoleone. L’Italia avevapartecipato all’attacco con il CSIR (Corpo di SpedizioneItaliano in Russia) al comando del Generale Messe, forte di60.000 uomini. Gli Italiani, dall’agosto 1941, furono impe-gnati in continue battaglie nel bacino del Donec. Nel duris-simo inverno 1941 resistettero alle controffensive russepagando un altissimo tributo in termini di morti e feriti elamentando anche più di 3.000 vittime di congelamenti.Quando le truppe tedesche si trovarono in difficoltà, al’ini-zio del 1942 Hitler chiese a Mussolini l’invio di altre divi-sioni. Nonostante che l’invio di tale massa avrebbe resoingestibile la situazione rifornimenti e nonostante l’inade-guatezza degli armamenti ed il parere contrario delGenerale Messe, fu inviato un forte contingente di 4 divi-sioni di fanteria e 3 divisioni alpine, trasformato in armata(ARMIR) al comando del Generale Gariboldi per un totale

di 230.000 uomini, sulla base dell’errato convincimento chei tedeschi avrebbero avuto la meglio e che 200.000 uomini,sul tavolo della pace -come ebbe a dire Mussolini- avrebbe-ro giovato di più ai futuri interessi dell’Italia che non 60.000.Purtroppo il calcolo si rivelò errato, nonostante il valore deinostri soldati che per mesi attaccarono e contrattaccarono lepreponderanti forze sovietiche mai risultando inferiori, pervalore, coraggio, determinazione e tenacia, a nessuna delleforze in campo. Solo il cedimento del fronte nei settori rume-no ed ungherese ed una poderosa offensiva sul secondoCorpo d’Armata Italiano, tenuto dalle divisioni Cosseria eRavenna nell’inverno 1942-43 (si è calcolato che il rappor-to fra le forze impiegate era almeno di 6 ad 1, a tacere dellapreponderanza delle armi campali e dei possenti carri sovie-tici) portò alla frattura fra i collegamenti delle forze italo ger-maniche ed all’accerchiamento di una massa enorme dinostri soldati, nella grande ansa del fiume Don, ove si eraattestata la nostra VIII Armata su un fronte di oltre 250 chi-lometri.Nonostante tutto, una buona parte di quegli uomini -80.000circa- riuscì a sfuggire a quella morsa ripiegando versoovest. Decine e decine di migliaia, però, furono i nostricaduti, in combattimento, morti per assideramento, dispersie prigionieri. Fra questi, quasi tutti deceduti per le durissimee miserevoli condizioni di vita e di igiene nei campi di con-centramento sovietici, pochissimi riuscirono a rientrare vivi inItalia, dopo la fine delle ostilità. A questa ecatombe non fucome noto estraneo il disinteresse e, a volte, persino la com-plicità morale di chi, dall’Italia, avrebbe potuto intervenirestanti i rapporti di stretta amicizia ed ideologici con Stalin.

LA CAMPAGNA DI RUSSIA

ARCANGELO ZAVATTAClasse 1920. Arruolato (di leva) il 25.01.40, prima è dis-locato in Sicilia, poi partecipa alla Campagna diIugoslavia. Il 25 gennaio 1942, parte per la Russia, nellaIII Divisione Celere ed è aggregato al VI ReggimentoBersaglieri, XIII Battaglione, 13a Compagnia (la DivisioneCelere era composta da due Reggimenti, il III e il VI, que-st’ultimo costituito per la maggior parte da emiliano-roma-gnoli).

“Mi ritrovai sbandato, senza sapere dove andare.

Fui preso dal panico e scappai...

Il terrore è un sentimento che non puoi dominare.

Ma fui fermato dal mio capitano Battilani

che imperiosamente,

pistola alla mano, mi gridò:

“Bersagliere, dove vai?”

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ell’Italia degli ultimi annidel secolo scorso, liberale

e povera, percorsa da fremitidi insofferenza di segni diver-si, quelli della tradizione cat-tolica offesa dagli “immortaliprincìpi” (condannati con ilSillabo), e dalle “leggi eversi-ve”; quelli del nascente socia-lismo; e quelli che trovaronoespressione nei saggi diAlfredo Oriani, la Romagna“ribolliva con impeto -comeracconta Rino Alessi nellaColtellata- e rivelava il suomalessere economico e mora-le”.Affascinata da quelli cheAlessi chiama gli “apostolidella nuova età”, Bakunin,Cafiero, Andrea Costa, anchese le loro idee erano “piutto-sto confuse”, la Romagna “sene stava in disparte, dura,scontenta, rissosa, divisa infazioni, avversa alle nuoveleggi, al nuovo costumedemocratico, decisa a conti-nuare la rivoluzione, i repub-blicani per l’abbattimentodella monarchia, i socialisticollettivisti, e appendici anar-chiche, per il rovesciamentodell’ordine sociale”.Rimini, che nell’ultimo ven-tennio del secolo aveva menodi quarantamila abitanti, nonera più soltanto il luogo diriferimento dell’economiaagricola del suo contado, manon era ancora l’industria deibagni di mare, secondo lavocazione rivelatasi con l’a-pertura, nel 1843, del primostabilimento balneare e lacostruzione della stazione fer-roviaria, nel 1861.All’ombra del TempioMalatestiano, dall’Arcod’Augusto al Ponte di Tiberio,cari ai letterati romantici chevenivano dal Nord per il loro“viaggio in Italia”, la miseriaera molta. Torme di bambiniscalzi popolavano strade ster-rate e fangose, dedicandosi al

furto, alla rissa e all’aggres-sione, sovente armati di coltel-lo; si istruivano “nei postribolie nelle taverne” (L’Italia, 20dicembre 1887) e si candida-vano a popolare le case di cor-rezione.In questa Rimini Eva Bianchiconduceva giorno per giornola sua lotta per sopravvivere.Eva era la moglie di OresteRicciotti marinaio e garibaldi-no al quale aveva dato tre figliGiovacchino, detto Luis,l’Ernesta e la Virginia.Più garibaldino che marinaio,Oreste fu tra coloro che nonaccettarono il compromesso diTeano, fra l’Eroe e i Savoia.Se ne andò, come si dicevaallora, nelle Americhe (dondesarebbe stato rimpatriato piùtardi, vecchio e ammalato, aspese del Consolato).La povera Eva era rimastasola, con tre bambini cui prov-vedere, cosicché dovettearrangiarsi facendo la bagnina(che allora era una serva dispiaggia).Per i figli di Oreste, si profila-va un destino poco diverso daquello dei ragazzi che si aggi-ravano laceri e scalzi per lestrade della città. Ma provvi-dero ad essi due benefattori, ildottor Luigi Lazzari, cheavviò l’Ernesta agli studi ealla professione di ostetrica, euna nobildonna, che chiamòGiovacchino a Firenze e glifece frequentare le scuoleindustriali. La piccola Virginianon ebbe bisogno di soccorsi,perchè morì fanciulla.

Da Giovacchino, divenutomacchinista delle Ferroviedello Stato, e dalla moglie dilui, Maddalena Giammarco, dicospicua famiglia sulmonese,donna di grande personalità,di intelligenza acuta e rigoro-samente analfabeta, nacqueVirgilio, terzo di otto fratelli.Fra questi era Guido, pittore digenio che solo al crepuscolodella sua vita avrebbe ottenutoriconoscimenti, come l’assun-zione all’Accademia Tiberinae un buon successo di venditee di quotazioni dopo tanti suc-cessi di critica materialmentesenza vantaggio.A causa di una malattia dellaMaddalena, il piccolo Virgiliofu mandato a balia a Viserba,dove un giorno cadde dallebraccia della nutrice e riportòuna lesione alla colonna verte-brale che lo rese gibboso.Anche per questa ragione fuaffidato, con la sorella Iole,alla zia Ernesta, terziariadomenicana, che fu popolaris-sima e sarebbe morta in odoredi santità.Virgilio, terminate le scuoleelementari, non volle più stu-diare. La zia Ernesta lo mandòcome garzone presso un arti-giano che gli faceva tirare uncarretto, lavoro faticoso perqualunque adolescente, tantopiù per il piccolo gobbetto.Non rimase più di un paio digiorni in quel posto. Si presen-tò all’Ernesta e le disse: Zia, avoi studiè. Prese un diploma, egli fu trovato un posto diimpiegato nelle Ferrovie delloStato. Ma, studiando nelle orelibere, il ragazzo si preparòper sostenere l’esame finaledell’Istituto per ragionieri chesostenne felicemente a Pisa.Sopravvenne la GrandeGuerra. alla quale egli nonavrebbe potuto partecipare acausa della sua imperfezionefisica. Ma Virgilio non restò acasa. Riuscì, avvolto in una

mantellina militare, a imbar-carsi clandestinamente, conl’aiuto di amici, su di una navein partenza dal porto diAncona, che trasportava unreparto militare in Albania.Giunto a destinazione fu sco-perto ma, non si sa come,riuscì a restare presso il repar-to fino alla fine della guerra.In politica fu fascista, fasci-stissimo. Partecipò alla Marciasu Roma. Fu amico e collabo-ratore di Italo Balbo, diClaudio Brunelli e di EzioBalducci, questi ultimi figuredi primo piano del fascismoromagnolo.La sua appassionata adesioneal fascismo non fu sorretta daelaborate motivazioni ideolo-giche, bensì direttamente dal-l’amor di patria, sentimentoche segnò profondamente tuttala sua vita. Se fosse nato inun’altra Nazione sarebbe statoqualcosa di simile ai conserva-tori in Gran Bretagna. In più,sentiva profondamente leragioni della solidarietàumana, e negava legittimitàmorale e giuridica alla lotta diclasse. Conservatore, ma nontatcheriano. Esponeva il suopensiero politico in pochi con-cetti, anzi in uno solo. Egli erapersuaso che il popolo italia-no, lacerato da secoli di lottenei Comuni, fra Comuni, fraSignorie, fra Stati particolari–e ultimamente dalle lottesociali- sarebbe potuto diveni-

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RIMINESI NELLA BUFERA / VIRGILIO RICCIOTTI

FASCISTA FINO ALL’ULTIMO RESPIRORomano Ricciotti

TRA CRONACA E STORIA

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N “Di lui si può dire che,

dopo la catastrofe,

tenne con onore

e con intimo orgoglio

il posto che il destino

gli aveva assegnato.

Fra gli sconfitti” Ritratto di Virgilio Ricciotti.Medaglione in bronzo

modellato nel 1937 da Elio Morri.

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re Nazione ed esprimere ilproprio genio soltanto se aves-se saputo rinunciare tempora-neamente alle libertà politi-che, assoggettandosi a unadisciplina mai conosciuta nelsuo passato e lavorare -e senecessario combattere- perchél’Italia acquistasse il posto chele spettava fra le altre potenzenazionali e gli Italiani fossero-tutti- riscattati dalla miseriache egli aveva conosciuta dabambino.Fu a, suo modo, in modomolto italiano, religioso. Lasua religiosità oscillava peri-colosamente fra la rivendica-zione di un rapporto diretto eimmediato con il Padre Eterno(dal punto di vista morale,senza implicazioni teologichené interpretative) e l’adesionealla fede cattolica apostolicaromana. Non fu mai pratican-te. Però volle che il suo matri-monio fosse benedetto dalsacerdote e fu scrupoloso nelprovvedere affinché i suoi figliricevessero i Sacramenti e fre-quentassero la Parrocchia.Soprattutto fu spiritualmente eintimamente sempre attrattodall’aspetto religioso dellavita dell’uomo. Fu anticlerica-le e mangiapreti. Sul suocomodino però non mancavamai un libro di riflessione reli-giosa, quasi sempre di autorelaico. Amava Sant’Agostino,forse a causa della giovinezzalibertina del Santo, così vicinaalle sue passioni terrene domi-nanti, la politica e le belledonne. Fu proprio lui a consi-gliare al suo primogenito lalettura delle Confessioni, cheil ragazzo lesse senza moltocostrutto, essendo, quello, unlibro per uomini ormai espertidella vita e di se stessi. Si ado-però affinché lo stesso primo-genito fosse accolto alCollegio Nazareno di Roma,retto dai Padri Scolopi.Il sentimento di solidarietàumana caratterizzò non soltan-to i suoi ideali politici, masoprattutto la sua pratica divita. Egli non mancò mai diporgere soccorso materiale a

chi ne aveva bisogno. Nellasua attività professionale diragioniere commercialistaebbe numerosissimi incarichidi curatela di fallimenti, cheesplicò con lo spirito che gliera proprio, interpretando l’o-pera del curatore come quelladi garante del soddisfacimentodei creditori e della loro parcondício, ma ancor più comequella di colui che, per man-dato della collettività, porgeuna mano al fallito affinchépossa risollevarsi.Questa commistione di pas-sioni terrene e di ispirazionitrascendenti -anche propria-mente cristiane- unitamentealla sua irrequietezza., richia-mano il detto del suo S.Agostino: cor meum inquie-tum erit donec requiescat inte. E così fu per Virgilio, chericevette, nel giorno della suamorte, il 4 marzo 1964, ildono dei Sacramenti. Morì inpace con il Signore, dopo unavita di polemiche con i Suoiministri e, talvolta, anche conLui.Amò l’arte ed ebbe forte ilsenso dell’amicizia. Questiimpulsi lo portarono a offriresostegno -nei limiti delle suemodeste risorse economiche-a giovani di genio. Radunòintorno a sé un piccolo gruppodi artisti che si riunivano nelsuo studio professionale in viaGiordanpo Bruno. Nello stes-so tempo, assunse la direzionedella redazione riminese delCorriere Padano, il quotidia-no di Italo Balbo.Il 2 gennaio 1926 sì sposònella chiesa di Serravalle diSan Marino (testimone al ritol’amico carissimo EzioBalducci) con Gisella Trentin,la sola donna della sua vita fratante femmine conosciute.Irrequieto anche in politica,non risparmiava censure alregime e ai gerarchi. Una delle

vittime delle sue frecce acumi-nate era il Federale di Forlì,persona degnissima, nota conil nomignolo di “baffi dispranga”. Per tale suo com-portamento fu convocato piùvolte all’ufficio di polizia,dove veniva rispettosamente,bonariamente, ma per luiinsopportabilmente pregato dimoderarsi e di fare attenzionealle parole che, certo involon-tariamente, precisava il fun-zionario, imbarazzato nelredarguire uno dei fascisti piùnoti della città, gli sfuggivanoin troppe occasioni.Questo non gli piacque.Riteneva che altro fosse l’aversoppresso i partiti politici, econ essi il morbo del parla-mentarismo, e altro l’abolizio-ne di ogni dialettica all’internodel regime e di ogni possibili-tà di critica. L’indirizzo assun-to in questo senso dai gover-nanti lo irritava e rendeva sem-pre meno respirabile per luil’aria stagnante che si andavaaddensando.Decise, allora, di partire defi-nitivamente per il Venezuela.Era il 1928. Fece ritorno inPatria dopo quattro anni,attratto irresistibilmente dalrichiamo di Mussolini agliesuli.Venne la seconda GuerraMondiale. Virgilio trasferì lafamiglia a Montefiore Conca,ove lui tornava soltanto per ilfine settimana, da Rimini, inbicicletta, facendo a piedi l’ul-tima salita, quella dellaPredosa.Venne l’8 settembre, la datadella nostra vergogna, eVirgilio, dopo dolorose rifles-sioni, decise, nell’estate del1944, di onorare fino all’ulti-mo la cambiale sottoscritta nel1922. La sua decisione, dice-va, era dovuta al dovere mora-le di pagare un debito verso ilpopolo italiano. I fascisti ave-

vano agito, dal 1922 in poi,nell’interesse della Nazione,ma senza alcun mandato. Ilmandato se lo erano preso.Allo stato delle cose, nell’orain cui ciascuno doveva assu-mersi la responsabilità dell’e-sito rovinoso dell’impresa, lui-che durante gli anni fortunatidel regime non aveva neppurerinnovato la tessera- era pre-sente. Non parlò, in verità,dell’ulteriore necessità di atte-nuare la durezza dell’occupa-zione tedesca, ma nei mesisuccessivi avrebbe con i fattidimostrato di esserne conscio.Trasferì la famiglia, con pochemasserizie, al Nord, lascian-dosi alle spalle i bagliori e ituoni delle artiglierie cheincendiavano le rive delFoglia.Il Nord della famigliaRicciotti, composta daVirgilio, dalla moglie, da trefigli di quattordici, di dieci edi sei anni, nonché dallaGorizia che, assunta tantotempo prima come domestica,era divenuta figliola e sorella,fu Sermide, un Comune sito inun angolo della provincia diMantova (a sud del Po) delquale Virgilio era stato nomi-nato Commissario straordina-rio, in luogo del Podestà man-cante. Qui il ragioniere diRimini amministrò ilMunicipio in giorni terribili,contribuendo a tenere il suoterritorio indenne dai sangui-nosi eventi della guerra civileche travagliarono invece i ter-ritori adiacenti delle provincedi Modena e di Ferrara.L’ometto venuto da Rimini sìguadagnò presto il rispettodella popolazione, alla qualenon sfuggi che il nuovo capodel Comune viveva con l’inte-ra famiglia in una sola stanza,nella casa padronale di unpodere sotto l’argine del Po,per la quale pagava regolar-mente il canone di locazione,mentre con un minimo di arbi-trio avrebbe potuto sistemarsimeglio, e gratis.Si ritiene che all’origine della

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TRA CRONACA E STORIA

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“Venne l’8 settembre, e Virgilio, dopo dolorose

riflessioni, decise, nell’estate del 1944,

di onorare fino all’ultimo la cambiale sottoscritta

nel 1922. E se ne andò al Nord”

