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IL CIRCOLO VIZIOSO Il contributo della FISAC ed il ruolo della CGIL di fronte alla crisi > Disoccupazione > Precarietà > Recessione > Crisi del risparmio > Crisi della raccolta bancaria > Nuova vocazione commerciale delle Banche > Sviluppo e crescita dei territori ANCONA

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ANCONA

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IL CIRCOLO VIZIOSOIl contributo della FISAC ed il ruolo della CGIL di fronte alla crisi

Fabio SdogatiDocente di Economia Internazionale Politecnico di Milano

Giuliano CalcagniSegretario nazionale Fisac-Cgil

Mimmo MocciaCoordinatore Nazionale Fisac-Cgil Area programmatica “La Cgil che vogliamo”

Giuseppe CiarrocchiSegretario regionaleFIOM Marche

Vilma BontempoSegretario generaleCamera del lavoro di Ancona

Sergio SinigagliaScrittore e GiornalistaCoordinatore dei lavori

Atti della tavola rotonda

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ANCONA20 Aprile 2013

Sala ex Consiglio Comunale

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Fabio Carletti

Fisac Cgil - AnconaSolo un sindacato serio, responsabile e conflittuale potrà contrastare i nuovi poteri finanziari, per riavviare un’ equa redistribuzione del reddito

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Buongiorno a tutti e grazie di essere presenti.Prima di iniziare i lavori di questa Tavola rotonda vi presento i relatori.

Sono con noi il Prof. Fabio Sdogati, docente di Economia al Politecnico di Milano, Giuliano Calcagni, segretario nazionale Fisac Cgil, Mimmo Moccia Coordinatore Nazionale Fisac Cgil Area programmatica “La Cgil che vogliamo”, Vilma Bontempo Segretario generale della Camera del Lavoro di Ancona, Giuseppe Ciarrocchi Segretario regionale Fiom e Sergio Sinigaglia a cui è affidato il compito di coordinare i lavori.Dal tavolo usciranno considerazioni ed analisi, e mi sembra superfluo che anche io entri nel merito degli argomenti.Alcune considerazioni metodologiche comunque le voglio fare. Riteniamo che aggiungere un altro convegno, un altro tavolo sulle cause della crisi e le sue conseguenze potrebbe risultare un’inutile ripetizione. Vorremmo, perciò, cercare di cogliere attraverso questa discussione il punto o i punti in cui il “Circolo vizioso” si può interrompere e come ciò possa avvenire.Ruolo delle banche, quindi, ma anche ruolo del Sindacato. Perché solo un Sindacato serio, responsabile e conflittuale potrà contrastare i nuovi poteri finanziari, per riavviare un’ equa redistribuzione del reddito così come previsto dallo stesso Piano per il Lavoro della Cgil. Credo

che proprio su questo versante, quello della responsabilità delle banche, scontiamo come Sindacato un ritardo spaventoso e forse colpevole. Non credo che siano solo effetti collaterali le condizioni dei lavoratori ridotti all’indigenza dalle scelte di politica economica e debilitati anche nella voglia di lottare, che per eccesso di dignità sembrano quasi voler togliere il disturbo togliendosi la vita. E magari chi non lo ha ancora fatto è ormai nelle mani di un tassello del nostro “Circolo vizioso”, che è lo spettro dell’usura e della mafia. Ecco allora che il tema ci porta al nostro territorio, ad un campione piccolo ma estremamente significativo di tessuto economico e sociale. Un campione che però, a nostro giudizio, è icona esemplificativa dello stato delle cose nazionali. Il modello marchigiano, allora, con il suo “piccolo è bello” che ha segnato per un pò il passo dei successi nazionali, ora sembra allo stremo e forse soffre di più una crisi di consumi e produzione, non potendo più rappresentare il volano di un’ economia produttiva locale nè contare più, come isola felice, sul welfare familiare. Su questi argomenti, la forza propulsiva della Cgil deve muoversi. Questi temi devono ulteriormente svilupparsi per rendere attuabile il Piano per il Lavoro della Cgil, fuori dal potere politico e sindacale e da tutte le altre politiche sociali ed economiche che sempre caratterizzano la Cgil. Prima di dare inizio ai lavori di questa Tavola

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Fabio Carletti

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rotonda permettetemi un cenno veloce alla situazione di grave difficoltà in cui versa Banca Marche, ultima Banca funzionale al sostegno e allo sviluppo delle attività produttive di questa Regione.In questa sede esprimiamo tutto il sostegno possibile alla difficile vertenza che i lavoratori di Banca Marche sono chiamati a sostenere per la difesa dell’autonomia e dell’occupazione, con particolare riferimento alle legittime aspettative di lavoro stabile dei 200 giovani precari. Lascio la parola a Sergio Sinigaglia e iniziamo la discussione di questa Tavola rotonda.

Fabio Carletti

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Sergio Sinigaglia

Scrittore e Giornalista Coordinatore dei lavoriVisto che tutti i giorni

ci propongono il discorso sul debito pubblico, sarebbe interessante fare un’analisi specifica, dei 2000 miliardi di euro che abbiamo sul groppone.

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Grazie a Fabio Carletti e voglio mandare un ringraziamento ai compagni della Fisac per l'invito che mi è stato rivolto.

Diamo inizio a questa tavola rotonda.Io, visto che parliamo di crisi, del circolo vizioso e della crisi, per evitare di perdersi in questo vasto argomento, ho fatto la scelta di proporre tre punti che vale la pena mettere in evidenza ai relatori, tre punti da sottoporre alla discussione. Chi interverrà sarà libero di raccoglierli e svilupparli rispetto alla traccia della sua relazione.Il primo punto riguarda le cose che non ci dicono sulla crisi, a partire dal luogo comune che i soldi non ci sono. Visto che tutti i giorni ci propongono il discorso sul debito pubblico, sarebbe interessante fare un'analisi specifica, dei 2000 miliardi di euro che abbiamo sul groppone. Inoltre non dicono mai, o quasi mai, oppure emerge solo marginalmente, che le cosiddette famiglie italiane, un termine molto generico, hanno un risparmio privato di circa 7700 miliardi di euro e di questa grande torta il 10% detiene il 47% della ricchezza. Questo è un dato che viene spesso omesso. A proposito della ricchezza, una decina di giorni fa, il Corriere della Sera ha pubblicato l'ultimo rapporto Prometeia, che ci informava che 8000 famiglie, termine generico che non si sa cosa voglia dire dal punto di vista della struttura sociale, hanno un patrimonio finanziario di 10

milioni di euro ciascuna, badate bene finanziario, quello immobiliare non era riportato. 160mila famiglie hanno un gruzzoletto di 1,5 milioni di euro. Questo sempre per dare qualche cifra sul piano nazionale.Sul piano mondiale, il rapporto Credit Suisse del 2010 sottolineava che lo 0,5% della popolazione mondiale adulta pari a 24 milioni di persone, deteneva la ricchezza di 69 trilioni di dollari pari a 2 milioni 875 mila dollari a testa, il 35% della ricchezza mondiale globale. Al fondo della piramide più di 3 miliardi di persone, il 68% della popolazione, detengono 8 trilioni di dollari, il 4,2% del totale. Quindi ecco che i conti non tornano. C'è un problema enorme di redistribuzione della ricchezza.Secondo punto è il ruolo delle banche, visto che la Tavola rotonda è promossa dalla Fisac.Il ruolo delle banche nella globalizzazione neoliberista, è stato centrale nell'alimentare la speculazione finanziaria, nell'essere il fulcro di questi tremendi 30 anni che dall'inizio degli anni '80 abbiamo vissuto in tutto il mondo. E' bene ricordare, come dato storico, che dopo la crisi del 1929, fu varato quel Glass-Steagall Act che separava le banche commerciali dalle banche di investimento. Per alcuni decenni è stato in qualche modo una diga per ridare alle banche il ruolo per cui sono esistite nel mercato capitalista. Quello di finanziare le imprese e dare credito. Poi nel 1999 il buon

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Sergio Sinigaglia

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Clinton, democratico, ha affossato quello che rimaneva del Glass-Steagall Act e sappiamo le conseguenze che ci sono state. Ed è bene ricordare che dopo la crisi del 2008, il fallimento della Lehman Brothers e tutto quello che è accaduto, le banche hanno avuto una valanga di miliardi di dollari eppure hanno continuato a investire nella finanza. Allora la domanda da porsi è: cosa vogliamo fare? Qual è oggi il ruolo di una banca territoriale, nazionale e globale in questo contesto? Dopo il 2008 alcune banche sono state nazionalizzate, ha senso nel nostro Paese tornare a una Banca Nazionale? Vogliamo anche riflettere sul concetto di privato e di pubblico. Oggi come sapete c'è questo concetto di comune, dei beni comuni, che sta rifondando il pensiero sociale e giuridico sul concetto di privato e di pubblico.Terzo e ultimo punto. Siccome leggiamo tutti i giorni il mantra di far ripartire l'economia e rilanciare la crescita, e c'è il dogma del Pil, pongo la questione agli amici e compagni del sindacato: è ancora giusto in tale contesto e con questa crisi strutturale continuare a mettere al centro la questione della crescita? Come ormai anche nel sindacato la stessa Fiom comincia a riflettere sul modello di sviluppo, sul tipo di economia, di produzione. Non è ora di pensare un altro modello? Ci sono già pratiche virtuose in questo senso. Il sindacato è pronto ad accettare questa sfida? Quindici giorni fa l'Istat ha presentato a

Roma il Bes, Benessere ecosostenibile, che fino a 10 anni fa sarebbe stato impensabile. Allora la domanda è: che economia, che società, che modello?Mi fermo e do la parola al Prof. Fabio Sdogati.

Sergio Sinigaglia

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Fabio Sdogati

Docente di Economia Internazionale Politecnico di Milano

Direttore della Executive Education MIP School of Management

quello che io vedo è una situazione di attesa da parte delle banche commerciali e delle banche di investimento, vedo governi tutti determinati a privatizzare il più possibile

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Grazie Sergio.Sono straordinariamente orgoglioso di essere qui oggi, perché come molti di

voi sanno sono nato in questa città ed è perme importantissimo poter dare un contributo nei limiti delle mie capacità alle persone che conosco, alle Organizzazioni che rispetto.

Il modificarsi del ruolo delle banche nell’economia viene quasi sempre studiato in modelli che prescindono dal modificarsi della struttura produttiva che caratterizza l’economia reale o, al massimo, tengono conto del modificarsi dell’economia “locale” In questo lavoro si sostiene che il legame tra struttura produttiva e settore finanziario è molto più forte di quanto non si immagini normalmente, e in particolare si sostiene che la finanziarizzazione dell’economia, e la conseguente trasformazione del modo di essere delle banche, sono fenomeni correlati con la riconfigurazione della divisione mondiale del lavoro o, come si dice in termini più moderni, con l’emergere della frammentazione internazionale dei processi produttivi e delle catene globali di produzione. L’analisi della evoluzione di questi fenomeni da un lato e del contesto storico attuale dall’altro conducono alla conclusione che difficilmente le banche ritroveranno un ruolo attivo nel finanziamento delle attività delle famiglie e delle imprese, e che preferiranno essere pronte

ad utilizzare la liquidità posseduta, e tanto generosamente offerta dalla BCE, per finanziare la privatizzazione di attività oggi erogate dalle pubbliche amministrazioni. Molti si sono chiesti, negli ultimi anni, perché gli economisti non abbiano previsto la crisi attuale. Tra le molte risposte possibili, e probabilmente corrette, la mia preferita è che la professione non si occupa più, in generale, dell’economia nel suo complesso, della sociologia dei rapporti economici, delle implicazioni economiche di cambiamenti nella normativa: di quel metodo, cioè, che pure era dei classici, quando ciò che oggi chiamiamo “economia” era chiamato “filosofia morale”.

Io stesso non sono, ovviamente, immune da questa pericolosa tendenza. Ho studiato gli effetti delle fluttuazioni dei cambi sulla competitività internazionale delle imprese e quelli del processo di allargamento dell’Unione Europea, fino ad arrivare allo studio dei processi di frammentazione internazionale della produzione (FIP) – ciò che viene comunemente, ed erroneamente, chiamato “delocalizzazione”. Mi occupo, dunque, di anni di trasformazioni secolari nell’apparato produttivo dei paesi ad alto reddito pro-capite, qualcosa di ovviamente ‘importante.’ Ma mai, fino a quando non ho cominciato a studiare questa crisi, ho cercato il legame profondo tra modificazione della

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Fabio Sdogati

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struttura dell’economia e fenomeni emergenti quali le trasformazioni secolari dei settori bancari e finanziario. Oggi voglio presentare alcune riflessioni su quel legame.

La tesi che sostengo non è del tutto facile da dimostrare, ma è sufficientemente semplice da formulare. Quando gli effetti espansivi della più grande politica di stimolo all’economia mondiale mai conosciuta dall’umanità, la seconda guerra mondiale, cominciarono ad esaurirsi, la profittabilità dell’investimento industriale cominciò a diminuire. Due forze vennero messe in movimento per, quantomeno, rallentare questa caduta: da un lato la ricerca di minori costi di produzione unitari mediante il ricorso alla frammentazione internazionale della produzione, il che avvenne gradualmente a partire dai settori produttivi in cui il basso costo del lavoro non qualificato costituisce una quota importante dei costi – abbigliamento, calzature e pellami, arredamento. Negli Stati Uniti si osservavano fenomeni importanti di frammentazione internazionale della produzione già a partire dalla fine degli anni sessanta. Parallelamente, e quasi contemporaneamente, viene prodotta, nelle università statunitensi, la teoria poi nota come shareholder value revolution, cioè un nuovo approccio teorico che reclama quote crescenti di profitti distribuiti agli azionisti a parità di valore

aggiunto e, di conseguenza, quote decrescenti destinate agli investimenti e al miglioramento delle condizioni di lavoro, salariali o meno. Gli azionisti industriali diventano così liberi di distrarre la propria quota di valore aggiunto a qualsivoglia attività d’investimento, e il settore finanziario si rese presto conto che era possibile catturare quote crescenti di quella liquidità offrendo rendimenti superiori a quelli offerti dal ‘vecchio’ settore industriale. Nasceva qui l’ingegneria finanziaria che, nelle nuove condizioni in cui si sarebbe trovata ad operare l’economia dalla metà circa degli anni novanta, avrebbe generato la crisi finanziaria all’origine di questa recessione feroce.

