Post on 07-Aug-2020
Le imprese familiari:
le strade per la crescita
di
Riccardo Faini
(Università di Roma Tor Vergata)
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Introduzione
Gli economisti sono spesso inclini a formulare previsioni sulle tendenze di fondo – le
prospettive di crescita nel medio e lungo periodo, le dinamiche strutturali - dei sistemi
economici.
Nel 1932, due economisti americani – A. Berle and G. Means – sostennero che l’impresa
familiare, in cui proprietà e controllo sono fortemente identificati, fosse destinata a
scomparire, a vantaggio dell’impresa ad azionariato diffuso, in cui proprietà e controllo
fanno capo a soggetti fondamentalmente diversi. Analogamente, più o meno negli stessi
anni, un altro grande economista, Joseph Schumpeter, formulava una previsione, per
molti aspetti affine, secondo cui il processo di sviluppo capitalistico avrebbe portato a
ridimensionare fortemente il ruolo della piccola impresa a beneficio delle grandi
concentrazioni industriali. Analoga profezia può essere rinvenuta negli scritti di Karl Marx,
quasi un secolo prima.
Entrambe queste previsioni sono state largamente smentite dalla storia, non solo quella
italiana. Sia le imprese familiari sia quelle di piccole dimensione continuano a svolgere un
ruolo di tutto rilievo nella struttura industriale dei paesi avanzati. Come si analizzerà in
queste note, il loro contributo alla crescita industriale e economica si è, per molti aspetti,
accentuato.
I recenti mutamenti del quadro economico – il processo di integrazione internazionale, la
rivoluzione tecnologica – pongono però una sfida epocale alle imprese a struttura familiare
e di dimensione più contenuta. Si schiudono nuove opportunità che, se non sfruttate,
potrebbero portare a un significativo ridimensionamento del ruolo di queste imprese. Un
utilizzo compiuto delle opportunità offerte dal processo di globalizzazione e dalle
innovazioni tecnologiche richiede sia interventi di contesto sia un rinnovato impegno
imprenditoriale.
Le difficoltà in cui versa l’economia italiana hanno natura strutturale. Esse si manifestano
nell’arretramento di reddito rispetto agli altri paesi europei, nella perdita di quote di
mercato sulle esportazioni mondiali e, soprattutto, nella crescita anemica della produttività.
Una struttura settoriale sempre più sbilanciata verso i settori tradizionali e una
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composizione dimensionale che privilegia eccessivamente la scala più ridotta di impresa
hanno per molti versi impedito alla nostra economia di sfruttare compiutamente le
opportunità tecnologiche e di mercato.
Il trasferimento di risorse verso i settori più dinamici e tecnologicamente più avanzati, il
posizionamento verso produzioni ad alto valore aggiunto e più alto contenuto innovativo, e
l’internazionalizzazione del sistema industriale sono tutti componenti essenziali di una
strategia di rilancio della competitività dell’economia italiana. Il loro conseguimento è in
larga misura funzione della disponibilità di una forza lavoro istruita e in grado di rispondere
prontamente ai mutamenti delle condizioni tecnologiche e di mercato. Un’offerta più ampia
di capitale umano richiede a sua volta un impegno del settore pubblico, volto a rafforzare il
sistema scolastico e in particolare quello universitario, e del sistema delle imprese, teso ad
accentuare gli investimenti in formazione. L’Italia è un paese che ha finora investito troppo
poco nella sua risorsa più preziosa, il proprio capitale umano.
Piccole imprese e imprese familiari
Il peso delle piccole imprese nelle economie industriali rimane sostanziale. Dalla tabella 1,
si osserva come negli anni 90 le micro imprese, quelle con meno di 10 addetti,
rappresentano il 92,6% del numero di imprese nell’Unione europea e quasi il 15%
dell’occupazione manifatturiera. L’Italia si colloca al di sopra della media europea sia per
quanto riguarda l’incidenza percentuale delle micro imprese (95,4%) sia soprattutto per il
loro peso (23,9%) nell’occupazione.
I dati della tabella 1 forniscono solo una fotografia, in un dato istante, della struttura
dimensionale del settore manifatturiero. E’ interessante però osservare come il fenomeno
si è evoluto nel tempo (tab. 2). Utilizzando i dati dei censimenti, si rileva come, negli ultimi
50 anni, il peso della piccola impresa nel settore manifatturiero abbia registrato fasi
alterne, con una diminuzione marcata tra il 1951 e il 1971 e un aumento quasi continuo nei
30 anni successivi. La previsione di Schumpeter su un ridimensionamento della piccola
impresa non si è quindi avverata, anche perché a beneficiare della contrazione del peso
della classe delle micro imprese è stata soprattutto la classe immediatamente superiore,
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quella delle imprese con 10-99 addetti. Analogamente, risulta smentita anche l’altra
previsione secondo cui il peso della grande impresa era destinato a crescere. Sempre
dalla tab. 2, si osserva come la percentuale di addetti nella grande impresa, con più di 500
addetti, abbia subito un continuo ridimensionamento lungo tutto l’arco del periodo
considerato.
Le ragioni per il rinnovato ruolo delle piccole e medie imprese sono state più volte
analizzate nella letteratura. L’inizio degli anni 70 segna la fine di un periodo di grande
prosperità economica, in cui prevalgono stabilità macroeconomica, un’offerta abbondante
e a prezzi contenuti sia del lavoro sia delle materie prime e una relativa costanza dei gusti
dei consumatori. Il nuovo contesto economico è invece caratterizzato da un aumento del
costo del lavoro e di quello delle materie prime, da una diffusa conflittualità sociale, da una
forte rigidità nell’uso della forza lavoro e da una accresciuta incertezza sulle condizioni di
domanda. In queste condizioni diventa quindi essenziale per il sistema produttivo non solo
contenere l’aumento dei costi variabili ma anche recuperare margini di flessibilità e
abbattere i costi fissi di produzione, per potere meglio fare fronte alla maggiore volatilità
del contesto macroeconomico e di domanda. Queste esigenze tendono a favorire il
decentramento produttivo a favore della media e piccola impresa. Questa tendenza è
ulteriormente rafforzata dall’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto che, al contrario
del sistema precedentemente in vigore, non favorisce le imprese verticalmente integrate.