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guerra civile nel territoriodella Repubblica sociale ita-liana fu il Bando Graziani, conil quale il Governo fece obbli-go a tutti i giovani in età dileva di prestare il serviziomilitare nell’esercito repubbli-cano. Numerosissimi giovaniche -se non sollecitati dal desi-derio di evitare il serviziomilitare- sarebbero volentieririmasti a casa evitando diprendere parte, si nascosero ofuggirono in montagna, dovetrovarono i “quadri”, delle for-mazioni partigiane che nefecero, piacesse o non piaces-se, dei combattenti.A Sermide ciò non avvenne.Quando gli impiegati addettial servizio riferirono alCommissario che si presenta-vano ai loro sportelli, per otte-nere le tessere annonarie,donne munite delle carte diidentità proprie, del marito, edi uno, due o più figli in età dileva, con ciò rivelando la pre-senza di renitenti nel territoriocomunale, Virgilio ordinò cheper ogni documento di identitàfosse rilasciata una tessera, eche la cosa non fosse segnala-ta alla polizia. I renitenti allaleva di Sermide non si trasfor-marono in partigiani armati, enel territorio del Comune nonvi furono conflitti.Probabilmente altre condizio-ni concorsero, fra le quali l’in-dole della popolazione e lapresenza di un tranquilloreparto di Alpenjaeger austria-ci, comandato da un giovanecapitano che passava lungheore a suonare brani di Mozarte valzer viennesi al pianofortedella padrona della casa, cor-teggiandone la figlia.Alla fine dell’aprile 1945 inemici o, in altra prospettiva, iliberatori erano ormai aBologna. Virgilio salutòmoglie e figli annunciandoche, con la sua bicicletta,sarebbe partito per Milano,con l’intenzione di recarsiall’ultimo appuntamento inValtellina.La stanza della famigliaRicciotti era un luogo di deso-

lazione, tutto quanto concor-rendo a far pensare cheVirgilio non sarebbe più torna-to. Invece, dopo qualche ora siripresentò ai suoi. I ponti sulPo erano stati distrutti. Nonera possibile procedere. Ilgiorno dopo, al termine di unanotte trascorsa in un rifugio difortuna, giunti che furono gliAmericani, riprese la biciclet-ta e si avviò verso Rimini perrifugiarsi nella casa paterna, invia Oberdan. Lo precedeva laGorizia che, in vista dei postidi blocco partigiani, tornavaindietro, lo avvertiva, e pren-devano per i campi.I partigiani di Sermide nontorsero un capello ai fascistirepubblicani. Li radunarono inMunicipio e li condussero alcampo di concentramento diColtano, dove i reclusi patiro-no caldo, freddo e fame, ma sisostennero moralmente in unclima di tensione ideale che liaiutò a sopportare di buonanimo le privazioni. Al contra-rio, Virgilio rimase otto mesinella soffitta della casa pater-na, in diuturna segregazione,la qual cosa gli costò moltissi-mo, e, con il senno del poi,rimpianse di non essersi fattocatturare e di non avere segui-to i suoi camerati a Coltano.A Sermide, gli uomini delComitato di liberazione nazio-nale non soltanto non feceroricercare il Commissariostraordinario in fuga, né pro-posero per lui incriminazioniavanti alla magistratura ordi-naria e straordinaria, ma,impietositi dalla condizionedella Gisella e dei suoi trefigli, disposero che le fosse

corrisposto, a carico delComune, un aiuto alimentare.La cosa durò qualche mese,fino a che non fu deciso che,con un birroccio a cavallo,madre e figli, con le loropoche cose, fossero condotti aPorotto di Ferrara, dove unasorella della Gisella procuròloro un riparo precario, in atte-sa che si trasferissero definiti-vamente a Valdagno, a casadella nonna Teresa.Quest’ultima parte dellavicenda é edificante, conside-rata la ferocia dei tempi, aSermide, felix insula fra tantosangue versato in luoghi vici-ni. Più volte nei discorsi difamiglia si sarebbe evocata lamitezza d’animo di quegliuomini. Non é fuor di luogotuttavia attribuire a Virgilioalmeno una parte dì merito,ripensando a quel provvedi-mento pacificatore che egliassunse -per istintiva umanità,o per intuito politico, o perentrambe le ragioni- quandostabilì che si consegnasse unatessera annonaria per ognicarta d’identità anche se inte-stata a giovani renitenti allaleva.Cessato il pericolo d’esserecatturato (ma nessuno lo cer-cava), Virgilio tentò la fortunaprofessionale a Roma. Là,ebbe il conforto d’esser vicinoal figlio più grande, tornato alCollegìo Nazareno. Lo sipoteva incontrare nel parlato-rio dell’Istituto, detto la

Galleria per i dipinti e le scul-ture che vi sono conservate,mentre, seduto in attesa delfiglio, con una mano reggevail giornale e con l’altra gliocchiali che avevano perdutouna stanghetta, e non v’eranodenari per acquistarne unanuova. Quando il ragazzopoteva uscire, i due salivano aMonte Mario, non ancoracoperto di brutti edifici, sede-vano al tavolo di una trattoria,sotto una frasca, con la vistadella Città eterna che da quel-l’altezza mostrava soltanto isegni del suo splendore, eordinavano due uova sode e unlitro di Frascati. La felicità,dice Trilussa, tutto sommato èuna piccola cosa. Finalmente,dopo un soggiorno aValdagno, rientrò a Rimini,dove riprese l’esercizio pro-fessionale.Fino al 1964 anno data dellasua morte, lavorò, lesse, stettecon la sua famiglia. Rimasefedele alle sue idee e non sipentì mai delle sue scelte(salvo il rammarico, moltoforte, per le ansie e le soffe-renze che la sua famigliaaveva sopportato e che in veri-tà nessuno dei suoi gli rimpro-verò mai).Non fece politica. Secondo ilsuo modo di vedere, i soccom-benti debbono ritirarsi. Le suerampogne più aspre eranorivolte ai “voltagabbana”. Nonmancò di riabilitare, nel suotribunale privato, molti deigerarchi che aveva ferocemen-te criticato nel ventennio fasci-sta. Costoro, diceva, parago-nati ai gerarchi dei nuovo regi-me partitocratico, sembranodei giganti.Nient’altro vi è da ricordaredell’ultima stagione della suavita, anche perché gli avveni-menti di quell’epoca non offri-rono occasioni capaci di sti-molare il cor inquietum diVirgilio. Di lui si può dire che,dopo la catastrofe, tenne cononore e con intimo orgoglio ilposto che il destino gli avevaassegnato. Fra gli sconfitti.

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1936.Virgilio Ricciotti

(indicato dalla freccia) con un gruppo

di squadristi riminesi.

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imini, lunedì 9 Febbraio1835, Carnevale. Grande

ballo nelle sale del CasinoCivico. La commissione chegoverna il sodalizio, presiedu-ta dal marchese BelmonteCima, ha disposto alcuneesclusioni dagli inviti, anche apersone che negli anni prece-denti erano state ammesse.Alcuni degli esclusi, presenta-tisi ugualmente all’ingresso,sono stati respinti senza tantiriguardi.Anche all’interno del CasinoCivico vanno delineandosi ledue correnti che già dividonola società: i liberali e i conser-vatori. I primi hanno loroesponenti nel presidente (unodei capi della rivolta del 1831,quella della battaglia delleCelle, a detta dell’estensoredella nota, il confidente dellapolizia che firma Nota Manus,in realtà Filippo Mancinigenero del cronista Giangi),nel segretario Daniele Serpierie nel direttore di sala GaetanoCarlini, appena dimesso dalcarcere ove era stato rinchiusoper motivi politici. I conserva-tori invece hanno il rappresen-tante di maggior spicco nelsocio speziale e capitano deiVolontari Pontifici GiacomoTacchi.Le esclusioni provocano dis-pute feroci fra i soci e ilBelmonte Cima e il conteValerio Nanni arrivano addi-rittura a sfidarsi a duello, sfidapoi rientrata per l’intervento diamici comuni ai due.Per la sera del 13 febbraio,venerdì, é convocata l’assem-blea dei soci che si tiene neilocali del Casino. Subito siaccende la lite fra i presenti ed

in particolare il Tacchi, ogget-to di dure contestazioni daparte dei suoi avversari.Motivo del contendere la can-didatura del Mastro di PostaGiacomo Pangolini avanzatadal Tacchi, uno dei respinti lasera del 9, e quella del locan-diere dei Tre Re, sostenuto dailiberali e tranquillamenteammesso la fatidica sera delballo.Il Tacchi arriva al punto diminacciare di condurre allaprima occasione di festa loZangolini al proprio braccio e“chi avesse osato allontanarlone avrebbe reso stretto conto”alle autorità di Governo. Nenasce una disputa furiosa fralo speziale capitano, il conteSallustio Ferrari, il marcheseBelmonte Cima e il marchese

Audiface Diotallevi, sedatasolo dall’intervento pacifica-tore di Andrea Menghi. Lariunione viene sciolta nonprima di aver deliberato l’e-sclusione del protetto delTacchi, “ma con gravi minac-ce, e con indicibile malconten-to”. La spaccatura all’interno delCasino Civico divenne profon-da e la parte avversa alla com-missione dirigente, capeggiatadal conte Amati, uscì dal soda-lizio fondando una nuovasocietà con l’esborso di 20bajocchi mensili.Fu fatta richiesta alGovernatore e si ottennero ipermessi prescritti per fare“nel Carnevale corrente n. 6Feste di Ballo: si prese a nolola sala di casa Lettimi conappartamenti annessi” e sicercò di esser pronti per laprima serata da tenersi lunedì16 in concomitanza con quelladel Casino Civico.“Il conte Amati improntavauna gran somma per le debite

spese, e dal caldo novo partitosociale si cercavano a spadatratta i biglietti del vecchioper lacerarli” e si prometteva-no biglietti d’ingresso alnuovo Casino a chi presentavainviti del vecchio.I bempensanti, timorosi che lasituazione sfociasse in qualchespiacevole episodio, ricorseroal Governatore BernardinoZacchia, il quale fu convinto aritirare i permessi accordati “eindusse il Sig. Gio. BattistaSoardi, attuale affittuariodella Sala Lettimi, di ritirareEsso lui pure la sua promessa,e così in pochi momenti lanuova Società trovossi senzalocale, e permesso, onde con-durre le divisate cose al finebramato”.Il Governatore Zacchia non siarrestò nella sua azione pacifi-catrice al ritiro dei permessialla nuova società ma, avva-lendosi della propria autorità,indusse la vecchia ad accettaretutte le persone che erano statescartate, togliendo così dimezzo d’un colpo ogni motivodi contesa. Grazie alla suamediazione, la buona societàriminese poté tornare a diver-tirsi ancora una volta unita,dimentica delle divisioni dipartito.

TRA CRONACA E STORIA

NOTERELLE RIMINESI DELL’OTTOCENTO

UN CARNEVALE TRIBOLATOArturo Menghi Sartorio

23

Gian Battista Soardi

R La furibonda lite

al Casino Civico

tra conservatori

e liberali

LE FIRME DI ARIMINUM NELL’ANNO 2003Learco Andalò, Simona Bisacchi, Emilio Bracconi,Alessandro Brambilla, Alessandro Caprio, FernandoCasadei (foto), Piero Castagnoli, Adriano Cecchini, LucaCesari, Michela Cesarini, Aleardo Cingolani, FedericoCompatangelo (foto), Rosita Copioli, Gerardo FilibertoDasi, Lara Fabbri, Liliano Faenza, Federico Fellini, AngelaFontemaggi, Pier Luigi Foschi, Pier Giorgio Franchini,Gabriella Gennari, Marco Gennari, Giovanni Gentili,Giuliano Ghirardelli, Ivo Gigli, Silvana Giugli, IsidoroLanari, Mario Magnanelli, Aldo Magnani, Manlio Masini,Milena Massani, Arturo Menghi Sartorio, AmedeoMontemaggi, Ovidio Morri, Silvia Paccassoni, PaoloPasini, Maddalena Patella, Arnaldo Pedrazzi, OriettaPiolanti, Sandro Piscaglia, Luigi Prioli (foto), Maria ChiaraProdi, Romano Ricciotti, Maria Antonietta RicottiSorrentino, Rinaldo Ripa, Gaetano Rossi, GuglielmoSalotti, Pio Serra, Stefano Servadei, Ottorino Stefani,Emiliana Stella, Elisa Tosi Brandi, Emilia Maria Urbinati,Gianluigi Valentini, Giulia Vannoni, Bruno Vernocchi,Guido Zangheri, Sergio Zavoli.

“Grazie alla mediazione,

del Governatore Zacchia

la buona società

riminese...

...poté tornare a divertirsi

ancora una volta unita,

dimentica

delle divisioni di partito”

Page 24:  · strattismo, ha espresso attra-verso la stampa severi quanto anacronistici giudizi. Facilmente comprensibile nei temi ed accattivante nei colori smaglianti, la sua maniera

GENNAIO-FEBBRAIO 2004A R I M I N V M

on è possibile tracciare lastoria del giornalismo

riminese dei primi decenni diquesto dopoguerra senza rile-vare la importanza di Davide(Dino) Minghini, fotoreporterinserito nella redazione rimi-nese de Il Resto del Carlinoche esercitava allora il mono-polio dell’informazione rivie-rasca poiché a lei facevanocapo anche il Corriere dellaSera, la Stampa, la RAI TV el’Agenzia Ansa. Oggi unasituazione esclusiva del gene-re non è più pensabile per lanascita di quotidiani localigiornalisticamente freschi edagguerriti. Nella cronaca diquel periodo, Dino Minghini,che frequentava quotidiana-mente la redazione retta dalloscrivente, ricoperse un ruolotestimoniale di fotografocome appare evidente nellamostra che la BibliotecaCivica ha dedicata a lui nelPalazzo del Podestà per operadella Fondazione della Cassadi Risparmio e del Comune.Oltre mezzo milione sono inegativi che Dino scattò inoltre quarant’anni di vita rimi-nese al servizio della redazio-ne, un microcosmo che laMostra ha appena cominciatoa dipanare. Da questo micro-cosmo che parte dagli alboridel dopoguerra Oriana Maronie Nadia Bizzocchi hanno trat-to il materiale per due sezioni,una sul personaggio Minghini(Viaggio sentimentale di unfotografo), l’altra cronachisti-ca, sull’incontro con FedericoFellini. Il grosso del materialeattende ancora una identifica-zione non facile per chi non hacondiviso giorno per giorno lavita cittadina e l’attività delfotografo, come è capitato ame prima come giornalistafreelance poi come titolaredella redazione.Il padre di Dino, Gualtiero, era

un pioniere della fotografiariminese. Lo conobbi neglianni 1942-43 quando comin-ciai ad essere capocronacariminese del Carlino. Dinoallora era fotografo dellaRegia Aeronautica. Dopo l’ar-mistizio dell’8 settembre 1943mentre io per sfuggire i tede-schi salivo in montagna Dinosi salvava fortunosamenteprima a Roma, poi a Rimini,da cui nella primavera 1944 sirifugiava con i suoi a Veccianoquindi ad Ospedaletto diCoriano dove con il padreimpiantava un laboratoriofotografico di fortuna. Comegià scrissi nel settembre 1964in un lungo articolo sulla suavita di guerra, il 14 luglioDino, compreso nel bando di

reclutamento tedesco per gliitaliani dai 18 ai 30 anni, fucatturato e insieme con altri110 giovani fra cui il nototipografo Glauco Cosmi e por-tato a Pesaro per lavorare allefortificazioni della LineaGotica. Il 25 agosto ci fu l’at-tacco anglo-canadese allaLinea Gotica e Dino se la cavòmiracolosamente sotto i bom-bardamenti alleati. A piedi, indue giorni, ritornò aOspedaletto e da qui a S.Marino poi a Rimini ove si unìad altri fotografi riminesi edinsieme organizzarono nelpalazzo Gioia un laboratoriofotografico per i soldati.Poiché mancava l’elettricitàfecero un buco nel soffittosconnesso ed utilizzarono nel-l’ingranditore la luce del sole!Era il 1945 quando le nostrestrade si incontrarono. Riminiera una città morta. Ma benpresto i riminesi si misero allavoro per la ricostruzione.Interprete con gli alleatiapprofittai poi della mia espe-rienza per pagarmi l’universitàfacendo il giornalista free-lance, collaborando a vari

giornali nazionali e locali odorganizzando iniziative mie,come nel 1948 il Circolo delCinema, con l’amico Tino DeGiovanni e l’avv. Luigi Benzi,il felliniano “Titta” come pre-sidente, od iniziative altruicome la 1ª Mostra dellaAttrezzatura Alberghiera del1949, ecc. Poiché per le miecronache mondane estiveavevo bisogno di un fotografocapace, Dino mi divennenecessario nelle mie “fantasio-se” iniziative. La nostra colla-borazione allora era ancorasaltuaria perchè Rimini man-cava di un apparato giornali-stico consistente e ci si ritrova-va solo nelle manifestazioni. IlResto del Carlino aveva prov-visoriamente cambiato ilnome in Giornale dell’Emilia.Ne curava la cronaca localeMario Fabbri, un caro amico econcorrente degli anni di guer-ra quando dirigeva la CronacaRiminese del Corriere Padanodi Italo Balbo. Ora collabora-vo con lui mentre mettevo inpiedi con studenti bolognesi emilanesi un CircoloGoliardico che animava legiornate della riviera con varieiniziative fra cui un periodicosemi-intellettuale, Il Goliardoestivo, partecipava alCarnevale del Mare, vincendonella sua categoria, facevapubblicità per le feste aRimini, Riccione e Cattolicacon buffonate goliardichesullo stile di quelle universita-rie di Martin Lutero, inaugura-

TRA CRONACA E STORIA

PER UNA STORIA DEL GIORNALISMO RIMINESE

MINGHINI, IL “CARLINO” ED IOAmedeo Montemaggi

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N “Non è possibile

tracciare la storia

del giornalismo riminese

dei primi decenni

di questo dopoguerra

senza rilevare

l’importanza di Davide

(Dino) Minghini,

fotoreporter inserito

nella redazione riminese

de Il Resto del Carlino”

Spadolini e Montemaggi al centro della foto.

A sin. il Ministro Oddo Biasinicon Edda Montemaggi, a destra Lopez Pegna.

(Foto Minghini)

Davide Minghini con Edda

e Amedeo Montemaggi.

