LE CITTA’ SCOMPARSE

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MOTHIA

LA STORIA

• Mothia, come tutti i centri fenici della cuspide nord occidentale della Sicilia, nacque verso il XII secolo come stazione commerciale e punto d’attracco per le navi fenicie in rotta nel Mediterraneo.

• Con l’inizio della colonizzazione greca del VIII secolo, che si concentra nella Sicilia orientale, i Fenici, che abitavano un po’ dappertutto lungo le coste, ripiegarono nella parte occidentale, andando ad accrescere la popolazione dei centri fenici che si stavano formando, fra i quali c’era Mothia.

• L’isola si sviluppò grazie al commercio marittimo, alla lavorazione della lana (Mothia, infatti, significa filanda) e alla colorazione dei tessuti con la porpora che estraevano dal murice, una conchiglia che viveva nel mare intorno.

LA STORIA

• Quando Cartagine si affacciò in Sicilia per estendere la sua influenza su una parte dell’isola, Mothia, e non poteva essere diversamente dato i vincoli di sangue con la città punica, si alleò con questa.

• Nel 397 il tiranno di Siracusa Dionisio, durante una delle tante guerre che combatté contro Cartagine, conquistò la città e la distrusse, come narra Diodoro, che così conclude:

DIODORO SICULO

“Se ne ricavava molto argento, non poco oro, vesti di lusso e una gran quantità di altri oggetti di valore, mentre Dionisio vendette come bottino i superstiti dei moziesi”

LA STORIA

• E’ l’immagine di una città ricca e fiorente, sontuosamente bella. • Dopo la distruzione della loro città, i moziesi che riuscirono a fuggire, si

misero in salvo sulla terraferma, dove fondarono la città di Lilibeo, la moderna Marsala.

• Mothia da allora non fu più abitata e per duemila anni fu completamente dimenticata. Finchè, alla fine dell’ottocento, fu riscoperta da Giuseppe Whitaker, un ornitologo inglese con la passione per l’archeologia , la cui famiglia si era trasferita in Sicilia dove aveva fatto fortuna con la produzione e commercializzazione del vino Marsala.

• Il Whitaker, all’inizio del novecento, iniziò delle campagne di scavo che gradualmente portarono alla luce l’antica Mothia. Per poter lavorare con più tranquillità, il mecenate inglese comprò tutta l’isola da alcuni contadini che ne erano i proprietari. Ancora oggi l’isola è di proprietà privata, precisamente della Fondazione Whitaker e ciò è stata la sua fortuna, in quanto ancora oggi, eccetto la presenza di alcuni vigneti che producono il noto vino bianco Grillo e di un piccolo museo, non c’è traccia di attività e insediamenti dell’uomo moderno.

GIUSEPPE VHITAKER

L’UVA GRILLO

LA VISITA

• Mothia, nonostante sia privata, può essere visitata da tutti, dietro il pagamento di un salato biglietto d’ingresso, ma ne vale la pena.

• La visita è anche l’occasione per una bella e suggestiva passeggiata della durata di un’ora e mezza fra i reperti di 2.500 anni fa e una vegetazione, di tipo mediterraneo, molto rigogliosa e questo è un ulteriore motivo per la visita.

• Un sentiero abbastanza agevole (l’isola è completamente pianeggiante)permette di effettuare il periplo dell’isola, che è consigliabile percorrere in senso antiorario.

MOTHIA Vegetazione di tipo mediterraneo

MOTHIA - SENTIERO

LO STAGNONE DI MARSALA

• Mothia è una delle quattro isole dello Stagnone di Marsala, una laguna di forma ellittica, lunga 11 Km e larga 3 Km. I fondali sono molto bassi, non superano i tre metri e mezzo nelle zone più profonde.

• La laguna è una riserva naturale orientata, per cui è soggetta a una rigida regolamentazione delle attività marinare. Oltre la pesca, l’attività più importante che si pratica nello stagnone è l’estrazione del sale.

• Le saline oltre a una risorsa economica rappresentano un’attrazione turistica insieme con le tipiche costruzioni dei mulini a vento.