Nello stesso periodo, anche le grandi imprese tendono sempre di più a focalizzarsi sulle
attività nelle quali hanno un vantaggio competitivo più pronunciato (“core activities”) e a
ridimensionare quindi la scala delle proprie attività. Contrariamente a quanto previsto da
Schumpeter, il peso della grande impresa nella struttura industriale tende quindi a
contrarsi.
Anche la previsione di Berle e Means sulla tendenziale scomparsa dell’impresa familiare
non trova riscontro nei dati. Le cifre anche in questo caso parlano con sufficiente
chiarezza, nonostante le difficoltà insite nel definire in maniera univoca e comparabile
l’impresa familiare e l’inevitabile cautela necessaria per leggere questi dati (tab. 3). In tutti i
paesi considerati le imprese familiari costituiscono la componente predominante della
struttura industriale. In Italia, in particolare, in un campione di imprese con più di 50
addetti, che esclude quindi le realtà più piccole, più dell’80 per cento delle imprese sono
considerate familiari. Analoghe percentuali si riscontrano negli altri paesi. Sorprende forse
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il dato degli Stati Uniti, in cui quasi il 90% delle imprese è di natura familiare, ma in questa
cifra sono incluse anche le imprese individuali, escluse invece dalle statistiche negli altri
paesi.
Per quali motivi Berle e Means si arrischiavano a prevedere la scomparsa dell’impresa
familiare? Le ragioni in realtà erano piuttosto semplici. In particolare, soprattutto negli anni
20, erano evidenti i vantaggi dell’impresa ad azionariato diffuso in cui gli azionisti-
proprietari delegano il controllo a uno o più manager specializzati. In primo luogo, le
possibilità di crescita dell’impresa non sono limitate dalle disponibilità finanziarie del
proprietario, come succederebbe invece nel caso di un’impresa familiare. In secondo
luogo, il rischio specifico d’impresa è distribuito su una pluralità di azionisti invece che su
un singolo proprietario. Analogamente, la presenza di un mercato azionario
sufficientemente ampio permette un’ampia diversificazione del rischio da parte degli
investitori. Infine, con la separazione fra proprietà e controllo, è possibile affidare la
gestione dell’impresa a un manager altamente specializzato. A fronte di questi benefici, vi
sono però diversi svantaggi. In un contesto in cui in cui non è possibile prevedere tutti i
possibili stati di natura e i contratti fra le diverse parti che operano nell’impresa (inclusi
quindi gli azionisti e i manager) sono per forza di cose incompleti, non vi è alcuna garanzia
che il manager agisca sempre ed esclusivamente nell’interesse degli azionisti. Il manager
può essere invece indotto a costruire imperi industriali e finanziari con le risorse
dell’impresa (mentre per gli azionisti sarebbe stato preferibile ricevere un congruo
dividendo), attribuirsi compensi e liquidazioni eccessivi, introdurre clausole che rendono
più difficili l’avvicendamento al vertice della società e quindi i take over e persino stornare
le risorse dell’impresa in operazioni con parti a lui correlate. I tentativi a livello legislativo e
contrattuale di risolvere il problema di agenzia fra azionisti e manager (legando la
remunerazione del manager alla redditività dell’impresa, la contendibilità del controllo
attraverso le scalate di borsa, i vincoli sulla struttura del passivo dell’impresa) non hanno
mai dato esiti pienamente positivi. In un’impresa familiare invece, anche in presenza di
incompletezza dei contratti, i diritti residuali di controllo, quelli cioè non specificati
dall’insieme dei contratti in essere, saranno attribuiti al proprietario che agirà nell’interesse
suo proprio e dell’impresa.
In estrema sintesi, entrambe le forme di governance societaria hanno i loro pregi e i loro
difetti e non è possibile quindi sostenere che una sia superiore all’altro, né da un punto di
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vista teorico, né da un punto di vista empirico. A conferma di questa tesi è possibile anche
citare l’esperienza dei recenti scandali societari, che hanno avuto caratteristiche spesso
comuni (incompletezza e infedeltà della contabilità, disclosure insufficiente di eventi
materiali, uso esteso di entità estere non consolidate per alterare il P&L della società,
inaffidabilità dei controlli interni e della revisione, manipolazioni dei risultati in vista di
insider dealing), ma si sono prodotti in paesi con regimi legali molto diversi e che hanno
riguardato imprese sia familiari sia a azionariato diffuso.
L’economia italiana di fronte alla globalizzazione
L’Italia forse più di ogni altro paese dimostra come la presenza diffusa di piccole imprese a
carattere familiare non rappresenti necessariamente un ostacolo alla crescita. Abbiamo
visto come, anche in paragone ad altri paesi, l’Italia si caratterizzi per una struttura del
sistema di imprese fortemente sbilanciata verso la piccola dimensione. Non sembra che
questo fatto abbia nociuto alla performance economica del nostro paese. Tra il 1950 e il
1974 il reddito pro capite dell’Italia aumenta infatti dal 35% al 67% del reddito statunitense
e dal 75% al 95% di quello europeo. Anche negli anni successivi prosegue il processo di
crescita e convergenza dell’economia italiana rispetto agli altri paesi industrializzati (fig. 1).
