Post on 15-Feb-2019
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Pietro Giannini Le traduzioni di Giovanni Francesco Romano Le traduzioni di Giovanni Francesco Romano riguardano tre epigrammisti greci: Leonida di Taranto, Anite di Tegea, Nosside di Locri. Le troviamo insieme in un volume pubblicato da Piero Manni nel 1994, con una premessa di Enzo Esposito (Epigrammi, Lecce 1994). Ma esse appartengono a tempi diversi, su cui non è inutile fare chiarezza. (In generale una maggiore precisione nella scansione temporale della vita e dell’attività di Romano potrebbe contribuire a definire meglio costanti e svolte della sua produzione poetica). Le traduzioni di Leonida sono apparse nella Rivista Sudpuglia: cinquanta nel numero di settembre-‐dicembre 1979, cinquantuno in quello di gennaio-‐marzo 1980. Le traduzioni di Nosside sono apparse, sempre in Sudpuglia, nel numero di aprile-‐giugno 1981. Le traduzioni di Anite sono state pubblicate postume nel volume già citato del 1994; presumibilmente sono posteriori alle traduzioni di Nosside e quindi, in mancanza di altre precisazioni, appartengono al periodo 1981-‐1989 (anno della morte di Romano). Si definiscono così due blocchi di traduzioni, che si possono scandire grosso modo in questo modo: Leonida e Nosside, più antiche, da una parte, Anite, più recente, dall’altra. Questa distinzione (che è oscurata dalla successione Leonida-‐Anite-‐Nosside, adottata nel volume degli Epigrammi) rende ragione di una particolarità versificatoria che mi sembra sfuggita sinora. Mentre le traduzioni di Leonida e Nosside sono in versi della tradizione italiana (endecasillabi per lo più, inframezzati da misure più brevi, ad esempio i settenari) e ciò spiega come il numero dei versi della traduzione sia di solito eccedente rispetto a quello dell’originale), le versioni di Anite sono in versi apparentemente liberi, ma in realtà esametri e pentametri della metrica ‘barbara’ carducciana. L’esametro è reso per lo più con settenario + novenario, il pentametro con settenario + settenario (o con misure ad essi riconducibili). Ciò si traduce in una esatta corrispondenza di versi tra originale e traduzione. Diamo come esempio il primo epigramma di Anite (Epigrammi, p. 117): Lancia omicida, fermati, e più dal tuo artiglio di bronzo non gocciolare sangue, luttuoso, di nemici; nella casa di marmo, qui, alta, di Atena, riposa esaltando il valore del cretese Echecratide. “Echi carducciani” sono stati rilevati da Aldo Bello (Introduzione a Il vento e le stagioni, Matino 1990, p. IX) nella prima raccolta poetica del 1942 Solingo liuto, che non ho potuto consultare, come le due successive raccolte del 1950 (Mentre la luce è piena e Il deserto attende). Ma, dopo la svolta ungarettiana e quasimodiana che caratterizza la successiva produzione poetica di Romano, il ritorno tardivo a Carducci, sia pure sul piano strettamente metrico, non è privo di significato. Ciò dimostra un certo sperimentalismo metrico di Romano: comunque è un dato evidente che l’esigenza ritmica era preminente nella sua ricerca poetica e giustifica l’osservazione sulla “perfezione metrica” dei suoi componimenti fatta da Aldo Bello (Ibid.). Anzi, io credo che un’indagine metrica su tutta la produzione di Romano potrebbe riservare delle piacevoli sorprese. La metrica ‘barbara’ di Anite è un caso isolato; per il resto, come abbiamo detto, Romano adotta i versi della tradizione italiana. In questo egli segue da vicino il modello di Quasimodo, che usa largamente l’endecasillabo nelle sue versioni dell’ Antologia Palatina, anche se con molta libertà, che va dall’impiego di cadenze interne non canoniche alla associazione con misure che possiamo definire ‘libere’. Sotto questo profilo Romano è più ligio alle movenze tradizionali. Comunque, il modello di Quasimodo è solo stilistico e ritmico e non incide, a mio parere, sulla scelta degli epigrammisti greci, come pure è stato ipotizzato (Donato Moro, Introduzione a Superstite, io rammento, Lecce 1993, p. 13). Io credo che su questa scelta abbia pesato di più il sodalizio umano e intellettuale con Ottorino Specchia. Non può essere un caso