• Quest’ultimi forniscono l’energia necessaria a trasferire le acque marine tra le vasche di evaporazione destinate all’estrazione del sale, che dopo la raccolta viene disposto in bianchissime collinette coperte con tegole di terracotta per ripararlo dalla pioggia.

MAPPA DELLO STAGNONE DI MARSALA

LO STAGNONE DI MARSALA

LE SALINE DELLO STAGNONE

LE SALINE DELLO STAGNONE

MULINI A VENTO DELLO STAGNONE

LE ISOLE DELLO STAGNONE DI MARSALA

LE ISOLE DELLO STAGNONE

• Nello stagnone vi sono quattro isole: Schola (chiamata così per la convinzione popolare che in epoca romana ci fosse una scuola di retorica), Santa Maria, l’isola Grande o isola Lunga e San Pantaleo, il nome moderno dell’antica Mothia.

L’ISOLA DI SCHOLA

L’ISOLA DI SANTA MARIA

L’ISOLA GRANDE

LA VISITA ALLO STAGNONE

• Il punto di partenza per la visita allo stagnone e alle sue isole si trova sulla costa poco distante dal centro di Marsala.

• Nell’imbarcadero un regolare servizio di imbarcazioni, gestito da privati, porta i visitatori, a loro scelta, o a fare un giro per lo stagnone tra le saline, i mulini a vento e le quattro isole, o ad approdare direttamente a Mothia.

• Il viaggio per quest’isola, su comode imbarcazioni, dura 10/15 minuti; Mothia dista dalla costa circa un chilometro.

IMBARCADERO PER MOTHIA

IL CANALE E IL VAPORETTO PER MOTHIA

LA STRADA SOMMERSA

• Fino agli inizi del novecento si poteva raggiungere Mothia attraverso una strada subacquea che congiungeva l’isola con Birgi sulla terraferma.

• La strada, costruita dai Fenici, inizia dalla porta nord di Mothia e finisce sulla costa di Birgi, per un tragitto di 1.700 m. Nel suo tratto finale, lungo 500 m., viaggia parallelamente alla riva.

• La strada è un’opera di grande ingegno e abilità. Certamente i Fenici, prima di costruirla avranno fatto un attento studio planimetrico e altimetrico del suo tracciato e una ricerca meticolosa dei materiali che avrebbero dovuto usare per la fondazione e la pavimentazione.

• Il pavimento della strada è fatto di lastre naturali, chiamato in dialetto locale sulappe. Esso poggia su una fondazione dello spessore medio di 40 cm., fatta di ghiaia e ciottoli molto duri. La strada è larga in media 7 metri.

• Oggi essa giace in media sotto il livello del mare di circa 50 cm., ma nel tratto mediano, in cui si trova il carretto della foto che segue, è di circa 90 cm., dato che la ruota del carretto marsalese ha il diametro di 150/160 cm.

LA STRADA SOMMERSA

LA STRADA SOMMERSA

LA STRADA SOMMERSA

LA STRADA SOMMERSA

MOTHIA COM’ERA Ricostruzione

IL PERIPLO DI MOTHIA

• Lo sbarco nell’isola avviene nella parte orientale. Dopo aver pagato il salato biglietto di ingresso, salato non per le saline, ci accoglie il busto di Giuseppe Whitaker, posto su un cippo davanti il piccolo museo che porta il suo nome e che visiteremo dopo avere fatto il periplo dell’isola, facendo attenzione a tornare prima che il museo chiuda per la pausa pranzo.

• Il periplo dell’isola si fa in senso antiorario percorrendolo a piedi (nell’isola non c’è nemmeno una bicicletta),e seguendo un agevole sentiero che corre lungo la costa e le mura per circa due chilometri e mezzo.

LA PIANTA DI MOTHIA

LE MURA

• Le mura furono costruite in una epoca tarda, nella metà del VI secolo, segno che prima l’isola non correva alcun pericolo e i suoi abitanti vivevano in pace con gli Elimi della costa con cui commerciavano. I problemi cominciarono a sorgere con i Greci, per cui anche Mothia si dotò di un sistema di fortificazioni: una cinta muraria di due chilometri e mezzo lungo tutto il periplo dell’isola, fondata sul banco di calcare che si alza dalla breve spiaggia. A distanza regolare, lungo tutto il perimetro, furono inserite delle torri di guardia.