Si accresce la quota di mercato delle esportazioni italiane, pur se fortemente sbilanciate
verso i settori tradizionali, nel commercio mondiale (fig. 2). La produttività aumenta a ritmi
elevati. La flessibilità del sistema delle imprese, la capacità in particolare di sfruttare
economie di scala e di agglomerazione attraverso lo strumento dei distretti, sono alcuni tra
i fattori più evidenti dei successi dell’economia italiana in quegli anni. Il neo più evidente in
questo quadro è dato dal rapido deterioramento delle condizioni della finanza pubblica che
non a caso sfocerà nella gravissima crisi finanziaria e valutaria all’inizio del decennio
successivo. Rimangono peraltro del tutto trascurati alcuni nodi strutturali della nostra
economia, in particolare l’insufficiente accumulazione di capitale umano, evidente nel
grave ritardo dei livelli di istruzione, e il prevalere di un modello di specializzazione che
privilegia i settori tradizionali, a bassa intensità di manodopera qualificata, l’insufficiente
sviluppo dimensionale delle imprese e l’inadeguatezza degli investimenti in ricerca e
sviluppo.
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Negli anni novanta l’economia mondiale registra due mutamenti di fondo: a) il processo di
globalizzazione, in particolare la partecipazione sempre più massiccia dei paesi in via di
sviluppo ai processi di integrazione economica a livello internazionale; b) una terza
rivoluzione industriale con il diffondersi delle nuove tecnologie nel settore dell’informatica e
delle comunicazioni.
Sono mutamenti radicali per il sistema delle imprese, indipendentemente dalla loro
dimensione o dalla forma di conduzione societaria. Sono cambiamenti che mettono in luce
le carenze e, più in generale, i nodi strutturali mai risolti dell’economia italiana. Non è un
caso infatti che proprio a partire dalla metà degli anni novanta non solo si interrompe ma
persino si inverte il processo di convergenza dell’economia italiana rispetto al resto
dell’Europa (fig. 3). I sintomi dei problemi dell’economia italiana sono evidenti
nell’andamento del reddito relativo, delle quote di mercato (fig. 4) e della produttività (fig.
5).
Quali sono le cause di questa preoccupante inversione di tendenza? Molti fattori
ripetutamente citati nella letteratura – un aggiustamento fiscale squilibrato, l’introduzione
dell’Euro e l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni competitive, l’insufficienza di
investimenti in capitale fisico, il segno troppo restrittivo delle politiche macroeconomiche –
sono state analizzati in altre sedi dove si è dimostrato che non valgono a spiegare le
difficoltà dell’economia italiana negli anni novanta. Basterà ricordare come le ripetute
svalutazioni negli anni settanta e ottanta erano appena sufficienti a correggere il
differenziale di inflazione e che il tasso di cambio reale, corretto cioè per gli effetti
dell’inflazione, risulti fortemente deprezzato negli anni novanta rispetto al periodo
precedente. Analogamente, per quello che riguarda le politiche macroeconomiche, va
sottolineato come i tassi di interesse reali si collochino su livelli molto bassi e che l’avanzo
primario corretto per il ciclo sia diminuito in Europa e in Italia, a dimostrazione
dell’orientamento espansivo della politica fiscale.
I nodi dell’economia italiana sono strutturali. Alcuni problemi sono comuni ad altri paesi
europei – la scarsa flessibilità sui mercati del lavoro, l’insufficiente concorrenzialità dei
mercati dei prodotti (soprattutto quello dei servizi) – e non valgono quindi a spiegare il
divario di crescita fra Italia e Europa. Altri fattori, già segnalati, sono invece specifici al
caso italiano: una specializzazione eccessivamente sbilanciata verso i settori tradizionali
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sempre meno dinamici, come vedremo, a livello mondiale e sempre più esposti alla
concorrenza internazionale dei paesi in via di sviluppo; l’insufficienza del grado di
internazionalizzazione del sistema produttivo; una struttura dimensionale delle imprese
fortemente sbilanciata verso le piccole dimensioni; l’inadeguatezza degli investimenti in
ricerca e sviluppo e nelle nuove tecnologie, anche a parità di settore e dimensioni, come
sottolineato in una ricerca del Centro Studi della Confindustria.
Vi è un denominatore comune a tutte queste debolezze del nostro sistema: la carenza di
capitale umano. L’Italia è un paese che ha investito poco nella sua ricchezza più
importante, la qualità della forza lavoro. Il divario è preoccupante. L’Italia è in forte ritardo
rispetto agli paesi industrializzati per quello che riguarda l’istruzione universitaria. Non
solo: il divario si è andato spesso allargando (fig. 6). Analogamente, anche per l’istruzione
media superiore (tab. 4), l’Italia registra un forte ritardo non solo per quello che riguarda la
popolazione in età lavorativa (col. 1) ma anche – ed è un dato assai preoccupante – la
fascia più giovane (col. 2), ad indicazione che il divario non verrà colmato perlomeno per
un’altra generazione. Non consola neppure la qualità dell’istruzione. I dati dei test
internazionali mettono in luce come le capacità di lettura e le attitudini scientifiche e
matematiche di uno studente quindicenne italiano siano generalmente inferiori, e
sicuramente non superiori, a quelle dei suoi coetanei in altri paesi industrializzati. Colpisce
poi a questo proposito la fortissima varianza dei risultati degli studenti italiani, a
dimostrazione delle difficoltà di mantenere standard omogenei anche nell’ambito della
scuola dell’obbligo fino a 14 anni. Sulla qualità dell’insegnamento universitario è inutile
soffermarsi.