Page 25:  · strattismo, ha espresso attra-verso la stampa severi quanto anacronistici giudizi. Facilmente comprensibile nei temi ed accattivante nei colori smaglianti, la sua maniera

GENNAIO-FEBBRAIO 2004 A R I M I N V M

va nuovi locali di gran lussocome il “Villa Alta” diRiccione, si divertiva nellejam session jazzistiche orga-nizzate con i migliori jazzistiospiti della riviera alla Casinadel Bosco e all’Embassy Club,la famosa Embassy che nel1953 con i fratelli Almerigo eClaudio Semprini e con GuidoMulazzani entrerà nella storiariminese (ed in quella delCarlino, di cui diverrà poi unaspecie di sede estiva al marecon l’arrivo di FredBuscaglione). Il Circolo giun-se al punto di riempire il vuotodell’ospitalità ufficiale rice-vendo “In nome della RiminiTuristica”, personalità italianee straniere, attori come TyronePower e Wanda Hendriks,registi come Henry King (aRimini per girare il film “Ilprincipe delle Volpi” di OrsonWelles), belle donne come lamiss Donatella Capozzi e per-fino ambasciatori comeRenato Dakugna, ambasciato-re del Brasile. Dino era sem-pre il nostro fotografo.Nel settembre 1955 Fabbrimorì tragicamente. Il neodiret-tore Giovanni Spadolini vole-va potenziare il giornale percui in ricordo della mia anticamilitanza “carliniana” daBologna fui persuaso a ripren-dere in mano le redini dellaredazione riminese. Da alloraDino frequentò gli uffici delCarlino (a cui portava anchel’ausilio della sua auto) com-ponendo una redazione assaiefficiente insieme con il ric-cionese Duilio Cavalli, ungrande amico e gentiluomo,ed usufruendo delle sapidecollaborazioni di LuigiPasquini, la migliore penna ditutta l’Emilia, che l’invidia deicolleghi bolognesi aveva inde-gnamente respinto e cheaccolsi come vanto della reda-zione. Quando mi sposai e miamoglie entrò nella redazionel’amicizia con Dino divennepiù stretta e le nostre famigliesi unirono in viaggi e festefamiliari. Le caratteristicheturistiche della nostra riviera,

che avevano portato la tiraturadella edizione riminese alsecondo posto nelle tiratureestive del giornale, diedero aDino Minghini una fama cheoltrepassava i confini naziona-li. Le sue fotografie di avveni-menti e personaggi riminesierano pubblicate su quotidianie periodici italiani e stranieri.Le sue mostre fotografiche edi suoi film pubblicitari su“Rimini e la sua Riviera”divennero noti in Italia e all’e-stero per la loro freschezzanativa, per lo spirito ed il sen-timento che li animavano eche facevano di lui una ban-diera di romagnolità e di rimi-nesità. Scrivevo allora sulCarlino come dalla proiezionedei suoi film emergesse il“ritratto preciso dell’autore,l’osservatore della vita cittadi-na. Chi non conosce il suoviso bonario e sorridente,ornato da due simpatici baffo-ni, tutti neri sotto l’occhiofinemente ironico? Non si èaccontentato di essere un foto-grafo come gli altri ma, spintodall’intima necessità di docu-mentarista ed osservatore, hacontinuamente arricchito ilsuo prodigioso archivio dicentinaia di migliaia di foto-grafie, da quelle delle cerimo-nie ufficiali a quelle dellemanifestazioni mondane eagonistiche, dai particolaripaesaggistici a quelli artistici earchitettonici, dagli avveni-menti in rilievo a quelli picco-li, di curiosità spicciola.

L’importanza di Minghini incampo rivierasco divenne fon-damentale nel 1957 quando ildirettore Spadolini, accoglien-do le mie proteste per la ingiu-stificata posizione subordinatadella pagina riminese a quellaforlivese, diede a Rimini unaintera pagina quotidiana e nefece il centro per la pubblica-zione del settimanale CarlinoVacanze. Nel 1962 Minghinidivenne il fotografo ufficialedella neonata AssociazioneGiornalisti e ScrittoriRiminesi (AGESR) nata perdare al giornalismo locale unaautonomia ormai ineludibilecon il chiamare a raccolta leenergie intellettuali della città,allestendo il premio “Rimini”per attività professionali, arti-stiche e culturali ed il premio“Mario Fabbri” per gli alunnidelle Scuole Superiori e ripor-tando in vita quel Ballo dellaStampa, vanto delle passategenerazioni. Oltre a questomomento, il più importantedel giornalismo riminese nellavita culturale cittadina, Dinotestimoniò il premio “Luna di

miele a Rimini, città diFrancesca”, una iniziativa cul-turale-turistica che con 3milioni di ospitalità si guada-gnò in Svezia e Finlandia 300milioni di pubblicità, seguì lemie campagne di stampa per ilTribunale a Rimini, per la libe-razione di CastelSismondo dalcarcere mandamentale, per laprovincia di Rimini, e così via.Nel dicembre 1973 nella saladel Circolo filatelico-numi-smatico Dino presentava inuna mostra di grande successoFederico Fellini e tutti i perso-naggi di “Amarcord” che egliaveva ricercato per offrire alregista concittadino tipiemblematici che potesseroispirarne i ricordi e la fantasiaimpietosa.Per tutto questo DinoMinghini è una icona fonda-mentale della vita riminese,una icona non del tutto esplo-rata almeno a giudicare dallamostra in cui viene presentato,fra l’altro, un mucchio di per-sonaggi apparentemente ano-nimi mentre altri, famosi, nonappaiono per niente. Fra iritratti anonimi figura, adesempio, il viso triste di unsignore anziano. Chi sarà maiquel signore? E’ una foto di 41anni fa, la foto del famoso arti-sta cecoslovacco Jiri Trnka,che forse meriterebbe di esse-re posta sulla copertina dellaMostra stessa. Trnka fu ilFellini del film d’animazionedell’Est, il rivale più esaltatodi Walt Disney, il rinnovatoredei disegni animati, con le suefigurine di carta ritagliate e isuoi pupazzi. Quel pomerig-gio del settembre 1962 io lointervistavo sulla terrazza delGrand Hotel insieme con glialtri grandi artisti convenutialla Mostra Internazionale delFilm d’Animazione nella miaduplice veste di giornalista edi consigliere dell’Azienda diSoggiorno, organizzatrice delFestival, presieduta allora daLuciano Gorini. Minghiniscattava. Trnka scuro in voltostava in disparte. Quando esa-

TRA CRONACA E STORIA

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Rimini, Embassy 1959. La Giuria del Premio

giornalistico “Sigismondo Malatesta”. Da sin. Amedeo ed EddaMontemaggi, giornalista

Burattini, rappresentante dellaStampa bolognese, VenceslaoRiccò, il regista Luigi Zampa,

signora non identificata, l’attrice riminese Scilla Gabel,

l’attore Francesco Mulè. (Foto Minghini)

Segue a pag. 31

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GENNAIO-FEBBRAIO 2004A R I M I N V M

isitando la chiesa dellaCollegiata di

Santarcangelo, dal transetto asinistra del presbiterio si entranella cappella Balacchi in cuisi trovano le spoglie del BeatoSimone patrono della città. Inuna arcata praticata nel murosopra l’interno della sua portad’ingresso, a più di quattrometri di altezza, si trovaun’antichissima arca, con unacollocazione alquanto discuti-bile, tanto che per osservarlac’è quasi da prendere un torci-collo; si tratta di un piccolomonumento del XIV secolocon una storia interessante perraccontare la quale è necessa-rio risalire alla famosa batta-glia di Montaperti nel 1260. Inquel conflitto fra i ghibellinisenesi e i guelfi fiorentini,nella valle dell’Arbia, questiultimi uscirono sconfitti e laloro fanteria si fece tagliare apezzi donde lo scempio diquell’esercito “che fecel’Arbia colorata in rosso”.Come conseguenza anche lanobile famiglia di parte guelfadegli Agolanti fu bandita dallacittà di Firenze e si trasferì aRimini e fu nel 1323 che ilnobile Donosdeo fece scolpirequesta arca per la sepolturadella figlia Anna.L’arca di marmo rosso verone-se, alta un metro e larga due,sulla parte centrale mostraun’edicola ad arco acuto, deli-mitata da due colonnine spira-li, con dentro il Salvatorebenedicente; ai lati due rosonidecorati a fogliame contengo-no una croce e alle estremità cisono altre due colonnine neicui capitelli è scolpito unminuscolo trifoglio. I rosoni siripetono identici sui lati mino-ri. Nulla si sa del coperchioche scomparve anticamentequando l’arca fu trasformatain mensa d’altare alla fine del‘600. Nella cornice inferiore,

in una sola riga, si legge incaratteri gotici: Ano DniMCCCXXIII die II novembrishic iacet Dna (Ann)a filiaDonosdei qdam Dni Iacobi deAgolantibus de Florentiacuius aia requiescat i pace. Letre lettere racchiuse tra paren-tesi, nel marmo sono abrase.A questo proposito è opportu-no parlare di in vecchio equi-voco che fu chiarito solo nel‘700 dal nostro CardinaleGarampi. Questa arca, che sitrovava nel Monastero degliAngeli, servì fino alla fine delsec. XVII da deposito al corpodella Beata Chiara da Rimini efurono tanti gli antichi studio-si e i suoi biografi a ritenereche fosse a lei sempre apparte-nuta, tanto da favorire l’opi-nione che la Beata facesseparte della famiglia Agolanti;la verità però era che morì nel1346, o nel 1326, e che i nomidei suoi antenati non avevanonulla in comune con quellidell’avo della donna per cuil’arca fu all’origine scolpitanel 1323. Il Tonini aggiunge:che, mentre la famiglia degliAgolanti fu guelfa, quelladella nostra Beata fu ghibelli-na, come appare dallo aversiricoverato un tempo il fratelsuo in Urbino, ricovero alloraghibellino. Scrisse il Garampi

nelle “Memorie della BeataChiara”: Io vado adunquesospettando, che passatoqualche tempo dopo la mortedella Beata, volendo leMonache di S. Maria in Murovieppiù onorare la memoriadella medesima, e non avendoaltr’urna più nobile della sud-detta da collocarvi quel vene-rabile corpo, di essa appuntosi servissero, dove riposeroquelle sacre reliquie; e perchéda posteri non si dovesseinconsideratamente credere,che l’Inscrizione ivi incisaappartenesse alla Beata, can-cellarono perciò il nome delladefonta Agolanti pensando dicosì avere bastantementeprovveduto ad ogni errore peri tempi avvenire.Abbiamo già detto che ilcorpo della Beata rimase den-tro l’arca fino alla fine delSeicento, fino a quando cioè ilvescovo di Rimini DomenicoCorsi lo fece togliere e trasfe-rire in una cappella apposita-mente costruita, destinandol’arca vuota a mensa di unaltare ad essa dedicato. Inseguito alla soppressione diquel monastero nel 1810, ilcorpo della Beata Chiara fu

trasferito nella Cattedrale enon molto tempo dopo il con-vento con la sua chiesa anda-rono distrutti. L’arca fortuna-tamente fu salvata e passò inpossesso del conte AntonioBaldini, patrizio riminese eGonfaloniere della città diSantarcangelo in cui era nato edove venne trasportata.A questo punto una nuova sto-ria si intreccia con la prima: sitratta di quella di un altrobeato e mi riferisco al BeatoSimone detto Balacchi daSantarcangelo morto nel 1319,già in odore di santità, nelconvento domenicano di S.Cataldo in cui fu sepolto. Nel1796 la cassa del Beato vennetraslata nella Chiesa di S.Francesco Saverio, detta delSuffragio, quando iDomenicani ne vennero inpossesso in seguito alla sop-pressione dei Padri Gesuiti cuiera appartenuta. Due annidopo i frati vennero trasferitinella Chiesa dei Servi dove fuportata l’urna del BeatoSimone. Fu nel 1817, dopo lacacciata dei Domenicani per leinique leggi conseguenti allainvasione napoleonica, che ilclero e il popolo santarcangio-lese videro finalmente appaga-to l’antico desiderio di portarenella loro Chiesa dellaCollegiata le ossa del BeatoSimone cui la città aveva datoi natali, che poi nel 1818 fudichiarato Patrono della Cittàe nel 1820 Beato; la sua urna,che era stata deposta provviso-riamente nella cripta, fu inseguito collocata in una appo-sita cappella la cui costruzionefu portata a termine nel 1821.Promotore infaticabile del-l’impresa fu il conte Baldinied è a questo punto che ritornain campo l’arca di Anna degliAgolanti, perché quella fuun’ottima occasione per rimet-

DENTRO LA STORIA

L’ARCA DI ANNA DEGLI AGOLANTI

UNA STORIA CHE RISALE AL CONFLITTO TRA GUELFI E GHIBELLINIArnaldo Pedrazzi

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V

L’arca di Anna Agolanti nella cappella del Beato Simone

(foto F. Pelliccioni).

Conc

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conto chiarificatore delGarampi. C’è infine da notareun’ultima epigrafe posta neltransetto sopra l’entrata dellacappella, incisa su marmorosso simile a quella dell’arcae molto probabilmente si trattadel suo schienale, che degna-mente ricorda l’opera beneme-rita del conte Antonio Baldiniche a proprie spese aveva prov-veduto alla costruzione dellacappella: ANTONIVS IOSE-PHI F BALDINIVS COMESADLECTVS IN / SPLENDI-DISS ORDINES VRBINA-TIVM ARIMINEM ETREIPVBL / SAMMARINENAEDICVLAM AERE PRO-PRIO FVNDATAM BONIS /LOCVPLETATAM PRIVILE-GIIS MVLTIS A PIO VII P M

/ PRINCIPE INDVLGENTIISDECORATAM SUB CVIVSARA CORPVS / B SIMONISBALLACCHI COMITISARCHANGELIANI ARIMI-NO / TRANSFERENDVMCVRAVIT MVNICIPIODEDIT SOCIETATI / EIV-SDEM B VIRI VSVI TRADI-DIT ANNO CICIOCCCXXI /.In questo periodo si stannorestaurando gli affreschi dellacappella del Beato Simonecon l’appoggio finanziariodella Fondazione Cassa diRisparmio di Rimini; l’attualechiusura provvisoria dell’en-trata sarà sostituita da un gran-de cancello in ferro battuto.

GENNAIO-FEBBRAIO 2004 A R I M I N V M

tere in onore l’antico sarcofa-go. Anche se l’arca non avevaalcun rapporto col culto delBeato Simone, la cassa dimarmo rosso… per curiosocapriccio del possessore futrasportata in Santarcangelo...si limita a dire il Tonini, l’i-dea di Baldini fu quella diaumentare il decoro della cap-pella con un prezioso monu-mento al quale la Beata Chiaraaveva aggiunto un ricordo disanta venerazione; inoltre alconte, se non altro, si deve ilmerito di averla salvata dallaterribile devastazione delpatrimonio artistico e cultura-le avvenuta in quegli anni dirivoluzione. Concludiamo il resoconto

della nostra visita ricordandoanche che all’arca fu fatto uncoperchio di legno dipinto adimitazione del marmo con dueanelli di legno dorato e chenello zoccolo marmoreo su cuifu collocata è incisa la seguen-te iscrizione: MONV-MENTVM IN QVO PER VFERME SAEC CORPVS BCLARAE ARIMIN GENTIAGOLANTIAE FALSOADSCRIPTAE CONDITVMFVERAT EX COENOBSACRAR VIRGINVM ARI-MINEM ANGELORVMHEIC TRANSTVLIT HVIVSAEDICVLAE FVNDATORANNO MDCCCXXI; dallasua lettura “Genti Agolantiaefalso adscriptae” si deduce chel’autore conosceva già il reso-

DENTRO LA STORIA

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minammo le foto per la pubblicazione fummo colpiti da quellatristezza il cui motivo era chiaro. In quei giorni dallaCecoslovacchia trapelavano brutte notizie. Appena due anniprima il Premier comunista Novotny aveva portato laCecoslovacchia nell’orbita sovietica ed ora stringeva i freni.Trnka ne soffriva. Stava elaborando il suo film “Ruka” (La“mano” del potere che imprigiona gli uomini), una allegoria con-tro il culto della personalità che gli costerà cara. Altri personagginello stesso mucchio, il pittore Ricciotti, la bella Annie Gorassini,Miss Cinema, la concittadina Anna Vettori, sosia della Cleopatradi Elisabeth Taylor che vorrà produrre ed interpretare il film“Cleopazza” (E’ la donna in costume, sdraiata pancia in giù su unmaterassino). Ma quanti altri personaggi di valenza giornalisticanazionale ed internazionale, sono da identificare in quel mucchioe nelle centinaia di migliaia di fotografie non esposte? Nel cata-logo c’è perfino il mio figlioletto Andrea che assiste alla foto didue bagnanti. Una fotografia di famiglia, normale per Dino. Lo

stile di Dino, artigiano della camera, era basato sulla completez-za degli “scatti” numerosi e veloci, che ne facevano il fotografo“tipo” dei quotidiani diverso dai fotografi “handicappati” dallalentezza delle composizioni riflessive che erano state il vanto deivari Cavalli, Rusconi, del Club Fotografico Filodrammatico d’an-teguerra. Dall’insieme delle fotografie era un facile gioco rico-struire lo svolgimento di un fatto. In riferimento alla necessità diuna cronaca come base della storia locale mi piace ricordare ilgiudizio di Spadolini sceso a Rimini per presentare una vastaopera di un cronista locale. “Ma come - non potè trattenersi dalrilevare l’insigne storico che si vantava della Pagina Riminesecome della sua migliore creatura, - come ha potuto non parlaredel Resto del Carlino né di Montemaggi ?” Seguendo Spadolini,che fu perfino ospite a casa mia, ritengo che l’analisi delle pagi-ne riminese del Carlino unita alla analisi comparata delle foto-grafie di Dino Minghini sia una indispensabile scaletta di lavoroper ogni serio cronista che voglia avere indicazioni su avveni-menti e personaggi di allora, sulle mostre e sulle iniziative diqualsiasi genere, sui convegni e sulle riunioni di alto livello edimpegno culturale, economico e sociale.

da pag. 25

MINGHINI, IL “CARLINO” ED IO

Il probabile schienale dell’arca sopra l’entrata della cappellanel transetto della chiesa (foto F. Pelliccioni).

Chiesa della Collegiata nei primi anni del 900.

Sul campanile manca ancora lacuspide che sarà realizzata nel

1937. (Coll. Marchi).