• Seguendo la linea di costa, incontriamo la Porta Nord; dal litorale antistante parte la strada sommersa descritta prima.

LA PORTA NORD

LA NECROPOLI ANTICA

• Subito dopo la Porta Nord incontriamo la necropoli antica, che fu in funzione fino alla data della costruzione delle mura. Poiché le mura attraversavano la necropoli, da quel periodo in poi gli abitanti di Mothia furono sepolti a Birgi, sulla terraferma.

• Le 200 tombe finora ritrovate in questa necropoli sono a cremazione, con delle anfore come cinerario.

• Il corredo funerario ha dato circa 500 oggetti formati da ceramiche fenicie, tre pugnali e due spade di ferro, manufatti in oro, argento e bronzo. In una sola tomba vi erano 15 oggetti di ceramica e una statuetta fenicia simbolo della fecondità: un liquido messo in un foro sulla testa esce dai semi.

LA NECROPOLI ARCAICA

STATUINA DI TERRACOTTA SIMBOLO DELLA FECONDITA’

IL SANTUARIO DEL CAPPIDDAZZU

• Verso l’interno incontriamo il Santuario del Cappiddazzu. Il nome a questo grande santuario fu dato dal Whitaker e indica un largo cappello che fa riferimento o a una leggenda del fantasma di un eremita che si aggirava per il santuario oppure alla presenza di uno spaventapasseri con un grande cappello.

• Il santuario è costituito da un recinto rettangolare a cielo aperto e da un tempio.

SANTUARIO DEL CAPPIDDAZZU

IL TOPHET

• Proseguendo il periplo dell’isola, incontriamo il Tophet, un’area sacra a cielo aperto in cui si praticava il terribile e inumano rito del sacrificio dei bambini. I Fenici facevano un sacrificio alla divinità, bruciando il figlio primogenito. Il corpo bruciato veniva messo in vasi che venivano conficcati nel terreno del Tophet, con accanto dei segnacoli di pietra, detti steli.

• Lo spazio in cui avvenivano questi sacrifici e dove venivano poste le urne diventava sacro e costituiva un santuario. Quello di Mothia, l’unico che si conosce in Sicilia, era dedicato al dio Baal Hammon, il cui nome era riportato in molte steli.

IL TOPHET

LE STELI

• Nel tophet di Mothia sono state trovate oltre settecento steli, la maggior parte sono iconiche, cioè scolpite con dei simboli (la bottiglia e il betilo, cioè il pilastro sacro).

• Alcune iscrizioni sulle steli dicono: “Al Signore Baal Hammon, questo è il dono che ha dedicato Baalapar, figlio di Abdo”; “Al Signore Baal Hammon, questo è il dono che ha dedicato il figlio di Abdmelqart, poiché ha ascoltato la voce delle sue parole”.

STELE CON LA DEA TANIT CHE REGGE UN DISCO

STELE CON LA DEA TANIT CON LE MANI SUL PETTO

STELE COL SIMBOLO DELLA DEA TANIT

STELE CON L’IDOLO A BOTTIGLIA

L’ABITATO

• Nel settore centrale dell’isola, gli scavi condotti dall’archeologo Vincenzo Tusa hanno evidenziato un tratto di una strada delimitata da lunghi muri, che costituiscono il fronte di diversi edifici. E’ presumibile che questa fosse la zona dell’abitato.

• Le case dovevano essere alte anche sei piani, dei veri grattacieli per quei tempi. E’ Diodoro che ci informa che al tempo dell’assedio di Dionisio, il tiranno “avvicinò le sue torri mobili, alte sei piani, che aveva costruito secondo l’altezza delle case”.

L’ABITATO

LA CASA DELLE ANFORE

• Nella stessa zona si trova un isolato di forma rettangolare, la cui superficie di 1.600 mq. racchiude sei/sette unità abitative.