Il lavoro è articolato in quattro paragrafi. Nel primo paragrafo si offre uno schema interpretativo del mondo “come era”. Nella prima parte del paragrafo (1.1) l’enfasi è sul rapporto famiglie-banche-imprese in un assetto istituzionale che prevede la netta separazione tra banche commerciali e banche di investimento; nella seconda parte (1.2) si valutano costi e benefici della separazione tra banche commerciali e banche di investimento che caratterizza il mondo ad economia di mercato a partire dal Glass-Stegall Act del 1933. Il secondo paragrafo discute invece del mondo “come e’”, cioè del nuovo modo di organizzare la produzione a livello mondiale

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anziché a livello locale, vale a dire del passaggio da processi di produzione localizzati in un solo paese a processi produttivi globalmente integrati – noti anche come catene globali di produzione (2.1); del contemporaneo emergere del modello ‘creare valore per gli azionisti’ (2.2) e, infine, del nuovo modello di rapporto tra banche e finanza, cioè del passaggio dal vecchio modello finanziario caratterizzato in letteratura come “originate to hold” al nuovo, definito “originate to distribute”(paragrafo 3). Il quarto paragrafo conclude dopo aver discusso una ipotesi interpretativa della ragione di politiche monetarie tanto espansive da ormai quasi cinque anni.

1. Il mondo come era

1.1. Il rapporto famiglie-banche-imprese produttive nel vecchio modello ‘originate to hold’

Il rapporto famiglie-banche-imprese prevalente nei paesi ad alto reddito pro capite fino a non molti anni fa è facilmente schematizzabile,

poiché si tratta di una struttura di relazioni nota a tutti e conosciuta a molti sotto il nome di “flusso circolare del reddito”. In questo schema le famiglie vendono alle imprese i servizi dei fattori produttivi (tra cui il lavoro) e ne ricevono in cambio un reddito (il lavoro riceve il salario); questo reddito viene in parte speso nell’acquisto di beni e servizi prodotti dalle imprese e in parte risparmiato: i risparmi trovano la loro collocazione materiale nei depositi bancari, i quali costituiscono la liquidità a fronte della quale, in regime di riserva obbligatoria, è consentito alle banche di erogare prestiti alle imprese e alle famiglie. Le banche di cui si parla sono, ovviamente, banche commerciali2.

In questo mondo3, i rischi associati ai prestiti erogati dalle banche commerciali sono del tipo ‘originate to hold’: la banca commerciale emette il credito e lo tiene in portafoglio fino a scadenza. Va da sé che, dato questo modo di operare, dato cioè che il rischio rimane in portafoglio per anni e anni, la banca che emette il credito sarà particolarmente scrupolosa nell’accertare il merito di credito del mutuatario/debitore;

2 Di quelle banche cioè, autorizzate alla raccolta mediante depositi, le quali non possono investire né fondi propri né fondi dei propri clienti, e che godono del privilegio di potersi rivolgere alla banca centrale in qualità di prestatore di ultima istanza, vale a dire nel caso in cui non trovino sul mercato interbancario altre banche disposte a soddisfare loro domanda di liquidità a prezzi ‘accettabili’. Si veda il punto 1.2 a seguire.

3 Seccareccia (2012) offre una buona rappresentazione del modello del flusso circolare cum settore finanziario.

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chiederà, e accerterà l’esistenza di, ‘garanzie’ che il mutuatario/debitore ritiene spesso vessatorie; chiederà che una parte assai consistente del valore dell’attività per la quale il debito/mutuo viene chiesto venga finanziata immediatamente dal debitore/mutuatario. I mutui “zero-i”, cioè a tasso di interesse zero, sono ancora una cosa del futuro.

Il rischio è dunque rigorosamente controllato, poiché i clienti sono ben conosciuti, i modelli ‘locali’ garantiscono un elevato tasso di successo nei rimborsi, il ricorso all’esproprio raro, anche perché l’economia cresce prima a tassi da miracolo e poi a tassi comunque elevati. Le perdite vennero solo quando esplose quell’inflazione contro la cui occorrenza le banche non avevano immaginato di doversi assicurare mediante forme contrattuali adeguate –ad esempio prevedendo tassi di interesse di rimborso indicizzati alle variazioni nel livello dei prezzi.

Il rapporto tra i tre settori qui di interesse, e cioè famiglie, imprese e banche, è ovviamente un rapporto intrinsecamente conflittuale; ma si tratta di un conflitto gestibile, perché a tutti i soggetti è chiara la loro complementarietà economica, la dipendenza di ciascuno di essi dagli altri. Certo,

il conflitto sulla distribuzione del reddito c’è, in particolare tra la famiglie (lavoro) da un lato e le imprese produttive dall’altro; ma il modello, che chiamerò capitalistico-industriale, appare a tutti un miglioramento epocale rispetto al modello economico precedente, nel quale profitti e salari erano in guerra per la spartizione di un reddito la cui dimensione complessiva era fortemente condizionato dalla rendita, in particolare rendita fondiaria4.

Se si segue la classificazione adottata dagli economisti classici, il reddito viene suddiviso tra chi contribuisce capitale, chi contribuisce lavoro, e chi contribuisce terra. Dunque, la distribuzione tradizionale del valore aggiunto è tra questi fattori produttivi, i quali ricevono rispettivamente interesse, salario, e rendita fondiaria. Con quale criterio il reddito tra i tre fattori produttivi viene distribuito? Secondo la scuola neo-classica, ogni fattore di produzione riceve il valore del suo prodotto marginale. Se, a parità di tutto il resto, un lavoratore aggiuntivo sarà in grado di produrre un certo numero di unità di prodotto in più, allora il salario sarà uguale al valore di quel numero di unità di prodotto aggiuntive. Di conseguenza, tanto maggiore sarà il prodotto marginale di un fattore di produzione, tanto

4 Si pensi, a titolo di esempio, al blocco dei fitti in Italia.

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maggiore sarà il reddito che percepirà. Attorno alla metà del diciannovesimo secolo ebbe inizio una trasformazione importante nella struttura della distribuzione del reddito tra i fattori della produzione, che fino ad allora aveva visto la rendita fondiaria appropriarsi della quota maggiore del reddito prodotto. Con l’affermarsi della rivoluzione industriale, infatti, le quote di valore aggiunto distribuite al capitale (industriale) e al lavoro cominciarono a crescere, e quella della rendita (fondiaria) a diminuire. Molti hanno autorevolmente scritto di una alleanza tra capitale e lavoro per l’abbattimento delle rendite, realizzata mediante il progresso tecnico: gli incrementi di produttività di capitale e lavoro garantivano a questi due fattori quote sempre maggiori del reddito nazionale.

Che i destini di lavoro e capitale siano migliorati enormemente tra la seconda metà dell’ottocento e l’inizio dell’ultimo quarto del novecento è fuori discussione. Se si guarda al capitale, si osserva una crescente libertà di movimento, politiche di spesa pubblica a favore della ricerca e dell’innovazione, sussidi e protezioni tariffarie; se si guarda al lavoro, basta ricordare la riduzione del tempo lavorativo settimanale, il sorgere dei diritti all’organizzazione sindacale, la difesa del lavoro femminile e minorile, i programmi pubblici di sicurezza sociale.

Poi, dalla fine degli anni ’70, la quota dei salari sul prodotto interno lordo di Stati Uniti e Italia è andata progressivamente diminuendo, a favore dei redditi delle imprese e della rendita finanziaria. Questo cambiamento è rappresentato rispettivamente in figura 1 per gli Stati Uniti e in figura 2 per l’Italia.

La figura 3 presenta l’andamento del monte salari da un lato e l’andamento dei rendimenti da capitale dall’altro, ma suddivisi tra rendimenti da capitale industriale e rendite finanziarie. Si vede chiaramente come i profitti delle imprese produttive, del settore finanziario e i salari statunitensi abbiano mantenuto un andamento crescente e simile fino alla fine degli anni ’70. Terminata la Volcker recession degli anni ‘80, si è assistito alla netta divergenza dei tassi di crescita dei profitti finanziari e non finanziari, con i primi sempre maggiori dei secondi. La crisi del 2007 non ha certo invertito l’andamento: lo spostamento secolare della distribuzione dei redditi verso il capitale, finanziario in particolare, continua imperturbato, ed anzi accelera.

1.2. La separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (1933-34) e la deregolamentazione (1999)

L’assetto regolatorio delle attività bancarie in

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essere fino al 1999, anche se progressivamente indebolito con il passare del tempo, fu originato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1933, quando venne approvato il Glass-Steagall Act. L’obiettivo di questo nuovo assetto post crisi del 1929 era di tenere ben distinte tra loro le imprese bancarie sulla base del principio che alcune tra loro dovessero gestire attività a basso contenuto di rischio ed altre potessero gestire attività più rischiose: da qui la distinzione nettissima tra banche commerciali da un lato e banche di investimento dall’altro. Le banche commerciali avrebbero potuto raccogliere attraverso i depositi i quali, opportunamente ri-depositati presso la banca centrale secondo il modello della riserva frazionale obbligatoria, avrebbero consentito loro di erogare prestiti alle imprese e alle famiglie. Il privilegio dell’accesso ai fondi delle famiglie e delle imprese mediante il canale dei depositi veniva invece interamente negato alle banche di investimento. In secondo luogo, le banche commerciali non avrebbero potuto investire capitale proprio né capitale dei propri clienti, mentre avrebbero potuto farlo le banche di investimento. In terzo luogo, le banche commerciali avrebbero goduto del privilegio di potersi approvvigionare presso la banca centrale nella sua qualità di prestatore di ultima istanza nel caso il mercato

interbancario negasse loro liquidità, mentre questa via al finanziamento sarebbe stata negata alle banche di investimento. Infine, e allo scopo di rafforzare la ‘sicurezza’ delle banche commerciali, tutti i depositi in essere presso banche commerciali sarebbero stati automaticamente assicurati dalla Federal Deposit Insurance Corporation5.

E’ facile immaginare come, superato lo scoglio della seconda guerra mondiale e ristabilitesi le condizioni ‘normali’ di funzionamento dell’economia, tanto le banche commerciali quanto quelle d’investimento dessero vita ad attività di lobbying di intensità crescente per la rimozione di quelli che ciascuna categoria sentiva come vincoli assurdi, limitativi della propria libertà di produrre profitti. Si può immaginare quanto le banche di investimento aspirassero ad un emendamento alla Glass-Steagall che consentisse anche a loro di poter raccogliere attraverso depositi, il che le avrebbe liberate dalla dipendenza dal mercato interbancario e dai costi di approvvigionamento che, ovviamente, erano più alti di quanto non fosse la raccolta attraverso depositi. Ed è altrettanto facile immaginare quanto le banche commerciali si sentissero limitate dal lato degli impieghi, e quanto avrebbero voluto essere

5 Si noti come il compito di proteggere il risparmio delle famiglie venne assegnato ad una agenzia dello Stato e non ad un ‘fondo interbancario……’

Fabio Sdogati

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libere di investire fondi: quantomeno fondi propri e, perché no, progressivamente, anche i fondi dei propri correntisti.

Queste attività di lobbying ottennero il loro risultato finale nel 1999 quando, Bill Clinton Presidente, ciò che era rimasto della legislazione Glass-Steagall venne definitivamenterevocato. Da quel momento non vi erano più limiti alla fantasia delle singole banche: nasceva la ‘banca universale’.

2. Il mondo come è. La seconda rivoluzione industriale: caduta dei profitti industriali, frammentazione internazionale della produzione, l’emergere del modello ‘produrre valore per l’azionista’

Le tre decadi che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli anni settanta sono state, correttamente, definite “l’età dell’oro” delle economie di mercato appartenenti al sistema di Bretton Woods. L’alleanza tra capitale industriale e lavoro a discapito della rendita fondiaria consentiva tassi di crescita ‘miracolosi’, una progressiva riduzione della disparità inerente nella distribuzione del reddito, una crescita importante nella retribuzione del lavoro, la nascita e lo sviluppo dello stato sociale.

Ma, come documenta la figura 4, è anche vero che quel periodo fu caratterizzato dalla caduta, non drammatica ma sistematica, della quota dei profitti sul totale del valore aggiunto nell’industria.

Tra le tante strategie che le imprese adottarono per contrastare questa tendenza due sono quelle che, in retrospettiva, costituiranno i pilastri del nuovo modello di produzione e accumulazione della ricchezza: la Frammentazione Internazionale della Produzione (FIP) e la ‘creazione di valore per gli azionisti’.

2.1. La frammentazione internazionale della produzione

Quando pensiamo al mondo, tendiamo a pensarlo in termini di ‘paesi.’ Il mondo è un insieme di paesi. Il concetto di ‘paese’ permea il nostro modo di pensare, e si arriva al punto di sentir dire che ‘un paese è meglio di un altro’: ad esempio, l’Italia è la migliore nel fashion e, come ho saputo di recente, aspira ad ‘esportare la dolce vita’6.

Nella nostra cultura, quella degli stati nazionali appunto, una cultura molto recente, che risale al Trattato di Westfalia (1648), i confini

6 Dal titolo di una recente pubblicazione congiunta del Centro Studi Confindustria, Prometeia, SACE.

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Fabio Sdogati

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nazionali sono sicuramente da difendere. Dal punto di vista economico ciò equivale a dire che occorre difendere l’industria nazionale, rendendo oneroso per gli stranieri l’accesso al mercato nazionale. L’esistenza della fabbrica, il luogo in cui il lavoro aggiunge valore alle cose trasformandole in cose desiderabili, va salvaguardata ad ogni costo. Essa è il luogo in cui si produce ricchezza, e il suo prodotto è la fonte della ricchezza dei sudditi tanto quanto del principe, per il quale la fabbrica è, tra tante altre cose forse, certamente base imponibile.