Il capitale umano è però un fattore decisivo di competizione, il cui ruolo diventa ancora più
rilevante in un contesto, come quello degli anni novanta, caratterizzato da forti innovazioni
tecnologiche e da un processo di rapida integrazione economica a livello internazionale.
Una dotazione elevata di capitale umano:
• consentirebbe di modificare il nostro modello di sviluppo verso settori meno esposti
alla concorrenza dei paesi a basso salario. La specializzazione dell’Italia nei settori
tradizionali a bassa intensità di manodopera qualificata riflette in larga misura la
scarsità di offerta di capitale umano nel nostro paese. Il modello di specializzazione
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dell’Italia si è poi andato rafforzando negli ultimi 20 anni. In controtendenza rispetto
agli paesi europei, è cresciuta infatti la correlazione fra gli indicatori settoriali di
specializzazione e l’intensità, misurata sempre a livello settoriale, dell’utilizzo di
manodopera meno qualificata. Negli anni ottanta, questa evoluzione non costituiva
un fattore di debolezza, in quanto proprio i settori in cui l’Italia fruiva di un vantaggio
comparato si espandevano rapidamente. Negli anni novanta, invece, l’Italia si trova
sempre più specializzata nei settori in cui più debole è la dinamica delle
esportazioni mondiali (fig. 7).
• favorisce la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese. La domanda di
capitale umano cresce al crescere delle dimensioni d’impresa (tab. 5). Si facilita in
questa maniera il processo di internazionalizzazione delle imprese, accrescendo sia
la presenza sia soprattutto la stabilità sui mercati esteri. Solo l’1% delle micro
imprese è attiva sui mercati di esportazione contro il 64% delle imprese con più di
500 addetti. Le imprese esportatrici stabili, con una presenza continuativa sui
mercati esteri per almeno otto anni consecutivi, sono caratterizzate da una
dimensione maggiore (37,2 addetti) rispetto sia all’universo delle imprese
esportatrici (27,4 addetti) sia al complesso del sistema industriale (9,1 addetti).
L’effetto del capitale umano sul processo di internazionalizzazione delle imprese
non passa solo attraverso la maggiore dimensione ma è anche più diretto. La
domanda di capitale umano è non a caso più elevata per le imprese esportatrici
anche a parità di dimensione (tabella 6), con la sola eccezione delle imprese medio
grandi.
• permette di assorbire più agevolmente le nuove tecnologie. Le analisi più recenti
della Banca d’Italia mettono in luce come la disponibilità di una manodopera più
istruita sia un fattore chiave nel processo di adozione delle nuove tecnologie
informatiche. Agli effetti diretti vanno aggiunti quelli indiretti in quanto un maggior
livello di istruzione della forza lavoro è associato a una più elevata dimensione
d’impresa che a sua volta, come evidenziato ancora una volta dalle ricerche della
Banca d’Italia, costituisce un ulteriore fattore che facilita l’adozione di nuove
tecnologie.
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In larga misura la carenza di capitale umano è il denominatore comune dei nodi strutturali
che soffocano la crescita della nostra economia, nodi il cui effetto è venuto alla luce
soprattutto negli anni novanta. Proprio l’insufficienza di un’offerta adeguata di capitale
umano spiega le ragioni per cui l’economia italiana è riuscita meno di altre a sfruttare le
opportunità della rivoluzione informatica e della globalizzazione. La struttura della nostra
economia ha reso infatti più difficile l’aggiustamento a tali shocks:
– Si è erosa la posizione di rendita di cui l’Italia aveva fruito grazie al suo forte
vantaggio comparato nei settori tradizionali rispetto agli paesi industrializzati
– L’offerta relativamente scarsa di manodopera qualificata e le piccole dimensioni
delle nostre imprese hanno reso molto più arduo lo sfruttamento delle
opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione dei mercati
In estrema sintesi, quindi, l’investimento in capitale umano e formazione costituisce una
priorità centrale per il rilancio della competitività dell’economia italiana. Un’azione
esclusivamente sull’offerta, diretta a convogliare maggiori risorse verso il sistema
scolastico e quello universitario, non sarebbe però sufficiente. Per tre motivi. In primo
luogo, la scarsità dell’offerta di capitale umano in Italia è manifesta sia nei livelli di
istruzione sia nella qualità dell’educazione ricevuta, soprattutto a livello universitario. Un
semplice aumento, generalizzato e incondizionato, delle risorse verso il sistema
universitario non farebbe altro che perpetuarne le gravi inefficienze. In secondo luogo,
l’economia italiana è per molti versi caratterizzata anche da un’insufficiente domanda di
capitale umano, che riflette a sua volta la struttura dimensionale e settoriale del nostro
modello di specializzazione. Non a caso, il rendimento dell’istruzione è più basso in Italia
rispetto ad altri paesi (poco più del 6% secondo l’OCSE a fronte del 14,3% in Francia e del
18,5% nel Regno Unito) e l’Italia meno di altri paesi riesce ad attrarre immigrati altamente
qualificati (solo il 12% degli immigrati è laureato contro il 22% nella UE e il 44% negli
USA). E’ indispensabile quindi un’azione che da un lato privilegi una maggiore qualità e
efficienza del sistema d‘istruzione e che contemporaneamente agisca anche sulla
domanda di capitale umano. Si richiedono in questo quadro politiche orizzontali, dirette a
promuovere attività che rafforzano la competitività del sistema industriale nel suo
complesso, più che favorire singoli settori, quali agevolazioni agli investimenti in R&S
(soprattutto sotto forma di crediti di imposta), incentivi alla formazione, promozione
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dell’internazionalizzazione e alimentano di riflesso la domanda per una forza lavoro
sempre più istruita e aggiornata.