• Tra queste, un edificio a cui è stato dato il nome di casa delle anfore, dal ritrovamento di un elevato numero di anfore vuote disposte in doppia fila. Probabilmente qui si produceva qualcosa o veniva trasformato qualche prodotto agricolo.

LA CASA DELLE ANFORE

IL COTHON

• Continuando la nostra passeggiata, incontriamo la Porta Sud e, nelle vicinanze, il Cothon.

• Cothon in greco significa bacile, grande tazza; quello di Mothia è un piccolo bacino artificiale (52 m. X 35 m.), costituito da una vasca scavata all’interno di un banco calcareo. Un canale collega il bacino al mare.

• In passato si è sempre pensato che servisse da bacino di carenaggio oppure da porto per le piccole imbarcazioni che facevano la spola fra l’isola e le navi ancorate al largo.

• Sennonché nel 2002, a ridosso del Cothon, è stato portato alla luce un tempio suddiviso in cinque navate. In una navata c’era un pozzo di acqua dolce. Alla luce di queste scoperte, gli studiosi ora ritengono che il cothon non era che una grande vasca sacra alimentata da acque dolci utilizzate nelle pratiche religiose che si svolgevano nel vicino tempio

LA PORTA SUD

IL COTHON

IL COTHON E IL TEMPIO

LA CASA DEI MOSAICI

• Andando avanti nella nostra visita, incontriamo la cosiddetta Casa dei Mosaici. Si tratta di un complesso abitativo con portico e colonnato e con il pavimento decorato da un mosaico a ciottoli bianchi e neri, raffigurante un grifo alato che insegue una cerva ed un leone che assale un toro.

CASA DEI MOSAICI

GLI IMPIANTI INDUSTRIALI

• Lungo la fascia costiera settentrionale e occidentale, nei pressi o a ridosso della cinta muraria si trovano degli impianti relativi alla produzione artigianale. La distribuzione di questi complessi in zone periferiche sembra obbedire alla necessità di allontanare dall’abitato il fumo e i cattivi odori derivanti dalla lavorazione di determinate sostanze.

• Uno dei più significativi impianti industriali finora individuati sorge a nord del Santuario del Cappiddazzu. Qui è stato portato alla luce un edificio addossato alle mura, dove si possono individuare le varie fasi del ciclo produttivo della ceramica punica di Mothia. Nella stanza principale erano situati il tornio e una vasca per la decantazione dell’argilla. Accanto alla vasca c’era un deposito di anfore crude, in fase di lavorazione.

GLI IMPIANTI INDUSTRIALI

• Un’altra zona industriale portata alla luce da Vincenzo Tusa è situata a nord, a ridosso della necropoli e delle mura e si estende per 500 mq. Il complesso comprende una dozzina di vani che si affacciano su di un cortile. All’interno sono stati individuati due forni da vasaio e una decina di pozzi.

• Nel pavimento del cortile e di alcuni vani c’erano numerose fosse scavate nella roccia, che contenevano una grande quantità di conchiglie intere e tritate, che dovevano servire per la produzione della porpora.

IMPIANTI INDUSTRIALI

IL MUSEO

• Il periplo dell’isola si conclude là da dove siamo partiti, il Museo. Così è giunto il momento di visitarlo.

• In esso vi sono esposti la maggior parte dei reperti trovati nell’isola: anfore, steli, monili, maschere, statuette.

• Il pezzo più importante e artisticamente più bello è la statua del Giovane di Mothia. Dobbiamo augurarci che la statua non sia in trasferta presso qualche ricco museo americano.

• Un altro reperto molto interessante esposto nel museo è la maschera ghignante, rinvenuta nel Tophet. Tutti gli studiosi concordano nell’attribuire alla maschera, per il suo aspetto demoniaco, una funzione apotropaica (dal greco apotrepo, allontano), cioè di allontanare gli spiriti del male.

IL MUSEO

IL GIOVANE DI MOTHIA

LA MASCHERA GHIGNANTE

SOLUNTO

PROBLEMATICHE ARCHEOLOGICHE

• Di Solunto ci parla lo storico greco Tucidide, secondo cui fu città

fenicia, fondata insieme a Mothia e a Panormos nell’VIII secolo, all’epoca dell’inizio della colonizzazione greca.