Si pensi al termine ‘delocalizzazione,’ molto usato (a sproposito) in Italia: esso vuole dare il senso della perdita di controllo del sovrano sulla fonte del reddito proprio (la base imponibile) e su quello dei suoi sudditi, e quindi di una tragedia da evitare ad ogni costo. L’unitarietà del processo produttivo non consente alternative: o la fabbrica è ‘nostra’, e allora sarà fonte di reddito pubblico e privato, o è ‘loro’, e perderemo il controllo sul processo di produzione di quella ricchezza e, conseguentemente, sul suo godimento. Così, lo stato-nazione moderno si comporta esattamente come il principe medioevale: impone dazi e altri ostacoli alle importazioni, ostacoli tanto più gravosi quanto più importante è l’industria locale con cui quei beni importati entrano in concorrenza.

Peraltro, alla fabbrica va data l’opportunità di esportare al di fuori dei confini nazionali, perché soltanto così si possono pagare le importazioni che, per quanto odiose, sono pur sempre utili, vuoi perché sono materie prime o fonti energetiche, e dunque ‘necessarie’, vuoi perché la domanda nazionale non può essere soddisfatta dall’offerta nazionale per le ragioni più diverse. Ed ecco i sussidi alle esportazioni da un lato e gli sgravi fiscali per i produttori che riescono a penetrare mercati esterni. E anche questa è politica commerciale.

È questa la nostra cultura, la cultura dello stato-nazione. Non è né giusta né sbagliata. È la cultura che nasce dalla centralità della fabbrica come luogo di produzione della ricchezza, privata e pubblica, localizzata in un certo luogo in un certo periodo.

L’ esistenza del concetto di ‘divisione internazionale del lavoro’ presuppone l’esistenza di economie nazionali che, sulla base di un qualche meccanismo, sono indotte a ‘dividersi’ il lavoro tra loro. Ma questo non è un concetto immediatamente ovvio, nel paradigma tradizionale: che cosa si vuol dire quando si dice che le economie nazionali si ‘dividono il lavoro’? La genesi del concetto di divisione del lavoro è, in effetti, entro la fabbrica, dove il lavoro viene suddiviso tra i lavoratori in modo tale che,

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mediante la specializzazione, la produttività aumenti. Il seguente passo dalla Ricchezza delle Nazioni (1776) non sarà mai abbastanza citato:

“La causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro.” (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1976).

Ma dove ha luogo questo processo? Nella teoria smithiana, e dunque nella nostra cultura, esso ha luogo entro la fabbrica. Smith è ovviamente cosciente del fatto che aumenti di produttività saranno tanto più benvenuti quanto più, a parità di tutte le altre condizioni, esista un ‘mercato’, una domanda pronta ad assorbire la produzione pre-innovazione e quella aggiuntiva dovuta all’innovazione. E infatti prosegue:

“[…] Poiché la possibilità di scambiare è la causa originaria della divisione del lavoro, la misura in cui la divisione del lavoro si realizza non può che essere limitata dalla misura di tale possibilità o, in altre parole, dall’ampiezza del mercato.” (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1976).

Occorre dunque trovare il modo di ‘allargare il mercato,’ di offrire sbocchi all’impresa che

innova, se non si vuole che i benefici dell’aumento di produttività vadano perduti. Pur cosciente del fatto che la divisione del lavoro stessa, creando specializzazione dei singoli produttori, genera mercato, poiché sempre meno i produttori produrranno tutto l’insieme delle merci (e dei servizi) che producevano nell’economia pre-industriale, Smith ha chiaro che l’estensione del mercato deve procedere a ritmi sostenuti perché tutto il prodotto aggiuntivo generato dalla rivoluzione industriale in atto in Inghilterra possa essere venduto.

Questa divisione internazionale del lavoro sarà tanto più approfondita quanto più facilitati saranno i flussi di scambio internazionale, i flussi mediante i quali un paese esporta una merce e ne importa un’altra. Ma la divisione del lavoro entro la fabbrica non si realizza così: essa è il prodotto di una riorganizzazione del processo produttivo! Qui, nella fabbrica, sono i lavoratori a specializzarsi, e le loro mansioni diventano sempre più definite e limitate in scopo; là, quando si parla di stati-nazione, è l’apparato produttivo di un paese che si specializza abbandonando la produzione di una merce e concentrando tutte le proprie capacità nella produzione di un altra.

L’asimmetria tra le due situazioni è assai evidente a chi scrive, e l’accettazione acritica del dictum di Smith ha portato a lasciare

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inesplorato per decenni e decenni un altro quesito di importanza cruciale per le tesi che si vuol dimostrare qui: perché un ‘grande regno’ non potrebbe specializzarsi nello stesso modo in cui si specializzano i lavoratori della fabbrica smithiana? Perché non può darsi il caso che la specializzazione di un paese non si estrinsechi nel suo concentrare la propria capacità produttiva nella merce che sa produrre con maggiore produttività, e non invece in una fase del processo produttivo di quella o di qualsiasi altra merce? Nel senso di Smith, il concetto di ‘divisione del lavoro’ è valido nel contesto del processo di produzione, e individua la possibilità di frammentarlo in modo tale che la produttività del lavoro aumenti all’aumentare del grado di ‘divisione del lavoro’. Perché allora non potremmo intendere il concetto originario di ‘divisione del lavoro’ in quanto frammentazione internazionale del processo produttivo in segmenti specifici, un processo produttivo che assegni l’esecuzione di ogni segmento di attività produttiva a gruppi diversi di lavoratori, stavolta diversi perché localizzati in paesi diversi?

Certo, sorprende che due secoli non siano stati sufficienti a capire che la mappatura uno-a-uno del concetto di ‘divisione del lavoro’ in quella di ‘divisione internazionale del lavoro’ è metodologicamente errata. Ma alla fine degli anni settanta del ventesimo secolo imprese

ed economisti si accorgono che qualcosa sta cambiando nella configurazione della divisione internazionale del lavoro. Sul piano teorico Jones e Sanyial (1982), Baldone, Sdogati e Zucchetti (1997), Jones e Kierzkowski (2001) aprono una linea di ricerca in cui il concetto di ‘divisione internazionale del lavoro’ viene associato a quello di ‘frammentazione internazionale della produzione’, la quale viene definita come il fenomeno che consiste nell’approvvigionarsi all’estero di segmenti di un processo di produzione originariamente integrato in un solo paese e, talvolta, in un solo impianto nel ‘nostro’ paese –e, in maniera complementare, nella fornitura all’estero di segmenti di un processo di produzione originariamente integrato e, talvolta, in un solo impianto nel ‘loro’ paese .

Ma la pratica della frammentazione internazionale della produzione precede, come sempre avviene, la sua concettualizzazione. Già negli anni settanta le imprese statunitensi si avviano sulla strada della frammentazione, affidando segmenti sempre più estesi di processi produttivi ai quattro paesi che a quel tempo divennero noti come ‘le quattro tigri asiatiche’, e cioè Corea del sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan. La composizione dei flussi commerciali comincia a mostrare una quota crescente di semilavorati e prodotti intermedi sul totale del valore scambiato, esportato da alcuni ed

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importato da altri. In un mondo caratterizzato dalla crescente frammentazione internazionale della produzione, il concetto di ‘made in’ diventa sempre meno potente e, al limite, perde ogni potenza esplicativa (Palmisano, 2006; Lamy, 2011). Piuttosto, ogni economia nazionale può essere identificata come il luogo in cui viene prodotto un particolare segmento del processo produttivo globalmente integrato: sarà sempre possibile che un paese si specializzi nella produzione di segmenti ad alta intensità di capitale o in quelli ad alta intensità di lavoro, cioè in un segmento di un processo di produzione, ma non nella produzione di un bene particolare. Il ‘made in Italy’ è l’illusione, in versione debole, di chi aspira ad ‘esportare la dolce vita’.

Il processo di ri-localizzazione della produzione degli Stati Uniti all’estero ha subito una rapida accelerazione a partire dall’inizio degli anni ’80. Dopo la fine del sistema di Bretton Woods formalizzata nel 1971, la strategia mediante la quale gli Stati Uniti riassunsero il controllo del ciclo economico mondiale e della divisione del lavoro tra paesi e aree geo-politiche, fu quella incarnata da Paul Volcker, Presidente della Fed dalla fine del 1979 e da Ronald Reagan, Presidente degli Stati Uniti dall’inizio del 1981. Il combinato disposto di una politica monetaria fortemente recessiva da un lato e di una politica fiscale altrettanto fortemente espansiva

dall’altro, portava ad un apprezzamento del dollaro molto consistente che sarebbe durata fino al marzo 1985 e il cui scopo era imporre un cambio altamente non competitivo per i prezzi dei prodotti statunitensi. All’inizio degli anni ottanta, dunque, la politica statunitense aveva l’obiettivo di liberare dalle imprese poco produttive dei settori tradizionali risorse da destinare progressivamente ai settori emergenti quali le comunicazioni satellitari, le biotecnologie, le nanotecnologie.

Questo processo, che dura ancora oggi e che durerà per anni e anni a venire, è quanto ho definito nel titolo di questo paragrafo “seconda rivoluzione industriale.” Che cosa spinge le imprese a globalizzarsi, dimenticando il marchio ‘made in’ sui loro prodotti se non per ragioni commerciali? Partendo dal presupposto che ogni fattore di produzione cercherà di massimizzare la propria remunerazione la quale, a parità di tutto il resto, dipenderà dal proprio prodotto marginale, allora i fattori della produzione andranno alla ricerca di condizioni entro cui realizzare prodotti marginali elevati, perché quanto maggiore sarà il prodotto marginale, tanto maggiore sarà la propria remunerazione. Come si può aumentare il prodotto marginale del capitale? Andando a impiegarlo in quei paesi in cui il prodotto marginale del capitale è più alto, in quei paesi,

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cioè, relativamente più dotati di lavoro che di capitale. Una unità di macchinario sarà in grado di produrre più unità di prodotto al crescere del numero di lavoratori a sua disposizione. E quali paesi sono relativamente più dotati di lavoro che non di capitale, se non i paesi sottosviluppati? Di conseguenza, il capitale industriale ha iniziato a migrare verso i paesi sottosviluppati, contribuendo a trasformarli in paesi ‘emergenti’.

2.2. La “creazione di valore per l’azionista”

Il processo di produzione di valore, cioè di reddito e, quindi, di ricchezza, è ovviamente al centro dell’attenzione degli economisti. Come, e soprattutto, chi, crea valore? Gli economisti classici modellavano questo processo ad un solo fattore produttivo, il lavoro. Era una modellazione storicamente giustificata dalla assenza, o quantomeno dalla recente, sporadica comparsa del capitale, che alcuni modellavano addirittura come ‘lavoro morto’, il che consentiva di sottolineare che tutto il valore viene generato dal lavoro. Quando vi è un solo fattore produttivo, un solo creatore di valore, non si pongono problemi di distribuzione del reddito, poiché questo appartiene per definizione a chi lo ha prodotto e chi lo ha prodotto è uno solo.

Ma l’affermarsi di processi produttivi che impiegavano quantità non trascurabili di

capitale pose il problema di come il valore prodotto vada distribuito tra i due fattori produttivi – vale a dire tra i due gruppi sociali in cui può essere suddiviso l’aggregato ‘famiglie’, e cioè capitalisti e lavoratori. A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo una nuova scuola di economisti, detti neo-classici, elabora la teoria secondo cui il fattore lavoro va retribuito con il valore del proprio prodotto marginale, il salario, mentre il profitto sarà un’entità residuale, cioè che rimane dopo che tutti gli altri costi di produzione sono stati onorati. Che si creda o meno a questo particolare teoria, ciò che conta è che sia stato stabilito il principio secondo cui esiste un secondo fattore produttivo e che esso va remunerato.

Sorge, all’inizio degli anni ottanta del XX secolo, una letteratura la quale enfatizza che il management delle imprese deve preoccuparsi di più della remunerazione del capitale e aumentare la quota dei profitti distribuiti sul totale del valore aggiunto, e prestare minore attenzione alla quota di profitti non distribuiti – quella cioè potenzialmente destinabile ad investimenti, miglioramento delle condizioni di lavoro, ricerca e sviluppo. Figura 5 riporta l’andamento nel tempo dei profitti distribuiti dal settore industriale rispetto al totale del valore aggiunto generato nel processo produttivo industriale.

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Non è difficile immaginare quale sia il nuovo problema dell’azionista il quale abbia osservato per anni una caduta dei profitti industriali: egli chiederà che il management trovi il modo di ricostituire margini post-seconda guerra mondiale o, quanto meno, fermarne la caduta. La FIP è esattamente la strategia industriale che le imprese adottano per rispondere alla richiesta degli azionisti: dalle maquilladoras (Messico) alle forniture di abbigliamento (Hong Kong), processori (Singapore), televisori (Taiwan) e automobili (Corea del Sud). La strategia complementare adottata dall’azionista è di rientrare al più presto in possesso del proprio capitale e, con ciò, della liberta di allocarlo dove meglio crede: laddove, inevitabilmente, il rendimento sarà più alto, a parità di rischio. In breve, si vengono accumulando quantità crescenti di capitale sganciato dall’impiego industriale di lungo periodo, capitale pronto ad essere impiegato tanto sul mercato monetario (impieghi di breve) quanto su quello finanziario (impieghi di lungo).

3. Il nuovo modello finanziario: “originate to distribute”

Nel giro di pochi anni attorno all’inizio degli anni ’80 si osserva dunque l’affermarsi di tre fenomeni concomitanti: 1. La progressiva deindustrializzazione dei paesi

a più alto reddito pro-capite; 2. La ‘liberazione’ di capitale dall’immobilizzo di lungo termine nella forma di capitale industriale e la crescente finanziarizzazione delle imprese industriali; 3. L’emergere di nuovi comportamenti sul mercato dei prestiti bancari e, di conseguenza, la crescente finanziarizzazione delle economie.