C C

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el “Mistero Buffo” si èfatto un gran parlare nel

1997, anno in cui Dario Foricevette il Premio Nobel perla letteratura. Avevo letto qual-che copione teatrale e guarda-ti degli sketch televisivi suiquali eccelleva una voce cor-redata di cento modulazioni ela gestualità comica o dram-matica alternativamente. Lascelta del suo nome, che certonon si trovava in odore di san-tità presso l’onorata societàdelle lettere, fece scalpore nonsenza il susseguirsi di vocicontrastanti sia a livello criticoche di semplici fruitori di tea-tro. La Chiesa Cattolica havalutato il premio una provo-cazione se non proprio la dis-sacrazione della cultura e delladevozione popolare intenzio-nalmente voluta dalla intelli-ghenzia laica e antiromana delNord luterano.Prevenuto quel tanto che bastaper coltivare scetticismo, mitrovavo spinto maggiormentedalla curiosità letteraria chenon dallo stimolo artistico almomento di decidere per l’ac-quisto del “Mistero Buffo”offerto dal Corriera della Seranella collana “I grandi roman-zi italiani”. Di seguito, e nonsenza sorpresa, ho incontratodei testi originali e innovativiche tracimavano di lirismoreligioso. Una piacevole sor-presa nel contattare piccolicapolavori spillati dalla reli-giosità medievale.

Conviene partire dall’etimolo-gia del vocabolo “Mistero”.La parola risale agli scrittorigreci dell’epoca arcaica chel’adoperavano per la rappre-sentazione di eventi sacri. Iltermine fu ripreso dai cristiani(il che succedeva parimentiper il culto e le feste paganeche in qualche modo vennero

configurate nella liturgia e nelcalendario romano) per cele-brare i propri riti e misteri piùsignificativi. Si badi bene,“Mistero” non già nel signifi-cato dogmatico, più semplice-mente nel senso e nel modo dirappresentazione Sacra.E ancora: perché “buffo?” Checi sta indicare quell’attributoche sembra contaminare ilsostantivo? Il giullare, checorrisponde all’attore comicodel Medioevo, non si esercita-va per beffeggiare la religione,semplicemente per divertire ilpopolo, interpretando i suoipensieri e sensazioni, comeanche per smascherare lemanovre “furbesche” di quan-ti profittavano del sacro per iloro intendimenti profani. Enon bisogna dimenticare chela rappresentazione scenicaequivaleva al giornale parlato(il loro quotidiano o rivista)per le cosiddette “classi infe-riori”. Le quali in virtù dellavista leggevano le pitture e gliaffreschi, ma con l’eserciziodell’udito sollecitavano lamente alla cultura intellettiva.

Una perla nella raccolta del“Mistero Buffo” è indubbia-mente “Maria alla Croce” diGesù. Dario Fo ne recupera, inmodo del tutto fortuito, unframmento dalla pergamena diun codice della biblioteca di

Montecassino. Il testo consi-steva in un monologo fram-mentario che la Madonna reci-tava in dialetto centro-meri-dionale. Però il soggetto sacroviene ricostruito nella vesteattuale con il contributo di unsacerdote di Asti, appassiona-to del teatro popolare e amicodi Fo. Da quel secondo testo,analogo e completo, scritto involgare lombardo delTrecento, il copione nell’edi-zione redatta da Dario Fo.Sul lettore, o spettatore, pesaanzitutto l’interrogativo se lamadre di Cristo era consape-vole di doversi sacrificare,assieme al Figlio, per il pecca-to di Adamo. Indubbiamenteassistiamo allo svolgimentoestremamente drammaticonell’ordine delle parole e deisentimenti. E’ l’urlo dellacarne ferita nel corpo femmi-nile al limite della ribellione edella bestemmia. Dove leparole del Cristo morente chesalgono verso il Padre celeste,“Perché mi hai abbandonato”,si riflettono nella tensione esa-sperata di Maria: “Figlio, per-ché non me l’hai detto, perchémi hai tradita?!”

Ora guardiamo l’intreccio nar-rativo. Una delle “pie donne”di Gerusalemme vede arrivaretrafelatissima “la beataMaria”. Il gruppo muliebredecide di sottrarla alla visionedel Figlio, il quale cola sanguea ruscelletti dalla croce “pervia di sti grand ciodi che gl’-han picat in de la carne deiman e di piè”. Ma non c’èverso di trattenerla. Schiantatadallo strazio la Madonna con-templa il Cristo su quel letto dimorte. Già le prime paroledella Vergine sono parossisti-che, prossime alla soglia deldelirio. “Datemi una scala…Voglio salire vicino alla mia

creatura”. Dopo di che si arre-sta per urlare inorridita:“Come ti hanno conciato que-sti assassini, porci macellai?!”Di contrasto, amorevole e sua-siva dalla croce scende laparola del Figlio: “Mama, nostar a criar (gridare), mama…Vai a casa, ti prego, vai acasa”. Può lasciare solo unagenitrice l’unigenito in quelladegradazione? Ecco allora larisposta che scaturisce dallostato di allucinazione viscera-le: “Sì sì, andremo a casainsieme… Vegni su a tirar giòde’ ste trave”. A spezzare lafarneticazione interviene ilsoldato che le intima di scen-dere sennò “darò una bellascrollata a questa scala ecadrete come una pera matu-ra”. Poi le suggerisce con lamimica della ciurma soldate-sca: “Al vostro posto farei inmodo che il Cristo muoiasubito”. La provocazione sca-tena una rivolta talmente vio-lenta e insensata da sfiorare lalinea sacrilega della bestem-mia: “Dovrà veramente morire‘sto caro mio dolce… Ohi chemi hanno tradita… Gabriel,Gabriel… con la toa vose deviola amorosa te set gnunt adime che saria gnuda (diventa-ta) Regina, mi, beati mi eiucunda mi, cap de toeti doni(beata fra tutte le donne)…Perché non me l’hai dettoprima?!”.Gesù stesso non riesce soppor-

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IL “MISTERO BUFFO”: IMPRESSIONI E RAGIONAMENTI

QUANDO CULTURA, PENSIERO, ARTE E PREGHIERATRAGGONO ORIGINE E ALIMENTO DALLA FEDE

Aldo Magnani

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“Il ‘Mistero Buffo’

di Dario Fo,

anche se deraglia

saltuariamente

dai canoni

della teologia scolastica,

non è ‘fuori’

e neppure ‘contro’

l’ortodossia evangelica”

D

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tare l’abiura al sìdell’Annunciazione, tanto chedal trono della Croce le fascendere il tenero rimbrotto difiglio: “Mamma, il dolore ti hafatto impazzire che tu bestem-mi… Devo morire, mamma,ma con ti, chi laga a près(sotto) nò so capaze, mama”.La risposta materna incidevisivamente la misura senzamisura dell’amore maternoverso la sua creatura o, sevolete, quella specie di cordo-ne ombelicale che non si reci-de tra genitrice e generato dacui lo sgomento innato dellaribellione: “Nò casarme via…voi murì, Jesus”. E non hafinito di sragionare che cadesvenuta presso la croce.Per rinvenirla scende dal cielol’arcangelo Gabriele, coluiche l’aveva salutata a Nazarete ora la ritrova sulla roccia delCalvario. E’ come un secondoannuncio verso la persona diMaria. L’Addolorata lo intra-vede oniricamente e gli siaggrappa con le braccia aper-te: “Chi sei, bel giovane, chemi pare di conoscerti?”Risponde offrendo la carta d’i-dentità: “Sono io, l’angiòl deDeo, ol nunzi d’alto, solengo edelicàt amore”.A chiudere la Lode irrompedal cuore femminile il ripudioe l’orrore per tutto ciò chesporca, deturpa e guasta lanobiltà del corpo e dello spiri-to. In uno slancio di esaltazio-ne protettilo respinge da sé elo esorta a risalire gli spalticelestiali nei gaudi seraficidonde era disceso; “Gabrièl,torna a slargar i ali, Gabrièl.Torna nel tuo cielo gioioso. Tunon hai niente da spartire conquesta terra lerciosa”. Il nun-zio di Nazaret non deve spor-carsi le ali di fango, di letamee di sangue. Non deve romper-si i timpani del suo (di Maria)grido disperato e quello deglialtri che monta da ogni parte.Non può e non deve logorarsila vista nel guardare le piaghe,i bubboni e i vermi che erutta-no i corpi squarciati. “Ti nontè abiuàt, Gabrièl”. In paradiso

non ci sono pianti, guerre, pri-gioni, uomini impiccati,donne violentate… “Nò gh’èni fam, nì carestia, nì fiolinsanza sorrisi, nì madri smari-de… niun che pena per pagàol peccat. Vai, Gabrièl…Vattene, vattene, Gabriele”.

Capisco lo sconcerto, forse laprotesta e lo scandalo delladevozione tradizionale alleprese con una Madonna trop-po umanizzata e resa imperfet-ta nella condizione atroce disentirsi rivoltare come qual-siasi madre che si vede strap-pare e uccidere il figlio. Per dipiù un figlio innocente e bene-detto che passava beneficandola gente. Peggio ancora, lei èla prescelta, la piena di grazia;a lei non è concesso di spo-gliarsi della quasi divinità(“Umile ed alta più che creatu-ra”), della prima dopo Dio, perindossare la tunica della con-testazione e, quasi quasi, dellabestemmia dissacratrice.Chiunque sia portato a strac-ciarsi le vesti dimentica che“Maria alla Croce” si compor-ta come Cristo sulla croce.Non è un artificio, esattamenteil resoconto della Passione.Nell’ora agonica della carnesanguinante il Figlio si lamen-ta col Dio del cielo: “Padre,perché mi hai abbandonato?”Sostituite il participio passato

con l’altro participio “tradito”,ecco che il lamento dellamadre si confonde e vienecome integrato nel singultodel figlio, e tutto si trovariscattato dalla irrazionalitàdel dolore che irrazionalizza lalogica e scompagina i senti-menti del cuore.Il “Mistero Buffo” di DarioFo, anche se deraglia saltua-riamente dai canoni della teo-logia scolastica, sarebbedeviante ritenerlo “fuori”oppure “contro” l’ortodossiaevangelica.Chi ama la poesia religiosa delMedioevo provi a raffrontarlocon “Il pianto della Vergine”di Jacopone da Todi e nonpotrà non riscontrare la parel-lilità di linguaggio e del senti-re. Nella Lauda di Jacopone èassente l’azione scenica inquanto “le pie donne” infor-mano Maria delle varie fasidella Crocifissione con vocidefilate dal palcoscenico.Trascrivo qualche strofa perevidenziare con quale turba-mento la “Virgo dolorosa”affronti la tragedia del Figliocon l’animo sospeso al limitedella sopportazione nell’im-patto con l’onta sacrificale.“O croce, che ne farai? / Elfiglio mio torrai? / Meglioavreino fatto / che il cor m’a-vesser tratto”. Il Figlio ascoltaapprensivo e partecipe, però è

costretto richiamarla alla real-tà: “Mamma, perché te lagni? /Voglio che tu remagni (in vita)/, che serve ei (i) mei compa-gni / che al mondo aio conqui-stato”. A replicare è ora il tra-viamento psicofisico delleviscere materne, intimo edevastante nel trafiggere ilcuore della donna: “Figlio,questo non dire: / voglio tecomorire; / non me ne vogliopartire / fin che mo (quando)m’esce il fiato”.Il che significa che madre efiglio pare che muoiano insie-me nell’atto che si ode il ran-tolo dell’espirazione. Nonrimane che il distacco, iniquoe forzato di due vite spezzate,avviate l’una verso il cielo el’altra per i mali della terra.“Figlio bianco e vermiglio /Figlio senza somiglio, / Figlio,a chi m’appiglio? / Figlio, pur(ora) m’hai lasciato”.

Nella produzione delle Laudi,o Laudesi popolari, Jacoponeda Todi (1236-1306) esprimel’esercitazione alta e coltadella devozione mariana.Proprio con lui, questo conver-tito al francescanesimo all’etàvirile e consunto nell’ascesipiù ardua della vita religiosa,ho pensato di chiudere impres-sioni e ragionamenti sulMistero medievale. Buffo oserio, mistico o comico, invo-cante o maldicente, pocoimporta. Ciò che vale e sfida iltempo è l’edificio spettacolarecostruito sulla Rivelazione.Perché cultura, pensiero, arte epreghiera traggono origine ealimento della fede. Che, seriproduce conseguentementestati d’animo istintivi e irra-zionali, disciplinati o rivoltosi,non deve sorprendere. Rimaneil fatto che pensiero e arte,poesia e pittura, architettura escultura, ogni esercizio intel-lettuale richiama alla memoriache la società “di mezzo” dallaterra guarda il cielo. Così chel’uomo, in quanto “omnis”, èveramente il frutto dellaCreazione universale.

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l Grand Hotel risplendevadi luci che si riflettevano,

moltiplicandosi, negli specchie nelle grandi vetrate e sirifrangevano sulle mille goccedi cristallo dei lampadari.Avevamo fatto allestire unazona riservata, riparata daglisguardi indiscreti, con para-venti e piante che avevanocreato un angolo raccolto eraffinato: quello che ci volevaper intrattenere un personag-gio particolare, abituato aun’eleganza signorile ma dis-creta, senza chiasso e senzaeccessi, come il nostro ospitedi quella sera.Era un principe, un vero prin-cipe come quelli che oggi nonesistono più: Enrico d’Assia,figlio di Mafalda di Savoia enipote dell’ultimo re d’Italia.Non eravamo un gruppo dimonarchici, anzi tra noi c’era-no persone di radicata federepubblicana. Però eravamo alcorrente della sua vita singola-re e infelice, della sua solitudi-ne e gentilezza d’animo, dellesue attività artistiche come pit-tore, scenografo e infine comescrittore di un libro delicato estruggente sulla sua giovinez-za: “Il lampadario di cristal-lo”. Il libro narrava le vicendeinconsuete di un nipote di re,ancora bambino, testimone diun traumatico capovolgimentodelle cose, afflitto da problemidi salute, allontanato dagliaffetti più cari e destinato auna dolorosa solitudine. Lastoria di un uomo la cui vita siera fermata ad allora e che eraperseguitato dal ricordo diquei giorni, tristemente nostal-gico per le persone che avevaamato e aveva perduto.

Era stata una nostra amica afarcelo conoscere. Dopo averletto il libro ed essersi com-mossa sulle vicende dell’auto-re, che aveva visto sfaldarsi la

sua famiglia e l’intero mondoin cui era cresciuto, AnnaMaria gli scrisse per esprimer-gli la sua solidarietà.Da allora era cominciata traloro una lunga e fitta corri-spondenza, che si basavasoprattutto sul rispetto e sul-l’affetto di entrambi nei con-fronti della figura infelicedella principessa Mafalda,morta in un lager nazista. Lacorrispondenza aveva messoin luce anche una misteriosa“affinità elettiva” tra lei e ilprincipe, fondata forse sulladelicatezza dei sentimenti, sulrimpianto di valori perduti,sulla comune vocazione avalutare la nobiltà morale e lacompostezza di vita come pre-supposti indispensabili dellanobiltà di rango. E perché no,anche sull’insolito approccioche lei aveva avuto e conser-vava con lui: diretto e sincero,privo di formalità, estraneoalle esteriorità dell’etichetta,ma basato su un rapportoumano semplice e vero. Allacorrispondenza si aggiunseroin seguito le telefonate, che sifecero frequenti e abituali.Quando lei si era trovata nellasituazione di riceverlo aRimini, dove il principeEnrico avrebbe fatto una brevesosta, aveva chiesto aiuto agliamici per organizzare un’ac-coglienza adeguata al perso-naggio.