• La sua ubicazione è stata per parecchio tempo un vero rompicapo e un mistero per gli archeologi, che la cercarono lungo la costa a est di Palermo.

• A metà dell’ottocento, un contadino mentre arava un suo terreno situato sul monte Catalfano, alto 370 m., nel comune di Santa Flavia, a 20 km. da Palermo, vide affiorare dal terreno una mano. Si trattava della mano di una grande statua, che poi si rivelò essere quella del dio fenicio Baal Hammon.

IL DIO FENICIO BAAL HAMMON

PROBLEMATICHE ARCHEOLOGICHE

• Quel ritrovamento fu l’inizio di una grande campagna di scavi che, negli anni, riportarono alla luce un centro abitato di estrema eleganza, che fu subito identificato per la città fenicia di Solunto.

• Così il mistero dell’ubicazione di Solunto pareva risolto. Niente affatto.

• Infatti, l’indagine archeologica portò alla luce elementi che dall’età romana andavano indietro non oltre la metà del IV secolo. Ci si rese conto, pertanto che quella città era nata non prima del IV secolo.

• Tucidide , invece, parla di una Solunto fondata nell’VIII secolo, all’epoca dell’inizio della colonizzazione greca.

PROBLEMATICHE ARCHEOLOGICHE

• Sorse allora il dilemma: o Tucidide si era sbagliato, o la città scoperta sul monte Catalfano non era Solunto.

• Alla fine gli archeologi si convinsero che la città del Monte Catalfano non era la Solunto di Tucidide.

• Passata la delusione, gli archeologi si rimisero alla ricerca della Solunto arcaica.

PROBLEMATICHE ARCHEOLOGICHE

• Alcuni ritrovamenti archeologici di reperti fenici, come due sarcofagi antropoidi di cultura punica, di straordinaria bellezza, ora esposti nel Museo Archeologico di Palermo, e una statua femminile in trono, avevano fatto subito pensare che la Solunto tucididea fosse da identificare con il centro fenicio di Pizzo Cannita, un’altura rocciosa isolata in prossimità della foce del fiume Eleuterio, a 10 km. da Palermo.

SARCOFAGI DA PIZZO CANNITA (V SEC.)

DEA IN TRONO (VI SEC.) DA PIZZO CANNITA

PIZZO CANNITA

PROBLEMATICHE ARCHEOLOGICHE

• Un’altra ubicazione possibile fu individuata sul Monte Porcara, una collina vicino a Pizzo Cannita, lungo la sponda opposta del fiume Eleuterio, dove furono fatti occasionali ritrovamenti di materiale fenicio.

• Sennonchè ambedue le località non ricadevano lungo la costa e la Solunto di cui parla Tucidide, essendo uno scalo marittimo, doveva trovarsi sulla costa.

• E così la Solunto antica restò non identificata ancora per molti anni.

LA SOLUNTO NUOVA

• Intanto, sul Monte Catalfano gli scavi continuavano a portare alla luce altre parti di una città punica, per cui, alla fine, gli archeologi si convinsero che quella era la nuova Solunto, fondata nei primi anni del IV secolo dai soluntini della Solunto arcaica, dopo che questa fu distrutta nel 396 dal tiranno di Siracusa Dionisio.

• I soluntini costruirono la nuova città sul Monte Catalfano, vicino alla vecchia città, ma in un sito meglio difendibile.

LA SOLUNTO ARCAICA

• Frattanto continuava la ricerca della Solunto di Tucidide. • Come sempre accade, la soluzione del mistero era a portata di mano, più

vicina di quanto si pensasse. • Qualcuno fece notare che sulla costa ai piedi del Monte Catalfano c’era

una località chiamata Solanta. Questo toponimo, per assonanza, non poteva non fare pensare alla città che si stava cercando.