Gran parte della letteratura definisce il terzo di questi fenomeni come ‘innovazione finanziaria’, ma non spiega quali ne siano state le cause scatenanti. Qui si sostiene che tale innovazione fu da un lato il frutto dei primi due, e cioè dell’aumentare progressivamente più rapido della disponibilità di capitale finanziario sempre meno affezionato all’impiego industriale e sempre più alla ricerca di impieghi alternativi; e dall’altro di un cambiamento radicale nella comprensione del rischio creditizio da parte delle banche e degli intermediari finanziari: un cambiamento che fu alla base del passaggio dal vecchio modello ‘originate to hold’ al nuovo ‘originate and distribuite.’

Si ricorderà che nel modello originate to hold la banca origina il rischio, cioè offre credito e, in via di principio, trattiene il titolo rischioso fino a maturità. Nel modello originate and distribute l’erogazione del prestito ha una motivazione aggiuntiva: il rischio insito nel ‘mutuo’ viene

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venduto e il credito rimosso dal bilancio della banca erogante. Si forma così un mercato nuovo, quello di mutui ipotecari cartolarizzati (Mortgage Backed Securities, MBS) che non esisteva nel vecchio modello in cui le banche commerciali non potevano eseguire queste operazioni. E le MBS sono uno degli strumenti finanziari preferiti dagli investitori.

4. Il contesto macroeconomico attuale e note conclusive E dunque, quale destino per le banche?

La buona teoria economica ci insegna a non aspettarci straordinari tassi di crescita economica mentre la spesa pubblica viene contratta e, di conseguenza, c’è alta disoccupazione e i redditi delle famiglie cadono. E le banche non danno a prestito ad imprese produttive in difficoltà. E ogni volta che una impresa chiude, chi lavora ne soffre, e ne soffre la banca esposta. Un circolo vizioso che solo la spesa pubblica potrebbe spezzare. Ma non lo si vuole. Irragionevolmente? O esiste invece una agenda diversi dei governi europei, una agenda al cui centro non c’è, evidentemente, la ripresa economica?

Quanto ancora possiamo vivere in questo scenario? Le previsioni del FMI pubblicate il 16

aprile dicono che c’è poca ragione di credere che l’Europa uscirà dalla sua ‘mite recessione’ prima del 2014. E la cosiddetta ‘strategia di riduzione del debito’? Bene, le prospettive non appaiono rosee nemmeno su quel fronte. Proviamo a giocare con un esempio.

Il governo italiano ha un debito pubblico che ammonta pressappoco a 2 trilioni di €, pari a circa il 125% del suo PIL. Se si prende sul serio le decisioni assunte a livello europeo il 2 marzo 2012 e note come ‘fiscal compact,’ questo rapporto dovrà essere uguale al 60% circa nel 2032. Vero, il linguaggio del testo non è davvero stringente e saranno fatte delle concessioni. Dunque, supponiamo di limare solo un quarto del debito. Assumendo che la recessione di cui siamo tutti testimoni sia un invenzione del FMI e dell’OCSE e che il reddito è, e sarà, stabile (cioè, assumendo che la teoria economica abbia torto e che le riduzioni del debito non siano recessive), noi stiamo parlando di ridurre il debito di 25 miliardi all’anno per vent’anni consecutivi. Il che, ponendola in maniera diversa, implica un surplus di bilancio dello stesso ammontare.

Naturalmente, questa non è una strada percorribile da alcun governo. Esiste quindi soltanto un modo che io vedo in grado di garantire che la riduzione del debito rimarrà al livello desiderato: privatizzazioni. Non sto

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parlando, ovviamente, di idee ridicole di cui si è sentito parlare in fase di avvicinamento a questa politica, quali la vendita di vecchie caserme militari o di strisce di spiagge di proprietà dello Stato. Mi riferisco alla cosa reale, quegli ‘articoli’ che sono ad un tempo grandi, corpulenti e non redditizi (in questo momento) per il settore privato: mi riferisco ai servizi di pubblica utilità, la sanità, l’istruzione, il trasporto pubblico e le municipalizzate in genere.

E chi si può permettere questi ‘articoli’? Bene, forse le banche, che potrebbero aver trovato un investimento meno rischioso di quello chiesto loro dalle imprese produttive. Questo scenario è caratterizzato da due aspetti principali. Secondo l’ipotesi che stiamo sviscerando, nel lato reale dell’economia troviamo governi che tagliano il debito pubblico, per la maggior parte attraverso privatizzazioni; e nel lato finanziario dell’economia le banche detengono molta liquidità che da anni ormai non stanno dando a prestito alle imprese - né la daranno. Non è difficile immaginare le banche commerciali prestare denaro a qualche agente privato per comprare, ad esempio, servizi di pubblica utilità. Ma dove, si chiederà, potranno le banche trovare la liquidità necessaria? Semplice: la liquidità viene fornita da anni ormai nelle forme più tradizionali ed avveniristiche allo stesso tempo mediante le Long Term Refinancing

Operations, dalle Quantitative Easing 1, 2, 3 … Tutta liquidità che le banche non riversano sul mercato del credito e che preferiscono invece ri-depositare presso la banca centrale o, al massimo, utilizzare per comperare titoli del debito dei governi. Tutta liquidità, in altre parola, in attesa di impieghi proficui. E le Outright Monetary Transactions servono, nell’interim, a sostenere i bilanci delle banche.

Perfino in uno scenario in cui il rimborso delle LTRO innescasse una riduzione nella disponibilità di credito, le banche avrebbero la soluzione per qualsiasi problema di liquidità. Qual è la soluzione? Emettere Asset Backed Securities, cioè obbligazioni garantite: garantite, naturalmente, dalle public utilities, sanità, istruzione……

La risposta alla domanda ‘perché così tanta liquidità, visto che non serve a rilanciare l’attività produttiva?’ Dal 2007 la risposta è una sola: per dare tempo a sufficienza alle banche di ripulire i propri bilanci. Ma sorge un’altra domanda: ma perché, allora, una politica fiscale recessiva? Non dovremmo adottare una politica fiscale espansiva, se fosse quello l’obiettivo? Non aiuterebbe le banche nel loro intento? Non è forse vero che il processo di riduzione della leva dura molto più a lungo quando più è persistente la stagnazione dell’economia reale?

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E’ proprio questa combinazione di politiche monetarie aggressivamente espansive e politiche fiscali aggressivamente recessive ad aver attirato la nostra attenzione. Le prime sono state costantemente espansive fin dall’agosto 2007 e, addirittura, lo sono diventate ancora di più con QE, LTRO, OMT; le seconde, decisamente espansive nel 2008 e prima metà del 2009, si sono poi trasformate in politiche recessive. Per di più, se si prendono seriamente le istanze di politica annunciate dalle istituzioni e dai leader europei, si è già detto che la politica fiscale continuerà ad essere aggressivamente recessiva negli anni a venire.

E’ chiaro a tutti che la combinazione politica monetaria espansiva e politica fiscale recessiva non genera ripresa. Lo sapevamo anche cinque anni fa, ma i governi europei, e i loro consiglieri economici, hanno continuato a battere la grancassa della ripresa promettendo che minori debiti pubblici avrebbero generato un miglioramento delle aspettative delle famiglie e delle imprese, le quali avrebbero ricominciato a spendere ed investire…. Credo fortemente che questa sia una favola che nessuno può prendere sul serio. A generare i surplus dei bilanci dei governi saranno necessariamente entrate di tipo non fiscale. Inizialmente per paesi come Italia, Spagna, Grecia, Cipro, Portogallo e a seguire, probabilmente, per Slovenia, Francia, Olanda,

cioè per quei paesi che hanno le percentuali più abbondanti di capitale preso a prestito dai governi, l’intervento di consolidamento sarà costituito dalla vendita di attività detenute dai governi, come la scuola pubblica, la sanità, le autostrade, municipalizzate e così via. Chiaramente, se questo dovesse accadere, il grande ammontare di liquidità messo a disposizione dalle autorità monetarie e detenuto dalle banche, avrebbe trovato l’impiego appropriato.

Tuttavia, la nostra discussione ci ha portato a concludere che questo non è un risultato voluto a tutti i costi dagli intermediari finanziari. Infatti, il finanziamento delle privatizzazioni potrebbe addirittura essere lasciato a qualche banca locale, piccola, relativamente non competitiva. Le banche più grandi e più competitive potrebbero moltiplicare i propri investimenti, iniziati anni fa, nei paesi emergenti, ad alta crescita, politicamente affidabili. In quei paesi cioè, in cui la produttività del capitale è più alta e, di conseguenza, lo sono anche i rendimenti dell’investimento finanziario.

La conclusione generale è perciò la seguente. La crisi finanziaria attuale, emersa in un primo momento come un problema di debito privato, è stata poi scientemente trasformata in una questione di debito pubblico. Dato che non vi

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è nulla all’interno della buona teoria economica che suggerisca che vi siano debiti buoni e cattivi, non vi è una spiegazione ovvia al perché il debito pubblico sia finito sotto un attacco così feroce da parte del settore finanziario. La mia personale interpretazione dell’evidenza fin qui discussa è che il processo di costituzione di reti di produzione internazionali ha superato la sua fase esplorativa ed è ora pronto a decollare su di una scala nuova e massiccia. Ma questo richiede grandi quantità di capitali, la cui provenienza può essere soltanto l’Europa. E ciò richiede un enorme ridimensionamento del settore pubblico. Che questa sia una politica voluta o meno dal settore, un’ondata di privatizzazioni è nelle carte. E la liquidità per renderla possibile è già presente. E’ proprio questo che deve avvenire se si vuole realizzare quella inversione del ciclo della distribuzione del reddito che, iniziata moderatamente circa quaranta anni fa negli Stati Uniti, sta assumendo carattere di generalità in tutti i paesi ad alto reddito pro capite.

E dal punto di vista normativo, quale potrebbe essere uno scenario plausibile? Per rispondere, occorre guardare ancora una volta agli Stati Uniti, dove il dibattito ruota attorno a tre posizioni principali:

i. Quella di Paul Volcker, già Presidente della

Fed e autore, insieme a Ronald Reagan, della grande deindustrializzazione. Volcker vede con favore un ritorno alla separazione radicale tra banche commerciali e banche di investimento, realizzata attorno alle grandi linee della Glass-Steagall;

ii. Quella di Lawrence Summers, già membro del Council of Economic Advisors del Presidente Obama. Summers sembra prediligere una forma di banca universale non lontana da quella affermatasi negli ultimi quindici anni, ma soggetta a più stringente regolazione da parte delle autorità di controllo;

iii. Quella di Jamie Dimon, amministratore delegato di J. P. Morgan e grande sostenitore della campagna elettorale di Obama. Dimon lotta per una deregolamentazione la più ampia possibile del settore.

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[SERGIO SINIGAGLIA]Grazie al Prof. Fabio Sdogati che ci ha proposto una relazione lunga, articolata e ricca rispetto alla quale vale la pena confrontarsi, quindi chiederei a Giuliano Calcagni segretario nazionale Fisac Cgil e poi a Mimmo Moccia, Coordinatore Nazionale Fisac Cgil Area programmatica “La Cgil che vogliamo” di confrontarsi con i punti che ha messo il Prof. Sdogati.

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Giuliano CalcagniSegretario Nazionale

Fisac-CgilLa frammentazione dei processi produttivi ha comportato la frammentazione dei diritti...... Nel momento in cui si avvia un percorso di produzione privo di diritti perde di dignità l’uomo, con le sue ansie, i suoi bisogni, le sue aspettative.

“Il testo che segue non è stato sottoposto a revisione e viene presentato direttamente trascritto dalla forma orale*

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Intanto ringrazio dell'invito. L'analisi che tratteggia il professore è un'analisi spietata, un'analisi complicata; su alcuni aspetti mi

ci riconosco, ci riconosciamo. Però io volevo partire dal titolo del seminario che è quello del “Circolo vizioso” della crisi. Un Circolo vizioso dà il senso dell'inutilità, che non sposta nulla, il che non è vero. Nel senso che la crisi finanziaria ed economica che noi viviamo nel nostro paese l'abbiamo  importata dal mondo anglosassone, dalla crisi delle banche anglosassoni. Quindi una crisi di debito privato trasformato in una crisi di debito pubblico. Penso che attraverso questa crisi si rideterminano i pesi, gli equilibri. Nel senso che non è vero che è un Circolo vizioso, che è tutto inutile e rimane tutto fermo. Nel senso che il mondo del lavoro, inteso anche e soprattutto come quel mondo che produce beni e servizi, viene messo alle corde. Dal mio punto di vista la frammentazione dei processi produttivi ha comportato la frammentazione dei diritti. Nel momento in cui si avvia un percorso di produzione privo di diritti, come diciamo noi nella nostra parrocchietta, perde di dignità l'uomo, con le sue ansie, i suoi bisogni, le sue aspettative. Penso che uno degli elementi forti della crisi, che abbiamo importato da una crisi di debito privato a una crisi di debito pubblico, attraverso i meccanismi che il professore sostanzialmente spiegava, è quello di mettere al centro la persona

coi suoi bisogni, coi suoi diritti e con le sue aspettative. Come? Perché dico questo?Ovviamente il professore ha fatto un'analisi tutta tecnica delle questioni, però io penso che dobbiamo recuperare questo valore quando costruiamo percorsi di natura scientifica. Il sindacato si domanda se è possibile una crescita diversa, penso che sia corretto affermare questo concetto. Però il sindacato rappresenta cose concrete, di lavoro e di reddito. Senza lavoro il sindacato va in difficoltà, non rappresenta, quindi è un processo lungo. Penso che sia corretto avviare una discussione se un modo diverso sia possibile, io credo di si. Però, lo voglio dire con molta sincerità, se il problema del Paese fossero le banche saremmo a metà dell'opera. Penso, invece, che il problema del Paese sia un pò più complesso; nel senso che noi siamo di fronte al crollo di una classe dirigente, che oggi vede coinvolte anche le massime istituzioni della Repubblica. Questo è un problema serio a cui credo non si possa dare risposte. Il professore dice una cosa corretta che io condivido molto e cioè che che il Paese non ha mai avuto una classe dirigente, non tanto politica, ma di grandi industriali, sia per la sua genesi dello sviluppo del dopoguerra con le piccole e medie imprese, sia perché abbiamo

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Giuliano Calcagni

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avuto grandi manager pubblici che non si sono mai confrontati con la concorrenza, non dico internazionale, ma domestica. L'attacco che subisce l' Europa rispetto ai processi produttivi è dovuto a modelli del nord America dove alcuni diritti sociali sono modulati diversamente o sono appaltati all'attività privata. Faccio un esempio: è possibile che il grande capitale aspetti il crollo della sanità o della scuola pubblica, ma io non mi rassegno all'idea che una comunità, non uno Stato-Nazione, una comunità di uomini e donne non abbia al centro alcuni elementi condivisi e solidali che sono l'istruzione e la sanità. Mi fermerei qua per non appesantire la discussione.