Così, quella sera, il nostrogruppo si era ritrovato alGrand Hotel per cenare in suacompagnia. Eravamo un po’tesi e imbarazzati, pensandoalla differenza di ambiente edi abitudini che poteva rende-re difficoltosa la conversazio-ne, ma emozionati per l’incon-tro con un personaggio che ciappariva fuori del tempo, rele-gato a un mondo che non era ilnostro, ma che esisteva nelnostro immaginario.Non ci furono problemi: ilprincipe era una persona squi-sita, semplice e cortese, cheparlò tranquillamente con noidi Fellini, di cinema, di arte, diallestimenti teatrali, di perso-naggi ed episodi della cronacamondana e dell’alta societàinternazionale, mostrandosipiacevole e gentile.I marmi e gli stucchi del salo-ne risaltavano più eleganti delsolito nella luce diffusa. Lamusica sommessa del pianobar ci offriva un’atmosferaraccolta e serena. Al di là dellevetrate che riflettevano lenostre immagini, come ombreevanescenti tra le fiammelledelle candele e i fiori del tavo-lo “imperiale”, l’azzurro opa-lescente della piscina e iromantici lampioni “belleépoque” della terrazza accen-tuavano il clima quasi irrealedella serata. In quell’ambienteovattato la conversazione sisvolgeva in bilico tra realtà efantasia, in un’alternanza dinomi e figure che rimbalzava-no tra noi come personaggi diuna favola moderna.I membri dell’antica nobiltàitaliana ed europea, delle caseregnanti di oggi e di ieri, concui il nostro ospite era diretta-mente imparentato, si intrec-ciavano con i protagonistidella finanza, dell’arte, delcinema, scivolando agilmentesul filo delle parole scambiate

tra noi e apparendoci riferi-menti abituali. Il tono pacato enaturale del principe dava unaconsistenza di normalità acose e persone che per noierano fantasmi scaturiti dailibri di storia o dalle paginedei giornali. A volte una lieveironia rendeva disincantate lesue osservazioni, mostrandocome egli fosse consapevoledi quanto le apparenzenascondano, spesso, gli aspettibanali di una realtà che com-pare solo con la sua veste scin-tillante, e come sapesse sorri-dere di quel mondo.Eppure dalla sua persona, al dilà del sorriso gentile e dellagradevole conversazione,emanava una segreta, costanteaura di tristezza e di solitudi-ne, mascherate dal signorilesottile umorismo con cui sape-va presentare le cose.Viveva nel circuito dell’altasocietà internazionale, spo-standosi dalla villa di Capri alcastello degli Assia inGermania, alla residenza diCorfù; dalla mostra di pitturaorganizzata per lui, a Londra,dal cugino principe Carlo, allenozze dell’infanta di Spagna aMadrid. Ci riferiva con sem-plice naturalezza le opinioni egli atteggiamenti di illustriregisti, di uomini politici, digrandi industriali.Ma sapevamo che era unuomo solo. Era condizionatoda una salute malferma, non siera mai costruito una famiglia

POLVERE DI STELLE

VOCI E VOLTI

L’ULTIMO PRINCIPEMaria Antonietta Ricotti Sorrentino

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I “Era un principe,

un vero principe

come quelli che oggi

non esistono più:

Enrico d’Assia,

figlio di Mafalda

di Savoia

e nipote dell’ultimo

re d’Italia”

“La conversazione

si svolgeva in bilico

tra realtà e fantasia,

in un’alternanza

di nomi e figure

che rimbalzavano

tra noi

come personaggi

di una favola

moderna”

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e aveva vissuto un’esistenzaassorta nel ricordo dei pochimomenti felici trascorsi con ifamiliari, tanto tempo fa: dellamamma Mafalda, della dolceElena, quella regina d’Italiache per lui era solo la nonnaaffettuosa con le tasche sem-pre piene di caramelle, delleestati trascorse con i fratellinella tenuta di San Rossore.Anna Maria mantenne con luiun rapporto umano e “spiritua-le”, vivacizzato da un’intesaamichevole che regalava aentrambi reciproche scoperte eun interessante scambio diprospettive. Il “feeling” conti-nuò.In seguito il principe invitòtutti noi a Roma a VillaPolissena, la residenza realeaccanto a Villa Savoia cheaveva ereditato dalla madre,dove ospitò a pranzo il nostrogruppo. Ma forse io capiiveramente il principe duranteuna vacanza a Capri.Trascorremmo un incantevolepomeriggio nella sua villa diAnacapri, godendoci un lumi-noso, poetico tramonto dallaterrazza fiorita affacciata sulmare. Ci fu uno scambio diinviti, e un giorno il principevolle mostrarci anche la resi-denza caprese dei suoi genito-ri: un’antica villa arrampicatasul fianco del paese, giù vicinoalla piazzetta, protesa sullascogliera di Marina Grande.Un edificio aggraziato eromantico, ricco di marmi e dimemorie, ma vuoto e silenzio-so, di una tristezza infinita.Al ritorno, poiché aveva con-gedato l’autista, mio marito eio, insieme ad Anna Maria, loaccompagnammo a Roma. Cifermammo qualche ora a villaPolissena, dove Enrico volleoffrirci un tè e volle farci visi-tare la casa e il giardino.Era domenica e la casa era piùvuota e silenziosa del solito.Nel corso di quella visita mistrinse un nodo d’angoscia:nonostante l’architettura ele-gante della villa e l’arreda-mento raffinato e accoglientedegli ambienti, io sentivo

attorno a me un grande freddo.Ebbi l’impressione di trovarmiin un luogo di culto e dimemorie, ormai privo di vita edi calore. Non un ambiente incui vivere, ma un ambiente incui morire. Potevo toccare,intorno a me, la storia: le por-cellane preziose che eranoappartenute allo zar Nicola II,la fotografia di Carlo e Dianad’Inghilterra sul tavolino delsalotto, le immagini ingiallitedei nonni, reali d’Italia, ilbusto della mamma Mafalda,

presente in tutta la casa comeun’ombra avvolgente e protet-tiva. E quella parete, doveteneva appese tutte le fotogra-fie di famiglia e della ramifi-cata parentela: tutte le caseregnanti d’Europa, tutta la sto-ria dell’ultimo secolo.Capivo che era un uomo soffe-rente, non solo perché privatodi veri e costanti affetti, maperché era un uomo di altritempi, un sopravvissuto estra-neo al mondo di oggi. Anchese protagonista in quella

società romana e internaziona-le che frequentava, non si rico-nosceva nei criteri di vitaodierni, non comprendeva enon accettava i comportamen-ti spregiudicati di chi lo cir-condava, anzi se ne distaccavae preferiva uno stile di vita piùdignitoso e riservato, rifugian-dosi nelle sue memorie: sirivolgeva ai fantasmi del pas-sato per ritrovare il senso dellasua esistenza. Ancora prigio-niero del suo rango, avrebbevoluto inserirsi in un presenteche gli sfuggiva ma che, con lesue nuove inaccettabili regoledi vita, lo respingeva. E forselui aveva visto in noi un esem-pio di “normalità”, di vitareale, attiva, sobria e consape-vole, come non aveva trovatointorno a sé.

Aveva promesso di tornare aRimini, ma non è tornato più.Una malattia grave e dolorosalo ha consumato e lo hadistrutto in poco tempo facen-dogli concludere nella soffe-renza gli ultimi mesi di vita.Quando è scomparso, abbia-mo sentito di aver perso unamico. In casa ho un piccoloquadro: a tutti noi il principeaveva voluto donare un suodipinto. Appartiene all’ultimoperiodo della sua espressioneartistica e ripete sempre lostesso tema in modo quasiossessivo: dall’interno di unastanza grigia si apre, sullaparete, una finestrella sulmondo esterno. Fuori c’è ilprofilo indefinito della città,un cielo chiaro, una fonte diluce intensa, forse il soleall’alba o al tramonto. E’ unarealtà contemplata con dolcez-za, con vaga malinconia. Esembra esprimere un desideriodi vivere manifestato in modosommesso, col rimpianto o lacoscienza di non poter uscirein quel mondo, di essere pri-gioniero di se stesso e del suopassato.Adesso, il principe è finalmen-te uscito. Ha oltrepassato lafinestrella e forse ha trovato lavita che non ha mai vissuto.

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BLOC-NOTES di Sandro PiscagliaOCCHIALI CONFORMANTI

Sono sempre esistite le lenti deformanti e le abbiamo sem-pre usate tutte le volte che qualcuno ci è antipatico, qual-cosa con ci piace o le circostanze non ci vanno a genio.Sulla deformazione, fosse pur preesistente e soltantoingrandita, impostiamo i nostri ragionamenti ed orientia-mo ed intoniamo le nostre emozioni.Le intenzioni non sono sempre buone ed i risultati rara-mente sono positivi. Nondimeno continuiamo ad usare lalente deformante e raramente riprendiamo l’uso degliocchiali conformanti. Non mi servono gli occhiali –ci dicia-mo- e caso mai mi servano, mi ci vogliono gli occhiali dapresbite. Occhiali conformanti sono quelle lenti, a contattoo che non si vedono, che attenuano o eliminano le imper-fezioni, i difetti ed i vizi. Eliminano quelle caratteristicheche possano apparir negative o darci dispiacere.Conformanti sono quelle lenti attraverso le quali si vedel’Universo bello e positivo qual è in realtà e te ne innamo-ri. Le usano ancora qualche volta i poeti, men sovente imusici, più raramente ancora gli scultori e i pittori.Lo stato e la scuola ci hanno rubato la giovinezza e cihanno insegnato a guardare con gli occhi del critico, congli occhi dell’intenditore che valuta in moneta e, per torna-conto, vedono il difetto. Per questo, oggi, anche sulle crea-ture belle, lavorano tanto i chirurghi plastici! E da questoderiva che il mondo imbruttisce.Il nostro mondo imbruttisce perché ci rifiutiamo di inforca-re gli occhiali conformanti, quelli che si usavano in giovi-nezza, quelli che si usavano per innamorarsi, per innamo-rarsi per tutta la vita e consentivano, anche se non eranocolorati, di vedere la vita in rosa.

“Il principe era una persona squisita,

semplice e cortese, che parlò tranquillamente

con noi di Fellini, di cinema, di arte,

di allestimenti teatrali, di personaggi

ed episodi della cronaca mondana...”

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ono stata desiderata comea poche donne è permesso

raccontare, ma non sono sem-pre stata rispettata, se non invirtù dei miei altisonanti titoliperaltro acquisiti con il matri-monio.Nata in un casale tra le dolcicolline toscane, le mie unichericchezze sono state bellezza,intelligenza e sensibilità, unitead uno spirito appassionato,retaggio forse di quel sangueetrusco che scorre nelle mievene e mi fluisce nell’anima dasempre, in quest’anima untempo tormentata dal troppobisogno d’amore e oggi pagadella quiete di chi sa di aversempre e in ogni modo amato.Di chi sa di essere, finalmente,riamata. Di chi sa che la veranobiltà è quella dell’animo. Lamia passione per le antichità el’arte, la storia e i ruderi ingenere, mi hanno portato ingiro per l’Italia, ma soprattuttoa girare in lungo e in largo lamia amata Etruria, “l’ete-rura,l’antico campo della protettricegloriosa, tus-cana”. Grazie aiviaggi, ai miei scritti e allesmanie di possesso suscitate daun corpo armonioso e da uncarattere leggiadro, ho cono-sciuto molti uomini colti, avolte belli, talvolta ricchi efamosi, altri semplicemente tri-sti nel loro essere maschi.Alcuni di loro, all’apparenzatra i migliori se si valuta peraspetto, cultura e stato sociale,hanno fatto di tutto per avermi,e se oggi posseggo gioielli,abiti e antichità d’inestimabilevalore lo devo proprio a questimiei illustri spasimanti.Uomini ricchi, di quella ric-chezza che serve solo a com-prare, e potenti di quel potereche serve solo a comandare.Uomini che hanno voluto solocomprarmi, possedermi,mostrarmi, come si fa con unbell’oggetto, raro, prezioso,

ambito. Questo sono stata perloro e sono per molti altri, iquali vorrebbero… Vorrebberoavvicinarmi ma non osano.Vorrebbero avermi ma non ciriescono. Vorrebbero amarmima s’illudono. Così come sisono illusi tutti quelli che sonopassati sul mio corpo e hannovoluto lasciare una traccia sullamia pelle, nella mia casa… epoi sono scomparsi, lasciando-si dietro solo qualche dono, unsegno indelebile nella mia inti-mità più profonda e un fasciodi ferite nella mia anima.Osservando questo piccolo,grazioso e preziosissimo vaset-to etrusco mi sembra di rivede-re il volto congestionato e imodi concitati dell’anzianostudioso che me lo donò insegno di profonda devozione,sapendo della mia smodatapassione per tutto ciò cheriguarda questo antico popolo,il popolo da cui discende la miagente. Certo è che se avesse dimostra-to più devozione e rispettoanche per il mio corpo quandodecisi finalmente di donarglie-lo e regalargli quel sogno tantosospirato, oggi non dovreiannoverare tra le ombre deimiei ricordi anche l’umiliazio-ne più grande che una donnapossa subire: la violenza.Mio caro console, se un giornoleggerai queste pagine, sapraiche qualcuno si è preso, senzachiedermi il permesso, quello

che non ho voluto dare né a tené ad altri prima di lui e chenon volli dare più a nessunodopo il trauma subito. Tu chearrivasti a fare pazzie per me,ora forse soffriresti sincera-mente per ciò che mi è statofatto, ma non sai quanto horischiato d’impazzire io dopola tua repentina scomparsa;memore di tutte le dolci pro-messe, vittima del più spietatocorteggiamento cui una donnapossa ambire, preda del piùinsidioso dei desideri… Tu che sei stato il mio principenero, il supremo carnefice,colui che ha aperto la scia delvizio e mi ha desiderato, rin-corso, viziato, coccolato, quasiidolatrato e poi mi ha lasciatosemplicemente perché il miocorpo e la mia mente troppoinnocente non soddisfacevanoabbastanza la sua perversione.Tu che parlasti d’amore, ma diquesto sentimento conosci amalapena l’odore e non mi haidato modo di fartene gustareappieno il sapore, mentre mihai fatto pregustare l’inizio diun qualcosa che si è conclusosempre a letto. Sono quellidifatti gli unici ricordi dei tuoiineffabili “ti amo”. Come que-sto bellissimo collier di dia-manti e acquemarine che miscotta sulla pelle e mi rimane atestimonianza della tua facciatosta, della tua esuberante con-vinzione che ti fece dire il gior-no in cui me lo donasti: “Nonso come e non so quando, maio un giorno ti sposerò!”. Eh, già… un giorno! Quantecose si dicono presi dall’impul-so passionale, “ebbri d’amo-re”! Sì dal caso che io alfine misia maritata ma non con te.Posso aggiungere, per mia for-tuna. Già, quel giorno non arrivòmai, ma in compenso arrivaro-no quei giorni bui e vuoti cheuna donna innamorata e tradita

deve purtroppo affrontare e chetalvolta la fanno sprofondareancora più nell’abisso. Avendosuperato più volte situazionidel genere nella mia movimen-tata vita, con la grazia, la bel-lezza e la sicurezza di chi sache può ottenere tutto ciò chevuole (tranne l’amore) mi ritro-vai invischiata con leggerezzada una storia di sesso all’altra,illudendomi di poter dare ericevere qualcosa all’insegnadel libero scambio intellettualecoronato d’amicizia e affetto,ma ben altro volevano da metutti quanti oltre ad avere il pri-vilegio di frequentarmi!Musa di me stessa, ho ispiratoquel pittore che mi ha amato edipinto, prima come un’evane-scente apparizione sul mare, edè il quadro che ho qui alla pare-te del mio studio; poi come laNike di Samotracia spiccante ilvolo dall’alto della scalinatadel Louvre, ed è il quadro cheho potuto vedere solo nei mieisogni, perché l’autore se l’ètenuto per dispetto quando l’holasciato per seguire la mia stra-da fino al “colle dei vigneti”riminesi.Chissà se un giorno, per caso,in qualche mostra, potremovederlo… e chissà se tu o glialtri miei amanti mi riconosce-rete nella vittoria alata.Indomita guerriera, messagge-ra d’amore, impavida e appas-sionata come sono stata e hosempre voluto essere; come miha conosciuto colui che haavuto il coraggio di rimanermiaccanto nei giorni di sole e inquelli di pioggia. Semplice e

STORIA E STORIE

DAL DIARIO DI UNA NOBILDONNA

“SE UN GIORNO LEGGERAI QUESTE PAGINE…”Lara Fabbri

36

S

Il racconto della “nostra”Lara Fabbri, “Dal diario diuna nobildonna”, inviato alPremio Città di EmpoliDomenico Rea edizione2002, è stato selezionatodalla giuria del concorso edinserito con merito nel volu-me “Pensieri d’autore” editodalla Ibiskos di Empoli.A Lara, neo mamma del bel-lissimo Nicolò, i rallegra-menti di Ariminum.

“Semplice e sensuale,forte e femminile,

leggera e voluttuosa,così mi hanno sempreveduto, voluto, dipinto,

descritto,ma solo una volta

veramente ‘colta’ nellamia essenza più pura...”

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GENNAIO-FEBBRAIO 2004 A R I M I N V M39

avventura inizia come in unfilm: una serie di battute

scambiate tra un giovane ragaz-zo che non ha voglia di studiare,ma che è dotato di fantasia evivace intelligenza, e un vecchioinsegnante, di consumata espe-rienza, nelle vesti di Mentoreche illumina il ragazzo svogliatoe lo inizia allo studio dellaStoria: materia da sempre “indi-gesta” ai giovani. Un raccontonel racconto che GiovanniRimondini, storico doc dellanostra città, “butta là”, con noncuranza ma con quello stile gar-bato che lo caratterizza, comeprefazione ad una delle ultimeperle della collana “Microstoria”edita dalla Panozzo: “Vita illu-strata di Sigismondo Pandolfodei Malatesti signore di Rimini eFano” di Francesco Ambrogianiapparsa sugli scafali delle libre-rie riminesi poco prima dellafine anno.Richard, il ragazzo della sto-ria/prefazione, trova su un sitoInternet un fumetto che raccontala storia di SigismondoMalatesta e ne parla con il vec-chio professore.L’approccio alla Storia forse nonè dei più convenzionali ma chinon ha mai letto un fumetto? Epoi anche alcune nobili opere inlatino sono state ridotte in striscee nuvolette. L’importante è che ilragazzo s’interessa alle vicendedel Malatesta e alle motivazioniche lo spinsero a certe scelte. Nenasce un quadro anche psicolo-gico che coinvolge emotivamen-te il ragazzo il quale rapportandoed analizzando la figura diSigismondo, dei suoi nemici e leimmagini che ricostruisconoquei tempi acquista esperienza ecapacità di introspezione. Poi,dopo una breve e doverosa sche-da storica, ecco distendersi,pagina dopo pagina, strisciadopo striscia, la storia illustrata

di Sigismondo.L’urbinate ingener FrancescoAmbrogiani non è nuovo a que-sto tipo non facile d’impresa let-teraria, basti ricordare la sua“Storia per immagini dellaBanda Grossi” (1985), nonché isuoi disegni per il libro “FormaUrbis” o la collaborazione comeconsulente storico con la rivista“Pesaro. Città e Contà”. I suodisegno è nitido, curato nei detta-gli, professionale. Forse menorigidità e più dinamismo nell’in-quadratura non avrebbero gua-stato ma questo non è un raccon-to di Sclavi e Sigismondo non èDilan Dog. Questa è Storia verache deve calare il lettore tra le“pieghe” del Rinascimento. Lascelta della grafica inbianco/nero senza colore toglie sìfascino all’immagine ma èindubbiamente più artistica epermette all’osservatore dicogliere e godere, senza distra-zioni, di tutti i particolari propo-sti dalla abile penna diAmbrogiani. Ed allora ecco icastelli, le città, le macchine daguerra, le armature dei cavalieri,gli abiti dei signori, dei prelati edel popolo tutti parimenti detta-gliati. E Rimini com’era con lafontana ancora senza pigna. E ilponte Tiberio, unico passaggiosu quel fiume, “piccolo mare”,che la difendeva da sempre. E lacostruzione di quel castello con ilmaschio rivolto verso la città e

poi ancora gli accampamenti, lebattaglie, le fughe, i saccheggi,gli incendi, i matrimoni. Belle lestrisce dedicate all’antico com-plesso di San Francesco, allacostruzione del TempioMalatestiano e alla attuale piazzaTre Martiri in chiave medievaleammantata di neve. La Storia di Sigismondo e delsuo odio per Federico daMontefeltro è raccontata conabile semplicità che, al pari deldisegno grafico, delinea il carat-tere, la psicologia del personag-gio nonché l’ambiente che fa dasfondo alle vicende. E’ bello riconoscere i luoghiromagnoli, montefeltrini e tuttele altre città. E’ bello tra tanteguerre ed arida politica veder fio-rire l’amore vero tra il rude espietato condottiero Sigismondoe la giovane Isotta. E’bello vede-re come da tanta ambizione earroganza possa essere nataun’opera d’arte qual è il TempioMalatestiano ultima immaginedella storia illustrata diSigismondo ma anche unicotestamento spirituale del bellico-so signore. E sarebbe bello,aggiungiamo noi, vedere questolibro di Ambrogiani anche nellescuole elementari e medie rimi-nesi come avvio allo studio dellaStoria, alla grafica e alla cono-scenza della nostra città.