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il fatto che due dei poeti tradotti, Leonida e Nosside, siano stati anche due temi di ricerca prediletti da Specchia. Anite, poi, è una scelta quasi conseguenziale: la poetessa di Tegea, in Arcadia, è una componente, altrettanto antica, di quella scuola epigrammatica detta “peloponnesiaca”, cui appartengono Leonida e Nosside. A proposito di quest’ultima vi è una vicenda da ricordare. Tra le carte lasciate inedite da Specchia (morto nel 1990) vi era anche un lavoro su Nosside, costituito da un saggio critico e da un commento ai suoi epigrammi. Il lavoro fu pubblicato per mia cura nella Rivista Rudiae nel 1993. Ma esso apparve con una traduzione che io nella “Premessa” definivo “di lavoro”. Era una traduzione ‘filologica’, potremmo dire letterale (senza che questo comporti alcunché di riduttivo), che però non era destinata alla pubblicazione. A questa era destinata, per espresso volere di Specchia, una traduzione di Romano, che però non fu rinvenuta nella cartella contenente il manoscritto. In realtà una traduzione di Nosside, come abbiamo detto, era già apparsa nel 1981. Non è dato sapere se alla pubblicazione di Specchia fosse destinata quest’ultima o un’altra, riveduta dall’autore. Sta di fatto che, date queste premesse, non è pensabile che le traduzioni di Romano, almeno per Leonida e Nosside, siano state esenti dalle conversazioni (e discussioni) con Specchia. Ma stringiamo ora la nostra attenzione sulle traduzioni. Sia detto in breve che la traduzione che si presenti come tale (e quindi non l’imitazione: una da Saffo è dichiarata nel componimento E io pur non ti vedo a occhi aperti in: Superstite, io rammento p. 47) è come un Giano bifronte che guarda da una parte al testo antico, dall’altra al pubblico del suo tempo; la sua riuscita dipende dal modo in cui essa riesce ad adempiere a tutte e due le funzioni contemporaneamente. Essa non può essere totalmente schiava del modello, ma non ne può essere totalmente slegata. D’altra parte si sa che il traduttore non può rendere nel testo di arrivo tutte le modalità con cui il testo di partenza realizza il suo messaggio, quelle che Ezra Pound chiamava logopea, fanopea, melopea. Per logopea egli intendeva il tessuto linguistico, per fanopea il contesto delle immagini, per melopea la struttura metrico-‐ritmica. Pound aggiungeva che, di questi aspetti del testo, solo la fanopea può essere tradotta con una certa efficacia; la melopea è impossibile da rendere in un’altra lingua e la logopea è difficile da tradurre in modo esatto, ma “se ne può trovare una derivazione espressiva o equivalente” (E. Pound, Saggi letterari, Milano 1967, pp. 52 sg.). Date queste premesse, le traduzioni non vanno valutate per la fedeltà all’originale (a meno di palesi fraintendimenti o errori linguistici) ma per il diverso modo in cui i tre livelli del testo sono resi. Romano si mostra particolarmente attento alla fanopea, a riprodurre le immagini dell’originale. Dati i suoi interessi metrici, egli non intende rinunciare alla melopea, ma, essendo impossibile quella originale (solo Pascoli si cimentò in questa impresa, ma con risultati problematici), egli adotta quella italiana, anche se ciò comporta delle forzature, che pure non sono casuali. Basta un solo esempio, preso dal primo epigramma di Nosside (ved. oltre). Qui vi sono due evidenti zeppe: al v. 3 “pur la più dolce delle dolci cose” (nel testo greco solo ὄλβια: “ogni altra gioia”, Specchia), ai vv. 7-‐8 “non sa che sia dolcezza, non intende/la splendida bellezza di sue rose” (nel testo greco ἄνθεα ποῖα ῥόδα, “quali rose siano i suoi fiori”, Specchia). L’ampliamento testuale è significativo: pur dovuto alla ricerca della misura metrica, esso tradisce il forte interesse del poeta per l’amore, tema unico dell’epigramma. E’ come se Romano si lasciasse sfuggire una voce segreta, che esalta l’importanza assoluta dell’amore nella vita dell’uomo. L’amore, bisogna aggiungere, che costituisce un tema ‘caldo’ delle sue prime liriche (limitatamente alla raccolta postuma), per poi perdere progressivamente forza e cedere ad una visione più amara della vita. Per dare un’idea di diverse modalità di traduzione, anche in presenza di diverse opzioni testuali (inevitabili con i testi classici), si danno qui tre esempi di versione di 4 epigrammi di Nosside per i quali il confronto era possibile: la versione di Specchia, più orientata verso la
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fedeltà all’originale, quella di Romano e quella di Quasimodo, più tese ad una risonanza personale. Dalla semplice lettura ognuno può cogliere i diversi modi di lettura e di resa.