Giuliano Calcagni

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[SERGIO SINIGAGLIA]

Nel dare la parola a Mimmo Moccia gli chiederei di confrontarsi con le parole del Prof. Sdogati che ha concluso la sua relazione dando uno scenario inquietante sulla privatizzazione dei servizi, lui che gira con la valigetta a vendere formazione.Qundi chiederei a Moccia cosa può fare il Sindacato per fermare questa deriva visto lo scenario inquietante descritto. Un’altra riflessione, visto che siamo ad Ancona, nelle Marche: c’è stato un atto d’accusa molto forte verso la piccola media impresa verso il “piccolo è bello”.Vorrei che ci soffermassimo su questo, grazie.

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Mimmo Moccia

Coordinatore Nazionale Fisac-CgilArea programmatica“La Cgil che vogliamo”

Non solo si è definito un modello economico e sociale di costruzione della società in cui la remunerazione dell’azionista fosse la funzione primaria, ma su quello si è costruita anche un’ideologia che ha fatto identificare la remunerazione del capitale con il massimo del benessere sociale.

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Come tutti ringrazio i compagni di Ancona e delle Marche della Fisac, per aver organizzato questa giornata di

studio e per aver invitato anche me per dare un modesto contributo alla discussione. Mi devo complimentare nel modo più assoluto col Prof. Sdogati per l'originalità della sua analisi, per la corposità scientifica del  suo ragionamento, anche metodologicamente, che ci ha portato sulla base della sua analisi e anche la sua brillantissima capacità di esposizione, per cui è riuscito a farcire anche me che sono abbastanza rude nell'intendere questioni scientifiche, a farmi capire perfettamente la tesi che sostiene. Le mie cognizioni intellettuali e culturali non mi permettono di dare risposte ai primi due quesiti nè alle successive osservazioni che hai fatto. Quindi chiedo scusa a tutti i presenti se farò un ragionamento abbastanza frammentato. Lo faccio sulla base di quello che ho sempre fatto, cioè il sindacalista anche se in forme diverse negli ultimi anni.La prima cosa che mi è venuta in mente ascoltando il professore e la polemica del “piccolo è bello” è che la prima volta che ho studiato e capito la grande contraddizione tra il “piccolo è bello” e il “grande è meglio”, non apparteneva all'economia ma alla poesia amorosa. Mi ricordo nell'antica Grecia il conflitto culturale che investì il tessuto sociale per cui si discuteva nelle città di questa cosa e riguardava Callimaco e Apollonio Rodio e ci fu la famosa espressione

di Callimaco "Mega biblìon, Mega Kakòn", un grande libro è una cosa fatta molto male. Poi la polemica si è trasferita su altri settori, sul sociale, sul settore dell'economia, oggi la troviamo sul modello produttivo che andrebbe preferito invece di un altro. Io non posso che concordare con il professore sulla base della mia esperienza empirica, quindi sulle mie capacità empiriche di ragionamento, perché in effetti uno dei difetti strutturali dell'impresa produttiva italiana, è la sua dimensione. E' la sua incapacità di costruire punti di riferimento stabili e collettivi. La sua incapacità a fare rete, la flessibilità intesa non come un investimento culturale e tecnico per riuscire a determinare prodotti maggiormente competitivi, ma intesa come maggior sfruttamento, maggiore pressione sull'intensità della prestazione lavorativa. Piccolo rappresenta l'organizzazione familistica, non rappresenta una capacità di strutturazione anche finanziaria dell'impresa. Il piccolo rappresenta un costante bisogno di rapporto finanziario che viene dalle banche e questo poi rende la banca centrale nello sviluppo del territorio e nella dimensione del territorio. Anzi, se mi permettete una degressione molto breve su quest'aspetto, io apprezzo molto l'impegno che la Fisac delle Marche e i compagni della banca rispetto alla possibilità che Banca Marche perda la sua identità territoriale e la sua dimensione, travolta da una cattiva gestione come si è registrato negli ultimi anni. La battaglia per tenerla ancorata

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saldamente al territorio risanata e riorganizzata e non con una soluzione che preveda interventi solo sul costo del lavoro, la apprezzo molto.Quindi, inevitabilmente, per competere nei mercati globali, anche secondo una logica capitalistica, devi avere una struttura che ti consente di farlo. La modalità dello sviluppo italiano lungamente voluta protetta, tutelata e ideologizzata. De Rita su questo terreno ci ha costruito un impero culturale oltre che personale, è sostanzialmente un modello produttivo che ha una ciclicità breve, che serve solo per una fase storica di sviluppo ma, dopo, deve essere inevitabilmente sostituito da un modello produttivo che abbia un dimensionamento tale che gli consenta di avere una capacità di produzione, una capacità di flessibilità intesa come innovazione tecnologica, una specializzazione produttiva, una capacità di competere con altre aziende e con altri soggetti imprenditoriali.Però, ovviamente, so di aver detto cose comuni e non volevo il titolo di capacità innovativa del pensiero, però la vedo in questo modo qua. Invece volevo dire alcune cose riguardo la mia esperienza maturata nel corso degli anni riguardo il tema del convegno "il Circolo vizioso" che trovo un titolo apprezzabile e assolutamente corretto che identifica in questo momento il circuito che di è determinato in Europa, in Italia in particolare tra il sistema creditizio, il sistema produttivo e la società. Mi

viene in mente una frase di Oscar Wilde sul Circolo vizioso che diceva: "prendete un circolo virtuoso, accarezzatelo a lungo e certamente diventerà un circolo vizioso". Il sistema finanziario italiano è stato lungamente accarezzato direi anche nelle sue parti più sensibili da un punto di vista erogeno. E' un circolo che è stato protetto, è un circolo che è stato prima pubblico poi successivamente avvicinato alle privatizzazioni con percorsi garantiti, protetto perché non è mai stato contenibile, le banche italiane non sono mai state e continuano a non essere contenibili da questo punto di vista, sostanzialmente integrato a una visione dello Stato che vedeva giustamente nelle banche una funzione sociale diretta verso lo sviluppo, l'economia e verso la distribuzione di quel reddito che si sarebbe dovuto determinare con uno sviluppo equilibrato del Paese e del sistema. Tutto questo non c'è stato e soprattutto chi è venuto meno all'interno di questo ordinamento e di questa protezione sono state le banche. Credo che vada sinceramente detto, che vada rotto definitivamente questo mantra ipnotico che ci ossessiona da anni, in cui si dice che le banche italiane sono migliori di quelle anglosassoni, di quelle tedesche, di quelle americane, che hanno poca attività finanziaria, che non hanno prodotti derivati nella loro pancia in grado di produrre effetti devastanti, che la banche italiane hanno servito l'economia

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e sono state capaci di intervenire nell'ambito della costruzione della società in un modo proficuo per la collettività. Per quanto mi riguarda, con molta sincerità, nessuna di queste affermazioni è assolutamente vera. Bisogna dirle prima o poi queste cose, le banche italiane sono quel circolo vizioso o comunque sono il punto centrale all'interno del quale si vengono a creare e a determinare la viziosità del circolo e l'inversione di senso e di tendenza che quel circolo avrebbe dovuto avere, ovvero produrre ricchezza, distribuirla, contribuire alla crescita sociale ed economica del paese. Diciamocelo con grande chiarezza, hanno una dimensione etica sostenibile le banche? La mia risposta è no. Le banche nel nostro paese sono i primi soggetti per evasione ed elusione fiscale. Ovvero l'istituzione banca, quella protetta, quella che viene garantita come luogo della trasparenza è il primo per evasione e per elusione fiscale del Paese. Chi ha letto il bilancio di Banca Carige che è stato fatto sette giorni fa, vedrà che nel disavanzo dell'anno 2012 i due terzi sono determinati dal fatto che hanno sanato una questione fiscale transandola con l'erario, ovvero si produce un buco di bilancio sanando la mancata corresponsione fiscale nei confronti del sistema Paese. I primi due gruppi bancari italiani, Unicredit e Banca Intesa, sono i due gruppi che hanno prodotto nel corso del tempo il maggior

numero di transazioni per quanto riguarda gli oneri fiscali. Ce la ricordiamo tutti l'invenzione dell'iva “infra group” e come aggirare la possibilità che non venisse pagata l'iva “infra group” con società satelliti prima esternalizzate e poi reincorporate, per fare che cosa? Per non pagare l'iva. La seconda questione: le banche italiane hanno un rapporto corretto nei confronti del risparmiatore? La risposta è no. Vige ormai, tra banche e clienti, un rapporto di opacità assoluta; non a caso le banche italiane hanno costituito una lobby feroce nei confronti dei risparmiatori che, semplificando, si esprime così: "io banca prendo i tuoi soldi, te li remunero in via teorica e alla fine il tuo risparmio potrà avere una soluzione di questo tipo: potrai guadagnare il 10% ma potrai perdere il 5% o il 20%". Questo non può essere può consentito. Al contrario, vengono fatte continuamente pressioni sulla Consob perché non eserciti, in questo ambito, i controlli che le competono. Ma a voi sembra un caso che quando l'ABI decide di cambiare il proprio Direttore Generale assume il funzionario più alto in grado della Consob?. C'è una commistione di interessi che non funziona in questo paese? C'è un conflitto reale tra un dirigente qualificato, funzionario di più alto in grado che esce da un'autorità di vigilanza e diventa presidente dell'ABI? Ovvero i controllori devono essere controllati. Le banche

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offrono prodotti opachi poco trasparenti, sollecitano il risparmio in forme non adeguate e non corrette nei confronti del risparmiatore. Ci sono prodotti venduti che sono raccapriccianti e sui quali è dovuta intervenire ripetutamente la Consob per farli ritirare dal mercato. L'ultimo, quello della Banca Popolare di Milano, che ha dimezzato gli investimenti dei risparmiatori. Le banche sono chiare e trasparenti nei loro rapporti con le istituzioni e le autorità locali? La risposta è no. La ristrutturazione del debito delle comunità locali viene proposto dalle banche attraverso sistemi finanziari definiti dalle stesse, nell'ignoranza non solo della lingua inglese (come succede per Mussari, il quale non conoscendo l'inglese non capisce quello che gli dice l'Ad di Nomura), ma anche dei meccanismi e della complessità del prodotto finanziario stesso. Gli Enti locali sottoscrivono felicemente e con estrema leggerezza questi prodotti tossici perché vedono che finalmente una parte del loro debito è abbattuto per poi scoprire che ciò è avvenuto con la sostituzione di un nuovo debito che, per durata, per quantità e per qualità, sovrasta largamente quello che c'era precedentemente.Le banche italiane hanno servizi efficienti e sufficientemente parchi nella loro composizione? La risposta è no. La dimensione erogativa che svolge la banca ha sostenuto l'economia e il modello produttivo del paese?

La risposta è no. Con molta chiarezza : quando le banche ci dicono che devono ridurre il costo del lavoro perché hanno un incremento di perdite di un miliardo al mese, è contabilmente vero. Ma è politicamente vero? Ma è socialmente ed economicamente vero? No, perché va identificato come è stato erogato il credito e soprattutto a chi è stato erogato. Guardate che la parte maggiore della composizione delle sofferenze non vengono dalla mancata restituzione, in una fase recessiva, dei prestiti che le famiglie o le imprese ricevono dalla banca, ma vengono dalla ristrutturazione dei crediti, ovvero di quello che è stato dato precedentemente in forma di gestione politica del credito e che successivamente si è rivelato un credito non esigibile e quindi bisogna ristrutturarlo. Questo è quanto interviene per la maggiore quantità nell'ambito della gestione delle sofferenze delle banche. E hanno nomi che sono chiari a tutti da questo punto di vista, e sono: Zaleschi e Tassara di Intesa Sanpaolo che hanno scavato un buco di 150 milioni di euro in un solo mese. Guardate Premafin, Fondiaria Sai e Unipol. Sono molto preoccupato per i compagni di Unipol, soprattutto per il management di Unipol. Perché uno che sceglie come advisor il soggetto che vanta il maggiore credito col quale si deve fondere e incorporare, credo che sia un'operazione demenziale in genere. Mediobanca che ha funzione di advisor per quanto riguarda l'operazione di acquisizione di

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Unipol nei confronti di Fondiaria SAi, è quella che vanta un miliardo rispetto a Fondiaria Sai e Premafin. Ma secondo voi, in questo paese che non ha il rigore calvinista, il rigore luterano, chi sarà il primo ad essere ristorato del proprio debito? E su chi saranno caricati i pesi e le responsabilità di quell'operazione? E altrettanto vale per Unicredit, che è il primio socio di Mediobanca, 700 milioni ma per finanziare che cosa? Per finanziare Ligresti e la sua famiglia? Per finanziare Lionella Ligresti la quale occultava non i soldi propri all'estero, ma che alle Caymann andava a occultare i soldi dell'impresa sottraendosi al controllo dei sindaci e del cda e che contemporaneamente ha trattato ottenendo da Unipol una liquidazione extra sociale, extra pattizia di 40 milioni di euro? Per aver fatto che cosa? Pessima finanza, pessima assicurazione e per aver determinato il default di uno dei più grandi gruppi assicurativi italiani. E Alitalia la vogliamo ricordare? Il campione nazionale che andava salvato? Che ieri ha cambiato ancora un'amministratore delegato? Allora, le banche hanno una funzione sociale etica svolta in questo senso ? La risposta è ovviamente no. Ma sapete quel'è l'evento truffa che mi ha sconvolto? Vi ricordate il 21 novembre 2011, il Btp day, quando le banche dissero che non avrebbero preso una commissione, una frazione di centesimo di euro

da coloro che fossero andati a comprare Bot, Btp e Cct quel giorno? La stampa le ha glorificate, mi ricordo ancora l'esordio del telegiornale de La7, Mentana:" domani il Btp day……", la gente si è presentata a frotte nelle banche. C'era un piccolo problema, che l'asta pubblica era il giorno dopo, il 22. Il 21 hanno venduto i bot che erano in loro possesso e che avevano un rendimento più basso rispetto a quelli che ci sarebbero stati il giorno dopo. Per cui hanno riempito la pancia e il portafogli dei propri clienti di titoli, un giorno antecedente all'asta pubblica, di titoli che avevano in portafoglio con un rendimento più basso.E' questo il comportamento sociale delle banche in questo paese? Nel momento più acuto della crisi si inventa una giornata per andare a scaricare sulla clientela tutto il resto. E vogliamo prendere anche un altro effetto paradossale? Il nostro sistema bancario l'unico sistema bancario che detiene una quantità di debito pubblico altissima, negli altri paesi funziona in un altro modo. I giapponesi sono giapponesi, hanno l'imperatore che è Dio, hanno il debito pubblico che è a zero rendimento, lo comprano tutti e viene ricollocato verso le famiglie giapponesi e va salvato il Sol Levante, l'identità storica, religiosa dei giapponesi. Ma negli altri paesi il debito pubblico viene collocato in larga parte verso il risparmiatore perché una condizione naturale e reale.