LIBRI

“VITA ILLUSTRATA DI SIGISMONDO PANDOLFO DEI MALATESTI:SIGNORE DI RIMINI E FANO”DI FRANCESCO AMBROGIANI

AMORI E GUERRE A “STRISCE”Silvana Giugli

sensuale, forte e femminile,leggera e voluttuosa, così mihanno sempre veduto, voluto,dipinto, descritto, ma solo unavolta veramente “colta” nellamia essenza più pura.Nemmeno la melodia creata alpianoforte in mio onore dacolui che mi fu maestro dimusica mi rappresenta. È cosìstruggente… tranquilla… ionon sono così. Ho vissuto evoglio rivivere attraverso lemusiche della Carmen, delBolero e continuare a cantarela mia Belle Nuit come quellavolta sulla gondola a Venezia,leggiadro spirito nelle nottid’amore. Sono stata corteggiata e gratifi-cata come a poche donne suc-cede nella vita, ma una solavolta amata, dall’unico uomoche può fregiarsi del titolo dimio fedele compagno d’avven-ture, oltre che di conte diCovignano: mio marito. Il miodolcissimo, colto e affascinan-te marito. L’uomo che mi harestituito la pace dell’anima e ilrispetto della mia persona, miha insegnato nuovamente adavere fiducia nei suoi simili enell’amore. Quell’amore di cuitanto si parla, spesso si sparla,e di cui pochi hanno veramen-te coscienza cosa significhirealmente. Sicuramente nonpossesso. Forse nemmenobeneficenza, quella che io hovoluto fare a tanti, spesso a mestessa.Al pari di una dea ho ricevutodoni, cortesie e favori dagliuomini più diversi e stimati,ma dentro di me un piccolosogno romantico continuavaalbergare: ballare i valzer diStrauss vaporosamente vestitadi bianco a fianco del mio bel-l’ufficiale nella divisa imperia-le. Ricordo ancora quelCapodanno a Vienna…Il mio cuore danza ancora sullenote del Danubio blu, mentre ilValzer dell’Imperatore accom-pagna in lontananza questomio ultimo viaggio… grazieamore. Danzerò sempre accanto a te.Larissa Bardi Delle Caminate

L’ “I castelli, le città,le macchine da guerra,

le armature dei cavalieri...e poi ancora

gli accampamenti,le battaglie, le fughe,

i saccheggi, gli incendi,i matrimoni”

“Sarebbe bello, vederequesto libro di Ambrogiani anche nelle scuole elementari e medie riminesi come avvio allo studio della Storia,alla grafica e alla conoscenza della nostra città”

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questo clima di disagio maturòil “moto di Rimini” o “delleBalze” che finì in fumo, masegnò la fine delle precarieorganizzazioni segrete e latimida nascita di un concettodi libertà esteso ad una basepopolare più ampia o, se cosìsi può definire, più democrati-ca.Le Legazioni resistettero tena-cemente ad ogni assalto fino al7 luglio 1859 quando laCronaca Riminese annunziòche la dogana del governopapale era stata spostata sul

GENNAIO-FEBBRAIO 2004A R I M I N V M 40

nchinati al bacio della SacraPorpora... (La stagione delle

congiure nelle legazioni) è uninteressantissimo libro diArturo Menghi Sartorio, pub-blicato dall’editore Pazzini. Iltitolo chilometrico che puòsembrare alquanto strano, è laformula di rito con cui si chiu-devano le lettere indirizzate aicardinali delle quattroLegazioni dello StatoPontificio: Bologna, Forlì,Ferrara, Ravenna e agli altiprelati in genere. Il testo cheriporta in appendice numerosidocumenti, traccia un profilodel periodo che va dallarestaurazione post-napoleoni-ca a dopo la seconda guerrad’indipendenza. Epoca dicospirazioni e di sommosse, disconvolgimenti e fraintesi.L’elemento rivoluzionario nonera compatto, non c’era unitàdi vedute, perchè interessi ebisogni cambiavano da luogoa luogo e perchè non c’era uncapo forte e affidabile.Mazzini stesso, idealista edegocentrico, in esilio lontanodalla Patria, non poteva ren-dersi conto della effettivasituazione italiana: non era,quindi, una guida sicura. Lafaciloneria era, spesso, causadel fallimento dei moti rivolu-zionari. La polizia pontificiaera piuttosto occhiuta special-mente se capeggiata da perso-

naggi sul tipo del colonnelloStanislao Freddi. L’elezione al pontificato diGregorio XV, poi, portò unarecrudescenza nei confrontidei liberali e dei loro simpatiz-zanti che il papa detestava. In

LIBRI

“... INCHINATI AL BACIO DELLA SACRA PORPORA”DI ARTURO MENGHI SARTORIO

TRA COSPIRAZIONI E SOMMOSSEEmiliana Stella

I

“Il Conscoop in Egitto” e “IlConscoop a Sharm El-Sheikh… ed altro ancora”stampati a Rimini dalleGrafiche Ramberti, il primonel novembre del 2000, ilsecondo nello stesso mesedell’anno successivo, sonodue eleganti volumi foto-grafici di Luciano Liuzzi.Il dirigente di azienda rimi-nese sa abbinare l’utile aldilettevole, infatti, oltre acondurre il suo lavoro, s’in-teressa di tutto quanto ha ache fare con l’immagine,anzi, si auto definisce “arti-giano dell’immagine”. Neilibri di cui sopra, sono rac-colte le fotografie scattatedurante i viaggi, fatti insie-me con il personale dellaConscoop, in Egitto: uno,nei luoghi storici del Nilo el’altro, nella penisola delSinai.

“IL CONSCOOP IN EGITTO” “IL CONSCOOP A SHARM EL-SHEIKH… ED ALTRO ANCORA”DI LUCIANO LIUZZI

VISIONI DI SOGNOEmiliana Stella

La carta patinata dà risaltoalla nitidezza delle riprodu-zioni. Osservando gli scorcidel tempio di Karnak e diLuxor, i particolari dellaValle dei Re, i colossi diMemnon, si vola con la fan-tasia, indietro di millenni;solo i villaggi sulle rive delgrande fiume, i mercanticon tutte le loro paccottigliemulticolori ci sbalzano dinuovo nella realtà odierna.Alcune riprese controluce,certi incredibili tramonti, lerocce plasmate dall’acquae dal vento, il palazzo diPetra scolpito nel sassosono visioni di sogno.Liuzzi, sebbene non sia unprofessionista, è un sensibi-le e valido osservatorecome rivela anche il suocommento introduttivo ante-posto al lavoro.

“Un profilo storico

del periodo che va

dalla restaurazione

post-napoleonica

a dopo la seconda

guerra d’indipendenza”confine di Pesaro verso ilTavollo.Decollava il sogno dell’unitànazionale difficile a realizzar-si, più che sul territorio, incerti animi restii ad abbando-nare personalismi e campanili-smi consolidatisi nel tempo.

“Decollava il sogno

dell’unità nazionale

difficile a realizzarsi,

più che sul territorio,

in certi animi restii

ad abbandonare

personalismi

e campanilismi

consolidatisi nel tempo”

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i viaggia veloce a bordodell’Intercity di Raffaello

Baldini. L’ultima raccolta dicomponimenti in dialetto delpoeta santarcangiolese, editada Einaudi, ha per titolo,curiosamente, una parolainglese. O meglio, comedirebbe uno dei personaggidelle sue pagine (i nomi parla-no da soli: Urbano, Nando,Colombo, Turci…) una parola“straniera”. L’indicazione,come metafora di modernità, èper un treno che procede rapi-dissimo “che va forte e tiradritto”, citando lo stessoBaldini nel racconto che donail proprio nome al volume.Salendo in carrozza, si incon-trano gli occhi attenti del pas-seggero che in viaggio forse,come scrisse Federico Fellinia proposito del viaggiare intreno, “si lascia vivere”,annullando barriere e resisten-ze per captare e lasciarsi gui-dare dalle tracce del paesaggioche corre via lontano con isuoi contorni poco nitidi.Nell’esperienza del transito,nel movimento da un luogo aduna destinazione corrispondein queste pagine un viaggiointeriore. Fuori, il paesaggioche sfila e fugge via, tirandosidietro, sul filo dei pensieri,immagini colte al volo e dis-poste in versi in una scritturadalla insita teatralità. Mentresi procede nel movimento siabbassa la guardia e lacoscienza si fa meno vigile,assopita e attratta dal fantasti-care a occhi aperti, tipico deldormiveglia. Gli spunti narra-tivi si accavallano, senzaapparente ordine di richiamologico.In “Intercity” si alternano 34componimenti, alcuni brevis-simi, ad altri molto lunghi,quasi dei racconti perfetta-mente compiuti. Ricordi, sen-

sazioni, sentimenti, osserva-zioni fatte ad alta voce tra sé esé. Sullo sfondo, la folla, lacomunità e il fluire del ricordoin totale solitudine, ripescatochissà come lungo le polvero-se strade del tempo. Una lin-gua musicale e incalzante acui si aggiungono cori, echi echiamate in causa. Ancora,continui rimandi sull’onda diun motivo, di un pretesto chenasce, cresce e quadrando ilcerchio, torna al nulla.L’immediatezza e la sottileironia dei versi di aperturadedicati ad un cane, Tom.Quattro righe, sferzanti, per-fette, nettissime che lascianoin bocca un retrogusto, direm-mo agrodolce. Cosa che capitaanche in “La mattina”. Lapoesia si fa dolcissima e tragi-ca in “Dany” mentre “In déu”

si presenta come una conside-razione sui grandi numeri,sulla necessità delle persone distare sempre in gruppo, di uni-formarsi. Il sentimento, latenerezza per la donna amata èsempre un passo indietro maben presente, accennato conpudore. Ilarità e atmosferesurreali tengono banco in“Pronto! Pronto!”, sequenzaossessiva di telefonate allaricerca di uno squillo nonafferrato in tempo. E sul prete-sto ecco partire il racconto disé, del mondo, del quotidianoche si allarga a spirale proiet-tata ad una dimensione del-l’assurdo. Tra le righe le velo-ci apparizioni dei personaggi,quasi un coro, chiamati uno aduno per nome, interlocutoriimmaginari a cui dirigere unpensiero, con cui discutere e

GENNAIO-FEBBRAIO 2004

LIBRI

A R I M I N V M

“INTERCITY”DI RAFFAELLO BALDINI

IN VIAGGIO TRA I RICORDI, LE SENSAZIONI E I SENTIMENTIGerardo Filiberto Dasi

41

S replicare, tecnica questa chedenota la scrittura di Lello diuna curiosa vena polifonica.La poesia di Baldini è così,funambolicamente a cavallosul filo sottile che distingue lavoce-flusso di coscienza equella più robusta dell’Io nar-rante, con forti pennellate dicolore che attingono a tratti alSuper ego della tradizione.Lello Baldini si conferma dun-que talento della narrazioneminima, toccando temi univer-sali (Vita, Morte, Amore,Tempo) intrisi di quotidianità.Di qui la preziosità della lin-gua del luogo natale, con lesfumature infinite che solo ildialetto sa rendere, arricchita ecaricata dall’essere idiomadella “memoria”, viva e nitidanel ricordo e nel cuore di chivive lontano dalla sua terra.

VENIERO ACCREMAN

“LE PIETRE DI RIMINI”Gerardo Filiberto Dasi

Caro Venerio,tutto d’un fiato. L’ho letto davvero tutto d’un fiato il tuo “Le pietre di Rimini”, perché l’ho tro-vato vivo, vero ed avvincente. Quando la storia personale s’intreccia e si confonde con lagrande storia, il profilo della nostra personalità s’ingigantisce e trova collocazione anch’es-sa nell’umana vicenda della comunità in cui abbiamo vissuto.La tua storia, quindi, è emblema e specchio di tutti noi: generazione costretta alle sfide deltempo, che ha attraversato il fuoco degli ideali e che gli ideali ha visto morire sotto muricrollati, imperi caduti,partiti spariti.Si potrebbe dire: peccato.Poi, però, prevale il sensodella realtà. Migliore que-sta di oggi o quella tumul-tuosa che abbiamo vissu-to? Io non ho dubbi.Grazie per averci lasciatola tua lucida testimonian-za.Un abbraccio. Gerardo Filiberto Dasi

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rielaborandoli fantasiosamen-te con affettuosa ironia.L’avvocato Benzi, il Titta, inun’intervista rilasciata aGhirardelli rievoca momentidi quell’adolescenza spensie-

rata e un po’… “ciondolona”,al mare in estate e in cittàd’inverno, confinati tra l’Arcoe il Ponte. Anche Angelucci, amico ecollaboratore di Fellini, e l’ex-sindaco Chicchi intervengonocon il loro contributo di noti-zie. Il lettore attento potràseguire diversi itinerari spo-standosi contemporaneamen-te, nello spazio e nel tempo,nella Rimini caotica di oggi ein quell’altra un po’ sonnolen-ta che non c’è più ma che,rievocata dai vari personaggi,si ripropone come un mirag-gio.

GENNAIO-FEBBRAIO 2004 A R I M I N V M43

uida” molto originalequella di Giuliano

Ghirardelli dedicata “allaRimini di Fellini” edita daPanozzo: un andare e venirenel tempo, frugando gli angolicentrali e periferici della città,seguendo il percorso deglianni giovanili di FedericoFellini: al Liceo con gli amicisempre pronti per qualchegoliardata, nella nebbia dellaPalata, sulle terrazze vuote delGrand Hotel, da Rossini a gio-care a “boccette”. Il regista, inseguito, s’ispirò per alcuni deisuoi capolavori a diversi luo-ghi e a molti episodi di allora,

LIBRI

“GUIDA ALLA RIMINI DI FELLINI”A CURA DI GIULIANO GHIRARDELLI

I LUOGHI DI AMARCORDEmiliana Stella

“Un andare e venire

nel tempo,

frugando gli angoli

centrali e periferici

della città,

seguendo il percorso

degli anni giovanili

di Federico Fellini”

G

“Al Liceo con gli amici,

nella nebbia

della Palata,

sulle terrazze vuote del

Grand Hotel...”

Dicevano i versi di unavecchia canzone: “C’è laluna rossa, c’è la verdeluna, c’è la luna marina-ra…” aggiungiamocianche quelle di LoriNocandi. “Duemila e unaluna” (Edizioni Fara) è,infatti, un librettino di velo-ce e piacevole letturach’ella ha scritto; protago-nista la luna, che dall’altodel firmamento ha unavisione privilegiata perosservare quello che suc-cede quaggiù e così haindividuato una coppia

“DUEMILA E UNA LUNA” DI LORI NOCANDI

AMOR OMNIA VINCITEmiliana Stella

se esiste tuttora della genteche considera “terroni”gl’Italiani delle regioni meri-dionali, non c’è da scanda-lizzarsi più di tanto se nontutti accettano lo straniero. I

perfetta e particolare: Lori,riminese doc e Majid persia-no doc. Si sono incontratiall’Università e si sono sposa-ti. Amor omnia vincit, non-ostante gl’intoppi che si tro-vano sempre strada facendo,lei è stata tenace e coraggio-sa, ma ha avuto anche unpizzico di fortuna, per moltedonne che, hanno sposatouomini di altra cultura, l’in-contro è diventato scontro. Inteoria è facile accordareOriente ed Occidente, nellarealtà tutto diventa più com-plicato. Troppe civiltà diversee tutte insieme sono entrate afar parte del nostro mondoegoista, egocentrico, chiusonei suoi principi, geloso dellapropria identità. I fenomenidi razzismo generano spessoreazioni sproporzionate, ma

burkah sono tanti e nonsono solo le donne a indos-sarli e non solo le donneorientali. La scrittrice haragione, ma per poterseneliberare ci vorrà un lungoperiodo di rodaggio.Intanto accanto alle luneriminesi, storte, razziste,stanche speriamo che nesorgano altre luminose eilluminanti.

“Lori, riminese doc

e Majid persiano doc.

Si sono incontrati

all’Università

e si sono sposati...”

“Troppe civiltà diverse

e tutte insieme

sono entrate

a far parte

del nostro mondo ...”