E il sistema delle imprese?
E’ soprattutto il settore manifatturiero a risentire, e ad essere espressione, delle difficoltà
dell’economia italiana. Il calo della produttività del lavoro risulta molto più accentuato,
malgrado l’aumento significativo dell’intensità di capitale per addetto. A livello aggregato,
utilizzando i dati del nostro Istituto di statistica, gli indicatori di redditività registrano una
forte erosione, che non trova però sempre riscontro nelle informazioni per le imprese di
maggiore dimensione censite da altre fonti. E’ difficile non concludere che le imprese di
minore dimensione siano colpite dalla situazione di ristagno dell’economia in misura
relativamente più pronunciata. Non è al contempo possibile escludere che l’aggravarsi più
recente delle condizioni economiche abbia effetti che colpiscono anche le imprese di
dimensioni più elevate, specie se operano in settori esposti alla concorrenza dei paesi a
più basso salario.
Le difficoltà delle imprese più piccole hanno natura strutturale. In primo luogo, il divario di
produttività rispetto alla media del sistema risulta, in un confronto internazionale, assai più
accentuato per le imprese italiane di più piccola dimensione. Nel nostro paese, infatti, le
micro imprese rappresentano quasi il 24% degli occupati ma solo il 10% della produzione
(tabella 7). La loro produttività relativa rispetto al sistema delle imprese nel suo complesso
è pari quindi solo a poco più del 40%. Lo stesso dato si colloca al 48% per l’Unione
Europea nel suo complesso. La situazione si rovescia per le piccole (79% il livello di
produttività relativo in Italia e 67% nella UE) e soprattutto per le medie imprese (120% in
Italia a fronte del 94% nella UE).
Anche la dinamica strutturale non sembra favorire l’Italia. Le imprese italiane stentano
infatti a crescere. Solo il 12% delle imprese più piccole, con meno di 6 addetti nel 1987,
aveva superato la soglia dei 10 addetti nel 2001. Poco più del 7% delle imprese tra i 6 e i 9
addetti erano cresciute sull’arco del periodo fino a raggiungere la soglia dei 20 addetti. La
situazione non migliora se ci concentriamo sulle nuove imprese, quelle appena nate.
Come rivela una ricerca dell’Ocse, il problema non scaturisce dal fatto che queste
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imprese nascano troppo piccole. E’ vero il contrario. Le nuove imprese italiane hanno una
dimensione relativamente più elevata se confrontata con quella delle imprese già esistenti
(fig. 8). Successivamente alla nascita, queste stesse imprese crescono però a tassi
contenuti (meno del 30% in 7 anni), contrariamente a quanto accade per esempio negli
Stati Uniti, dove in 7 anni la nuova impresa registra un aumento della propria occupazione
pari al 140%. Si confrontano quindi due modelli. Nel caso europeo, le imprese entrano su
un mercato per molti versi conosciuto, con rischi forse minori, ma senza forti prospettive di
crescita e con una dimensione quindi non lontana da quella di lungo periodo. Nel caso
statunitense, le imprese invece nascono relativamente più piccole e, dopo un periodo di
sperimentazione sul mercato, registrano una crescita accelerata.
In sintesi, quindi, le imprese italiane sono non solo più piccole, ma tendono a crescere
meno rapidamente dopo la nascita. La mancata crescita della dimensione media
d’impresa pone problemi non irrilevanti al sistema industriale nel suo complesso, come
rilevato in precedenza. Le piccole imprese infatti, a fronte dei loro indubbi vantaggi in
termini di maggiore flessibilità, alimentano una minore domanda di capitale umano, hanno
una presenza minore e meno stabile sui mercati esteri e una capacità più ridotta, anche a
causa del minore impiego di manodopera più istruita, ad assorbire le nuove tecnologie.
Il problema della crescita è legato alla prevalenza della struttura familiare? Non sembra. I
dati sia della Banca d’Italia sia di Unioncamere mettono in luce come non esista una
relazione fra diffusione dell’impresa familiare e dimensione d’impresa. In primo luogo,
l’incidenza percentuale di imprese in cui la dimensione della prima quota azionaria è
inferiore al 50% (una caratteristica dell’impresa diffusa) diminuisce all’aumentare della
dimensione. In altri termini, è proprio nelle imprese più grandi che la proprietà risulta più
concentrata (tab. 8). Analogamente, il numero di soci diminuisce al crescere delle
dimensioni (tab. 8, col. 2). Il problema della crescita dimensionale non è quindi peculiare a
quello delle imprese familiari. Al contrario, sembrerebbe che proprio le imprese familiari,
con un azionariato più concentrato, siano sovra rappresentate nelle dimensioni più alte.
Questa conclusione va presa con cautela, in quanto si riferisce alle imprese con più di 50
addetti. E’ possibile, e peraltro plausibile, che le imprese più piccole con meno di 50
addetti siano caratterizzate da un controllo fortemente concentrato e da una piena
sovrapposizione fra proprietà e controllo. Se è vero quindi che il problema della crescita
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non è unico alle imprese familiari, perlomeno nelle categorie intermedie, rimane il fatto che
le imprese italiane più piccole, prevalentemente a carattere familiare, non riescono o non
vogliono crescere.