Nulla è più dolce dell’amore, ogni altra gioia viene dopo. Io dalla bocca sputo perfino il miele. Questo Nosside dichiara: “ Colui che Cipride non baciò ignora quali rose siano i suoi fiori”. (Specchia) «Dolce più dell’amore nulla: seconda viene pur la più dolce fra le dolci cose; persino il miele io sputai dalla bocca.» Questo Nosside dice. E chi Cipride mai non ha baciato, non sa che sia dolcezza, non intende la splendente bellezza di sue rose. (Romano) Non c’è nulla più dolce dell’amore. Quale dolcezza lo supera? Sputo anche il miele. Così Nosside dice. Solo chi non è amata da Cipride non sa quali rose siano i suoi fiori. (Quasimodo)
Ben volentieri mi sembra che Afrodite prenda dalle chiome di Samita l’offerta di questa reticella; è lavorata con perizia e dolcemente odora di nettare: con questo la dea profuma il bell’Adone. (Specchia) E’ giusto che Afrodite accolga in voto questo velo dai fiori ricamati che i riccioli ha lasciato di Samitha; è tessuto con arte e di nettare odora, di quel nettare che usa la dea a profumare Adone. (Romano) Sarà lieta Afrodite dell’offerta di questa piccola cuffia che Sàmita ha tolto al suo capo. Perché è bella e odora lieve del nettare
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che la dea sparge sul suo bell’Adone. (Quasimodo)
Ridi gioiosamente e passandomi davanti rivolgi una parola in memoria di me. Io sono Rintone il Siracusano, delle Muse un usignolo piccolo piccolo, ma dai fliaci tragici mi colsi un’edera tutta per me. (Specchia) Passi oltre? E scoppia a ridere, che echeggi d’intorno la risata; per me una parola, ma affettuosa. Sì, Rintone sono io, di Siracusa, delle Muse usignolo forse piccolo, ma di fliaci già mi colsi un’edera. (Romano) Passa con riso squillante vicino a me, e poi dimmi una parola amica. Io sono Rintone di Siracusa, un piccolo usignolo delle Muse. Colsi la mia edera con parodie della tragedia. (Quasimodo)
O straniero, se tu navighi verso Mitilene lieta di canti per cogliere il fiore delle grazie di Saffo, dì che io fui amica delle Muse, che nacqui a Locri e sai che il mio nome è Nosside. Va. (Specchia) E se verso Mitilene, lieta di danze, navighi, straniero, per infiammarti al fiore delle grazie di Saffo, dì che cara alle Muse io nacqui a Locri. Và, non scordare: Nosside il mio nome. (Romano) O straniero, se navigando andrai a Mitilene dai bei cori, dove s’accese il fiore delle grazie di Saffo, dì che cara fui alle Muse e che nacqui nella terra
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di Lòcride. E continua la tua via appena saprai che il mio nome è Nosside. (Quasimodo)