“Lei è stata tenace

e coraggiosa,

ma ha avuto anche

un pizzico di fortuna,

per molte donne che

hanno sposato

uomini

di altra cultura

l’incontro

è diventato

scontro”

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GENNAIO-FEBBRAIO 2004A R I M I N V M 44

rent’anni fa –precisamentenel gennaio 1974 – in uno

stanzone disadorno, riscaldatoda una stufa a gas, affittato daifrati di San Bernardino, pren-deva le mosse quella che con iltempo sarebbe divenuta lascuola di danza più prestigiosadi Rimini: l’Arabesque DanceCenter. Già l’anno precedentele prime avvisaglie: nella casadi viale Trieste dove con unasbarra fissata al muro dalmarito Piero Mussoni suoautentico mentore, era stataricavata una idea di palestra,June Gallagher aveva provatoa fare scuola di danza allefiglie delle amiche sue conna-zionali inglesi. Originaria diBradford, nello Yorkshire, eformatasi attraverso una seve-ra preparazione, all’età di 18anni, June Gallagher avevaintrapreso una fulgida carrieradi ballerina partecipando aduna tournée con il musical“The desert song” di JohnHanson ed in seguito con “Thestudent prince”Successivamente protagonistain diverse “stagioni” estive conla compagnia “BernardDalfonte Productions” e neitradizionali “pantomimes”inglesi con la compagnia“Sherman Fisher Productions”,venne quindi ingaggiata dalgruppo “Bill Dane Dancers”con il quale partecipò ad una

lunga tournée nei teatri inglesi“Moss Empire”. In seguito conla “Rosselli Dancers” nell’am-bito dell’“Edinburgh Festival”ebbe l’onore di esibirsi nellastagione teatrale di Edimburgo.Fu quindi scritturata per la

serie televisiva “Oh Boy” epartecipò al film “On Tour”

prodotto dalla BBC. Al terminedi questa esperienza incomin-ciò a prodursi come solista nelteatro leggero, effettuandonumerose tournées all’estero inGermania, Francia, Egitto,Svezia, Islanda, Svizzera,Giordania. Al culmine dellacarriera professionale Juneavvertì l’esigenza di fermarsi,di ripensare, di guardarsi intor-no. Ed eccola dunque a Riminiin veste di guida turistica all’i-nizio degli anni ’70 in unapausa di riflessione dal mondodella danza. Eppure un’espe-rienza professionale così riccae significativa non potevaandare dispersa: molteplicisollecitazioni a riprenderecontatto con l’ambiente artisti-co riuscirono poco alla volta avincerne le resistenze. Cosìdopo qualche tempo, non deltutto convinta delle sue capa-cità didattiche ma al tempostesso determinata a mettere afrutto il bagaglio artisticomaturato, anche se consapevo-le delle difficoltà della piazzariminese non certo favorevol-mente predisposta, JuneGallagher con profondo sensodi umiltà si mette in gioco,ricomincia da capo e decide didiplomarsi insegnante allaRoyal Academy of dancing diLondra. Fu Liana BonifaziValmaggi, la compianta indi-

MUSICA

JUNE GALLAGHER DELL’ARABESQUE DANCE CENTER

IL FASCINO DISCRETO DELLA DANZAGuido Zangheri

T

June Gallagher (al centro)

con alcune sue allieve.Sotto e nella pagina accanto

la grinta e la dolcezza di June.

➣“Fu Liana Bonifazi

Valmaggi,

la compianta

indimenticabile

maestra di danza

a rendersi conto

per prima

delle straordinarie

attitudini

della Gallagher”

“Oltre ad educare

intere generazioni

di giovani riminesi,

la Gallagher

ha contribuito

in maniera decisiva

a formare

nella nostra città

la cultura

dell’arte della danza”

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espressivi. L’impegno di Juneintanto si estende alla coreo-grafia con la tendenza ad inne-stare elementi di ballettomoderno sulla tecnica classi-ca. Così mentre il “Free Form”amplia gli orizzonti del CentroArabesque in direzione di col-laborazioni sempre più strette efrequentazioni con personaggidi rilievo del mondo delladanza,-solo per citarne alcuni

Dominique Mercy, CarolynCarlson, Philip Beamish, RitaPoelwoorde, Larrio Ekson,Norio Yoshida, Peter Goss,Richard Cacheres; Carla Fracciha provato all’Arabesque la suaFrancesca da Rimini; vi hannofatto visita Martha Graham,Kazuo Ohno, Josè Limon e iballerini della LondonContemporary DanceCompany- June Gallagher svi-

luppa i suoi interessi nel settoredella coreografia, ottenendopremi e riconoscimenti in Italiaed in vari paesi d’Europa con ilavori “Forgotten Dolls”,“Gente di Eire”, “WoundedShamrock”, “Racconti celtici”,danzati dall’Arabesque GruppoJunior e dalla CompagniaYoung Dancers-due gruppi direcente costituzione. Affiancatain questi ultimi anni dalla figliaRoberta Mussoni e da MarcoBaldazzi entrambi suoi exallievi, June Gallagher ha sapu-to aggiornare i metodi pedago-gici della Royal Academy con ipiù avanzati ritrovati americanidella tecnica come ad esempioquello di Philip Beamish fauto-re della cosiddetta “sbarra aterra”. Un nutritissimo elencodi ex allievi pienamente affer-matisi nella professione ed incarriera in Italia e all’estero–gli stessi Marco Baldazzi eRoberta Mussoni, AlessandroBizzi, Elena Buda, ValentinaBuldrini, Silvano Ciacci,Germano De Rossi, GiuseppeDe Ruggiero, Ivan Gessaroli,Chiara Girolomini, ElisaLenzi, Roberta Lepore,Barbara Martinini, AzzurraMigani, Marcella Morganti,Giuditta Pasquinelli,- e di bor-sisti –Stefania Amaducci, SaraBarbieri, Chiara Giovagnoli,Valentina Golfieri, MelaniaOlmi, Angelica Pracucci,Simona Sacchini, AngelaScarpellini- costituisce l’aspet-to più rilevante di un diuturno,serio, intelligente impegnoumano e professionale cheoltre ad educare intere genera-zioni di giovani riminesi, hacontribuito in maniera decisivaa formare nella nostra città lacultura dell’arte della danza.Un merito questo, indiscutibile,che rende la figura di JuneGallagher, recentemente insi-gnita del titolo “membro avita” della Royal Academy, unsicuro e prezioso punto di rife-rimento per i cultori e perquanti hanno a cuore le sortidell’arte cara a Tersicore.

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menticabile maestra di danza arendersi conto per prima dellestraordinarie attitudini dellaGallagher e ad affidarle per ilperfezionamento le suemigliori allieve: June rivivecon orgoglio e commozione ilgesto di apprezzamento dimo-stratole da quella che in Cittàveniva considerata la massimaautorità in materia di danza.Nel 1976 la sede della scuolatrasloca in via Minghetti perrimanervi sei anni: un periodorelativamente breve nel qualesi esplica la piena affermazio-ne del Centro Arabesque. Unodei motivi fondamentali delsuccesso è rappresentato dallapossibilità che i suoi allieviinterni ed esterni possanoaccedere agli esami di ognigrado per la Royal Academy.E’ la svolta epocale per le sortidello studio della danza aRimini e nel ’77 nel salonedelle feste del Casino Civicovengono consegnati i primidiplomi a Cristina Vasconi eLorella Innocenti. Nel 1978intanto assieme al coreografoospite Robin John, JuneGallagher riprende a danzareoffrendo il suo personale con-tributo a tutti i lavori prodottidalla Compagnia ed incomin-cia ad interessarsi alla creazio-ne di un gruppo professionale.Il successivo incontro (1982)con Claudio Gasparotto, balle-rino e coreografo moderno econtemporaneo, ne favoriscecompiutamente la realizzazio-ne: con Gasparotto, June con-dividerà la direzione artisticadella scuola fino al ’98. Nelfrattempo l’Arabesque Centersi trasferisce definitivamentenella attuale ampia sede divicolo San Giovanni: qui siforma il “Free Form DanceTheatre” una sorta di laborato-rio permanente di idee e diricerca plasmato a quattromani da June Gallagher e daClaudio Gasparotto. Il “FreeForm” verrà poi continuato esviluppato straordinariamentenella sua esperienza creativada Gasparotto che lo condurràai massimi livelli artistici ed

MUSICA

Ivo GigliSOLO LE COSE LONTANE

Solo le cose lontanesolo le cose impossibili

le cose che stanno nascostele cose che non hanno grammatica

che appaiono e spaionocome il sole

di tra le foglie dell’alberole cose che temono la parola

che giacciono nel silenziosolo le cose che non hanno radici

ma che si fanno amareio cerco

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el Novembre scorso èstato inaugurato a

Valliano di Montescudo ilMuseo Etnografico presso lacanonica attigua al santuariodi Santa Maria Succurrente(sec. XV). La storia di questomuseo è unica e merita diessere conosciuta, perchénasce in una scuola, che è statacapace di instaurare, attraver-so gli studenti, un continuo efecondo interscambio cultura-le con la comunità del luogo.Negli anni ’63-’64, allorchévenne istituita la scuola mediaunica obbligatoria, un gruppodi insegnanti, coordinati daGino Valeriani ed EbePagliarani, ebbe la felice intui-zione di organizzare il proget-to educativo-didattico parten-do dalla cultura del territorio.Si erano resi conto, infatti, chel’insegnamento tradizionalenon faceva presa su questiragazzi, non diventava patri-monio culturale capace di atti-vare quel processo evolutivo,atto a comprendere la realtà ead ampliarne gli orizzonti.Fu così che la vita di quel ter-ritorio entrò nella scuola e conessa tutto un patrimonio divalori, di affetti, di tradizioni,di lavoro, di cultura. I ragazziincominciarono ad intervistarei genitori, i nonni, i contadini,gli artigiani. Questi vennero ascuola a raccontare la loroesperienza di vita e di lavoro,portarono gli attrezzi di usoquotidiano, ne mostrarono l’u-tilizzo. La documentazioneraccolta di anno in anno:oggetti, fotografie, schedeillustrative, interviste, relazio-ni confluirono in mostre atema, organizzate annualmen-te presso la scuola e in nume-rosi e pregevoli pubblicazioniedite da “la Stamperia”.Questa attività di ricerca, sup-portata da enti culturali, hapermesso una conoscenza

approfondita del territorio diMontescudo ed ha contribuitoa creare nei giovani e in tuttala comunità una consapevo-lezza delle proprie radici cul-turali, la capacità di compren-dere in modo critico la propriarealtà, elementi indispensabiliper progettare il futuro.La costituzione di un museostabile è stato, quindi, il natu-rale compimento di questafase di maturazione e la sceltadella località anch’essa scon-tata. Valliano, infatti, è un atti-vo centro agricolo, che più diogni altro ha conservato lecaratteristiche tipiche del terri-torio. Dispone inoltre di unasede idonea: una canonica dis-abitata, annessa al santuario diS. Maria Succurrente.Sono durati circa una decinad’anni i lavori di restauro delcomplesso: rafforzamentodella quattrocentesca torrecampanaria, recupero degliaffreschi che adornano il pre-sbiterio, sistemazione dellasede. Chiesa e canonica, stret-tamente collegate, costituisco-no un unico percorso museale,che invita a visitare la BeataVergine, ad ammirare i nume-rosi ex voto in argento, gliaffreschi del XV-XVI secolo,forse di scuola bolognese, checelebrano due soggetti teolo-gici: la maternità di Maria e ilLibro Sacro. Si accede, poi, alprimo piano della canonica:un unico ampio vano, in cuisono stati allestiti i materialiespositivi ed illustrativi.

Il filo conduttore è la centrali-tà della casa all’interno delmondo contadino con l’orga-nizzazione del lavoro, centratosulla famiglia. Alcuni pannellididascalici, corredati da foto-grafie e da stralci di interviste,orientano la visita. Si parte dailavori più esterni alla casa: l’a-picoltura, la macellazione delmaiale, i lavori diversi legatialla coltivazione dei campi ead alcune attività artigianalipresenti nel territorio diMontescudo, quali la lavora-zione dell’argilla, tuttora vita-le a S. Maria del Piano. Sipassa poi all’interno dell’abi-tazione, ad attività legate mag-giormente al ruolo delladonna: la cucina e l’alimenta-zione, la famiglia e i giocatto-li, la filatura e tessitura. Imateriali sono in parte appesialle pareti ed in parte sono dis-posti in modo da ricreare alcu-ni ambiti domestici. Il telaiopare che aspetti solo che ladonna riprenda il lavoro inter-rotto; la cucina ha la tavolaapparecchiata con la tradizio-nale tovaglia stampata a ruggi-ne. I semplici giocattoli inlegno, costruiti in casa (lasfrombla, e sciuplet, la caréte-la…) suscitano sorrisi enostalgie; i tanti oggetti espo-sti ci fanno superare d’unbalzo i brevi lunghissimi anni,che hanno trasformato radical-mente il nostro modo di vive-re. Al piano terra si visita lacantina e si osserva un granaiosotterraneo sapientementeilluminato.Il museo di Valliano ha, così,realizzato la prima importantefase; sono previsti, infatti,ampliamenti successivi. Èassai attivo in zona un comita-to parrocchiale formato daquei ragazzi, ora adulti, chehanno maturato assieme ailoro insegnanti e a tutta lacomunità la consapevolezza e

la volontà di testimoniare etrasmettere la cultura contadi-na dei propri padri, capaceancora di parlare a noi, ma giàtanto lontana.

MUSEI

IL MUSEO ETNOGRAFICO DI VALLIANO (MONTESCUDO)

TUTTO SULLA NOSTRA CULTURA CONTADINAEmilia Maria Urbinati

N

Presso la Libreria Luisè,Corso d'Augusto, 76(Antico Palazzo Ferrari, oraCarli) e il Museo della Cittàdi Rimini (via Tonini) è pos-sibile prenotare gratuita-mente i numeri in uscita diAriminum e gli arretratiancora disponibili

ARIMINUMDA LUISE' E PRESSOIL MUSEO

DELLA CITTÀ DI RIMINI

“Il filo conduttore

è la centralità della casa

all’interno

del mondo contadino

con l’organizzazione

del lavoro,

centrato sulla famiglia”

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a compagnia “Mej ch’negnint” nasce nel 1994 e si

forma all’interno del CircoloANSPI “San Francesco” diBellariva, grazie all’idea dialcuni soci, divenuti poi ancheattori. La regia è affidata aFranco Brasini che cerca dimettere in pratica gli insegna-menti ricevuti da un registadella RAI, quando da ragazzorecitava in lingua italiana, por-tando alla ribalta alcuni testi diautori riminesi e non.Nel 1998 Giuseppe Ciavattaoltre ad essere un attore dei“Mej ch’ne gnint”, divieneanche autore e capocomico delcast formato da Anna Ticchi,Sabrina Lombardi, RolandoGiovanetti, Carmen Paganelli,Danilo Rossi, Eliana Viserbi,Roberto Giani, SilvanaVanucci, Maurizio Tenti, dagliaiuti di scena Vittorio Censi,Giovanni Viserbi, ElidePiccari e dal direttore artisticoFranco Brasini. Il gruppo,dopo aver messo in scena“Frazcoun l’ha vint e lot”(1994), “La Butega ad Pitron”(1995), “E curnud cunteint”(1996), “Gigin e garzon difrè” (1997) porta alla ribaltasotto la nuova regia, “J’èseimpre i mat a salvè al famei”(1998), “Bienc o ner j’è tottburdel” (1999), “So’ o zo’ ecmanda lo” (2000), “Al donil’in si po cumprè” (2001),“Tott i po andè ti prit” (2002),“La sgonda l’è mei dla prima”(2003).L’equipe riceve stimoli oltreche dal suo autore e regista,anche dai componenti dellastessa compagnia che puòapportare nei canovacciespressioni capaci di appagareil senso umoristico del pubbli-co. Il dialetto, nel tempo, conla tecnologia e la scienza siarricchisce di nuovi vocaboli,ma ne perde altri insoliti, cheil gruppo scenico cerca di

recuperare con battute. La televisione ed il turismohanno penalizzato il vernaco-lo, per cui questo è andato viavia italianizzandosi. Tuttavia igiovani desiderano ancoraconoscere l’idioma dei lorononni così ricco di suoni colo-riti, di frasi semplici, ma effi-caci, espressione di un periodostorico superato. Oggi che si èpersa questa continuità lingui-stica, per le filodrammatichenon è facile esprimersi comeuna volta, perché il dialetto nelfrattempo, si è arricchito diuna fonetica e di un lessico didiversa provenienza geografi-ca. Ad esempio i modi di dire

dialettali “T’fè ‘na boba!”,“T’fè un rapased”, T’fè unscaramaz!”, “T’fè un casein”,“T’fè ‘na cunfusion!”, indica-no tutti il chiasso, lo schia-mazzo, la confusione, ma pro-vengono da diverse localitàdel Riminese.A volte, fuori copione, posso-no accadere buffe e piacevolisorprese. Si racconta, adesempio, che in una replicadell’ultima rappresentazione,nel teatro di Ospedaletto, unapipa involontariamente siavolata dal palco in testa ad unsignore del pubblico.All’improvviso la platea èstata teatro di una sonora espassosa risata. Nelle comme-die dialettali alcuni titoli spes-so si prestano ad un doppiosenso: così è accaduto per “Lasgonda l’è mej dla prima”.Molti spettatori pensavano diassistere ad una successione difatti diversi da quelli realmen-te portati alla ribalta. A sorpre-sa, vengono eseguiti tre inter-venti chirurgici a personedello stesso nucleo familiare:la figlia è sottoposta ad unintervento mastoplastico perrimodellare il seno, alla

mamma viene praticata unaliposuzione per eliminare lacellulite; il padre subisce unintervento cardiochirurgicoche lo obbliga alla sedia arotelle. Una seconda operazio-ne gli restituisce l’uso dellegambe in cambio dell’omoses-sualità.Quasi tutti gli spettacoli pre-sentati hanno un taglio brillan-te-comico che spesso può con-durre a serie riflessioni. I “Mejch’ne gnint” dicono che avolte qualche attore sia allergi-co allo studio e non è semprefacile, se non si vogliono crea-re inimicizie, portare in scenauna nuova commedia. Ilnostro cast è d’accordo con lealtre compagnie che lo strepi-toso successo di “LaFranzchina da l’ai” di UbaldoValaperta e di “Stal mami” diLiliano Faenza abbia promos-so una larga diffusione del tea-tro dialettale. E’ auspicabile,pertanto, raggiungere ancorapiù autonomia in questa arte,perché non sia un solo movi-mento di riflusso. L’equipeesegue le prove presso ilCinema Teatro di Bellariva.

TEATRO DIALETTALE

COMPAGNIE E PERSONAGGI DELLA RIBALTA RIMINESE

MEJ CH’NE GNINTAdriano Cecchini

L “La compagnia

nasce nel 1994

e si forma all’interno

del Circolo ANSPI

‘San Francesco’

di Bellariva,

grazie all’idea

di alcuni soci,

divenuti poi

anche attori”

J’è seimpre i mat a salvé al famei.

Da sx: Tina Muscioni, Sabrina Lomabardi,

Anna Ticchi, Maurizio Tenti,Giuseppe Ciavatta

e Fabio Pozzi.