Le imprese familiari debbono anche prepararsi al processo di ricambio generazionale, un
elemento di potenziale debolezza di tale forma d’impresa, come spesso rilevato nella
letteratura sul tema. Nel campione di imprese censito dalla Banca d’Italia, più dell’80% dei
soggetti controllanti un’impresa a conduzione familiare ha un’età superiore a 50 anni e il
53% ha più di 60 anni. Nei prossimi anni, quindi, il processo di ricambio generazionale al
vertice delle imprese familiari sarà assai pronunciato. Dallo stesso campione si apprende
però che l’impresa familiare si sta ben preparando a tale processo. Nei casi in cui tale
ricambio si è già compiuto con il passaggio della conduzione a un membro della famiglia,
e quindi con la preservazione del carattere familiare dell’impresa, il nuovo imprenditore si
caratterizza per un livello di istruzione mediamente assai elevato: il 44% risulta laureato e
un altro 16% ha seguito corsi di formazione avanzata. Per contro, nei casi in cui il controllo
dell’impresa è stato ceduto a un individuo esterno alla famiglia, il nuovo imprenditore
possiede livelli di istruzione non dissimili da quelli, piuttosto bassi, della popolazione nel
suo complesso: solo il 10% risulta infatti laureato e una percentuale irrisoria ha seguito
corsi di formazione avanzati.
Le priorità di politica economica
Un aumento dell’offerta e della domanda di capitale umano costituisce una componente
centrale di una strategia di rilancio della competitività del sistema economico italiano. Non
è però la sola priorità.
a) La riforma del sistema finanziario. Sono stati fatti progressi significativi in tale
campo. E’ aumentata in particolare la protezione degli investitori, fattore che in una
parte della letteratura viene indicato come ostacolo di fondo alla quotazione e alla
crescita dimensionale delle imprese. Non vi sono indicazioni però che, nonostante
l’accresciuta protezione dell’investitore, sia aumentata la propensione delle imprese
a quotarsi, a dimostrazione che fattori di domanda più che di offerta condizionano lo
sviluppo del mercato borsistico in Italia. Allo stesso tempo, il sistema finanziario
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italiano appare carente in quelle attività più rilevanti per la crescita e la mobilità
intersettoriale delle imprese (investment banking, aiuto all’internazionalizzazione,
corporate financing). Ad essere penalizzate dovrebbero essere soprattutto le
imprese innovative per le quali gli intangible assets costituiscono una parte
relativamente più cospicua del patrimonio e le garanzie reali prestabili sono di
riflesso minori. Troppo spesso poi, nonostante lodevoli eccezioni e lo sforzo di
alcuni istituti di credito, le banche ricorrono a pratiche di multiaffidamento, in cui il
rischio di impresa viene sì distribuito fra una pluralità di creditori ma
contestualmente la banca viene meno alla propria funzione di raccolta di
informazioni sull’impresa debitrice e quindi di sostegno al processo di crescita delle
migliori di tali imprese. Mancano poi, per carenza sia di domanda sia di offerta,
strumenti come il venture capital e il private equity che facilitino gli investimenti in
imprese ad alto rischio e ad alto rendimento. La creazione, come si è fatto negli
Stati Uniti, di un fondo di fondi di venture capital, di proprietà pubblica ma gestito
con criteri privati e l’eliminazione di alcuni dei vincoli all’operato dei fondi esistenti
potrebbe costituire un primo utile passo per rafforzare uno strumento destinato a
svolgere un ruolo di tutto rilievo in un processo di più accentuato mutamento
strutturale. Gli studi empirici evidenziano come i vincoli finanziari non siano rilevanti
per la crescita ulteriore delle imprese di media dimensione, con più di 50 addetti,
ma abbiano un effetto significativo sulla crescita del sistema delle imprese nel suo
complesso, a conferma che l’anomalia italiana risiede soprattutto nella incapacità
delle nuove piccole imprese di crescere verso dimensioni efficienti.
b) La riforma del settore dei servizi (energia, servizi professionali, commercio) le cui
inefficienze pesano sulla competitività dell’industria italiana. Uno studio della
Fondazione De Benedetti mette in luce come i servizi pesino, direttamente e
indirettamente (attraverso i legami intersettoriali), per il 38% di un’unità di valore
aggiunto del settore manifatturiero. Non si tratta solo di servizi finanziari. Anche
quelli professionali, energetici e di distribuzione incidono significativamente sulla
struttura di costo delle imprese industriali italiane. Basti ricordare come il costo di
distribuzione, soprattutto di nuovi prodotti, aumenta significativamente a causa della
frammentazione del nostro sistema distributivo, un sistema che per di più crea
meno occupazione rispetto a paesi con regolamentazioni più liberali. Come
documentato nelle analisi dell’Ocse, le inefficienze nell’offerta dei servizi alle
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imprese si ripercuotono anche sulla capacità dell’economia di attrarre investimenti
diretti dall’estero.
c) La riforma del mercato del lavoro. Gli studi disponibili non sembrano indicare che le
normative esistenti abbiano un effetto significativo sulla crescita dimensionale delle
imprese. In aggiunta, la flessibilità occupazionale, misurata dall’incidenza di
contratti atipici, non sembra associata a una maggiore propensione all’investimento
in nuove tecnologie. Più rilevante nell’agevolare tali investimenti è la presenza di
forme di flessibilità salariale, come i contratti integrativi aziendali. Una maggiore
flessibilità dei sistemi contrattuali, in cui il salario risponda maggiormente anche alle
condizioni del mercato locale del lavoro, permetterebbe inoltre un più rapido
assorbimento della disoccupazione soprattutto nel Mezzogiorno. Vanno però
considerati i costi legati alla possibile proliferazione dei livelli contrattuali.
d) La riforma del sistema degli incentivi. Il sistema esistente di incentivi troppo spesso
genera barriere alla crescita al di là di una certa soglia definita in via legislativa. E’
essenziale un sistema di incentivi che favorisca la crescita delle imprese (il decreto
sulla competitività ha fatto passi rilevanti in questa direzione) e soprattutto agevoli
l’internazionalizzazione (qui il decreto fa invece un passo indietro punendo la
delocalizzazione se giudicata non virtuosa).
e) La riduzione dell’onere fiscale che grava sulle imprese. Nel complesso, il peso del
fisco sulle imprese è più elevato di quello medio dei paesi industrializzati. Vanno
però considerati due fattori. In primo luogo, il divario di tassazione non è
particolarmente pronunciato. In secondo luogo, la situazione – sempre più
preoccupante - dei conti pubblici preclude una riduzione sostanziale del gettito
fiscale. Le conseguenze macroeconomiche – in particolare, l’incremento dei tassi di
interesse – di un ulteriore deterioramento dei saldi di bilancio si ripercuoterebbe
anche e soprattutto sul sistema delle imprese.