• Cominciarono delle ricerche che fecero affiorare alcune vestigia puniche di età arcaica. Inoltre, il sito si trova su un piccolo promontorio che si affaccia su un piccolo golfo dove il mare si mantiene quasi sempre calmo, con una costa sabbiosa e poca profonda, ideale per le imbarcazioni puniche.

• Finalmente la Solunto di Tucidide era stata ritrovata. • Purtroppo la scoperta era stata fatta molto tardi, quando quel tratto

costiero era stato preso d’assalto dalle seconde case e dagli alberghi, che hanno cementificato tutto.

• La Solunto arcaica di cui parla Tucidide resterà per sempre un mistero sepolto sotto anonime case di villeggiatura per l’uomo moderno.

IL PROMONTORIO DOVE SI TROVA LA SOLUNTO ARCAICA

LA STORIA DELLA SOLUNTO NUOVA

• Non ci resta che consolarci con la Solunto di Monte Catalfano, che nel frattempo è stata interamente scoperta e chiamata la “Pompei siciliana”.

• Abbiamo detto prima che questa città fu fondata nel 396 dai soluntini superstiti dalla distruzione della loro vecchia città.

• Nel 307 furono ospitati un gruppo di soldati mercenari greci, abbandonati da Agatocle, la cui cultura greca si fuse con quella fenicia dei soluntini.

• Nel 254 Solunto fu conquistata dai romani e divenne città decumana, come attesta Cicerone che la visitò nel 70 a.C. Il grande arpinate ne ricavò l’impressione di una città che viveva nell’agiatezza e nel lusso.

• Solunto fu abbandonata verso la fine del I secolo d.C.. • Dopo di allora, Solunto non fu più abitata, consentendo all’archeologia di

scoprire testimonianze importanti della sua vita antica. La mancanza d’acqua (in quel sito non ci sono né fiumi né sorgenti) e l’impossibilità a espandersi, forse sono state le cause che ne hanno determinato la fine.

MAPPA DI SOLUNTO

L’IMPIANTO URBANO

• L’impianto di questa città si dispone a terrazze sulla collina di Monte Catalfano.

• La struttura urbana è a pianta ippodamea, tipica delle grandi città dell’Asia Minore e della Grecia, con le strade principali e le strade secondarie che si incrociano ad angolo retto, formando delle “insulae”, all’interno delle quali sorgono gli edifici pubblici e le abitazioni.

LE TERME

• Arriviamo a Solunto attraverso i tornanti del Monte Catalfano.

• Prima di entrare in città, una grande soglia di pietra calcarea sbarra la strada trasversalmente , segno che qui c’era la porta urbica di accesso e avevano inizio le mura.

• Oltrepassata questa soglia, sulla destra ci si inoltra per la zona termale. Quale migliore sollievo per chi aveva affrontato le fatiche della salita potersi ristorare dentro le calde stanze del tepidario, sudare nel calidario, oppure refrigerarsi nel frigidario.

LE TERME

LA VIA DELL’AGORA’

• Si arriva quindi alla via principale, chiamata dagli archeologi Via dell’Agorà, che da sud a nord risale il declivio della collina. E’ l’unica strada quasi pianeggiante, perché le traverse ad essa ortogonali e le parallele (platee) erano formate anche da scalinate, a causa della ripida pendenza del terreno.

• Il primo tratto di questa strada è pavimentata con basolato in pietra; nel tratto più propriamente urbano, con lastre di cotto.

• All’inizio del tratto urbano, sul pavimento c’è una targa in pietra con inciso il nome Asclapos, che doveva essere il nome di quel cittadino che, a sue spese, aveva fatto pavimentare la strada con mattoni rossi di cotto, disposti a disegno, come se si trattasse del peristilio della sua casa. In questo tratto di strada non era consentito il passaggio dei carri e delle bestie da soma.

SOLUNTO La strada principale

IL PRIMO TRATTO IL TRATTO URBANO

IL COSIDDETTO GINNASIO

• Il monumento più noto è il primo che si incontra salendo la via principale. Si tratta di un peristilio ritenuto in un primo momento un Ginnasio, di cui conserva ancora il nome.