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ue estati fa, ho seguitodue corsi di canto qui in

Italia. Nell’intervallo fra icorsi ho visitato Bologna perla prima volta con il mio tutoruniversitario, che ha volutomostrarmi la città e le bibliote-che dove aveva fatto le suericerche. Il mio tutor ha otte-nuto il permesso affinché iopotessi toccare i libri antichi, emi ha mostrato diversi tipi dicarta e di pergamena. Eraanche convinto che io potessicapire l’arte e l’architettura, eha costruito per me, usandofogli di carta di giornale, piat-ti e argenteria della cucina,modellini delle chiese e dellealtre strutture importanti diBologna. Uno dei suoi colle-ghi gli ha chiesto perché face-va così molto per me. E lui harisposto semplicemente:“Jamie vuole sempre saperetutto.” E’ stato questo miodesiderio di sapere che mi haspinto a studiare all’estero.Quando ho fatto domanda perquesta borsa di studio, hodovuto scegliere cinque uni-versità in almeno tre Paesidove avrei potuto svolgere imiei studi. Naturalmente,l’Università di Bologna è statala mia prima scelta.Siccome ho già completato icorsi e gli esami per il mioprogramma di dottoratoall’Università dell’Oregon,qui in Italia faccio le ricercheper la mia dissertazione di dot-torato, scrivendo sulla retoricadella monodia del Seicentoitaliano. Desidero dimostrareai musicisti di oggi che lastruttura retorica e i modi didire e di pensare che si trova-no nella poesia lirica italianada Petrarca in poi sono anchepresenti nella musica vocaledel Seicento. Il titolo della mia

ricerca è “La retorica classicanel canto del Seicento, unostudio di discipline che si col-legano.”Poiché non parlo molto beneitaliano, mi è difficile direquanto sono grata per questaborsa di studio che mi dà l’op-portunità di studiare a

Bologna. Sono arrivata solosei settimane fa e ho già impa-rato tanto. Ogni giorno in cittàè una piccola avventura. Trovomolti ostacoli, come macchineparcheggiate sui marciapiedi osulle strisce, o nuovi lavori incorso, o cani liberi in viaZamboni. Però, davanti ad

ogni ostacolo, trovo anchetanta gente disposta a darmiuna mano. Da questa genteimparo a conoscere Bologna.Per esempio: quali sono le piz-zerie o le gelaterie migliori;dove si comprano belle scarpea prezzi convenienti. Sebbeneio viva indipendentemente, hospesso bisogno di un po’ diassistenza da qualcuno.Quando sono accompagnatadal mio Labrador gli amiciaumentano. Tantissime perso-ne ci guardano, salutano, eaccarezzano il mio cane.Arturo – così si chiama il mioLabrador - è diventato lamascotte dell’Archiginnasio. Ibibliotecari fermano il lorolavoro per salutarlo. Il suonome se lo ricordano, il mioinvece no. L’altro giorno stavocamminando in piazza e dalontano ho sentito una signorasconosciuta che diceva: “Ah,ecco Arturo: il Labrador, ilcane guida.”Grazie alla Rotary Foundationsto imparando le più interes-santi cose della cultura italiana(e forse le più importanti) eappago il mio desiderio disapere. La mia sfida è miglio-rare il mondo in cui vivo e gra-zie ai Rotariani ci riuscirò. Hoimparato l’importanza dellapartecipazione ad un’organiz-zazione che si concentra suiprogetti come l’estirpazionedella polio e l’istruzione deigiovani. Anche voi, come me,riuscite a superare gli ostacoli;ostacoli che sfidano i più fortiindividui. Vi sono grata perl’opportunità che mi offrite.La Fondazione Rotary mi haingrandito il mondo. Sonoconvinta che insieme possia-mo creare un mondo più giu-sto per tutti. Grazie.

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NEWS ROTARY NEWS

A R I M I N V M

ROTARY FOUNDATIONSabato 15 novembre si sono svolti a Rimini i lavori del SEFR Zona Emilia Toscana e R.S.M.. Riportiamo qui di seguitoalcuni passaggi dell’intervento di Jamie Weaver, una studentessa americana non vedente che, grazie alla FondazioneRotary, sta portando a termine nella città di Bologna uno studio rivolto a valorizzare i collegamenti fra “La retorica clas-sica ed il canto del Seicento”.

“JAMIE VUOLE SEMPRE SAPERE TUTTO”

49

D

ROTARY FOUNDATIONNell’annata 2002-2003 il Distretto 2070 che unisce iRotary Club dell’Emilia, della Toscana e della Rep. di SanMarino è risultato, tra i 530 Distretti di tutto il mondo, ilmaggiore contribuente della Fondazione Rotary, che hal’impegno di sostenere gli sforzi del Rotary Internationalnel conseguire i suoi scopi e nel promuovere l’intesa e lapace tra i popoli mediante programmi culturali, educativie umanitari condotti a livello sia locale che internazionale.La contribuzione totale è risultata essere di US$ 1.193.153pari a un versamento pro-capite, da parte di tutti i soci, diUS$ 204,34.In ambito distrettuale il Rotary Club Rimini si è distinto inquanto è risultato il maggior contribuente con un versa-mento pro-capite pari a US$ 178,50 per una partecipa-zione, che lo pone al secondo posto nella tabella delle con-tribuzioni totali, di US$ 14.279,82. (A. L.)

Nella riunione dell’11 dicembre il presidente del RotaryClub Rimini, Bruno Vernocchi, ha consegnato al dott.Gianfranco Francioni un assegno di 3.500 Euro per l’ac-quisto da parte dell’Ospedale Infermi, reparto chirurgia, diapparecchiature audio-visive per il controllo a distanza deidegenti.

BrunoVernocchieGianfrancoFrancioni

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l primo articolo l’avevoscritto e pubblicato a

Livorno, sul “Tirreno”, nel’56. Parlavo di jazz, la miavera passione e Gragnani, ilcritico, mi aveva fatto l’onoredi chiedermi un pezzullo.Perché al Piccolo Teatro delGrattacielo di Livorno, direttodal gesuita padre Guidubaldi,avevo aperto la sezione tosca-na del “Dixie Memorial JazzClub”, il cui presidente eraaddirittura Kid Ory, la miticatromba di “Tiger Rag”, e me ladavo anche da attore (EnricoIV di Pirandello, Arsenico evecchi merletti di Kesselring,Assassinio nella cattedrale diT. S. Eliot) pur di non studia-re. Al liceo classico Piccolinime la passavo male, perchénell’ottobre del ’56 quandoscoppiò la rivoluzione inUngheria, avevo partecipato auna manifestazione di studen-ti, ero salito su un monumentocon la bandiera tricolore – ilnostro e loro biancorossoverde– restando immortalato da unafoto finita sul giornale. Nellarossa Livorno avevo comeinsegnanti Nicola Badaloni,sindaco della città, e MarinoRaichich, entrambi pezzi gros-si del Partito Comunista(Badaloni ne fu l’ultimo presi-dente, dopo la “Bolognina”), ela vita era dura. Più tardi, mene andai dagli Scolopi, allaBadia Fiesolana sui colli diFirenze, e toppai anche lì,pubblicando sul “Borghese” diLeo Longanesi un pezzullocontro l’Azione Cattolica chediscriminava i giovani didestra. Non era così pesante,quel “pezzo”, ma fu la scusaper allontanarmi; non avevanoil coraggio di dirmi, i Santi

Padri, che la cosa che non gliandava giù era il bellissimoinserto fotografico del“Borghese” in cui apparivanospesso donne discinte, leprime audaci icone della bor-ghesia svaccata; e fui punitonon tanto come collegiale maperché da alcuni mesi eramorto mio padre, non c’eranopiù i mezzi per pagare la retta

(carissima) e m’ero adattato afare l’istitutore: poteva, unoche leggeva certi giornalacci –e ci scriveva pure – garantireun ruolo, anche se secondario,di educatore? No. Fuori:Dovetti rientrare a Rimini,dove non completai mai glistudi, nel liceo Giulio Cesaredi Arduino Olivieri, il granpreside che aveva reso la vita

difficile anche a FedericoFellini e che si meritò unritratto in Amarcord.In quella Rimini che stavaconoscendo i primi grandisuccessi estivi grazie alle suenotti di fuoco e d’amorecominciai a scrivere per “LoSpecchio” di Roma diretto daGiorgio Nelson Page (…). “LoSpecchio” si batteva in edicolacon “Le Ore”, diretto daSalvato Cappelli, il cui editoreera – guarda un po’ – il ConteRognoni. Le mie cronachemondane funzionavano, la miabase di lavoro – direi l’ufficio– era “Il Paradiso”, il night piùnoto della Riviera, dove scri-vevo, cantavo (per arrotondarei magri introiti del giornali-smo) e presentavo gli ospitiillustri: il più grande, ChetBaker, con il quale trascorsi unpaio di giorni indimenticabili.Nel pomeriggio e in… primaserata stavo a Marina Centro,all’Embassy, con FredBuscaglione. Che notti quellenotti. (Ricordati di Rimini –cantava Fred – di un bacioall’imbrunir / di quelle nottimagiche / trascorse in unsospir / Quelle notti passatenell’Embassy / cantando can-zoni fantastiche…). QuandoFred morì, a Roma, in via XXSettembre, schiantandosi conla sua Thunderbird tutta rosa,gli dedicai il mio primo pezzoper il “Carlino” edizione diRimini e poco dopo il destinomi confezionò un po’ di DolceVita proprio a Roma, proprioin via XX Settembre, dove alnumero 1 era la redazionedello “Specchio”. Vi ero arri-vato – io, corrispondente dellaRiviera di Romagna – al

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NEWS ROTARY NEWS

A R I M I N V M

PREMIO ROTARY LIVIO MINGUZZIIl giornalista Italo Cucci è stato insignito dal Rotary Club Rimini del “Premio Rotary Italo Minguzzi” per l’anno 2004.Qui di seguito riportiamo alcuni stralci tratti dal suo libro “Un nemico al giorno”, Storia di un giornalista, edito daLimina.

RICORDATI DI RIMINI, DI QUELLE NOTTI MAGICHEItalo Cucci

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I

PREMIO ROTARY LIVIO MINGUZZIIl Premio “Rotary Livio Minguzzi”, istituito dal Rotary ClubRimini nel 1985 per onorare la memoria del proprio sociofondatore, viene assegnato annualmente a riminesi (nativi od’adozione) che si sono particolarmente distinti nel campoculturale, artistico, scientifico, sociale, economico, sportivo,scolastico e rotariano. Ai premiati viene conferita l’onorifi-cenza del “Paul Harris Fellow”.

ALBO D’ORO1985 Domenico Giovannelli (scienze giuridiche)1986 Elio Morri (arte)1987 Maurizio Cumo (scienze nucleari)1988 Augusto Campana (cultura)1989 Suor Vincenza (impegno nel sociale)1990 Margherita Zoebeli (scienze pedagogiche)1991 Lanfranco Aureli (economia e industria)1992 Pier Giorgio Pasini (cultura)1993 Stefano Carlini (industria navale)1994 Antonio Paolucci (cultura)1995 Stefano Zamagni (scienze economiche)1996 Claudio Maria Celli (diplomazia)1997 Carlo Alberto Rossi (musica)1998 Marilena Pesaresi (impegno nel sociale)1999 Franca Arduini (cultura)2000 Sergio Zavoli (cultura)2001 René Gruau (arte)2002 Antonietta Cappelli Muccioli (impegno nel sociale)2003 Alberta Ferretti (imprenditoria)2004 Italo Cucci (giornalismo)

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seguito del patron del“Paradiso”, Ivo del Bianco,arruolato per recitare la partedi un dolcevitiero nel Principefusto, con Maurizio Arena. Glifacevo da press agent perchéera disinvolto con le femminee impacciatissimo coi giorna-listi. Vivevo all’hotel “QuattroFontane”, passavo le seratealla Taverna di via Margutta,gestita da un romagnolo,dov’era di casa NovellaParigini, dove le belle di nottesi sprecavano, dove compari-vano i personaggi del jet set edella café society (vip e nip)ch’erano il pane quotidianodello “Specchio”.Non m’ero mai interessato disport, avevo appena nutritouna passione fanciullesca peril Grande Torino diBacigalupo e Gambetto, e imiei eroi se n’erano andatinella tragedia di Superga.Amavo Bartali e detestavoCoppi, ma soprattutto perché aquel tempo Gino era di destrae Fausto di sinistra, e al BarSport si parlava poco di calcioe molto di politica con spiritofazioso tutto romagnolo ma ununico scopo finale: andare adonne. Nella Rimini presun-tuosa che già aveva lanciatoun giornalista sportivo eccel-lente, Sergio Zavoli, autore diradiocronache cittadine al

seguito del Rimini biancoros-so, si leggeva con partecipa-zione critica il “GuerinSportivo”, il giornalone diGianni Brera, già grande, giàmaestro, già amato dagli inte-risti, detestato dagli juventini.Ma io non capivo, o non vole-vo capire, quell’amore spreca-to per il pallone. Preferivo ledonne. L’occasione di un mixfra calcio e amore mi fu offer-ta dal direttore dello“Specchio” quando AntonioValentin Angelillo, il bomberdell’Inter (33 gol nel campio-nato ’58-’59, record mai battu-to) fu cacciato da HelenioHerrera perché s’era invaghitodi una cantante di night, IlyaLopez; andai a Milano, li sco-vai in un ristorantino dovetubavano al lume di candela, efu scandalo. Altro che Veline eLetterine. Più tardi – ormaicalcistizzato – ritrovai la bellacoppia al Gallia di MilanoMarittima, raccontai la lorostoria per “Stadio”, diventaiamico di Valentin.Ma preferivo ancora le donneal pallone. E fu durante un ser-vizio mondano dedicato allepiù belle Fanciulle in Fiored’Italia che ne conquistai una,siculo/bolognese, la bellaMarisa, che diventò miamoglie (…).

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A R I M I N V M51

ITALO CUCCIItalo Cucci, nato nel Montefeltro nel 1939, ha iniziato la suaavventura giornalistica nel 1958, diventando giornalistaprofessionista nel 1963. Insegna la sua materia alla LiberaUniversità delle Scienze Sociali (LUISS) a Roma e alla facol-tà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo. Ha diretto il“Guerin Sportivo” (tre volte), poi “Stadio-Corriere delloSport” (due volte) e il “Quotidiano Nazionale” che raccogliele testate della “Nazione”, del “Giorno” e del “Resto delCarlino”, in cui mosse i primi passi, con Giovanni Spadolinidirettore.Ha collaborato con Pupi Avati alla sceneggiatura del filmUltimo minuto, compendio del suo grande amore per il cal-cio. Si vanta di un premio, il “Dino Ferrari”, assegnatogli daEnzo Ferrari.Attualmente scrive sul “Corriere dello Sport” e collabora conla Rai (Tg 2 e “Domenica Sportiva”).

Italo Cucci è un giornalista innamorato del proprio lavoro,ma soprattutto della propria indipendenza e del proprioanticonformismo. Sempre coraggiosamente se stesso, non siè preoccupato di farsi dei nemici. Anzi, certo che “un nemi-co ti fa sentire vivo, ti dà energia, è un formidabile antide-pressivo”, se ne è inventato uno al giorno.In quarant’anni ha incontrato altri giornalisti e altri uominiscomodi, da Montanelli a Biagi, da Brera ad Arpino, daFerrari a Rognoni, da Cecchi Gori a Moratti, da Berlusconia Bearzot, e l’amicizia, quando è nata, è stata sempre ilnaturale esito di un rapporto franco, a volte ruvido, sempreleale, mai adulatorio.Uomo di molte passioni, quasi tutte gli sono familiari, pro-fessionista con una pelle sola, insegue verità non scontate,che sa bene essere molto più intriganti di comode scorcia-toie.

27 novembre 2003. Gerardo Filiberto Dasi, segretario del Pio Manzù tra i presidenti del Rotary Club Rimini, Bruno Vernocchi e del Lyon Rimini-Riccione Host,Oreste Di Giacomo.

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GENNAIO-FEBBRAIO 2004

NEWS ROTARY NEWS

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AGENDADICEMBRE

04/12 CaminettoGrand Hotel, h. 21,15 n. 2481.Assemblea dei soci. Elezioni delConsiglio Direttivo 2004/2005.

11/12 Conviviale con signoreGrand Hotel, h. 20,15 n. 2482.Gianfranco Francioni: “Quale sanità peril prossimo futuro”.

21/12 Conviviale con signoreGrand Hotel, h. 20,15 n. 2483.Festa degli Auguri

Rotary Club Rimini(Fondato il 29 gennaio 1953)Anno Rotariano 2002/2003

Consiglio Direttivo

Presidente: Bruno VernocchiVicepresidente: Enzo PruccoliPast President: Paolo Pasini

Segretario: Paolo SalvettiTesoriere: Duccio Morri

Consiglieri: Renzo Ticchi, Nevio Monaco,Gilberto Sarti e Gianluca Spigolon

Ufficio di Segreteria:Paolo Salvetti: Via Tripoli, 194

47900 RIMINI - Tel. 0541.389168

Ariminum: Via Destra del Porto, 61/B - 47900 RiminiTel. 0541.52374

ROTARY INTERNATIONALDistretto 2070

TOSCANA - EMILIA ROMAGNA - R.S.M.Governatore: Sante Canducci

GENNAIO08/01 Caminetto

Grand Hotel, h. 21,15 n. 2484.Norberto Bonini:“Il Centenario del Rotary”.

12/01 Conviviale con signoreIl Mulino (Misano Adriatico),h. 20,15 n. 2485.Interclub con Riccione-Cattolica e Urbino.Giancarlo Mazzucca:“La crisi dell’informazione”.

22/01 Conviviale con signoreGrand Hotel, h. 20,15 n. 2486.Luciano Chicchi: “La battaglia per l’au-tonomia delle Fondazioni bancarie”.

27/11 Conviviale con signoreGrand Hotel, h. 20,15 n. 2487.Rosita Copioli:“Gli Agolanti e i Malatesta:storie nascoste e imprevedibili”.

(foto

di Lui

gi Pri

oli)

Gli ospiti del presidente

del Rotary ClubRimini,

Bruno Vernocchi

Alessandro Larie mamma Vittoria

Fernando Maria Pelliccioni

Michela e Manuela Prioli

Norberto Bonini

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Via Molo Levante Porto Canale - 47838 Riccione (Rn) - Tel. e Fax 0541.692674Cell. 335.5286413 - 338.9024650

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