Conclusioni
La nostra economia sta attraversando un periodo difficile, caratterizzato da bassa crescita,
stagnazione dei redditi reali, peggioramento degli equilibri di finanza pubblica. La nota più
positiva in questo quadro è stata la crescita dell’occupazione e il calo della
disoccupazione. Se, come è purtroppo plausibile, nei prossimi mesi si dovesse registrare
15
un cedimento anche sul fronte dell’occupazione ne scaturirebbe un ulteriore
deterioramento delle condizioni macroeconomiche.
I problemi dell’economia italiana hanno natura strutturale. Un modello di specializzazione,
basato sulla piccola impresa e sui settori tradizionali, che aveva peraltro fornito un
contributo decisivo nel passato alla crescita e alla convergenza dell’economia italiana
rispetto agli altri paesi industrializzati, oggi non sembra in grado di sfruttare al meglio le
opportunità offerte dalla nuove tecnologie e dal processo di globalizzazione e appare
sempre più esposto alla concorrenza dei paesi emergenti. L’arretramento dell’economia
italiana è evidente nella più bassa dinamica della produttività, nella perdita di quote di
mercato delle esportazioni e nell’allargamento del divario di reddito con gli altri paesi
industrializzati.
Il superamento di una struttura inadeguata dal punto di vista sia settoriale sia
dimensionale è essenziale per ricreare le condizioni per uno sviluppo sostenuto. Sono
indubbiamente carenti le condizioni di contesto – una pubblica amministrazione efficiente,
infrastrutture più moderne, una tassazione meno punitiva maggiore concorrenza nel
settore dei servizi alle imprese, un mercato del lavoro più flessibile – che potrebbero
favorire la crescita dimensionale delle imprese e la mobilità delle risorse verso nuovi
settori a più alto contenuto innovativo e meno esposti alla concorrenza dei paesi in via di
sviluppo. Mancano soprattutto due condizioni essenziali, che definiscono l’anomalia
dell’Italia rispetto agli altri paesi europei: un’offerta più elastica di capitale umano e un
settore finanziario in grado di accompagnare le imprese nel percorso, irto di difficoltà,
verso nuovi settori e nuove produzioni. Il sistema industriale appare in una posizione di
stallo. La domanda di capitale umano che emana da un sistema di piccole imprese
concentrate nei settori tradizionali è infatti limitata e non incentiva l’investimento in
istruzione e formazione che, non a caso, rimane assai più contenuto che nel resto
d’Europa. Analogamente, la domanda di risorse finanziarie per iniziative più innovative non
incontra vincoli significativi e non incoraggia lo sviluppo dell’offerta. E’ indispensabile, in
entrambi i casi, agire simultaneamente sul fronte dell’offerta e su quello della domanda. E’
un impegno che coinvolge non solo la responsabilità dell’esecutivo, ma anche quella degli
imprenditori.
16
Nel passato, sia il sistema economico sia quello politico hanno reagito con vigore a
momenti di crisi. Vi sono oggi due rischi. Da un lato il processo di declino, proprio per le
sue caratteristiche di intrinseca lentezza rispetto ad altri processi di cambiamento,
potrebbe non essere percepito nella sua gravità da imprenditori e policy-makers. Il rapido
deteriorarsi degli andamenti economici ha però tolto gli ultimi alibi a chi sosteneva che le
difficoltà dell’economia italiana avessero solo natura congiunturale.
Vi è però un altro rischio. I costi delle riforme, e più in generale del processo di
aggiustamento alle mutate condizioni economiche, sono spesso immediati, mentre i
benefici maturano solo nel medio periodo. Questi stessi costi possono essere distribuiti in
maniera molto diversa fra i diversi individui e soprattutto fra i diversi gruppi sociali. Vi è
quindi il rischio che proprio il timore (o la percezione) di un ulteriore peggioramento delle
proprie condizioni economiche o di un onere iniquamente distribuito dei costi
dell’aggiustamento accentui l’opposizione al cambiamento. Si perpetuerebbe quindi una
condizione di stallo, in cui la mancanza di riforme induce un ulteriore deterioramento delle
condizioni dell’economia e in cui il deterioramento alimenta l’opposizione al cambiamento.
E’ essenziale sottolineare quindi che il cambiamento, come è stato prospettato in queste
note, è soprattutto creazione di opportunità, nel mondo del lavoro, nelle professioni, nel
sistema delle imprese, nella possibilità di dotarsi di un livello di istruzione in linea con le
esigenze di un mondo sempre più integrato e sempre più mutevole.
Affinché le imprese e le famiglie possano e vogliano cogliere le opportunità offerte da
un’economia mondiale globalizzata e da un mutamento tecnologico a tratti tumultuoso
sono indispensabili due elementi. Un’azione organica di riforme, volta creare una forza
lavoro più istruita, un settore finanziario ancora più attento alle esigenze delle imprese
soprattutto di quelle innovative, a riformare il diritto fallimentare e il sistema di incentivi,
può agevolare la crescita dimensionale delle imprese e il mutamento del modello di
specializzazione. Allo stesso tempo, si impone l’esigenza di ricreare un quadro
macroeconomico, normativo, regolamentare, fiscale con caratteristiche di stabilità e di
certezza che consenta a imprese e famiglie di pianificare e investire nel proprio futuro.