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Nel nostro paese avviene esattamente il contrario, perché? Perché la banche comprano immani quantità di debito, perché hanno una visione di carattere speculativo e soprattutto non una visione con capacità di investimento reale, compro debito pubblico e prendo la rendita, ma il debito pubblico viene depositato direttamente alla Banca Centrale. E’ così professor Sdogati ?Contemporaneamente la Banca Centrale ti finanzia la quantità di debito pubblico che tu poni. Per cui quando io prendo un Bot, quando la banca prende un Bot, prendo la rendita del Bot lo deposito alla Banca Centrale e la Banca Centrale mi da esattamente l'importo del Bot che io ho comprato. Quindi un'operazione di rifinanziamento dell'attività della banca fatta in questo modo qua. Nel frattempo la banca prende i propri titoli di debito, che sono soggetti a rischio aziendale, a rischio impresa, e quindi ha dentro di sè la componente di rischio che ne abbassa il valore e ne abbassa contemporaneamente la rendita e lo vendono alle persone. Per cui il rischio paese, che sicuramente è un rischio più basso, viene gestito dalla Banca che lo fa diventare lucrativo per se stessa attraverso il deposito dei titoli presso la Banca Centrale Europea. Contemporaneamente, il rischio reale, che dovrebbe restare un rischio a carico delle banche, viene, invece, riversato sui cittadini. La mia risposta è che questo circolo vizioso va interrotto. Va interrotto con un atto volitivo, chiaro e trasparente di lotta. Questo circolo

vizioso va interrotto con una denuncia forte da parte di tutti i soggetti, da parte dell'impresa, da part dei lavoratori, da parte dei dipendenti, da parte dei risparmiatori. Bisogna dire che le banche sono nude, come lo era il Re, nudo di fronte agli occhi della bambina che non conosceva la trama sottile con cui era vestito il Re. Partendo da questo assunto possiamo negoziare, trattare con le banche in termini chiari, su terreni, precisi e identificati, che non comportino cessioni di sovranità da parte del sindacato, come purtroppo sta accadendo. Non solo si è definito un modello economico e sociale di costruzione della società in cui la remunerazione dell'azionista fosse la funzione primaria, ma su quello si è costruita anche un'ideologia che ha fatto identificare la remunerazione del capitale con il massimo del benessere sociale. Però le banche continuano ad esprimere una capacità di contenimento solo con la riduzione del costo del lavoro o con l'espulsione dei lavoratori, oppure con forme solidaristiche che possono anche essere accettate, però all'interno di un piano chiaro. Le pressioni commerciali stanno raggiungendo livelli inenarrabili. Ora le banche, ad esempio, vendono tutti i tipi di polizze. Anche le polizze automobilistiche vende la banca. Mi ricordo l'affermazione di un sociologo americano negli anni '80 che, quando c'era il dibattito sulla liberalizzazione delle droghe,

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affermò: "se le dobbiamo liberalizzare, le uniche che le possono distribuire sono le banche" perché sono quelle che hanno una struttura di distribuzione e di controllo adeguate allo scopo. Tra poco avremo le vendite di pacchetti turistici e di tutto ciò che sarà possibile vendere. . Noi dobbiamo rivendicare che la banca faccia il mestiere di banca. Perchè questo comporta la locazione migliore delle risorse disponibili, con finalità di crescita del reddito, di sostegno alla produzione e una capacità di costruzione di una società più equilibrata nelle sue articolazioni. Noi dobbiamo sottrarci a una logica sindacale che vede il sindacato giocare continuamente di rimessa, in termini difensivi rispetto alle banche. Il punto centrale sul passaggio che si sta determinando sul costo del lavoro è che le banche fiutano una moda e la seguono. Non hanno pensiero sistematico come quello del professor Sdogati, non hanno una visione scientifica, non hanno capacità di proiezione nel tempo di quello che mettono in campo. Ora è la moda delle esternalizzazioni, imparatela e ricordatela bene, perché a voi che continuate a fare il sindacato e ai dipendenti bancari, vi accompagnerà per molti anni, perché è un nuovo trend. Dobbiamo esternalizzare per risparmiare, questa cosa è una falsità. Questa cosa non è vera, le esternalizzazioni sono dei processi che hanno respiro di breve periodo e che hanno,

unicamente, lo scopo di consentire un risparmio del costo del lavoro. Vi siete mai chiesti perché il più grande centro di elaborazione dati che esista nel mondo è di proprietà di una banca? Si chiama Goldman & Sachs? Vi siete mai chiesti perché le banche internazionali non esternalizzano i processi di controllo che hanno al loro interno? Perché, invece, in Italia questi lavoratori vengono esternalizzati? Non sono centrali e funzionali alle banche? No! Vengono esternalizzati perché le banche italiane vendono i prodotti delle banche europee e delle banche americane. Mi ricordo quando il povero Mattei cercò di emancipare l'Italia dal debito petrolifero che noi avevamo verso le sette sorelle e, per tutta risposta, lo eliminarono. Dopodiché l'Italia diventò solo un paese di trasformazione. Noi trasformavamo il petrolio, inquinavamo il nostro territorio ma non avevamo alcun diritto di estrazione in proprio nè di collegarci in forma autonoma nei mercati internazionali, e, difatti, tutt'oggi siamo in questa condizione. Funziona così anche con le banche. Per questo le esternalizzazioni vanno combattute: perché non sono un'autentica e strutturale forma di risparmio. E se è necessario fare risparmio, come i compagni e le compagne del Monte dei Paschi hanno molto saggiamente proposto all'amministratore delegato, al Presidente, al Direttore generale, si può risparmiare attraverso

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le forme solidaristiche. Quando un impresa è in crisi, si possono determinare forme di risparmio stabili e continue nel tempo, ma esternalizzare 1000, 1500, 2000 lavoratori rende semplicemente precaria la loro vita, precaria la loro stabilità occupazionale, rende precaria la loro dimensione produttiva, elimina le tutele di natura contrattuale che il contratto dei bancari continua ad esercitare e soprattutto non determina una condizione di risparmio nei confronti della banca che abbia una sua continuità da questo punto di vista. Sotto questo aspetto, io credo che dovremmo fare una considerazione come Sindacato per andare ad una battaglia chiara, forte rispetto a questi processi che le banche intendono attuare. Un grande poeta meridionale, che io amo molto, Alfonso Gatto, diceva: "non credete al saggio, non credete al maestro del villaggio, ma sbagliate da soli". Quando ci vengono propagate per oggettive verità scientificamente dimostrate, bilanci, progetti industriali, strategie di mercato che non corrispondono a questi dati dobbiamo imparare a pensare in modo autonomo pretendendo che venga fornita dimostrazione di tale pretesa scientificità. Chiudo con un piccola citazione, se me lo consentite: esiste un teorema sul quale le nostre vite e le vite di centinaia di migliaia di persone stanno andando in frantumiIl teorema è questo: oggi, la priorità è la necessità della riduzione del debito pubblico

che consentirebe l'espansione dell'attività produttiva. Come questo avvenga non ce lo spiegano, però è così. Allora cosa si fa per convincerci? Si prendono due studiosi importanti, americani, Rogoff e Reinhart che insegnano ad Harvard. Prendono la serie dal 1945 al 2009 del debito pubblico e del prodotto interno lordo, li mescolano tra di loro e dimostrano con un sillogismo aristotelico di terzo tipo, quindi completamente falso, che nei Paesi dove si è determinata una capacità di controllo pubblico, la crescita è stata più impetuosa, per cui con un debito pubblico che cresce del 30% oltre il Pil c'è una crescita del 4%, dal 30 al 90% c'è una crescita del 2%, oltre il 90% hai una decrescita dello 0,1%. L'hanno venduto a tutti. Su questo si è costruito l'assioma per cui abbiamo dovuto mettere in Costituzione il rientro del debito pubblico contingentato negli anni. Bene, sono arrivati due studenti che hanno studiato il teorema ed hanno dimostrato che erano sbagliati i calcoli. In realtà i Paesi che hanno un debito pubblico che supera il 90% non decrescono dello 0,1% ma crescono del 2,8% e quindi il nesso volutamente costruito sulla necessità di rendere il debito pubblico compatibile e assorbibile, attraverso una manovra di forte pesantezza di rientro è sbagliata nelle premesse. Non è vero.I paesi che hanno avuto in quella stessa sequenza di anni il debito pubblico oltre il 60% e dentro

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il 90% crescevano di valore che è esattamente ottuplo rispetto a quello che loro avevano indicato. Quindi la premessa non scientifica, la premessa aritmetica era sbagliata. Allora per questo non diamo retta al maestro del villaggio, cerchiamo di sbagliare da soli.

[SERGIO SINIGAGLIA]Grazie a Mimmo Moccia che ha messo il dito nella piaga denunciando i problemi del sistema bancario e il ruolo delle banche, puntando il dito verso il sistema bancario e, tra l’altro, abbiamo avuto la vicenda di Banca Marche, ricordata in precedenza da Fabio Carletti e quella del Monte dei Paschi di Siena che ha sottolineato anche Mimmo Moccia.Lunedì prossimo ci sarà un’assemblea a Jesi alle 14.30 promossa dalla Fisac/Cgil, Fiba/Cisl e Dircredito di Banca Marche.Con Giuseppe Ciarrocchi e Vilma Bontempo, partendo dalle analisi e dalle proposte che abbiamo sentito di carattere nazionale, direi di spostare il tiro sui territori, sulle vicende della nostra regione. Tra l’altro la Fiom ha posto con forza il problema anche del modello produttivo, con Ciarrocchi abbiamo fatto diverse riflessioni in questo senso. Quindi inviterei sia Ciarrocchi che Bontempo a misurarsi sul terzo punto che ponevo nell’introduzione, cioè il sindacato oggi

è disponibile a misurarsi anche sulla qualità del modello e sulla messa in discussione del modello tradizionale e su che tipo di produzione e su come e dove dobbiamo andare a parare?

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Giuseppe Ciarrocchi

Segretario FIOM MarcheI soldi ci sono ma serviranno per quest’ulteriore operazione che farà redistribuire il reddito al contrario, riconcentrerà le ricchezze nelle mani di pochi, a scapito delle classi sociali più deboli. Perché si privatizzeranno i beni comuni: sanità, istruzione, trasporti

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Io provo a rispondere a Sergio, però prima vorrei entrare nel merito dell’analisi del compagno, non del professor, Fabio Sdogati.

Un'analisi politicamente scorretta che per questo a me piace. Innanzi tutto spazza via fiumi di luoghi comuni sull'economia e quindi fa chiarezza. Fabio Sdogati è direttore dell' Executive Education Mip School of Management, quindi immagino sia formatore delle mie controparti.Mi nasce dunque una speranza visto che, da quando faccio il sindacalista, il livello del management aziendale in generale forse è persino peggiore delle classi dirigenti politiche e intellettuali del nostro Paese.Punto di partenza: “piccolo è bello” Noi nelle Marche abbiamo rischiato persino l’apologia di reato per la costante esaltazione del “piccolo è bello”: era il modello vincente a livello di discussione accademiche, intellettuali e di istituzioni locali e di politiche correlate su come l'economia marchigiana dovesse essere sostenutaAgli inizi della crisi finanziaria 2008-2009, nelle Marche l'utilizzo degli ammortizzatori sociali ammontava ad un pò meno di 4 milioni di ore complessive di cassa integrazione. Alla fine del 2010 sono 38 milioni di ore. Il sistema tiene? Nei primi tre mesi di quest'anno, ultimi dati recentissimi, la richiesta è aumentata dell'82% rispetto ai primi tre mesi del 2012. “Piccolo è bello”. Cna, Confartigianato e

Confidustria Ancona hanno aperto la cassa integrazione per i loro dipendenti, mai successo nelle Marche!Ed ancora: i tre suicidi di Civitanova Marche. A proposito del “made in Italy” e del “fashion”, la zona “scarpara” per eccellenza, una delle più ricche insieme a Fabriano che in questi anni dell'apologia del piccolo è bello avevano prodotto eccesso di ricchezza. Solo ora ci si accorge del degrado industriale, economico e dei sintomi della crisi che si potevano leggere da parecchio tempo. Oggi, se penso alle politiche da sviluppare a livello locale, ai confronti con la Regione, si passa dal piccolo è bello al gettarsi anima e corpo in Cina e in Asia, pensando che poi qualche buon cinese alla fine supplisca a quello che le banche non fanno più.I metalmeccanici stanno dentro il disastro economico, produttivo e sociale di cui dicevo.Più di metà di quelle ore di cassa integrazione è dei metalmeccanici e quindi io penso che bisognerebbe interrogarsi non solo su cosa produciamo, ma anche su come lo produciamo, sulle politiche complessive di sostenibilità che bisognerebbe mettere in conto. Due osservazioni: si delocalizzano le produzioni non solo per il costo del lavoro ma anche per la competenza, è giustissimo e spesso, non solo in Italia ma anche in Europa, ci siamo addormentati su questo pensando che era soltanto un dumping economico. Volete un esempio? Il professor Sdogati produce ingegneri,