• In realtà è l’atrio a peristilio di una casa patrizia romana, di cui restano sei colonne doriche e una parte della trabeazione, costituita da un architrave, il fregio a metope e triglifi, e la cornice.

• Il peristilio di questa casa è stato ricomposto con l’anastilosi, cioè la tecnica di ricostruzione di antichi edifici, ottenuta mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture; ma ciò ha comportato non pochi danni interpretativi.

• Sul fondo del peristilio si nota una scala che conduceva al piano superiore della casa. Questo piano aveva le colonne ioniche, quello inferiore le colonne doriche.

SOLUNTO Peristilio di una casa romana

TRABEAZIONE DEL PERISTILIO DI UNA CASA ROMANA

LA ZONA INDUSTRIALE

• Gli edifici per l’industria, consistenti principalmente in fabbriche di laterizi, sono raggruppati nel punto più alto della città.

RESTI DI UNA FABBRICA DI LATERIZI

SCALINATA VERSO I LUOGHI ALTI

LE BOTTEGHE

• Lungo la strada principale e anche quelle secondarie si aprono le botteghe con i banchi di vendita ancora al loro posto, costituiti da vaschette in pietra che contenevano la merce.

LE CASE

• Le abitazioni, anche a più piani, si aprono sulle vie trasversali. • Quelle appartenenti a cittadini più ricchi occupano il centro della città ed

erano realizzate secondo lo schema ellenistico, cioè con il cortile al centro, circondato da un peristilio, su cui si affacciano le varie stanze.

• Le pareti delle camere erano affrescate e i pavimenti realizzati a mosaico. • Una di queste case l’abbiamo vista prima, nota come Ginnasio. Un’altra

bella casa patrizia è la cosiddetta Casa di Leda, che si affaccia a metà della via dell’Agorà. E’ stata chiamata Casa di Leda per un affresco parietale raffigurante il mito di Leda e il cigno.

• La dimora si sviluppa intorno a un peristilio. Una delle stanze che si affacciano sul peristilio presenta ancora pareti affrescate in stile pompeiano.

• Nella parte alta della città si trova un’altra bella casa chiamata Casa delle Maschere, con preziosi affreschi di età romana.

• Le case dei meno abbienti non hanno atrio e le stanze sono molto piccole.

AFFRESCHI DALLA CASA DI LEDA

LEDA E IL CIGNO

PAVIMENTO A MOSAICO DELLA CASA DI APOCRATE

AFFRESCHI IN STILE POMPEIANO DALLA CASA DELLE MASCHERE

L’AGORA’

• Proseguendo sulla Via dell’Agorà, a un certo punto incontriamo uno sbarramento formato da una soglia di pietra calcarea che sbarra la strada e immette nella pubblica piazza, appunto l’Agorà.

• Sulla parte sinistra dell’agorà incontriamo una fila di ambienti aperti sul fronte che compongono una sorta di stoà, cioè di portici, dove i soluntini potevano passeggiare stando all’ombra o al riparo dalla pioggia.

L’AGORA’

LA CISTERNA PUBBLICA

• Sul lato est c’è una enorme cisterna pubblica. Si possono ancora vedere le basi dei 26 pilastri che sostenevano la copertura a volta.

• Cisterne più piccole sono disseminate in tutta la città, per raccogliere l’acqua piovana, che veniva convogliata nelle cisterne attraverso canalette. Per Solunto l’acqua era un bene prezioso, perché nel territorio non c’erano né fiumi né sorgenti.

CISTERNA PUBBLICA

IL TEATRO

• Nella zona ovest, accanto all’Agorà, c’è il Teatro, un piccolo Odeon e un tempietto.

• Il Teatro è molto rovinato e si riesce a distinguerlo solo guardandolo dall’alto. Come quello di Segesta, ha i gradoni della cavea scavati nella roccia. E’ di epoca ellenistica, riadattato dai romani.

• La sua ampiezza originaria aveva un diametro di 54 m. e poteva ospitare fino a 1.600 spettatori.

IL TEATRO

L’ODEON O IL BOULEUTERION?

• Dato che a Solunto c’era già il teatro, non si comprende la presenza pure di un odeon (che è un piccolo teatro).