17
Tabella 1
Distribuzione del numero delle imprese e di addetti per classi dimensionali (valori percentuali)
Classi di addetti
Micro (1-9)
Piccole (10-49)
Medie (50-249)
imprese Occupati imprese occupati imprese occupati Francia 93,1 14,2 5,7 18,7 1,0 19,8 Germania 87,9 9,5 10,4 14,9 1,3 15,8 Spagna 94,8 22,7 4,5 28,4 0,6 21,2 Italia 95,4 23,9 4,2 30,9 0,4 19 Regno Unito
94,5 13,4 4,6 14,3 0,7 20,4
UE-15 92,6 14,6 6,3 19,9 0,9 19,4 Fonte: Onida (2004)
Tabella 2
L’evoluzione dell’occupazione manifatturiera per classi dimensionali in Italia (valori percentuali)
Classi di addetti 1-9 10-99 100-499 500+ 1951 32,1 22,1 20,4 25,4 1961 30,0 26,9 21,6 21,5 1971 22,3 28,3 18,6 30,8 1981 23,9 34,9 18,3 22,9 1991 26,2 41,7 19,2 12,9 2001 25,7 44,2 20,2 9,9
Fonte: Onida (2004)
Tabella 3
La diffusione dell’impresa familiare Paese Definizione % imprese familiari USA Ampia 89 Regno Unito Intermedia 63,7 Germania Intermedia 60 Spagna Ristretta 75 Italia Ampia 81,9 Fonte: Giacomelli e Trento (2005)
18
Tabella 4
Il divario di istruzione superiore (percentuale della popolazione con un diploma di scuola media superiore)
Diploma di scuola media superiore per classi di età (valori percentuali)
Classe di età: 25-64 25-34 35-44 55-64
Italia 43 57 49 22
OCSE 64 74 68 49
Differenza 21 17 19 27
Fonte: OCSE
Tabella 5
Capitale umano e dimensioni d’impresa
(anni medi d’istruzione degli addetti) Classi di addetti Capitale umano 50-99 10.1 100-249 10.4 250-499 10.5 > 500 11.0 Fonte: INVIND, Fabiani, Schivardi e Trento (2003)
19
Tabella 6
Capitale umano per classe di addetti e propensione all’esportazione
(percentuale di addetti con titolo di laurea)
Classi di addetti Imprese esportatrici Imprese non esportatrici 10-20 4,5 2,9 21-50 5,1 3,8 51-250 6,6 5,7 251-499 8,0 8,5
500 e oltre 9,1 4,2 totale 6,3 4,2
Fonte: Mediocredito (2005)
Tabella 7
Produttività relativa per classi di addetti
micro (1-9 addetti)
quota occupazione quota fatturato produttività relativa Italia 23.90 10.00 41.84UE-15 14.60 6.90 47.26
piccole (10-49 addetti)
quota occupazione quota fatturato produttività relativa Italia 30.90 24.30 78.64UE-15 19.90 13.30 66.83
medie (50-249 addetti)
quota occupazione quota fatturato produttività relativa Italia 19.00 22.70 119.47UE-15 19.40 18.30 94.33
Fonte: Onida (2004)
20
Tabella 8
Imprese familiari e dimensioni d’impresa (valori percentuali)
Classe dimensionale Imprese in cui la prima
quota è inferiore al 50% Imprese in cui il numero di
soci è superiore a 4 50-199 33,4 45,5 200-499 22,9 34,1 500-999 18,2 21,5 1000 e oltre 13,3 17,9 Totale 31,2 -- Fonte: Giacomelli e Trento (2005)
21
Figura 1
Crescita e convergenza: 1974-1990
88
90
92
94
96
98
100
102
1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990-4.0
-3.0
-2.0
-1.0
0.0
1.0
2.0
3.0
4.0
5.0
6.0
7.0
Italia/UE (scala di sinistra) PIL pro capite (scala di destra)
Fig. 2La quota dell'Italia sulle esportazioni mondiali
3
3.5
4
4.5
5
5.5
1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990
22
Figura 3
Dalla convergenza alla divergenza? (rapporto fra i redditi pro capite in parità di potere d'acquisto)
62
64
66
68
70
72
1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 200496
97
98
99
100
101
102
103
104
Italia/UE (scala di destra)
Italia/USA (scala di sinistra)
23
Figura 4
La perdita di peso delle esportazioni italiane
3
3.5
4
4.5
5
5.5
1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004
Figura 5
La dinamica della produttività (tassi di crescita, filtro di Hodrik Prescott)
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
1960
1962
1964
1966
1968
1970
1972
1974
1976
1978
1980
1982
1984
1986
1988
1990
1992
1994
1996
1998
2000
2002
Italia
Francia
Germania
Regno Unito
24
Figura 6
Il divario di istruzione dell'italia(anni medi di istruzione per la popolazione adulta)
-2
-1
0
1
2
3
4
5
6
7
1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 1999
Stati Uniti
Germania
Francia
Spagna
25
Figura 7
Correlazione fra la struttura settoriale dei vantaggi comparati e la dinamica del commercio mondiale
-0.5
-0.4
-0.3
-0.2
-0.1
0
0.1
0.2
0.3
0.4
0.5
1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998
Germania
FranciaSpagna
Regno Unito
Italia
26
Figura 8
La dimensione relativa delle nuove imprese
(% rispetto alle imprese esistenti, totale economia, manifatturiero, altri settori)
Fonte: Ocse