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ne produciamo in Italia a sufficienza? Una volta che li abbiamo prodotti, pur nell’ambito di un sistema di istruzione scolastica sempre più abbandonato, degradato per mancanza di interventi e di risorse, dove vanno e cosa fanno? Soprattutto come sono riconosciuti? Io ci sto dentro le aziende metalmeccaniche, volete che faccia un esempio? Discutiamo spesso qui da noi della crisi della cantieristica, i coreani si sono presi, nel giro di 15 anni, praticamente quella che una volta era la maggior parte del mercato europeo e italiano in particolare, nel campo della cantieristica, lasciandoci oggi a difendere una piccola porzione del mercato mondiale crocieristico che rappresenta l'8% del mercato. I coreani facevano anche dumping negli anni '80 e '90, quando quelle quote erano in mano all'Europa. L'Europa produceva commissioni di studio per andare a a studiare come i coreani facevano dumping, e la cosa era molto semplice: governo, banche, sistema creditizio e imprese assolutamente collegate, uno che garantiva l'altro. Da noi invece avveniva che quel poco di supporto alla politica industriale veniva meno perché così volevano il liberismo sfrenato ed il mercato che regolava tutta l’economia. E intanto, in Corea dicevano: “noi le navi le sappiamo fare, ci mettiamo i soldi, le banche garantiscono anche quando le imprese magari non ce la fanno ad essere competitive e così oggi progettiamo le navi del 2025”.Fincantieri ha 16mila ingegneri su un totale

di addetti di circa 135-140mila addetti. Gli ingegneri di Fincantieri sono in cassa integrazione. Quelli bravi vanno in Norvegia, in Finlandia, perché a Trieste Fincantieri paga 1200 euro al mese.  Anche quando sono bravi prendono 1200 euro o entrano con lo stage.Allora è  chiaro che in Italia non c'è più una politica industriale e non c’e’ stata nè con i governi di centrodestra nè con i governi di centrosinistra. Ormai ogni volta che andiamo a Roma a discutere di una vertenza andiamo a discutere di ammortizzatori sociali, punto. Se te li danno, concordiamo su quanti ce ne possono dare perché altrimenti scoppiano i drammi sociali. Ma noi dovremmo trattare sulle navi che vorremmo costruire, in Italia servono le navi? Per fare che cosa? Le autostrade del mare? Siamo un paese circondato dal mare e non riusciamo a far lavorare più di diecimila addetti. Allora un conto è deindustrializzare, come Sdogati ci indicava, come hanno fatto gli Stati Uniti, con un'idea guidata, una programmazione seria, ma in Italia la deindustrializzazione è in corso ma è puramente subita come prodotto della crisi.Vado velocemente alla fine. Caso Fiat. E' il perfetto esempio del creare valore per l'azionista. Qualcuno chiede a Marchionne dove stanno gli investimenti, e per produrre cosa? Marchionne chiude gli stabilimenti in cui facevamo quei pochi bus che si fabbricavano in Italia, gli stabilimenti della Irisbus; nel

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frattempo inquiniamo, paghiamo le multe alla Comunità Europea perché non sosteniamo il trasporto pubblico e chiudiamo la Irisbus. Non abbiamo  un'idea di sviluppo e di sostenibilità ma soprattutto nessuno chiede conto, in questo caso la politica, che dovrebbe avere un'idea territoriale e nazionale, di cosa questo significa. E allora, se non è un problema per la politica, per lo Stato, è ovvio che il management della grande impresa si occupa solo di creare valore per l'azionista.La Wolksvagen, che produce auto come la Fiat, oltre ad essere diventata leader mondiale, fa un ragionamento sulla remunerazione degli azionisti e dei propri dirigenti ma parallelamente al fatto che aumenta il reddito anche per chi ci lavora dentro. In Fiat sei nel campo della maggior compressione possibile dal punto di vista salariale e dei diritti, ma nel momento in cui perdono salario e occupazione, gli azionisti in Fiat i soldi continuano a prenderli anche più di prima.L'analisi di Sdogati mi convince. I soldi ci sono, sono convinto anch'io. Anche la tesi del professore sulla privatizzazione mi convince. Vi porto un esempio.  Perché nelle contrattazioni che io faccio coi grandi gruppi, il perimetro di discussione non è più il salario, quindi la remunerazione del lavoro, anche in aziende che vanno bene? Cito l'Ariston Thermogroup, che è un'azienda che va bene, con cui per un anno si è discusso della disponibilità aziendale a

fornire qualcosa in termini di welfare aziendale. E’ chiaro che questo prefigura un sistema che va in quella direzione, che a livello governativo viene favorito, defiscalizzando quelle cose li, quegli interventi e non il salario. Come se gli operai dovessero migliorare la loro condizione anzichè creare un futuro. Le attuali politiche di austerità sono una follia: siamo di fronte ad una patologia, soprattutto a livello europeo, con le politiche di austerità Come i salassi che facevano i medici quando ti toglievano sangue e ne toglievano sempre più fino ad ammazzarti. Qui stiamo facendo lo stesso. Sulle privatizzazioni permettetemi un’ultima considerazione sull'attualità. Se la tendenza è quella, e sono sicuro che lo sia, vorrebbe dire che i soldi ci sono ma serviranno per quest'ulteriore operazione che farà redistribuire il reddito al contrario, riconcentrerà le ricchezze nelle mani di pochi, a scapito delle classi sociali più deboli. Perché si privatizzeranno i beni comuni: sanità, istruzione, trasporti. Ma bisogna essere ciechi e stupidi in ambito politico, se non altro nell'ambito della cosiddetta sinistra, per non capire che su tu metti Rodotà a Presidente della Repubblica faresti un'operazione geniale e di garanzia per il mantenimento dei beni comuni. No, nemmeno questo, a proposito di classe dirigente da rifare…Vale anche per noi del Sindacato. Noi non siamo fuori da questo processo, da questo enorme stato di crisi, di difficoltà a farci riconoscere

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Giuseppe Ciarrocchi

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e rappresentare. Soprattutto per un motivo evidente: dentro quei processi che venivano indicati, di frammentazione internazionale del lavoro, vi racconto un'esperienza che ho avuto. Sono andato a Torino in un’occasione in cui c'era tutto il Sindacato internazionale. Una giornata incentrata sul gruppo Fiat e si toccava con mano lo stato di sconfitta ed impotenza per il Sindacato. Non riusciamo a pensare ad una contrattazione dell'industria che non sia più dei singoli paesi, che sia fatta a livello macro-europeo che sappia parlare di quello che succede in Asia e rapportarsi col centro dell'impero. Ecco questo oggi non c'è. Se questa dimensione il sindacato, in ritardo a dir poco, non riesce in qualche modo a recuperarla io, lo dico da sindacalista, con tutto il dolore che sento dentro, rischiamo seriamente come succede per pezzi della politica, di essere spazzati via o ridotti ad un ruolo di servizio o di mera testimonianza che non ha più nulla a che fare con la rappresentanza vera e storica per cui il sindacato è nato.Chiudo con la Merloni e le banche. Antonio Merloni, a Fabriano, era il più grande “contoterzista” di elettrodomestici che c'era in Europa. Solo “contoterzista”, immaginate che su circa 4000 dipendenti in Europa, i colletti bianchi erano circa 70-80, a proposito di competenze... Perché? Perché prendeva gli ordini dagli altri e faceva il loro prodotto. Questa cosa è andata avanti fino al fallimento del 2008. Produceva bilanci in rosso dal 2001,

e se lo sapeva il Sindacato difficilmente non lo spevano le banche, che invece hanno continuato a prestare soldi alla Antonio Merloni. Per ragioni politiche? Di intreccio tra affari e politica dell’impero fabrianese? Non lo so. Diciamo per tante ragioni ma è certo che il default era già visibile anni prima. Succede così che con 2500 persone in cassa integrazione, con la legge Marzano, alla fine qualcosa si riesce a vendere ad imprenditori locali che garantiscono almeno il recupero nella nuova attività di 700 persone, con un piano industriale più o meno credibile, fatto a tre anni. Cosa fanno le banche? Vanno in tribunale, fanno ricorso, denunciano l'accordo al Ministero tra i sindacati e la nuova azienda e chiedono la messa in discussione di tutto l'atto di vendita, con tutte le conseguenze che ricadono sui lavoratori. Le banche non ci stanno all’idea che gli immobili, sui quali dovrebbero rifarsi della loro pessima gestione del credito, sono svalutati. E di chi è la colpa? Dei lavoratori? O di quelle stesse banche che ora dimenticano quanti utili hanno messo a bilancio negli anni precedenti e quanti dividendi hanno fatto guadagnare ai loro azionisti facendo pagare interessi e commissioni anche ad aziende palesemente in crisi?

[SERGIO SINIGAGLIA]La parola a Vilma Bontempo

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Vilma Bontempo

Segretario Generaledella Camera del lavoro di Ancona

Occorre ripensare anche il modello di sviluppo che consideri la sostenibilità ambientale al centro dell’orientamento e dell’azione pubblica. E’ evidente che non possiamo immaginare uno sviluppo come l’abbiamo conosciuto agli inizi degli anni ‘70

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Parto dalla domanda che si poneva Sergio Sinigaglia all'inizio. E' ancora giusto pen-sare allo sviluppo e alla crescita? Io credo

che il lavoro è il diritto dei diritti e sta alla base di qualsiasi economia ed è fondamento dello sviluppo, perciò siamo obbligati se vogliamo es-sere un'organizzazione progressista immaginare che sia necessario tornare alla crescita. Certo, occorre ripensare anche al modello di sviluppo che consideri la sostenibilità ambientale al cen-tro dell'orientamento e dell'azione pubblica. E' evidente che noi non possiamo immaginare uno sviluppo come l'abbiamo conosciuto agli inizi degli anni '70, e che quindi va ripensato il modello immaginando di considerare beni im-materiali, beni da difendere e sviluppare, penso alla cultura, all'istruzione, penso al welfare, che va considerato occasione e opportunità di lavo-ro oltre che benessere da difendere e da svilup-pare. Ma c'è un'immediatezza a cui dobbiamo dare risposte, non a caso la Cgil nazionale ha presentato una proposta di Piano per il Lavoro a fine gennaio, ma riteniamo che quella proposta sia ancora valida e che debba essere discussa e fatta conoscere e che quell'idea debba essere costruita anche in sede locale e regionale e in questo caso anche nella provincia di Ancona. Risposte immediate a partire da una battaglia che è quella dell'allentamento del patto di sta-bilità interno agli enti locali, perché è questo che dobbiamo cambiare e contrastare, questo ci ri-porta ad un'idea e ad una battaglia che abbiamo

condotto in questi ultimi tempi sulle politiche di rigore e austerità che non condividiamo. A livello europeo lo stesso sindacato tedesco ha presentato una proposta, l'ha chiamato piano Marshall per l'Europa. Quindi c'è una discus-sione anche nel sindacato europeo che cerca di contrastare quella che è stato il pensiero unico del periodo anche in Europa, un monocolore del centrodestra con qualche rara eccezione. Dicevo politiche liberiste di rigore che vanno combattute. Immediatezza di proposte ed azione che devono partire attraverso un'azione pubbli-ca e quindi c'è bisogno dell'intervento pubblico, che deve innanzitutto proporsi l'obiettivo della messa in sicurezza del territorio, della messa in sicurezza degli edifici pubblici, che parli del riuso degli edifici abbandonati, della riqualifica-zione delle periferie urbane. Ma che ci sia, come diceva Ciarrocchi, una politica industriale che faccia perno sull'innovazione e la qualità dei prodotti. La Cgil su questo, anche nei dibattiti pubblici, non ha mai sostenuto che “piccolo è bello”. Anche allora ci si poneva il problema, non tanto con l'idea dell'internazionalizzazione ma quanto l'idea della grande impresa. Quindi il pensiero del professore Fuà non era sostenuto dalla Cgil allora. Quindi oggi dire che non ci sia bisogno di politiche di internazionalizzazione soprattutto per quanto riguarda l'export che ci sia bisogno invece di agire sulle dimensioni di imprese è assolutamente necessario e indis-pensabile. Sempre in quel periodo c'è stata una