• Probabilmente questa struttura era invece un bouleuterion, un edificio che ospitava le riunioni del Consiglio (boulè) della città.

L’ODEON O IL BOULEUTERION?

LA VILLA ROMANA

• In fondo alla Via dell’Agorà troviamo una bella villa romana, un’ampia dimora a due piani con peristilio. Si trova in una posizione mozzafiato sul ciglio della parete a strapiombo, come sospesa nel vuoto sul mare.

LA VILLA ROMANA

SOLUNTO, CITTA’ PUNICA FORTEMENTE ELLENIZZATA

• In questo contesto tipicamente greco e in parte romano, ci sarebbe da chiedere perché mai si ritiene punica questa città. Sennonchè ci sono vari indizi che ci permettono di affermare che la Solunto del Monte Catalfano fu una città punica, malgrado una tangibile presenza della cultura greca.

• Infatti, tutto ciò che riguardava la vita più intima dei Soluntini, come la religione, era espressione della cultura fenicia.

• Gli edifici sacri non hanno niente in comune con i contemporanei edifici greci; hanno piuttosto riferimenti con l’Africa del nord e il mondo orientale. L’esistenza di questi edifici sta a testimoniare che a Solunto, in un contesto urbanistico greco, si praticava la religione fenicia.

SOLUNTO, CITTA’ PUNICA FORTEMENTE ELLENIZZATA

• Inoltre a Solunto non mancano materiali di tradizione punica.

• All’inizio dell’agorà c’è un altare all’aperto con tre betili (pilastri sacri), simbolo della religione fenicia e una vasca che doveva servire a raccogliere il sangue dei sacrifici animali.

ALTARE ALL’APERTO CON TRE BETILI

SOLUNTO, CITTA’ PUNICA FORTEMENTE ELLENIZZATA

• In una casa di tipo augusteo sono state trovate due arulae, due cilindri fittili vuoti all’interno, che servivano per bruciare profumi ed essenze; hanno decorazioni in terracotta, quali il segno della dea fenicia Tanit, il caduceo, il crescente lunare e un gallo, tutti simboli fenici.

• Pure di tipo fenicio sono alcune statuine rinvenute nelle tombe.

ARULA FITTILE

STATUINE DALLA NECROPOLI

STATUINA DALLA NECROPOLI

SOLUNTO, CITTA’ PUNICA FORTEMENTE ELLENIZZATA

• Infine, simboli punici si trovano in un gruppo di steli, provenienti dalla necropoli.

STELE PUNICA DI PIETRA

CONCLUSIONE

• In conclusione, si può sicuramente affermare che anche la Solunto di Monte Catalfano, al pari di quella più arcaica di cui parla Tucidide, è un centro fenicio, anche se fortemente influenzato dal mondo greco.

FINE DELLA VICENDA POLITICA FENICIA E PERSISTENZA DELLA SUA

CULTURA • La vicenda politica fenicia in Sicilia si chiude alla data del 241, con il

passaggio dell’intera isola sotto il dominio romano. • La cultura fenicia non si esaurisce però in quella data. • Oltre cinque secoli di insediamento stabile, circa tre secoli di potere

politico, avevano dato alla Sicilia occidentale una capillare diffusione di elementi culturali, politici, religiosi di origine fenicia, i quali non potevano perdersi con la fine del controllo politico cartaginese. La lingua, la religione, l’artigianato punico erano ormai sentiti come propri da un elevato numero di siciliani. E ciò dimostra che i Siciliani della cuspide nord occidentale, cioè gli Elimi e i Sicani , non subirono passivamente la civiltà fenicia, ma la recepirono in maniera profonda e duratura, magari arricchendola con elementi della loro cultura e di quella delle vicine città greche.

• Di questa persistenza della cultura fenicia oltre la vicenda politica, ne sono concrete prove le epigrafi provenienti da Panormos, Mothia, Lilibeo, Solunto. Esse da un lato mostrano una sopravvivenza della lingua fenicia, dall’altro la persistenza delle forme puniche del culto.

FINE DELLA SICILIA FENICIA