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discussione, un dibattito molto accesso anche all'interno della Cgil, ricordo Trentin che par-lava dell'abbandono di settori maturi, e faceva riferimento al calzaturiero, alle confezioni, e Luciano Barca che era un parlamentare del PCI delle Marche che aveva polemizzato consideran-do settore strategico la produzione di cappelli di Montappone. Questo per dire di una discussione che ci aveva animato anche al nostro interno… Questo per dire che cosa? Non vuol dir che dob-biamo puntare su quei settori, vuol dire che non li dobbiamo abbandonare se vogliamo dare ris-poste all'occupazione. L'indagine di Banca Inte-sa di oggi parla di un aumento dell'esportazione del 5,8% del calzaturiero e di un incremento dell'export, il ritorno nelle esportazioni al 2007 sia per le calzatura che per il mobile del distret-to dell'arredamento del pesarese. Non parlerei di abbandoni di settori che comunque ancora, per quel che riguarda la nostra regione, ha delle carte da giocare. Certo parlare di made in Italy, del fatto in casa, probabilmente può essere an-cora una carta da giocare. Se immaginiamo che il settore calzaturiero rispetto ad altri settori, è meno in crisi perché esporta e perchè riescono a competere sul piano della qualità del prodot-to e anche sull'innovazione di processo, sono produzioni di nicchia qunidi non possono es-sere delle risposte soddisfacenti ai problemi del lavoro la cui situazione è drammatica come la descriveva Ciarrocchi. Noi siamo passati dalla piena occupazione del 2007, col 3,5% di disoc-

cupazione nella provincia, al 9,3% di fine 2012, quasi un triplicarsi della disoccupazione, senza parlare della disoccupazione giovanile che si-amo al 38% che peraltro è disoccupazione so-prattuto intellettuale. Siamo di fronte di nuovo al fenomeno dell'emigrazione dei giovani in particolare, assolutamente preoccupante. Ris-poste che devono essere date subito. Ritengo che la politica industriale che non è stata mai attivata in Italia, perchè la competizione è stata fatta sulla svalutazione della lira prima e oggi invece non c'è nessun orientamento. Ma penso che la spesa pubblica, come diceva il professor Sdogati, non sia di destra o di sinistra, la spesa pubblica dipende da dove la orienti e da come la orienti. C'è bisogno però di un nuovo inter-vento pubblico e di una nuova azione che rio-rienti lo sviluppo e che punti più sulla cultura, sulla valorizzazione del paesaggio e sulla tipicità dei prodotti, che abbia un po' meno al centro l'industria manifatturiera così come l'abbiamo conosciuta e che però ciò che il saper fare ha di-mostrato ancora di saper reggere va salvaguar-dato perchè dimostrano che sono settori che stanno reggendo.Su Fabriano c'è un accordo di programma. Lì c'è bisogno di un'azione di stimolo che riguar-da anche il ruolo delle istituzioni, delle asso-ciazioni datoriali, perchè li le risorse sono state stanziate, ci sono. Manca proprio lo spirito di intraprendenza, che però affonda anche in quel territorio, perchè il modello fabrianese as-

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somigliava, per come ce lo ha descritto Ciar-rocchi, al modello coreano: banche, istituzioni e industria erano un tutt'uno. Quello è stato un limite del territorio che ancora oggi non riesce ad adeguarsi a quelle che sono le opportunità che l'accordo di programma sottoscritto può determinare.Una parte non meno importante riguarda le infrastruttutre, che sono in una condizione di arretratezza. Le telecomunicazioni, i trasporti, penso all'integrazione logistica tra la conne-sione del porto-interporto e ferrovia, su cui tra l'altro ci sono tutte le autorizzazioni per la cos-truzione del by-pass dell'Api, che determiner-ebbe una maggiore velocità nel trasporto delle merci, ma bisogna agire sul porto per quello che riguarda lo Scalo Marotti per quanto riguarda l'integrazione tra trasporto su gomma e tras-porto su ferrovia. E l'altro capitolo, sul quale abbiamo poche notizie anche se ci sono tutte le autorizzazioni, riguarda il collegamento tra-Porto e Grande viabilità. Anche la competitiv-ità delle nostre produzioni, che riguarda anche l'innovazione perchè solo così si può competere, e attraverso questo si può utilizzare al meglio le risorse intellettuali che disperdiamo, possa es-sere utilizzate sull'innovazione dei processi e la competitività di sistema riguarda la velocità dei trasporti. Su questo dobbiamo scommettere e credo sia importante che il tema del lavoro sia al centro delle forze politiche ma in questo caso è compito anche dei Sindacati, a partire

dalla costruzione di un'unità nel nostro paese. E' positivo che il 30 aprile per la prima volta si è costruita un'iniziativa unitaria tra i tre sindacati per parlare, dopo 4 anni, di iniziative congiunte sul bisogno del lavoro, su quali politiche e quali azioni intraprendere.

[SERGIO SINIGAGLIA]Prima delle conclusioni del Prof. Sdogati diamo la parola a Calcagni per un secondo intervento.

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Vilma Bontempo

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Giuliano Calcagni

Segretario NazionaleFisac-Cgil

Penso che l’Europa abbia l’occasione di ridisegnare se stessa, fermo restando e dichiarando ai suoi popoli e alle sue genti che alcuni valori non sono discutibili, come l’istruzione per tutti, la sanità, i beni comuni.

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Io francamente penso che sia complicato per un sindacato esprimere giudizi etici sulla controparte nel senso che la controparte

si muove all'interno delle regole stabilite dalle leggi. I giudizi morali sono giudizi morali. E un sindacato che accentua di sua iniziativa le valutazioni sul giudizio etico, rischia di essere un sindacato di testimonianza.Io penso che il nostro paese è incastrato nell'essenza europea e l'Europa è il continente che complessivamente è il più ricco, non solo rispetto ai dati economici, ma in riferimento alla sua storia al suo potere. Un potere soft, inclusivo delle masse più deboli delle persone con meno opportunità. Lo scontro planetario è questo e penso che l'Europa abbia l'occasione di ridisegnare se stessa, fermo restando e dichiarando ai suoi popoli e alle sue genti che alcuni valori non sono discutibili, come l'istruzione per tutti, la sanità, i beni comuni. Penso che i professori che studiano economia debbano costruire progetti economici che tengano conto fermamente di questi valori, che sono le condizioni materiali delle persone, quelli che non si possono comprare. Perchè dico questo? Perchè la Cina produce quattro volte il pil e si sviluppa? La Cina è un sistema dittatoriale, massacra la gente e impedisce di avere più figli. Penso che quando parliamo di economia queste cose vanno dette, che il fatto che in Cina il sindacato non ci sia e non ci siano le libertà individuali ha un costo e accumulo di ricchezza

a favore di pochi. Ritengo che i professori, che hanno un background superiore alle esperienze di un sindacalista, devono mettere questi elementi nel conteggio economico, per costruire una società possibile.Torniamo alle banche. Non sono convinto che in questo paese le banche non abbiano avuto un ruolo anche positivo nello sviluppo. Penso che le banche Iri negli anni '60 hanno avuto un buon sviluppo e che le banche, visto che i cittadini italiani sono al 70% proprietari di abitazione, abbiano avuto anche un minimo di ruolo sociale.Il superamento della divisione della banca commerciale e della banca di investimenti crea il corto circuito della distribuzione della ricchezza. Altresì le politiche accettate da tutti non sono rinvenienti di sei mesi fa, ma partono da lontano, dagli anni '80 quando c'era l'apologia della banca universale. Cgil, Cisl, Uil non avevano un elemento critico rispetto alla banca universale, anzi pensavano fosse un'opportunità. Quindi, quando parliamo di queste cose siamo di fronte alla fine di una generazione che ha fatto anche cose egregie per il nostro paese, ma che oggi non riesce a fare un passo a lato. Perchè il nostro paese, e io sono convinto di quello che dice il professore che c'è una buona ricchezza del paese e liquidità nelle banche, ha bisogno di smantellare tutta una serie di burocrazie e regole che permettono di camminare e non di correre. Chi si occupa

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Giuliano Calcagni

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di economia deve quantificare questi costi e indicarli all'opinione pubblica come elementi di sottrazione di ricchezza e di speranza. Ho voluto introdurre a un convegno di carattere economico alcuni elementi come speranza e uomo perchè l'economia dev'essere al servizio di queste situazioni. Penso che molti professori e la classe dirigente della società civile negli ultimi 20 anni, siano asserviti ad un percorso, che il professore definiva di remunerazione del capitale. Detto queto, ci possiamo accontentare di fare un'analisi brillante? Un'analisi brillante è quella che offre una prospettiva, è quella che dice alle persone semplici possiamo farcela e io, anche in questa riunione, non l'ho sentita, questo mi angoscia. Perchè di fronte a un crollo istituzionale, che è sotto gli occhi di tutti, che rischia di investire le persone più umili, la mia preoccupazione è che vengano spazzate via da un vivere civile. Vorrei che chi si occupa in maniera accademica di questo, inserisse come elemento di costo o di sviluppo, un benessere sociale diffuso. Perchè penso che la civiltà imponga una riflessione di questo tipo. Io non voglio vivere in un'Europa simile ai paesi del Nord America ma voglio vivere in un'Europa che è culla di civiltà, di diritti, e di opportunità delle persone meno abbienti.

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[SERGIO SINIGAGLIA]Nel dare la parola al Prof. Sdogati, mi ricollego brevemente alle parole di Calcagni. Cioè costruire progetti e dare prospettive. Ma sinteticamente e provocatoriamente chiedo: ma come se ne esce da questo scenario? Perchè piccolo non è bello, ma anche grande non è stato edificante?La vicenda Ilva è l’ emblema di un modello industriale devastante, in cui si sono contrapposti diritti dell’ambiente e diritti del lavoro, allora ti chiedo se ci puoi fornire il tuo punto di vista e quale può essere la prospettiva alternativa rispetto allo scenario di questo incontro.

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Fabio Sdogati

Docente di Economia Internazionale Politecnico di Milano

Direttore della Executive Education MIP School of Management

Il problema è che il Sindacato si è posto sempre come controparte e non come classe dirigente.

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Fermo restando che quelli che mangiavano le foglie di lauro nelle grotte greche non c'hanno azzeccato molto neanche loro…

il compito dei professori universitari è fare analisi corrette e non reputo corretto essere accomunato a gente come Monti, Grilli, Alesina, Tabellini e Giavazzi.Come se ne esce? Se ne esce costruendo la nuova classe dirigente, e io credo che Ciarrocchi l'abbia capito molto bene quando dice che finalmente vede con favore che il Direttore di un'area del Politecnico, che forma la sua controparte, è una persona che pensa queste cose.Noi non siamo stati capaci di farci classe dirigente, questo è il punto. Noi non siamo stati capaci di fare come la IG Metall che ha messo i piedi sul tavolo e ha detto “signori, il sistema produttivo tedesco è fatto da consigli di amministrazione, non da tavoli o tavolate, è fatto da consigli di amministrazione in cui ci sono le banche, gli imprenditori e il sindacato”. Noi questo non lo abbiamo fatto. Colpa di chi? Non lo so, il concetto di colpa nella tradizione giudaico-cristiana è troppo importante, non mi interessa. Io non do colpe. Mi chiedo: perchè da qualche anno ho cominciato a formare la classe dirigente delle imprese, delle cooperative, e non formo quella del sindacato? Il problema è che il sindacato si è posto sempre (ed io da giovane credevo fosse corretto) come controparte e non come classe dirigente. Sono contento che Ciarrocchi l'abbia

capito. Se invece qualcuno fa finta di non capire, non ci posso far nulla. I miei ragazzi non lavorano più in Italia. Io sono andato esattamente un anno fa presso la Goldman&Sachs a Londra a trovare i miei ex studenti. Ne ho trovati 51 belli, bravi, aggressivi, che si possono fottere i tedeschi, gli americani, i giapponesi, i cinesi, tutti contenti. Ho chiesto: “quando rientrate?” “Mai”. Perchè tre su quattro degli studenti formati trovano lavoro in Italia a 620 euro al mese in stage.Questo paese deve fare un salto tecnologico cruciale. Monti ha fatto finta di volerlo fare. Vi ricordate quando è uscito con adesso facciamo la città cablata, facciamo la “smart city”, facciamo, facciamo, facciamo e invece niente. Il problema non è eliminare la burocrazia. La burocrazia si taglia nel tempo, piano piano. Oggi dobbiamo aumentare le spese.Come se ne esce? Se ne esce trasferendo poteri nazionali a livello europeo, perchè oggi qualunque governo nazionale che si azzardi a spendere un centesimo più di quello che dicono i cosiddetti mercati, viene messo immediatamente sotto attacco e lo spread passa a 600, 700, 800, 1000. Oggi bisogna espropriare dal loro potere i gruppi dirigenti nazionali, questo è il punto.Vogliamo fare le infrastrutture di cui tutti parlano? Facciamo queste infrastrutture. Si fanno con emissioni del titolo del debito europeo, espropriando i governi nazionali anche

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del potere di prelievo. Ma questo non avviene perchè c'è un qualche Dio falso e bugiardo che ci aiuta, avviene perchè il sindacato non svolge il suo ruolo di classe dirigente, perchè tanto da contrattare non c'è più nulla. Quando la Termosanitari Merloni ti dice che invece degli aumenti salariali ti da un cesso biologico, cosa contratti più? Ho già detto che per me di Sindacato ce n'è solo uno. Qua dentro allora, c'è una classe dirigente, cosa fa questa classe dirigente? Prende in mano le redini del paese? Personalmente sono anni che lo ripeto. I partiti non ne sono capaci, gli intellettuali non ne sono capaci, lo faccia allora il sindacato che conosce i processi produttivi. Mimmo Moccia ha documentato per venticinque minuti questa straordinaria capacità del Sindacato. Perchè quando Confindustria dice che il problema è ridurre gli sprechi, vuol dire che non hanno idea di cosa sia l'economia. Bisogna, al contrario, riprendere la spesa pubblica, togliendola al controllo dei governi nazionali perchè la libertà che abbiamo dato ai mercati finanziari consentirà loro di uccidere qualunque governo. Hanno cominciato con la Grecia, perchè? Perchè la Grecia aveva rubato sui debiti, aveva fatto male o falsificato i conti? Ma chi è che nel 2003, quando la UE chiese maggiori poteri di controllo sugli Stati mise il veto? Chi lo mise? La Germania. Ecco perchè dobbiamo espropriare i governi nazionali e passare i loro poteri ad un

governo europeo. Questa è la sola strada. Non ce n'è un'altra. E' arrivato, a mio modo di vedere, il momento per il Sindacato di assumere il ruolo che IG Metall ha avuto per 60 anni: sedersi nei consigli di amministrazione, co-decidere come si fa, come si gestisce e dove si va. Perchè quando Schroeder decise di favorire la frammentazione internazionale dei processi di produzione non lo fece mica solo con Confindustria Germania, lo fece anche con IG Metall, che è il più grosso sindacato metalmeccanico d'Europa.Mi sembra che questa sia l'unica via d'uscita.

Grazie Sergio, grazie alla FISAC CGIL di Ancona, grazie a tutti.

Fabio Sdogati

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INDICE

Fabio Carlettipag. 1

Sergio Sinigagliapag. 5

Fabio Sdogatipag. 9

Giuliano Calcagnipag. 31

Mimmo Mocciapag. 35

Giuseppe Ciarrocchipag. 45

Vilma Bontempopag. 51

Giuliano Calcagnipag. 55

Fabio Sdogatipag. 59